Gli atti amministrativi singolari: norme comuni
Indice
1. Premessa
2. Tentativi di definizione
3. La disciplina comune (cann. 35-47)
3.1 Riflessioni introduttive
3.2 L'interpretazione dell'atto amministrativo
3.3 La forma del provvedimento
3.4 Necessità di clausole espresse (deroga alla legge o al diritto quesito; condizione per la validità)
3.5 Esecuzione dell'atto amministrativo
3.6 Revoca e cessazione dell'atto amministrativo
1. Premessa
Il diritto amministrativo canonico, come disciplina scientifica, non esisterebbe se non fosse stato individuato un ambito suo proprio, ossia alcune categorie di atti che si prestino a venir assimilati a quelli considerati “amministrativi” negli ordinamenti secolari moderni.
Di quelli generali e del problema di distinguerli dalle leggi, già ci siamo occupati a più riprese; è dunque tempo di passare ai singolari, ai quali soprattutto ha pensato la dottrina quando si è sforzata di elaborare definizioni di “atto amministrativo”.
Data, se non altro, l'ancor giovane età del diritto amministrativo canonico come disciplina dotata di autonomia scientifica, non sorprenderà più di tanto apprendere che non vi è accordo in merito alla definizione, neanche adesso che la disciplina codiciale dovrebbe pur apportare un ausilio agli sforzi in tal senso; semmai, un consenso unanime va alla ritenuta insufficienza della disciplina stessa, non si dice a risolvere tutti i problemi, ma anche solo ad abbracciar l'intera gamma degli atti considerati amministrativi.
Non è quindi inutile esordire ragionando sulle definizioni formulate nel corso del tempo, con l'auspicio di offrire un'illustrazione adeguata di convergenze e divergenze di fondo.
2. Tentativi di definizione
In termini molto generali, si può dire che gli autori si dividono tra chi offre una definizione molto ampia di atto amministrativo, per ricomprendervi tutto ciò che non sia né legislativo né giurisdizionale (Roberti, Castellano, Ranaudo, Mörsdorf), ad es. ogni “dichiarazione pratica di volontà, di conoscenza, di un giudizio emessa da un organo amministrativo nell'espletamento della sua attività amministrativa, per curare e favorire il bene pubblico”,[1] e quelli che, influenzati in larga misura dall'elaborazione dottrinale italiana o, comunque, preoccupati piuttosto di individuare l'oggetto specifico del contenzioso amministrativo canonico, restringono la definizione in modo tale da escludere gli atti preparatori e mettere in risalto il momento autoritativo-provvedimentale (D'Ostilio, Pinto, Staffa, Moneta), ad es. “ogni dichiarazione di volontà unilaterale ed immediata che promana dall'Autorità ecclesiastica competente, è diretta a realizzare taluni fini concreti della società ecclesiastica, è subordinata ai precetti normativi e condiziona, in modo diretto o riflesso, un suddito o un organo ecclesiastico”.[2]
Una terza via, per certi versi, è ravvisabile in Spinelli, che esclude dalla definizione gli atti generali considerandoli normativi, ma vi include anche certificazioni, pareri e simili[3] (sebbene poi, nel prosieguo della trattazione, finisca anch'egli per riferire, in maniera equivoca, l'espressione “atto amministrativo” al provvedimento).[4]
Il Codice del 1983, pur astenendosi come suo solito dalle definizioni, di fatto parla di “atti amministrativi singolari” solo per i provvedimenti, chiarendo già nella norma di esordio, il can. 35, che tutti vanno ricondotti alle tre categorie dei decreti, dei precetti o dei rescritti.
La dottrina posteriore, per lo più, si attiene a tale indicazione, limitandosi ad illustrare il diritto vigente, ma non manca di rilevare che l'attività amministrativa è ben più ampia.
Per quanto riguarda gli atti preparatori, in linea generale si può dire che, nel Codice, l'attività istruttoria non viene disciplinata come tale, né la giurisprudenza ammette un'applicazione analogica delle norme sul processo giudiziario:[5] per valutare ex ante il da farsi, dunque, non ci si può basare che sulla funzione che gli atti stessi sono chiamati ad assolvere nel procedimento concreto, fermo che comunque il ricorso è possibile solo contro il provvedimento conclusivo e – com'è ovvio – a patto che sia riscontrabile un errore determinante nella ricostruzione o percezione dei fatti.
Ricevono invece una disciplina piuttosto precisa, al can. 127, gli atti di consenso o di parere da parte di persone singole, gruppi o collegi, ma sono un'eccezione isolata.
Così stando le cose, a livello sistematico non avrebbe forse molto senso tentar di elaborare una riflessione generale sull'attività amministrativa nel suo complesso, il che spiega perché gli autori tendano a parlare di atti vere amministrativi, i provvedimenti, relegando tutti gli altri a mere amministrativi, oggetto al più di sporadici cenni.
