La dispensa (cann. 85-93)
La dispensa (cann. 85-93)
1. Definizione dell'istituto e suo ambito di applicazione; 2. Autori e soggetti della dispensa; 3. Effetti, tipologie ed interpretazione; 4. La giusta causa; 5. La cessazione della dispensa; 6. La problematica distinzione tra dispensa e privilegio
In otto canoni appena – cui però si aggiunge, in funzione integrativa, la disciplina dei rescritti in generale – il Codice regola uno degli istituti più importanti nella vita della Chiesa, la dispensa; e probabilmente la ragione per cui la normativa è così scarna risiede proprio nella vastità del suo ambito di applicazione, nel senso che su “la dispensa in generale” non si può dire più di tanto, il discorso palesa da sé la propria incompletezza, l'esigenza di calarsi in fattispecie concrete rispetto a cui verificare la tenuta e la pertinenza di concetti, altrimenti, affetti da irrimediabile vaghezza. Ma senza quegli stessi concetti non si potrebbe inquadrare il fenomeno, né distinguerlo da figure affini; e quindi non stupisce che i canoni in parola siano anche molto densi di contenuti e di tradizione.
1. Definizione dell'istituto e suo ambito di applicazione
Prima di tutto, il can. 85 afferma con chiarezza sia la tradizionale definizione della dispensa come relaxatio legis in un caso particolare,[1] sia l'elemento di novità costituito dalla sua afferenza alla potestà esecutiva, ordinaria o delegata, anziché alla legislativa[2] (ancora il can. 80 CIC17 la riservava al legislatore o al suo superiore).[3] Concettualmente, quindi, oggi deve dirsi che l'esecuzione della legge comprende anche il potere di accordare dispense dalla sua osservanza: nella concezione volontarista ciò si giustifica con la “volontà presunta” del legislatore[4] – che del resto viene esternata chiaramente, una volta per tutte, proprio in questo canone – mentre se si privilegia la visione della lex come ordine si pone l'accento sulla particolarità del caso, ritenendo che essa debba esser tale da far venire meno la ratio legis nella situazione concreta, senza però quella nota di evidenza che farebbe cessare di per sé l'obbligatorietà stessa della norma.[5] Va notato, tuttavia, che il requisito di una “giusta causa” per la concessione della dispensa non compare nella definizione, poiché il Codice ammette la validità di dispense che ne siano prive, se provengano da soggetto munito di potestà legislativa (cfr. can. 90 §1 e v. infra, §4).
Per quanto riguarda l'ambito di applicazione dell'istituto, il can. 85 specifica anzitutto che esso opera rispetto alle leggi meramente ecclesiastiche e – si deve intendere – a queste soltanto: non è possibile la dispensa dal diritto divino; inoltre, il can. 86 preclude quella dalle leggi che recano gli elementi essenziali di un istituto o di un atto giuridico.[6] Poiché, però, non tutte le leggi irritanti o inabilitanti individuano elementi essenziali, da molte resta possibile dispensare, p.es, dall'obbligo di osservare la forma canonica del matrimonio, o i requisiti formali ad substantiam prescritti, per un atto di contenuto patrimoniale, dalla legge civile “canonizzata”. Ovviamente occorrerà, caso per caso, interrogarsi su quali siano gli essentialia in gioco; ma il can. 124 §1 chiarisce che non sono mai essenziali i requisiti attinenti alla forma dell'atto giuridico o all'habilitas delle persone a porlo.
