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Dante Alighieri: 700 anni di divina poesia

Oggi è il Dantedì, 700 anni fa iniziava il viaggio all'inferno del Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321)
Inferno di Dante
Inferno di Dante

Il 25 marzo è la data che i dantisti riconoscono come l'inizio del viaggio nell'aldilà descritto letterariamente nella "Divina Commedia".

Anche Filodiritto aderisce all'iniziativa culturale istituita dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Cultura, Dario Franceschini, nel 2020

Quest'anno, poi, il Dantedì ha una valenza simbolica ancora maggiore, perché cade in occasione del settimo centenario della morte del vate della letteratura italiana, che in tutto il paese, per la durata dell'interno anno, viene celebrato con una miriade di eventi.

Pubblichiamo di seguito il terzo canto dell'inferno, uno dei più celebrati ed evocativi di tutta la Divina Commedia.

Dante Alighieri
Divina Commedia
Inferno, Canto III

"Per me si va ne la città dolente, 
per me si va ne l’etterno dolore, 
per me si va tra la perduta gente.                                    3

Giustizia mosse il mio alto fattore: 
fecemi la divina podestate, 
la somma sapienza e ’l primo amore.                           6

Dinanzi a me non fuor cose create 
se non etterne, e io etterno duro. 
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".                         9

Queste parole di colore oscuro 
vid’io scritte al sommo d’una porta; 
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».                 12

Ed elli a me, come persona accorta: 
«Qui si convien lasciare ogne sospetto; 
ogne viltà convien che qui sia morta.                            15

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto 
che tu vedrai le genti dolorose 
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».                          18

E poi che la sua mano a la mia puose 
con lieto volto, ond’io mi confortai, 
mi mise dentro a le segrete cose.                                 21

Quivi sospiri, pianti e alti guai 
risonavan per l’aere sanza stelle, 
per ch’io al cominciar ne lagrimai.                                 24

Diverse lingue, orribili favelle, 
parole di dolore, accenti d’ira, 
voci alte e fioche, e suon di man con elle                     27

facevano un tumulto, il qual s’aggira 
sempre in quell’aura sanza tempo tinta, 
come la rena quando turbo spira.                                  30

E io ch’avea d’error la testa cinta, 
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? 
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».                       33

Ed elli a me: «Questo misero modo 
tegnon l’anime triste di coloro 
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.                        36

Mischiate sono a quel cattivo coro 
de li angeli che non furon ribelli 
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.                               39

Caccianli i ciel per non esser men belli, 
né lo profondo inferno li riceve, 
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».                            42

E io: «Maestro, che è tanto greve 
a lor, che lamentar li fa sì forte?». 
Rispuose: «Dicerolti molto breve.                                  45

Questi non hanno speranza di morte 
e la lor cieca vita è tanto bassa, 
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.                              48

Fama di loro il mondo esser non lassa; 
misericordia e giustizia li sdegna: 
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».                 51

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna 
che girando correva tanto ratta, 
che d’ogne posa mi parea indegna;                              54

e dietro le venìa sì lunga tratta 
di gente, ch’i’ non averei creduto 
che morte tanta n’avesse disfatta.                                 57

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, 
vidi e conobbi l’ombra di colui 
che fece per viltade il gran rifiuto.                                   60

Incontanente intesi e certo fui 
che questa era la setta d’i cattivi, 
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.                                       63

Questi sciaurati, che mai non fur vivi, 
erano ignudi e stimolati molto 
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.                                66

Elle rigavan lor di sangue il volto, 
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi 
da fastidiosi vermi era ricolto.                                          69

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi, 
vidi genti a la riva d’un gran fiume; 
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi                       72

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume 
le fa di trapassar parer sì pronte, 
com’io discerno per lo fioco lume».                               75

Ed elli a me: «Le cose ti fier conte 
quando noi fermerem li nostri passi 
su la trista riviera d’Acheronte».                                      78

Allor con li occhi vergognosi e bassi, 
temendo no ’l mio dir li fosse grave, 
infino al fiume del parlar mi trassi.                                 81

Ed ecco verso noi venir per nave 
un vecchio, bianco per antico pelo, 
gridando: «Guai a voi, anime prave!                               84

Non isperate mai veder lo cielo: 
i’ vegno per menarvi a l’altra riva 
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.                       87

E tu che se’ costì, anima viva, 
pàrtiti da cotesti che son morti». 
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,                             90

disse: «Per altra via, per altri porti 
verrai a piaggia, non qui, per passare: 
più lieve legno convien che ti porti».                              93

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare: 
vuolsi così colà dove si puote 
ciò che si vuole, e più non dimandare».                       96

Quinci fuor quete le lanose gote 
al nocchier de la livida palude, 
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.                   99

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, 
cangiar colore e dibattero i denti, 
ratto che ’nteser le parole crude.                                   102

Bestemmiavano Dio e lor parenti, 
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme 
di lor semenza e di lor nascimenti.                               105

Poi si ritrasser tutte quante insieme, 
forte piangendo, a la riva malvagia 
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.                108

Caron dimonio, con occhi di bragia, 
loro accennando, tutte le raccoglie; 
batte col remo qualunque s’adagia.                             111

Come d’autunno si levan le foglie 
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo 
vede a la terra tutte le sue spoglie,                               114

similemente il mal seme d’Adamo 
gittansi di quel lito ad una ad una, 
per cenni come augel per suo richiamo.                     117

Così sen vanno su per l’onda bruna, 
e avanti che sien di là discese, 
anche di qua nuova schiera s’auna.                             120

«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese, 
«quelli che muoion ne l’ira di Dio 
tutti convegnon qui d’ogne paese:                                123

e pronti sono a trapassar lo rio, 
ché‚ la divina giustizia li sprona, 
sì che la tema si volve in disio.                                      126

Quinci non passa mai anima buona; 
e però, se Caron di te si lagna, 
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».             129

Finito questo, la buia campagna 
tremò sì forte, che de lo spavento 
la mente di sudore ancor mi bagna.                            132

La terra lagrimosa diede vento, 
che balenò una luce vermiglia 
la qual mi vinse ciascun sentimento; 

e caddi come l’uom cui sonno piglia.                          136

A questo link la parafrasi del canto terzo

A questo link, la lettura del canto terzo eseguita da Vittorio Sermonti