Tuttavia, se si considera che di fatto manca anche una disciplina veramente generale del procedimento amministrativo – il che forse si può comprendere, attesa la radicale diversità fra richieste di grazia e provvedimenti di giustizia – e che anche le norme più incisive, dettate a proposito dei decreti, per lo più non comportano invalidità dell'atto se violate, riesce difficile evitare la conclusione che il Codice sia riuscito solo in parte ad assicurare ai fedeli una miglior tutela.
3. La disciplina comune (cann. 35-47)
3.1 Riflessioni introduttive
Introducendo il titolo De actibus administrativis singularibus, nel suo commento al Codice appena promulgato, Pedro Lombardía notava come dai lavori preparatori fosse risultato “un insieme di disposizioni di dubbia unità e di contenuto frammentario, che porranno difficoltà in merito alla loro comprensione ed applicazione, fino a quando la dottrina, la giurisprudenza e, con molte probabilità, anche le opportune riforme legislative non riusciranno a risolvere i problemi aperti”.[6]
Educata stroncatura di tutto l'articolato, ma in particolare dei cann. 35-47 ora in commento, la cui perdurante attualità sembra innegabile, visto che le riforme non si sono materializzate, l'apporto della giurisprudenza deve dirsi sporadico (data anche la deprecabile difficoltà di accesso alle decisioni della Segnatura) ed è lecito dubitare sia dell'unità della dottrina, sia della sua effettiva incidenza.
Invero, mette conto citar subito nuovamente l'illustre commentatore, proprio riguardo al can. 35, ossia la norma che più di tutte si approssima ad una definizione dell'atto amministrativo singolare: è ben vero, infatti, che vi si richiede la potestà esecutiva, ma la distinzione tra le funzioni non è poi così chiara, giacché “taluni di questi atti amministrativi sono riguardati come atti del legislatore (c. 76 §1), e possono perfino acquistare una particolare efficacia per il fatto di essere prodotti proprio dal legislatore (c. 90 §1)”.[7]
Si tratta di due particolarità, proprie rispettivamente del privilegio e della dispensa, sulle quali non occorre che ci soffermiamo adesso, ma che confermano – una volta di più – la sostanziale impossibilità di assimilare il diritto canonico agli ordinamenti amministrativi secolari.
3.2 L'interpretazione dell'atto amministrativo
Il can. 36, dal canto suo, riveste un'importanza teorica notevole in quanto disciplina l'interpretazione degli atti amministrativi: escludendo implicitamente che ci si possa in qualche modo rifare ai canoni sulle leggi, impone di fare riferimento al significato proprio dei termini secondo l'uso comune (che fa almeno tendenzialmente premio sui significati tecnici, importante monito sulla necessità che gli atti siano comprensibili per i semplici fedeli, quando ne sono i destinatari)[8] e soprattutto, nel dubbio, di privilegiare l'interpretazione ampia,[9] a meno che non si tratti di atti (solo in parte coincidenti con la tradizionale categoria odia restringenda, ma comunque) da interpretarsi strettamente perché
- infliggono o minacciano pene, oppure restringono i diritti della persona: qui si dà un'indubbia analogia con il can. 18;[10]
- “si riferiscono a liti”, primo accenno all'esistenza di un vero e proprio contenzioso amministrativo: sono sicuramente tali tutte le decisioni su ricorsi gerarchici, ma probabilmente anche i decreti di partenza, se la contesa è emersa nel corso dell'istruttoria e si è inteso dirimerla; tuttavia, anche le grazie attinenti all'ambito giudiziario debbono sottostare ad interpretazione stretta, vuoi in ragione dell'oggetto vuoi perché
- derogano alla disciplina comune a vantaggio dei privati – privilegi e dispense - oppure ledono diritti quesiti in capo ad altri, cioè a soggetti diversi dal destinatario: almeno storicamente, è stato soprattutto il caso dei privilegi.
In ogni caso, resta sempre esclusa l'estensione analogica dei provvedimenti (can. 36 §2). “Eventuali fattispecie simili, verificatesi in precedenza, potranno servire da orientamento o da guida, ma sarà sempre necessaria una nuova decisione ad hoc, senza che sia consentito interpretare o presumere che la volontà dell'autorità ecclesiastica debba essere identica a quella già manifetata in relazione ad altri casi, per quanto somiglianti possano apparire.”.[11]
3.3 La forma del provvedimento
Trattando degli elementi essenziali dell'atto amministrativo, Spinelli distingue tra la forma intrinseca, che “è data dalla dichiarazione di volontà o di cognizione dell'organo amministrativo: ad esempio, nel decreto di erezione di una confraternita, la dichiarazione di volontà è la stessa parte dispositiva con cui si erige l'associazione”, e “la forma estrinseca, scritta o orale, secondo come richiesto dal diritto canonico”.[12]
La distinzione ha una sua ragion d'essere, perché di fatto il provvedimento orale vanta una lunga tradizione e, perlomeno se reso in presenza di almeno due testimoni, si ritiene perfettamente valido sotto il profilo del diritto naturale (cfr. can. 55); tuttavia, il can. 37 limita l'applicabilità di questa regola richiedendo che si consegni un testo scritto - anche un processo verbale o un attestazione notarile della dichiarazione resa a voce - ogniqualvolta si tratti di provvedimenti che riguardano il foro esterno. Invero, la stessa Penitenzieria Apostolica rilascia documenti scritti pensati proprio per l'eventualità che la grazia, di per sé concessa per il solo foro interno, debba essere provata in foro esterno; [13]e se il can. 59 §2 conferma la piena validità delle grazie accordate vivae vocis oraculo, il can. 74 ribadisce la regola del can. 37 pretendendone la prova scritta, ogniqualvolta al beneficiario sia legittimamente richiesto di dimostrar l'avvenuta concessione.