Va osservato, peraltro, che la restrizione alle leges mere ecclesiasticae non è così scontata come si potrebbe pensare: senza dubbio, a nessuno possono essere accordati “sconti” sui dogmi di Fede o sull'obbligatorietà dei precetti morali validi semper et pro semper; ma, ha osservato vivacemente Berlingò rifacendosi al Sánchez, “una simile crasi tra diritto umano e diritto divino non corrisponde alla volontà del Fondatore. […] Vi sono, certo, precetti divini 'quae nulla salutis detrimentum afferre possunt'; ma ve ne sono di altri 'quae nonnumquam maius bonum impedire solent', come può avvenire, ad esempio, in determinate ipotesi di voto o di giuramento, in cui pure è da ravvisare una radice di diritto divino”, per non parlare poi della dispensa dal matrimonio rato e non consumato, che deroga al principio dell'indissolubilità.[7] Ciò è vero; ma se la dottrina tende a concordare che casi simili esulano dalla disciplina della dispensa come dettata ai cann. 85 sgg. e che il nomen iuris applicato dal Codice è improprio,[8] non per questo si tratta di dispensa dal diritto divino come tale, poiché non si interviene sul precetto pacta sunt servanda, o vota implenda, più di quanto si vada ad incidere sul dovere di obbedire alle leggi, ma si interviene sull'atto umano che, in quel singolo caso, ha creato l'obbligo concreto, intervento legittimato dal fatto che la mente umana, a differenza di Dio, non può prendere in considerazione ex ante tutte le circostanze.[9]
In ogni caso, soltanto un comando o un divieto possono formare oggetto di dispensa: l'impiego stesso del termine relaxatio nella definizione evoca subito, per contrasto, l'immagine del vinculum iuris.[10] “Non è ammissibile la dispensa da una legge che autorizza ad agire in un certo modo, proibendo quindi l'esercizio di tale diritto”:[11] ciò equivale ad un provvedimento di divieto e quindi ad un precetto.[12] Si può bensì perdere uno status personale, comprensivo di diritti e di obblighi, per concessione di apposita grazia, espressamente prevista dal Codice per lo stato clericale (can. 290 n. 3°) e per i religiosi (can. 692), ma la legge non parla di dispensa, preferendo in un caso il termine generico “rescritto”, nell'altro “indulto”; la dispensa super rato, che sembrerebbe un'eccezione alla regola, lo è fino ad un certo punto, poiché in concreto viene chiesta e concessa affinché il beneficiario, più che perdere lo status di coniugato, lo possa riacquistare rispetto ad un'altra persona.
Infine, la dispensa è un atto amministrativo singolare, ma “la singolarità può consistere sia nella singolarità dell'individuo, cui la dispensa viene data, sia nella singolarità del gruppo, sia nella singolarità delle volte. Così è ancora caso singolo o particolare se viene dispensata una intera comunità, come per es. una diocesi, ma soltanto per qualche caso.”.[13] Esoneri di carattere più ampio rientrano nell'ambito della legge o almeno del privilegio: non esistono rescritti generali.
2. Autori e soggetti della dispensa
In diritto canonico, ormai da molti secoli, la grande maggioranza delle leggi proviene dalla S. Sede ed ha un ambito di applicazione universale, almeno per tutta la Chiesa latina; se nel primo millennio vigeva il principio per cui il Vescovo del luogo godeva comunque della potestà di dispensa, salvi i casi riservati, a partire dal XIII sec. si è compiutamente affermato l'opposto sistema della concessione, che riservava la dispensa al conditor legis, salvo che egli espressamente estendesse ad altri tale potestà.[14] Tale regime, sebbene temperato nella prassi da un ampio sistema di deleghe e facoltà, è stato recepito dal can. 81 CIC17, ma il Concilio Vaticano II (decreto Christus Dominus sul ministero pastorale dei Vescovi, n. 8) ha deciso il ritorno all'antico e, pertanto, oggi il can. 87 §1 attribuisce in via generale agli Ordinari il potere di dispensa dalle leggi universali, ancorché emanate dalla Sede Apostolica. Vi sono tre sole eccezioni: le leggi processuali, quelle penali[15] e quelle che la stessa S. Sede si è riservata “in modo speciale”.