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La centralità della perizia nel diritto processuale canonico

Perito
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Il presente articolo ha lo scopo di analizzare la disciplina normativa e la centralità assunta dalla perizia nelle cause di nullità matrimoniale. L’esame si è concentrato sulla natura della relazione peritale senza trascurare le peculiarità del ruolo dei periti in relazione alla funzione propria del giudice. Se ne è dedotto che, nel diritto canonico ancor più che nell’ordinamento italiano, la perizia è lo strumento elitario di cui si avvale il giudice per la salvaguardia dei rapporti ecclesiali.

L’interazione scienza-diritto, non senza suscitare ampi dibattiti, è diventata, nel tempo, un paradigma di riferimento imprescindibile per la creazione della verità processuale dotando il giudice di uno strumento di riferimento privilegiato nell’accertamento delle responsabilità giudiziali. E tuttavia, le costanti scoperte in ambito scientifico rese tanto più rapide dalla molteplicità delle innovazioni tecnologiche rendono conto alle riflessioni di Popper il quale paragonava la scienza a palafitte elevate su una palude più che ad un edificio costruito su solidi strati rocciosi.

In tal senso, la locuzione “prova scientifica non definisce uno strumento probatorio incontestabile ma un particolare tipo di metodo di cui il giudice si avvale quando il raggiungimento di un sufficiente grado di certezza giuridica renda necessario il ricorso a regole di scienza o l’uso di peculiari strumenti tecnologici. Egli, in virtù del principio del libero convincimento, è obbligato al vaglio critico delle conoscenze che entrano a far parte del processo e, per statuizione della Corte di Cassazione, può disattendere il contenuto della perizia senza l’obbligo di motivare il proprio dissenso quando decidesse di fondare la sentenza su considerazioni incompatibili con essa.

Nel diritto canonico la perizia è impiegata principalmente nei processi di nullità matrimoniale per vagliare le capacità cognitive e volitive dei nubendi.

Già il Codex iuris canonici del 1917 sottolineava la centralità della perizia rispetto agli altri mezzi di prova statuendo al canone 1792 che «Peritorum opera utendum est quoties ex iuris vel iudicis praescripto eorum examen et votum requiritur ad factum aliquod comprobandum vel ad veram alicuius rei naturam dignoscendam». Questa definizione è il frutto di una lunga elaborazione giurisprudenziale che induce a riferire la perizia più agli accidentia che alla substantia dei fatti processuali.

Ispirandosi alla previsione in esame, la Finocchiaro attribuisce al perito il compito di palesare al giudice ciò che è già insito nella realtà delle cose e che viene reso certo nel processo mediante regole di scienza che i periti conoscono in ea re. L’attività peritale è disciplinata nel Codice di diritto canonico vigente ai canoni 1574-1581.

Le norme citate sono da relazionare al canone 1680 nel quale il legislatore sancisce l’obbligo di nominare un perito giudiziale in tutte le cause di nullità aventi ad oggetto l’impedimento di impotenza o il difetto di consenso causato da morbus mentis specificando, nell’ultimo capoverso, di poterne fare a meno quando dalle circostanze del caso l’utilizzo dello strumento peritale appaia evidentemente inutile.

Precisa ancora il canone «nelle rimanenti cause si osservi il disposto del canone 1574». L’interrelazione tra le norme in esame estende notevolmente l’ambito applicativo della perizia rispetto al Codex del 1917. L’ammissione di questo mezzo di prova è, di fatto, vincolata alle circostanze oggettive emerse nell’istruttoria potendo i giudici farvi ricorso ogni qual volta si ravvisi la necessità di provare qualche fatto ignoto o riconoscere la vera natura delle cose.

Di contro, l’obbligo del giudice di nominare un perito nei casi previsti dalla legge viene meno laddove, in base a criteri di razionalità, il suo contributo appaia palesemente inutile alla ricostruzione della certezza morale.

Ai sensi del canone 1575 il giudice nomina un numero di periti rapportato alla difficoltà della causa, sentite le parti o su proposta delle stesse. Se l’andamento dell’attività processuale lo suggerisce, egli può anche accettare relazioni elaborate da altri periti in un momento precedente al processo.

L’esperto prescelto, in analogia con le norme sulla testimonianza, può essere escluso o ricusato per giusta causa nelle ipotesi di rischio di prevenzione o di assoluta mancanza di sintonia tra periziando e periziato. Atteso quanto le parti abbiano addotto in giudizio, il giudice fissa con decreto i punti sui quali si chiede l’intervento peritale.

I quesiti vanno formulati attraverso domande aperte che consentano all’esperto di esporre i dati scientifici in maniera adeguata alla comprensione del caso. L’indagine deve essere improntata ad una prospettiva storica tanto più nelle perizie riconducibili alle ipotesi di nullità previste dal canone 1095. In questo ambito le difficoltà che si offrono al medico legale oltre a legarsi alla complessità del concetto di consenso matrimoniale si riconnettono alla natura delle patologie in cui sono prevedibili lucidi intervalli delle capacità cognitive.

In questi casi la dottrina dominante, salvaguardando la necessità di basare la perizia su solidi fondamenti clinici, è concorde nel ritenere che l’impossibilità di addivenire ad una inconfutabile certezza tecnica impone al perito di desumere almeno una certezza morale dalla concordanza delle prove scaturite dall’analisi diagnostica.