L'importanza di questa regola non può essere sottovalutata: mi limito a citare un caso celebre, l'indulgenza della Porziuncola, che sarebbe stata ottenuta da S. Francesco durante una visita di Onorio III ad Assisi, ma per volere del Santo stesso non documentata per iscritto al momento; quando, alcuni decenni dopo, la fama del privilegio si diffuse oltre l'ambito locale in cui era notorio, sorse una controversia assai aspra circa la verità del fatto e furono necessari almeno due processi informativi che raccogliessero le deposizioni degli anziani del luogo.
Infine, sia dalla necessità di una “consegna” del testo scritto sia dalla validità dei provvedimenti emessi a voce si ricava la regola per cui l'atto amministrativo canonico è recettizio: il momento iniziale della sua efficacia coincide con il momento in cui perviene al destinatario, in termini di percezione effettiva e certa, oppure di conoscenza legale. Questa regola, importante soprattutto per i decreti perché segna anche il dies a quo per la proposizione dei ricorsi,[14] conosce però due deroghe di un certo momento:
- i rescritti immediatamente efficaci ossia concessi “in forma semplice” o “graziosa”, che non richiedono ulteriore attività amministrativa e, per definizione, contengono misure favorevoli al destinatario, hanno effetto dal giorno in cui il relativo documento viene sottoscritto (cfr. can. 62);[15]
- gli atti amministrativi della cui esecuzione sia stato incaricato qualcuno debbono anzitutto pervenire a lui in forma scritta, della cui autenticità egli si sia sincerato, oppure l'autore stesso deve averlo previamente informato; se intraprendesse l'esecuzione in difetto dell'uno o dell'altro presupposto, gli atti compiuti sarebbero nulli. Così il can. 40, su cui cfr. amplius infra, §3.5.
Si tratta comunque, come si può vedere, di eccezioni che confermano la regola, sia perché tengono ferma la necessaria intimazione del documento, sia perché si limitano – soprattutto la seconda – ad anticipare l'uso legittimo rispetto al momento in cui esso arriva a destinazione.
3.4 Necessità di clausole espresse (deroga alla legge o al diritto quesito; condizione per la validità)
Sebbene la potestà esecutiva comporti, in diritto canonico, anche la facoltà di derogare al disposto della legge in un caso particolare, oppure di incidere su diritti soggettivi ormai perfetti (si pensi alle unioni o soppressioni di persone giuridiche, o ai provvedimenti sulle pie volontà), il legislatore ha voluto precisare che l'esercizio di tali poteri non si presume, ma richiede una clausola apposita che manifesti la volontà in tal senso (can. 38).
Il richiamo all'“autorità competente” non deve far pensare che sia sempre necessaria la potestà legislativa, come pure è stato affermato da alcuni,[16] peraltro contro un facile argomento a contrario:[17] essa è invero necessaria per il privilegio, ma certamente non per la dispensa e, a mio parere, neppure per gli altri atti amministrativi, in quanto il precetto implica sempre il potere di creare una sanzione penale ad hoc, senza bisogno di potestà legislativa (cfr. can. 1319),[18] il rescritto a sua volta è sempre praeter o contra legem perché contiene una grazia (cfr. can. 59) e per il decreto, che in genere si pone come atto applicativo della legge, non vedo comunque ragione di escludere che l'autorità esecutiva possa, nel caso concreto, derogare al disposto legale per una soluzione più adeguata alle peculiarità di fatto. [19]
Quanto alla clausola derogatoria, non occorre il riferimento puntuale al canone cui si deroga, ma sembra necessaria almeno l'indicazione espressa del suo contenuto.
Analoga esigenza di dichiarazione espressa troviamo sottesa al can. 39, riguardo alle condizioni inserite nell'atto: se letteralmente la norma funge da precetto esegetico per i soli provvedimenti redatti in lingua latina (sempre meno numerosi), la sua portata è più ampia perché implica che, per regola generale, le condizioni non siano apposte ad validitatem; dunque tale effetto conseguirà a tutte, ma anche sole, le formule inequivoche in tal senso.[20]
In entrambi questi canoni è dato vedere un favor per la validità dell'atto, ma anche per la sua ordinarietà: l'esercizio della potestà esecutiva non dovrebbe comportare che in casi relativamente eccezionali la deroga alla legge[21] e, a sua volta, andrebbe per quanto possibile evitata la comminatoria di nullità di un atto amministrativo (favorevole o sfavorevole, perché il testo non distingue; ma la norma proviene dalla disciplina dei rescritti e, dunque, è pensata per l'accoglimento di domande di grazia).