[16] Sembra bene precisare subito che tali riserve, assai frequenti ancora nel m.p. Episcoporum muneribus di prima attuazione del dettato conciliare,[17] sono state molto sfoltite dal CIC, riducendosi (tenuto conto anche delle grazie affini ma di altra natura) a: rescritto di perdita dello stato clericale (can. 290 n. 3°) e dispensa dal celibato ecclesiastico (can. 291), non inclusa nel precedente; indulto di lasciare l'istituto religioso di diritto pontificio, per il professo di voti perpetui (can. 691 §2);[18] dispense dall'età minima per l'accesso agli Ordini, per un intervallo superiore all'anno (can. 1031 §4); irregolarità ad esercitare gli Ordini, se il fatto è stato deferito al foro giudiziale (can. 1047); impedimenti matrimoniali da Ordine sacro, voto pubblico di castità o crimine (can. 1078 §2); giuramento, se la dispensa pregiudica terzi che rifiutano di condonare l'obbligo (can. 1203); riduzione degli oneri di Messe (can. 1308); dispensa super rato (can. 1698 §2).[19] Infine, due interpretazioni autentiche, rispettivamente allo stesso can. 87 §1 (5 settembre 1985) e al can. 767 §1 (20 giugno 1987) hanno escluso che il Vescovo abbia il potere di dispensare due cattolici dalla forma canonica del matrimonio, fuori del caso di pericolo di morte, o dalla riserva dell'omelia ad un Sacerdote o diacono.[20]
Nondimeno, il can. 87 §2 consente a tutti gli Ordinari di dispensare perfino nei casi riservati, eccettuato solo l'obbligo del celibato,[21] a tre condizioni cumulative: che sia difficile il ricorso alla S. Sede,[22] si dia pericolo di grave danno nel ritardo[23] e ricorrano circostanze in cui la stessa S. Sede è solita concedere la dispensa. Vi si può aggiungere, infine, il can. 14, secondo cui essi hanno il potere di dispensare dalle leggi – senza eccezioni – in presenza di dubbio probabile di fatto, cioè di incertezza circa la sussistenza dei presupposti per l'operatività del divieto o precetto di legge (p.es., incertezza sull'età di un minore ed esigenza di capire se sussista il relativo impedimento matrimoniale, o se sia soggetto all'obbligo del digiuno), purché, se si tratta di dispensa riservata, l'autorità sia solita concederla in simili circostanze. Però, la conseguente necessità, non solo per gli Ordinari, di conoscere la prassi dei Dicasteri si scontra con la realtà dei fatti: le grandi collezioni di decreti e rescritti, dopo un momento di particolare splendore tra Otto e Novecento, non sono state continuate o riprese nel periodo postconciliare, neanche una volta concluso il cantiere delle grandi riforme legislative, che poteva giustificare una stasi; di conseguenza, a parte la felice eccezione della rivista Notitiae, che fin dal 1965 offre una ricca messe di informazioni, analisi e commenti circa l'attività del Dicastero preposto alla liturgia nella Chiesa latina, non resta altra possibilità che una malagevole ricerca nei volumi degli Acta Apostolicae Sedis, dove i provvedimenti singolari sono pubblicati proprio quando il Dicastero da cui promanano intende conferir loro un valore esemplare.[24]
Per quanto riguarda le leggi particolari, invece, la questione è assai più semplice: in forza del can. 88, l'Ordinario del luogo – non solo il Vescovo, quindi, ma anche il Vicario generale – può dispensare da tutte, sia diocesane sia sovradiocesane, perché emanate dalla Conferenza Episcopale o da un Concilio provinciale o plenario.
Invece, ai sensi del can. 89, né i Parroci né i Sacerdoti né i Diaconi possono dispensare da legge alcuna, a meno che tale potestà non risulti loro attribuita in modo espresso, si intende per legge o per delega (non si fa menzione dei laici, per evitare il problema dei rapporti tra Ordine sacro e giurisdizione); se ne ha un esempio nel can. 1079 §2, che consente sia al Parroco sia a tutti i ministri sacri titolari, ex lege o per delega, della facoltà di assistere al matrimonio di dispensare dalla forma canonica e da tutti gli impedimenti, tranne quello derivante dal presbiterato, se vi è urgente pericolo di morte e non vi è il tempo per ricorrere all'Ordinario del luogo. Di notevole importanza almeno teorica anche il potere di dispensa e commutazione attribuito al Parroco dal can. 1245 riguardo al precetto festivo e agli obblighi del tempo di penitenza (astinenza e digiuno quaresimale).