Per questo motivo, all’atto di nomina, vengono trasferiti al perito il fascicolo della causa e i documenti o sussidi di cui può aver bisogno per eseguire correttamente il suo compito. La relazione peritale deve indicare con chiarezza il metodo e il criterio adottato per il suo espletamento oltre agli argomenti su cui si fondano le conclusioni. A tal fine, il medico legale deve impegnarsi, durante il colloquio, a mantenere la giusta equidistanza dai fatti di causa evitando di rimanere emotivamente invischiato nelle dinamiche personali dell’esaminato o di assumere atteggiamenti mentali orientati all’acquisizione di dati arbitrariamente considerati utili.

I fatti e l’osservazione restano, come nota il Gandolfi, il fulcro reale delle indagini le cui conclusioni non possono essere abbandonate all’astrattezza dei principi teorici ma devono radicarsi nella certezza dei dati esperienziali, gli unici a garantire un margine di verità nel tortuoso percorso processuale.

A porre accento sul peculiare rilievo conferito alla perizia nella ricostruzione della certezza morale è Arroba Conde nei corposi studi dedicati al diritto processuale canonico. Egli osserva che la valutazione della prova è un atto di autorità che si fonda sui dati emersi nel processo ma che non può prescindere dalla responsabilità nei confronti della comunità ecclesiale insita nell’esercizio della potestà di giurisdizione.

Ne deriva che, benché il canone 1608 sancisca il principio della libera valutazione delle prove secondo coscienza, nel diritto canonico ancor più che negli ordinamenti statali, la necessità di coniugare la giustizia in chiave comunitaria rende il giudice libero rispetto al significato da attribuire al dato probatorio ma non rispetto alla strada da percorrere per acquisirlo. In questo modo la prova scientifica rappresenta lo strumento elitario di cui il giudice si avvale per orientare la sentenza a criteri di razionalità.

Essa consente di leggere i fatti emersi nell’istruttoria attraverso conoscenze tecniche sconosciute al giudice fornendo una premessa, in alcuni casi imprescindibile, per il superamento di ogni ragionevole dubbio e la ricostruzione della certezza morale cui la sentenza canonica aspira. Se ne conviene che il brocardo peritum in arte credendum est non sostituisce l’attività del perito a quella del giudice ma, in ragione della funzione mista di giudizio e testimonianza che le è propria, individua la perizia come l’evidence mediante la quale sostenere o sconfessare i fatti del giudizio.

Di fatti, è fuor di dubbio che la funzione degli esperti nel processo va tenuta distinta sia dalla deposizione testimoniale che dall’attività decisoria in senso stretto. Nella complessa dinamica tra munus iudicandi e munus consulendi il Magistero pontificio conserva la responsabile indipendenza del magistrato dal perito le cui osservazioni restano un mero elemento, benché primario, del sillogismo probatorio. Tali osservazioni si distinguono dalla semplice dichiarazione testimoniale perché i dati in essa contenuti, pur acquisti personalmente, arricchiscono l’istruttoria di elementi tecnico-scientifici per i quali risulta indispensabile il ricorso all’arte specialistica e, tuttavia, le competenze tecniche del perito non ne fanno un “coniudices” o “quasi iudices” del processo non potendo il votum peritale mai soppiantare la sentenza o rappresentarne un frammento.

Il perito si limita ad integrare le cognizioni del magistrato in materie che esulano dalla sua conoscenza. Ne consegue che, per quanto sia il perito che il giudice esprimano nella struttura propria del giudizio i risultati cui perviene la loro attività logica, mentre la ricognizione dell’esperto restringe la sua portata ad una valutazione strettamente tecnica la decisione del giudice presuppone il confronto dialettico tra l’esperienza personale e nuziale delle parti e la struttura ontologica del matrimonio.

Per questo, ai sensi del canone 1579, il giudice deve confrontare le conclusioni dei periti, anche se concordi, con le circostanze di causa e la sua decisione, diversamente che nell’ordinamento italiano, deve riportar

e le ragioni che lo hanno indotto ad ammettere o respingere le conclusioni in essa contenute. Il richiamato brocardo “peritum in arte credendum est si completa, dunque, nel principio per cui “dictum expertorum non transit in rem iudicatam” essendo il giudice “peritus peritorum delle proprie cause.

Si può concludere, con la Zuanazzi, che la relazione peritale non può essere accolta automaticamente ma va sottoposta ad un accurato esame che ne relazioni la logicità e la correttezza alle circostanze e ai fatti emersi in corso di causa. In questo modo la perizia, grazie alla sua speciale forza probante, aiuta il magistrato a raggiungere con maggiore speditezza l’esito della controversia senza, tuttavia, esimerlo dall’obbligo di costruire responsabilmente la sentenza con il concorso di tutte le risultanze emerse nell’istruttoria. La ratio è quella di salvaguardare, nel miglior modo possibile, i rapporti ecclesiali su cui il processo impatta.

Si suggeriscono le seguenti letture:

Arroba Conde M. J., Diritto processuale canonico, Roma 2012;

Arroba Conde M. J., La prova peritale e le problematiche processualistiche, in AAVV., L’incapacità di intendere e di volere nel diritto matrimonialecanonico, Città del Vaticano 2000, pp. 383-410;

Finocchiaro F., Istruzione del processo canonico, in Enciclopedia del diritto, XX, p. 235;

Gandolfi G., Fondamenti di medicina forense analitica colla comparazione delle principali legislazioni, avendo speciale riguardo al Nuovo Codice Penale Italiano, Milano 1862;

Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana del 5 febbraio 1987, in htpp://w2.vatian.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1987/february/documents/hf_jp-ii_spe_19870205_roman-rota.html;

Popper K., Logica della scoperta scientifica, Torino 2010;

Zuanazzi I., Il Giudice e il perito nella giurisprudenza della Rota Romana, in Il diritto ecclesiastico, gennaio-marzo 1983, n. 1, pp. 144-185.