Il trasgressore potrà essere richiamato all'ordine mediante un precetto, anche penale: questo rientra nell'ambito del tran-tran quotidiano ed è quasi visto con maggior favore; inoltre, l'inadempimento è causa ostativa legale all'esecuzione dell'atto (cfr. infra, §3.5); ma tra lasciarne gli effetti in sospeso e invalidarlo corre una differenza che il Codice preferisce non ignorare.
L'invalidità degli atti pregiudica la sicurezza delle situazioni giuridiche, perciò quest'ipotesi, avendo un che di eccezionale, si trova accostata, anche tipograficamente, a deroghe alla legge e misure lesive dei diritti acquisiti.
3.5 Esecuzione dell'atto amministrativo
Il termine “esecuzione” è molto equivoco per il giurista italiano, cui richiama immediatamente l'idea di un'attività materiale intesa a conformare il mondo esterno alla volontà espressa dall'atto amministrativo.
Nulla di più lontano dall'accezione canonica,[22] con cui si intende invece un'ulteriore attività giuridica, da cui dipende la stessa efficacia legale della decisione “a monte”: in un'ottica a noi più familiare, si tratta di un procedimento successivo di controllo, che può riguardare sia la legittimità sia, per certi versi, il merito del provvedimento già assunto e ne produce uno ulteriore, detto “atto di esecuzione”.
Per comprendere queste peculiarità, dobbiamo ricordare che la realtà istituzionale della Chiesa prevede un doppio livello di governo con competenza generale (S. Sede e singoli Vescovi), più una molteplicità di uffici le cui attribuzioni talora si sovrappongono; per secoli, la forma normale di esercizio del potere che oggi chiamiamo esecutivo è stata il rescritto, specialmente da parte del Papa ma anche dei Vescovi, e ciò significa in sostanza (allora come oggi) che autorità lontane dal territorio, che non hanno la materiale possibilità di verificare i fatti, accolgono nondimeno richieste da ogni parte del mondo, prendendo in larga misura per buona la prospettazione del richiedente, se in astratto risulta congrua a ciò che chiede.
Va da sé che un sistema del genere, per non ridursi ad una barzelletta all'istante, deve prevedere un meccanismo di controllo a posteriori, che permetta di verificare la verità di quanto affermato e anche, sulla scorta di un più ampio apprezzamento delle circostanze in loco, rivalutare se del caso l'opportunità della concessione: appunto in questo consiste l'esecuzione dell'atto amministrativo canonico, la cui disciplina è stata estesa anche agli atti diversi dai rescritti perché, nonostante il progresso nelle comunicazioni, la grande difficoltà di compiere in proprio le verifiche necessarie continua a riguardare l'intera attività amministrativa della Curia Romana.
Rispetto al passato, si nota forse una sua minor propensione ad intervenire e una tendenza, semmai, a trasmettere le pratiche ai Vescovi affinché provvedano in prima persona; ma l'istituto dell'esecuzione resta fondamentale per l'esercizio della funzione esecutiva.
Stante quel che si è appena detto, non stupirà troppo apprendere che l'esecutore è “generalmente […] un'autorità ecclesiastica di grado inferiore rispetto al rescribente, e più vicina al richiedente”, la cui attività, essendo “in senso stretto, un'attività di controllo diretta ad evitare abusi nell'uso di taluni documenti ufficiali”, può consistere anche nella vera e propria decisione se concedere o meno quanto richiesto (can. 70):[23] in questo caso, il provvedimento dell'autorità superiore, tradizionalmente detto “rescritto in forma commissoria libera”, non contiene tanto una risposta favorevole alla richiesta quanto una vera e propria delega di potestà, anche se magari con qualche condizione. I
nvece, i cann. 40 sgg. si occupano particolarmente dell'altra ipotesi, il tradizionale “rescritto in forma commissoria necessaria”, in cui la concessione è già avvenuta e l'esecutore deve espletare una semplice, ma non scontata attività di controllo ex post.
In ambedue le ipotesi, il can. 40 gli impone anzitutto una verifica materiale sul documento che gli perviene e lo incarica: l'esigenza di sincerarsi anzitutto che esso sia autentico ed integro nasce dai tempi in cui la falsificazione dei documenti pontifici era fin troppo frequente; in concreto, siccome sarebbe difficile dimostrare l'omissione di tale adempimento (e se di fatto il rescritto o altro provvedimento da eseguirsi fosse falso, opererebbero rimedi diversi, a monte sul piano logico), la nullità dell'esecuzione qui comminata riguarda soprattutto il caso dell'esecutore che intraprende l'attività prima che gli arrivi la lettera ufficiale di incarico.
E giustamente, perché solo da essa egli può apprendere le condizioni precise cui deve attenersi.