Aggiungo ancora, per completezza, che la potestà di dispensare si interpreta in senso ampio se viene attribuita in via generale (cfr. can. 138), ma in senso stretto se attribuita ad certum casum (can. 92).
Infine, per quanto attiene al lato passivo, ai destinatari, il can. 91 ripropone la regola generale sull'esercizio della potestà esecutiva, senza i temperamenti del can. 136, e quindi stabilisce che ciascun titolare di questo potere possa esercitarlo sui sudditi, anche dimoranti fuori del territorio, e a meno che non vi sia un'esclusione espressa anche sui forestieri che in esso si trovino al momento; risolve, inoltre, una disputa plurisecolare, stabilendo che può dispensare sé stesso.
3. Effetti, tipologie ed interpretazione
Come si è detto, ogni dispensa consiste nella relaxatio di un divieto o di un precetto; ma ciò non basta ad esaurirne la descrizione. In dottrina, la distinzione più importante, l'unica recepita dal Codice mediante il riferimento che vi fa il can. 93, è quella tra la dispensa destinata ad esaurirsi in un singolo atto, p.es. quella dall'impedimento matrimoniale, e la dispensa c.d. “con tratto successivo”, ossia suscettibile di essere esercitata a più riprese, p.es. se accordata dal digiuno per tutta la durata della Quaresima. Ma in realtà il quadro degli effetti configura una quadripartizione:
- dispensatio simplex, concessa ad una persona determinata e per un singolo atto;
- dispensatio simplex cum tractu successivo, quella dell'esempio appena posto;
- dispensatio multiplex, che ha più destinatari ma riguarda un solo atto, p.es. perché riguarda ciascun uti singulus ciascun appartenente ad un convento, una comunità etc., in occasione di una festa da celebrarsi;
- dispensatio multiplex cum tractu successivo, dove sono molteplici sia i destinatari sia gli atti (si pensi alla dispensa dal precetto festivo accordata in tempo di emergenza Covid).[25]
In tutti i casi considerati, il provvedimento attribuisce ai destinatari – determinati - il diritto di agire in conformità ad esso, almeno nel senso dell'immunità da coercizione malgrado la contrarietà dell'atto alla legge, e tale effetto non può venir meno per effetto di una revoca comunicata in seguito (diverso il discorso, va da sé, se la concessione fosse invalida): questa è la portata concreta del concetto di relaxatio legis. Si è peraltro sostenuto, soprattutto in passato, che la dispensa possa essere concessa anche ex post facto, per sanare un illecito;[26] atteso però il disposto del Codice, deve dirsi che l'avvenuta trasgressione, quantomeno se menzionata, non impedisce di ottenere il rescritto favorevole, ma questo non ha effetto retroattivo (cfr. can. 62) e vale solo per il futuro.[27] Se necessarie od opportune per ragioni particolari, la retroattività, la sanatoria e altre forme di grazia per il passato dovranno essere appositamente richieste nei singoli casi.
La dispensa, infine, soggiace ad interpretazione stretta a norma del can. 36 §1, per espresso rimando da parte del can. 92, il che significa che si annoverano sempre tra gli atti che derogano alla legge a vantaggio di privati. “È insomma il carattere – tipico della dispensa – di eccezione rispetto alla legge l'elemento che richiede un'interpretazione stretta in caso di dubbio e che esclude qualsiasi interpretazione estensiva, vale a dire, quella che va al di là del senso letterale delle parole, ampliando la portata del provvedimento”.[28] Prima ancora, quindi, anche in ossequio al can. 38, sarà necessaria un'indicazione chiara dell'effetto derogatorio che si vuole accordare e della consapevolezza che di deroga si tratta, sebbene non sia necessario indicare espressamente i canoni coinvolti.[29] Tanto più che, secondo la terminologia tradizionale, la dispensa è una derogatio casualis et causalis, cioè accordata per una situazione ben determinata e tale da configurare una giusta causa.
4. La giusta causa
Il can. 90, vera norma cardine dell'istituto, esige che la dispensa sia concessa sempre e solo in presenza di una iusta et rationabilis causa, da apprezzarsi rispetto alle circostanze del caso da un lato, all'importanza della legge dall'altro; altrimenti è illecita e, se non concessa dal legislatore o dal suo superiore, anche invalida. Tuttavia, nel dubbio sulla sufficienza della causa, è concessa validamente e lecitamente.
La giusta causa è un requisito essenziale, dunque, almeno per la dispensa accordata da chi gode solo della potestà esecutiva; ma, proprio perché si rinviene nella peculiarità di una situazione di fatto, non può essere tipizzata a monte. O meglio, possono esistere casi in cui la S. Sede è solita dispensare o anche cause canoniche, ossia previste per legge o atto generale, in cui la dispensa è espressamente consentita; ma “l'autorità concedente deve comunque godere di un certo margine di discrezionalità […] perché, diversamente, non ci troveremmo in presenza di una dispensa, ma di una licenza.”.[30] L'unica causa tipica prevista dal Codice è il dubbio probabile di fatto, ex can. 14... ma, per l'appunto, ivi la legge accorda il potere di dispensa, non obbliga affatto ad esercitarlo sempre, anzi semmai implica che, di per sé, nel dubbio se sussista il presupposto di un divieto o precetto legale, ci si deve attenere al divieto o precetto.[31] Invece, “Il can. 1536 §2 del CCEO indica come causa giusta e ragionevole il bene spirituale dei fedeli (si noti che si parla di bene spirituale dei fedeli, il quale può risultare molto oneroso da altri punti di vista)”;[32] ma almeno in ambito latino non sembra escluso a priori che la dispensa sia concessa anche in vista del bene temporale, purché si tratti di obblighi o divieti che attengano a tale ambito, non allo spirituale. L'ipotesi, tuttavia, sembra più scolastica che concreta: entrano quasi sempre in gioco diritti di terzi, cui ben difficilmente si potrebbe pensar di derogare. In ogni caso, il bene spirituale resta sempre il fine almeno indiretto e ultimo di ogni provvedimento di dispensa.
Considerato che le peculiarità di un caso singolo possono perfino far cessare in concreto l'obbligo di seguire la legge, non stupisce che ci si sia domandati se sia concepibile un diritto alla dispensa. In senso proprio e stretto, ovviamente, questa sarebbe una contraddizione in termini; ma deve dirsi altrettanto ovvio che la rationabilitas della giusta causa, anche intesa semplicemente come “forza persuasiva” delle specifiche circostanze, può essere più o meno forte e che, quanto più si rafforza, tanto meno per converso appare rationabilis l'applicazione della legge nel caso concreto. Di qui le tesi secondo cui si avrebbero dispense “dovute”, “permesse” o “proibite”, o quantomeno, siccome “il fondamento della dispensa è la carità del Superiore e la necessità del suddito[, s]e la necessità è veramente rilevante il Superiore ha l'obbligo morale di concedere la dispensa”.[33] Oggi il problema si pone in termini alquanto diversi, poiché, almeno per diritto positivo (cfr. can. 1737), è sempre possibile ricorrere contro il diniego della dispensa e quindi far riesaminare la richiesta da un'autorità superiore; non risulta, però, ancora noto alcun caso portato allo scrutinio della Segnatura.[34] In generale, parlare di “diritto” alla dispensa non avrebbe un particolare rilievo pratico, mentre si può contare che quello al ricorso gerarchico basti ad assicurare un esame obiettivo delle richieste presentate; permangono incertezze, però, sui mezzi di tutela in caso di silenzio amministrativo.