A meno che, e qui sta la ratio dell'eccezione, non sia l'autore stesso dell'atto ad anticipargli in forma orale il contenuto di quanto comunque dovrà fargli pervenire per iscritto. Qui, tuttavia, la difficoltà di prova si ribalta su di lui, che perciò in concreto dovrà limitarsi quasi sempre ad attività preparatorie che non gli richiedano di dimostrare l'incarico ricevuto.
Va notato che l'atto può pervenire all'esecutore in due modi: per notifica da parte dell'autorità superiore che l'ha emanato, oppure perché il destinatario finale, cui esso viene trasmesso direttamente dall'autore, ha l'onere di presentarlo per l'esecuzione.
Quest'ultimo è il caso, tipicamente, dei rescritti della Penitenzieria Apostolica, che vanno consegnati al penitente affinché possa presentarli al confessore che preferisce.
Il can. 40, però, obbliga in entrambi i casi, anche se l'apertura della busta da parte del destinatario potrebbe complicare un poco le verifiche: questo è senz'altro uno dei motivi per cui, tuttora, i Dicasteri della Curia Romana utilizzano, per tutti gli atti per cui ritengano plausibile una presentazione alle autorità locali in avvenire, un tipo speciale di carta filigranata, simile alla pergamena nel colore e piuttosto spessa, che reca in trasparenza il simbolo delle chiavi decussate: oggigiorno, caduti in disuso i sigilli, questo è il principale signum authenticitatis.
Il can. 41 entra nel vivo stabilendo in quali casi l'esecutore, pur non essendo libero (“forma commissoria necessaria”), possa legittimamente negare l'esecuzione:
- nullità dell'atto, ipotesi che si spiega da sé, ma che deve “apparire manifestamente”, coe potrebbe essere il caso dell'incompetenza o di talune violazioni di legge;
- inadempimento delle condizioni poste, che paralizza gli effetti dell'atto in un'ottica che ricorda il contratto a prestazioni corrispettive (e risente, forse, proprio della vecchia teoria che vedeva nel rescritto un contratto); il rimedio ha comunque una sua linearità e logica;
- per grave causa, diversa dalla nullità ma che deve a sua volta apparire manifestamente, l'atto non può essere sostenuto, norma di chiusura che difficilmente si potrebbe predeterminare ex ante, ma che, pensando alla disciplina dei rescritti, possiamo immaginare corrisponda alla scoperta di circostanze che, se conosciute, sicuramente avrebbero indotto l'autore ad emettere un provvedimento di tutt'altro tenore; in ogni caso, deve trattarsi di elementi davvero ostativi e non di semplice inopportunità.
Inoltre, è prevista anche la sospensione, qualora eseguire l'atto sembri “inopportuno a motivo delle circostanze di persona o di luogo”: ad es. “un motivo di scandalo, dal momento che la persona cui […] viene dato un privilegio o una facoltà, non è affatto quella persona degna che si stimava; oppure perché in un certo contesto potrebbe prestarsi a cattive interpretazioni”.[24]
In simili circostanze, l'esecuzione, se iniziata, va interrotta.
Tanto nei casi di rifiuto quanto di sospensione, l'esecutore è tenuto a ricorrere immediatamente all'autore dell'atto e spiegargli la situazione, in modo che possa assumere i provvedimenti più opportuni. Che potrebbero anche consistere, in ipotesi, nella conferma dell'atto stesso e della necessità di eseguirlo, che però verrebbe assunta a ragion veduta; ed è questo lo scopo ultimo del procedimento di controllo.
Tutti gli esecutori, ai sensi del can. 42, debbono agire nel rispetto del mandato ricevuto; la norma serve soprattutto a circoscrivere l'invalidità degli atti compiuti, limitata al mancato adempimento di condizioni essenziali (da identificarsi ai sensi del can. 39)[25] o nell'inosservanza di “substantialem procedendi formam”, che impone il rispetto delle norme di procedura prescritte dalla legge a pena di nullità per quel particolare tipo di atto.
Nel silenzio della legge, sembra preferibile ammettere che, ai sensi del can. 129 §2, il mandato possa esser conferito anche a laici, se gli atti di esecuzione non richiedano di per sé l'esercizio della potestà di Ordine.[26]
Inoltre, il can. 43 consente sempre all'esecutore di nominare un proprio sostituto, sicché non si applicano le restrizioni del can. 137 in tema di suddelega; in caso di divieto espresso, predeterminazione del sostituto o scelta dell'esecutore per intuitus personae, gli è comunque consentito affidare ad altri il compimento degli atti preparatori del vero e proprio provvedimento di esecuzione.[27] Il can. 44 consente il subentro automatico del successore nell'ufficio, salvo il caso dell'intuitus personae, però non libera automaticamente l'esecutore originario, che dovrà rinunciare ai sensi del can. 142.[28]
Infine ma non da ultimo, il can. 45 stabilisce che il potere di eseguire l'atto non si consuma una volta esercitato, ossia, se è stato commesso qualche errore – e si può pensare sia a quelli invalidanti ex can. 42, sia a quelli che creano comunque un “giusto motivo” di ricorso – resta sempre possibile ripetere l'esecuzione.
Il che può anche portare ad un provvedimento finale almeno in parte diverso.