La validità della dispensa priva di giusta causa, se proviene dal legislatore (cioè non da chiunque sia titolare di potestà legislativa, ma dall'autore della legge in gioco o dal suo superiore: quindi non i legislatori inferiori rispetto alle leggi superiori), non crea problemi in un'ottica volontarista: “Di fatto il legislatore se agisce illecitamente, procede validamente in quanto la forza vincolante della legge in definitiva dipende da lui”.[35] Il discorso cambia parecchio, però, se si ritiene che detta concezione debba essere, non già “semplicemente sfumata, ma del tutto rifiutata”, in quanto “la radice ultima dell'obbligo giuridico” va ravvisata “piuttosto [nel]la necessità di ordinare la vita sociale e di dichiarare la giustizia insita in una realtà (alla quale si accede attraverso la ragione, nel nostro caso, illuminata dalla fede).”.[36] Così, Labandeira afferma a chiare lettere che quelle senza giusta causa “sono dispense illegittime e sempre proibite”, dimodoché “la concessione è sempre illecita e deve essere revocata”; se nel frattempo l'atto si sostiene, esso però “non deve la sua validità alla potestà di cui il legislatore stesso è titolare – visto che questi agisce con potestà esecutiva – ma è ope legis, dipende dalla stessa forza del diritto, ed è stabilita per salvaguardare la certezza delle situazioni giuridiche ed evitare un danno alle anime, che così non sono obbligate a ricercare le cause delle dispense: è sufficiente che non incorrano nei vizi di surrezione e di orrezione”.[37] Ma, sebbene il rilievo sul fondamento obiettivo della validità sia corretto, risulta anche incompleto e insufficiente: proprio perché si assume che vi sia assenza di vizi invalidanti il rescritto, il legislatore conosce la situazione ed è in grado di apprezzare l'assenza di giusta causa; il ragionamento del Labandeira non fa una grinza, finché si tratta di non porre a carico dell'ignaro richiedente un errore di giudizio che l'abbia fatta ritenere a torto sussistente... ma quid se il legislatore decidesse di accordare comunque la dispensa, per qualunque ragione sua personale, pur essendosi avveduto benissimo che non vi è giusta causa?[38] Il can. 90 §1 non lascia dubbi sul fatto che lo potrebbe fare; su quale fondamento? Non la potestà esecutiva ordinaria; non una delega a iure, che potrebbe essere accordata anche a colui che legislatore non è; ma proprio la potestà che egli possiede sulla legge in gioco e che, in quest'ipotesi, gli permette di porre un atto che equivale ad una deroga dalla stessa, intesa come derogatio non causalis.[39] Certo, la lex non dipende unicamente dalla volontà del suo autore; ma quest'ultima gioca comunque un ruolo che le permette margini di manovra più ampi.
5. La cessazione della dispensa
Ovviamente, un problema di cessazione si può concretamente porre soltanto per le dispense con tratto successivo: le altre potrebbero, in teoria, solo essere revocate prima del compimento dell'atto in vista del quale sono state chieste ed ottenute... ma sembra un'evenienza assai improbabile, salvo che si scopra una surrezione o un'orrezione, il che però equivarrebbe a dire che la dispensa era invalida ab origine e che di evoca, al massimo, si parla per ragioni eufemistiche.
Orbene, il can. 93 ci dice che la dispensa con tratto successivo cessa negli stessi modi del privilegio e anche per la cessazione sicura e totale della causa motiva. Nella sua stringatezza, questo precetto ci dice almeno due cose: che il privilegio può invece sopravvivere alla propria causa e che il legislatore, essendo consapevole della difficoltà di distinguere, in concreto, la dispensa dai privilegi (cfr. infra, §6), ha inteso rendere il problema irrilevante o quasi, rispetto all'ambito in cui più facilmente potrebbe emergere. A conti fatti, l'unica differenza resta la cessazione della causa, rispetto a cui comunque, anche nel caso del privilegio, ben si potrebbe procedere con la revoca. Tanto più che comunque, anche supposta l'applicabilità del can. 93, deve trattarsi di cessazione sicura e totale: meglio dunque un provvedimento espresso che tolga ogni dubbio.
In conclusione sul punto, quindi, la dispensa ad certum actum cessa per compimento del medesimo, revoca, o eventualmente scadenza del termine entro cui l'atto doveva essere posto; quella cum tractu successivo anche per rinuncia accettata (can. 80), estinzione del diritto del concedente se concessa con clausola ad beneplacitum nostrum o equivalente (can. 81), prescrizione della dispensa gravosa per terzi, la quale tuttavia sembra in sé difficilmente configurabile (can. 82),[40] esaurimento del numero di casi per cui fu accordata (can. 83 §1), sopravvenuto giudizio autoritativo di nocività, o di illiceità del suo uso (can. 83 §2), privazione per abuso (can. 84).