Sebbene il Codice non ne parli, è solitamente prevista la comunicazione all'autorità delegante dell'avvenuta esecuzione o anche di copia dell'atto stesso.
3.6 Revoca e cessazione dell'atto amministrativo
La disciplina generale si limita a due disposizioni scarne, i cann. 46 e 47, che, pur essendo molto importanti, sono inidonee ad esaurire l'argomento.
A mente della prima, i provvedimenti non vengono meno quando cessa la potestà del loro autore, sia essa ordinaria o delegata, a meno che il diritto non disponga altrimenti; in altri termini, l'atto amministrativo inerisce all'istituzione ecclesiastica come tale e non va visto come un comando personale di chi lo ha posto.
Fa eccezione però, ai sensi del can. 58 §2, il precetto impartito a voce o comunque senza “legittimo documento”: in tal caso, si ritiene che il suo autore, pur esercitando il potere, non abbia voluto legare le mani al proprio successore in alcun modo. Stesso discorso, ai sensi del can. 81, per le concessioni di favori munite della clausola “Ad beneplacitum nostrum” o di altra equivalente.
Dal canto suo, il can. 47 si limita a disciplinare il momento di efficacia della revoca, facendolo coincidere con la notifica al destinatario, il che conferma il carattere di ricettizietà generale dei provvedimenti amministrativi. Tace, tuttavia, sui modi in cui la revoca stessa può prodursi; per consenso generale, essa può essere tacita oltreché espressa.
Quando si debba valutare in concreto se due provvedimenti siano incompatibili, si applicano per analogia gli stessi criteri previsti per la legge: prevale sempre quello più specifico, così come, ai sensi del can 20, nel dubbio è sempre salvo il ius proprium; tra atti egualmente particolari o egualmente generali, prevale il successivo, tranne nel caso dei rescritti, che vengono emessi su richiesta, dove prevale l'anteriore (cfr. can. 67) per scoraggiare una moltiplicazione abusiva delle domande.[29]
Si noti, infine, che tra le cause di cessazione non è previsto il venir meno della legge che l'atto singolare era volto ad eseguire: ciò dipende dal fatto che, in proposito, il legislatore ha previsto soluzioni differenziate per i vari tipi legali di atto.
[1] Definizione tratta da un provvedimento della Segnatura cit., senza ulteriore identificazione, in P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 194, che però, nonostante il carattere per certi versi “ufficiale”, non fa che spostare il problema sull'individuazione di una potestà propriamente amministrativa e dei suoi titolari.
[2] M. López Alarcón, Sobre algunos aspectos del Derecho Administrativo de la Iglesia, in Anales de la Universidad de Murcia 25 (1966/7), pagg. 5-28, qui pag. 20, trad. in E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 294.
[3] Cfr. L. Spinelli, Atto amministrativo. II) Diritto canonico, in Enciclopedia Giuridica Treccani vol. IV, Roma 1987, §1.2: “Con la denominazione di atto amministrativo, nell'ordinamento della Chiesa, si vuole indicare l'atto posto in essere da un organo ecclesiastico nell'esercizio di una funzione amministrativa, nell'espletamento cioè di attività che per legge è di competenza dell'organo medesimo. Si aggiunga che, se l'atto dell'autorità amministrativa ecclesiastica è capace di produrre delle modificazioni nella posizione giuridica dei fedeli, a prescindere dalla volontà di una loro eventuale adesione, è da ritenere che tale atto rientri nella nozione di provvedimento amministrativo canonico per il carattere di impositività che lo distingue. Ci sembra opportuno, infine, sottolineare una considerazione di carattere generale. Se si tiene presente la natura specifica della Chiesa, i suoi compiti e i suoi fini, viene fatto di cogliere nell'atto amministrativo ecclesiastico il carattere di servizio alle necessità del Popolo di Dio.”. Nel prosieguo, egli nota altresì che, mentre i provvedimenti debbono avere una causa finalis proxima che giustifichi la specifica manifestazione di volontà che contengono, il rilascio di singoli certificati non ha alcuno sopo ulteriore rispetto al generico e generale riferimento al bene pubblico.
[4] Per ulteriori riferimenti circa le definizioni dottrinali prima e dopo il CIC 83, cfr. E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pagg. 292-5, e P.V. Pinto, Diritto amministrativo..., cit., pagg. 189-200.
[5] Cfr., tra le più recenti, Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto definitivo 22 ottobre 2014, c. De Paolis, in causa 47637/13 CA, Dimissionis a consociatione, in Apollinaris 89 (2016) 379-3 (e 383-7 per la trad. it.): il diritto alla difesa consiste semplicemente “in notione summaria rationum” del provvedimento lesivo e nella facoltà di addurre prove ed argomenti dinanzi al superiore gerarchico, in sede di ricorso; “Non requiruntur tandem, in recursu hierarchico, iuxta constantem H.S.T. iurisprudentiam, contradictorium iudiciale, publicatio actorum, mterrogatio testium et colloquium cum Praeside Dicasterii.” (ivi, pag. 381). Dinanzi alla Segnatura, il ricorrente gode delle garanzie del processo giudiziale e la possibilità di compiere l'istruzione probatoria viene espressamente prevista dalla Lex Propria; ignoro, tuttavia, con quanta frequenza ciò avvenga, anche perché il Supremo Tribunale giudica della legittimità degli atti e solo “a valle” del risarcimento dei danni.