6. La problematica distinzione tra dispensa e privilegio
Si è già detto che ogni dispensa consiste nella relaxatio di un comando o di un divieto legale; ma che ciò non basti ad esaurire il quadro dei suoi possibili effetti salta agli occhi con una certa facilità: se Tizio, poniamo, viene dispensato da un impedimento matrimoniale, l'effetto ultimo del rescritto non ha carattere negativo ma positivo, poiché consiste nella possibilità di sposarsi lecitamente o addirittura validamente. Non solo: una volta che di tale facoltà egli si sia avvalso, la situazione giuridica che ne consegue non è più modificabile mediante una revoca della dispensa. Di conseguenza, riesce piuttosto difficile distinguere in concreto una simile dispensa dalla concessione di un diritto soggettivo con effetti permanenti. Così come, all'inverso, il privilegio che consiste nell'esonero da una legge non si distingue in modo immediato da una dispensa dalla medesima. Non stupisce, quindi, che al problema discretivo sia stata e sia tuttora offerta una nutrita varietà di soluzioni possibili.
Storicamente, come osserva il Labandeira, “la dottrina ha assunto le più diverse posizioni. Nei tempi passati molti canonisti e teologi non distinguevano i due istituti. Per alcuni studiosi – tra i quali l'Ojetti – la dispensa è una particolare specie del privilegio”.[41] E si può anticipare subito che egli stesso è del numero, proprio in ragione del già accennato esempio dell'impedimento matrimoniale: vede la dispensa come caso particolare di concessione di un diritto soggettivo, che supera un disposto legale contrario. A parere non solo mio, però, semmai deve dirsi che, “dal punto di vista soggettivo, in ordine alla situazione giuridica che producono, il privilegio e la dispensa sono due specie del medesimo genere: una situazione legittima particolare originata da un atto amministrativo, al di fuori della regolamentazione generale”,[42] e questo a prescindere dalla pur vexata quaestio sul ruolo giocato dalla potestà legislativa rispetto alla natura del privilegio.
Ovviamente, la ricostruzione del rapporto in termini di genus ad speciem o di species eiusdem generis non può prescindere da un'analisi puntuale del contenuto, o meglio, dei vari contenuti possibili per i due provvedimenti. Tanto più che molte delle considerazioni dottrinali anteriori al CIC 1983 debbono considerarsi obsolete in ragione delle profonde modifiche ivi apportate al privilegio. Secondo il ius quo utimur, dunque:
- sia la dispensa sia il privilegio vengono accordati mediante atto amministrativo singolare (rescritto);
- alla concessione della dispensa basta la potestà esecutiva, per quella del privilegio occorre la legislativa o un intervento apposito del legislatore;
- il contenuto dell'una è tipizzato come relaxatio legis in casu particulari, l'altro come gratia in favore di soggetti determinati;
- entrambi i provvedimenti attribuiscono ai beneficiari il diritto soggettivo di agire in conformità, senza tema di divieti o sanzioni; tuttavia la dispensa è sempre contra legem, il privilegio contra o praeter, e può anche consistere in un titolo aggiuntivo di legittimità per una condotta secundum legem;
- l'effetto concreto della relaxatio può consistere nell'espansione delle facoltà soggettive, così come quello del privilegio nell'esonero da un comando o divieto;
- sia l'una che l'altro possono essere a scadenza, o per un determinato numero di casi; però il privilegio si presume perpetuo e non è previsto (almeno non espressamente) che lo si accordi per un singolo atto;[43]
- la categoria delle dispense reali non figura nel Codice, tuttavia, poiché la “singolarità” della situazione per cui si provvede può inerire a tutto un ambito territoriale o comunitario (supponiamo una dispensa accordata dopo un terremoto), è chiaro che essa si estende a chi diventi membro della comunità finché dura la causa motiva;[44]
- quest'ultima è necessaria per la liceità della dispensa, per la sua validità, se non viene concessa dal legislatore, e comunque affinché essa continui a sussistere; per il privilegio non si prevede nulla di tutto questo, ma viene accordato mediante rescritto e quest'atto ha sempre una causa motiva, anche quando sia munito di clausola motu proprio.