[6] P. Lombardía, ad Tit. IV Lib. I, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pag. 96. Sostanzialmente nello stesso senso, mi sembra, E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 296: “La povertà di contenuto delle norme comuni può forse dipendere dal fatto che le due grandi classi di atti amministrativi – i decreti e i rescritti – hanno molto poco in comune. […] Eppure, se si prendesse come riferimento comune la disciplina dei decreti, e a questa si approssimasse, per quanto possibile, la disciplina dei rescritti, evitando però di travisarne il senso, la regolamentazione di questi atti formali potrebbe essere più omogenea.”. Storicamente è avvenuto l'inverso: le attuali norme generali sono state desunte dalla disciplina dei rescritti, che è sempre stata molto dettagliata. Oggi, però, i decreti sono l'unico atto rispetto a cui si dia almeno un embrione di disciplina del procedimento amministrativo.
[7] P. Lombardía, op.cit., pag. 97.
[8] Questo ovviamente non esclude del tutto il linguaggio tecnico, né l'impiego delle formule consuete nelle risposte dei Dicasteri di Curia; impone però di calibrare il linguaggio sulla persona dei destinatari e sul loro grado almeno presumibile di comprensione della volontà se esternata in tali termini.
[9] Ma sempre con il limite di evitar di scantonare in una lettura contra legem, che porterebbe problemi di validità.
[10] Vi rientra senza dubbio anche il caso di trasferimento della proprietà di alcuni beni da un monastero ad un altro, deciso (anche) sulla scorta di questa norma da Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Sentenza definitiva 13 giugno 1987, c. Stickler, in causa prot. n. 12230(70 CA, Legionen. - Restitutionis depositi, in P.V. Pinto, Diritto amministrativo..., cit., pagg. 491-5.
[11] J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 207.
[12] L. Spinelli, Atto Amministrativo..., cit., §1.4. In particolare, “Devono necessariamente essere manifestati per iscritto”, oltre ai rescritti, “gli atti che sono detti lettere” (cann. 267, 382, 404-5, 548, 903, 1018-23, 1051): E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 381. Non è del tutto corretto, viste le considerazioni di cui supra nel testo, quanto scrive V. de Paolis, Il Libro I del Codice: norme generali (cann. 1-203), in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 324: “La forma scritta dell'atto amministrativo in foro esterno […] è esigita dalla natura stessa dell'atto, che è esterno, e perché esista una prova”, tant'è vero che l'A. stesso deve subito aggiungere che “Assolutamente parlando l'atto amministrativo può essere esternato e provato anche con altri mezzi”.
[13] Cfr. E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 299, nel senso che il can. 37 “esige la presentazione per iscritto dell'atto amministrativo quando riguardi il foro esterno.”.
[14] Cfr., per un vero caso-limite, Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Sentenza definitiva 12 dicembre 1972, c. Staffa, in causa Amalphitana – Iurium, prot. n. 324/69 CA, in P.V. Pinto, Diritto amministrativo..., pagg. 398-403: il decreto della S.C. del Concilio che dirimeva la controversia era stato emesso il 14 luglio 1965, ma non inviato sul momento, perché si è pensato di consegnarlo a mano al destinatario, l'Arcivescovo di Amalfi, atteso a Roma; la sua malattia e la successiva morte, però, hanno fatto finire la questione del dimenticatoio, tanto che la notifica (al suo successore) è avvenuta solo con lettera 27 marzo 1969. Ebbene, proprio questo ritardo ha reso esperibile il rimedio, infine vittorioso per l'Arcidiocesi fino ad allora soccombente, del ricorso in Segnatura: il Supremo Tribunale aveva ed ha competenza a sindacare solo gli atti posteriori al 1 gennaio 1968, ma ha equiparato la notificazione ad una condizione di esistenza dell'atto, per analogia con la promulgatio legis; in tal senso, più che la sentenza, che si limita ad un cenno conclusivo, soprattutto il passaggio preliminare sull'ammissibilità: cfr. Ead., Decreto del Congresso 22 giugno 1970, causa cit., in Apollinaris 44 (1971), pagg. 25-7 (“Decisio impugnata completa non erat ante vigentem competentiam Signaturae Apostolicae, cum defuerit notificatio ante id tempus facta; notificatio autem respondet elemento promulgationis in lege.”).
[15] Proprio un elemento in apparenza del tutto formale come l'apposizione della data, in passato, ha costituito il fondamento della competenza “trasversale” via via sviluppata dalla Dataria Apostolica, appunto perché ne dipendeva tutta una serie di effetti giuridici, allora anche molto rilevanti (si pensi alla decorrenza della titolarità di un beneficio e al diritto di percepirne i redditi). Oggi il punto è assai meno importante, ma il can. 62 conserva una propria utilità: non solo opera di fatto come una sorta di “sanatoria” degli atti compiuti tra il momento della concessione e quello in cui il documento perviene, ma rende pienamente legittimo l'uso della grazia anche in foro esterno, non appena si sappia che è stata concessa, “per esempio è valido e lecito l'uso, mediante telefono”. M. da Casola, Compendio di Diritto Canonico, Genova 1967, pag. 98.
[16] Cfr. P. Lombardía, ad can. 38, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice..., cit., pag. 98, pur con uina sfumatura di dubbio (“non sembra che chi è titolare della sola potestà esecutiva abbia la necessaria competenza per sancire simili clausole derogatorie, a meno che gli sia stata concessa una tale facoltà per mezzo di una legge o per delega del legislatore”); nello stesso senso V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pag. 325. Sembrano tralasciare il problema P.V. Pinto, Diritto amministrativo..., cit. (che, a pag. 252 nt. 633, implica che la violazione del can. 38 implichi l'inesistenza giuridica dell'atto, ma nulla dice, salvo errore, su quale sia l'autorità competente) ed E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994. Contra, invece, nel senso della sufficienza della potestà esecutiva, I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pagg. 571-2, testo e nt. 30, e J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio..., cit., pagg. 210-1.
[17] Se il can. 38 richiedesse necessariamente la potestà legislativa, infatti, sarebbe superflua la parte relativa ai diritti acquisiti: basterebbe il can. 9 ad imporre al legislatore un intervento espresso; invece, il senso del can. 38 in parte qua sta proprio nel consentirlo al titolare di potestà esecutiva, per il caso in cui il legislatore non abbia previsto la retroattività nella nuova legge.
[18] Cfr. in tal senso E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 315.
[19] Infine, rispetto alle licenze (can. 59 §2), deve osservarsi che esse hanno natura di atti vincolati e che all'autorità è accordato il solo potere di riscontrare l'esistenza delle condizioni richieste. Tuttavia, perfino il semplice esecutore dell'atto amministrativo ha un certo margine per rifiutare l'esecuzione, sebbene in casi eccezionali (cfr. can. 41): mentre non credo che il can. 38 possa mai rendersi necessario per il rilascio di una licenza, sarei dell'avviso di consentir la sua mancata concessione nei casi contemplati dal can. 41, estendendolo per analogia.
[20] In tal senso, cfr. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio..., cit., pagg. 212-3.
[21] Cfr. V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pag. 325: “Si suppone infatti che l'autorità competente voglia procedere a norma di legge, anche se ha l'autorità di derogare alla legge.”.
[22] Beninteso, la possibilità di un'esecuzione forzata è prevista dal Codice per le sentenze e può darsi anche rispetto ai provvedimenti; ma quando si parla di “esecuzione dell'atto amministrativo” si intende un'altra cosa.
[23] P. Lombardía, ad can. 62, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice..., cit., pagg. 107-8.
[24] V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pag. 329.
[25] E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 397, aggiunge “altri requisiti legali”, ma non mi pare questo il caso. Certo, il mandato è una delega e quindi deve provenire, ad es., da un'autorità competente sulla materia, e così via. Però il canone non si sta preoccupando dei vizi propri del mandato, bensì dei comportamenti difformi rispetto al suo contenuto: le condizioni sono sempre poste dal suo autore, mentre i requisiti legali pertinenti vanno, semmai, ravvisati nella “procedura sostanziale”. Invece, esempi addotti per essa dal Labandeira - “si pensi alla presa di possesso di un ufficio, al sacramento della penitenza quando l'esecuzione deve essere realizzata nel foro sacramentale, al rinnovo del consenso che deve prestarsi per convalidare il matrimonio, ecc.” (ibid.) - mostrano che egli, con tutto il rispetto, va a confondere i requisiti sostanziali del modo in cui si esegue con quelli dello stesso atto di esecuzione.
[26] Cfr. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio..., cit., pag. 202.
[27] Vale probabilmente anche qui ciò che scrive E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 393, a proposito del mandato originario: esso “è valido senza che sia necessaria l'accettazione dell'esecutore. Senza dubbio, visto che la realizzazione di questo mandato costituisce un compito per l'incaricato, questi non è obbligato ad impegnarsi a meno che il Superiore che ha prodotto l'atto non abbia un vero potere di imporgli un tale compito”.
[28] Diversamente, mi sembra, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio..., cit., pag. 203, e con più decisione E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 394, che sono per la sostituzione automatica; ma il testo dice “potest etiam...”, aggiunta con sfumatura di eccezionalità, e da nessuna parte sta scritto che la potestà delegata viene meno per la perdita dell'ufficio ricoperto, quand'anche fosse stato la ragione per cui la delega è stata conferita (cfr. can. 142 §1).
[29] Cfr. anche i cann. 64 e 65, che tuttavia non vietano di presentare più istanze senza farne menzione alle diverse autorità adite, la cui potestà resta indipendente, perché ex can. 139 non opera il principio della prevenzione.