Considerate in particolare le differenze sub 3 e 4, nonché le affinità sub 1, 5 e 6, si spiega agevolmente perché ad alcuni la dispensa sembri una specie del genere privilegio: dopotutto, l'esigenza della giusta causa può essere vista proprio come un requisito specializzante. A mio parere, però, le cose stanno altrimenti e occorre parlare di due specie differenti. Infatti, attesa la definizione che ne offre il can. 85, l'effetto della dispensa non può andare oltre la riespansione di quei diritti e facoltà che dal legislatore erano stati compressi o addirittura elisi; in altre parole, non attribuisce un diritto in senso proprio, ma rende possibile esercitarne uno preesistente, o che sarebbe comunque esistito se non vi fosse stato il divieto legale, p.es. il ius connubii. Soltanto il privilegio, invece, può attribuire un diritto praeter o contra legem, ma prima estraneo alla sfera giuridica del destinatario, come pure – grazie all'intervento della potestà legislativa – dirimere eventuali dubbi circa la conformità a legge di una condotta particolare, legittimandola mediante un titolo aggiuntivo “per quanto necessario”;[45] anzi, oggi buona parte delle azioni praeter legem – nel senso di prive di disciplina specifica - rientra senz'altro nell'ambito dei diritti soggettivi dei fedeli (cann. 204 sgg.), sicché la relativa categoria di privilegi tende appunto a sfumare in “conferma per il caso di dubbio”.[46]
L'altro criterio discretivo deve, poi, ravvisarsi nella giusta causa, o meglio nel fatto che la dispensa, come derogatio causalis, resta ontologicamente circoscritta alla situazione concreta da cui è sorta la petizione. Se Tizio riceve una dispensa dall'impedimento di parentela in vista del matrimonio con Caia, ma poi cambia idea, oppure resta vedovo, e intende sposare l'altra cugina Mevia, gli servirà una nuova dispensa, che dovrà chiedere esponendo la nuova situazione; se invece, per pura ipotesi, qualcuno volesse accordare a Tizio un esonero vita natural durante da tale impedimento (per i gradi non proibiti iure divino), lo dovrebbe fare mediante privilegio. Per questo esso si presume perpetuo e richiede la potestà legislativa, o una speciale concessione del legislatore: sebbene il rescritto concessorio abbia per forza di cose una causa motiva, il suo contenuto ed il valore giuridico del medesimo non sono vincolati ad essa, ma possono trascendere le circostanze del momento per assumere una stabilità maggiore, paragonabile alla legge, e fondarsi su considerazioni di utilità per il bene comune, non solamente dei destinatari. Il bene comune esige in generale che si concedano dispense e che le richieste siano ben ponderate anche per evitare scandali, ma oltre non va;[47] invece, rispetto al privilegio può esigere una certa funzionalità, cioè che attribuire a qualcuno vantaggi ulteriori, prima affatto estranei alla sua sfera giuridica, torni a vantaggio di tutti in un senso non retorico (si pensi ai privilegi degli Ordini religiosi, che molto hanno contribuito e contribuiscono alla miglior cura delle anime).
Quindi:
- se il provvedimento è dato per un singolo atto, o menziona come causa il dubium facti, è senz'altro una dispensa; se si fonda su un dubbio di diritto, va considerato privilegio;[48]
- è sempre privilegio l'atto praeter o secundum legem, o che dispone un esonero dalla legge che va oltre il caso esposto nella petizione;
- è sempre privilegio, se accorda il diritto di seguire una legge preesistente, ma che di per sé non si applicherebbe al soggetto in questione, o se comunque modifica lo status personale in termini che non si limitano alla mera relaxatio legis.