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Foro interno e foro esterno

Vaticano
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Can. 196 CIC 1917.Potestas iurisdictionis seu regiminis quae ex divina institutione est in Ecclesia, alia est fori externi, alia fori interni, seu conscientiae, sive sacramentalis sive extra-sacramentalis.

Occorre inoltre confermare sia l'indole giuridica del nostro Codice in ciò che riguarda il foro esterno, sia la necessità del foro interno come giustamente è rimasto in vigore per secoli nella Chiesa. Perciò nel nuovo Codice si daranno norme riguardanti tutti quegli aspetti che si riferiscono al foro esterno, ma anche, dove lo richieda la salvezza delle anime, norme riguardanti provvedimenti da elargirsi in foro interno.

Bisogna che nel CIC si abbia il miglior coordinamento del foro interno ed esterno, affinché qualsiasi conflitto tra i due scompaia o sia ridotto al minimo. Questo dev'essere tenuto presente in particolare nel diritto sacramentale e nel diritto penale.

[Pontificia Commissione per la riforma del Codice di Diritto Canonico, Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant (1967), Principium II – De fori interni et externi positione in iure canonico]

 

Can. 130 - “La potestà di governo di per sé è esercitata nel foro esterno, talora tuttavia nel solo foro interno, in modo tale però che gli effetti che il suo esercizio ha originariamente nel foro esterno, in questo foro non vengano riconosciuti, se non in quanto ciò è stabilito dal diritto per casi determinati.

 

1. Origine della distinzione

Prima di poterci dedicare allo studio degli atti amministrativi singolari, dobbiamo affrontare un ultimo punto preliminare, relativo alle loro sfere di possibile efficacia: soprattutto a tal proposito, infatti, viene in rilievo la distinzione tra foro interno e foro esterno. In effetti, sebbene la cosa possa sorprendere, essa è piuttosto recente e nasce proprio da un problema di riparto di competenze ad emettere atti – che oggi consideriamo – amministrativi.

I primi secoli dell'evo cristiano, naturalmente, vedevano già i Vescovi attivi in ambito propriamente giudiziario, ma l'unica distinzione loro nota al riguardo era un'eccezione alla regola generale della penitenza pubblica, che non veniva mai imposta per i peccati occulti (la confessione, comunque, avveniva sempre in segreto); ancora Graziano, sembra, era fermo a questo punto, sebbene la penitenza privata fosse predominante fin dall'età carolingia; e anche quando, dalla fine del XII sec. in avanti, si è cominciato a parlare di un forum conscientiae inteso come un iudicium distinto dal processo ordinario (anche sulla scorta dell'incipiente distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis), il significato dell'espressione corrisponde sempre, in sostanza, ai peccati occulti che vengono giudicati in segreto; l'unico problema nuovo è se il confessore abbia o meno giurisdizione per assolvere.[1]

La situazione cambia, però, con il Concilio di Trento, che, tra le disposizioni di riforma approvate all'ultima sessione, conferma la legittimità della riserva di casi giudiziari alla Sede Apostolica, ma in un certo qual modo la controbilancia prevedendo un potere dei Vescovi di “dispensare” (assolvere) dalle pene, purché si tratti di delitti occulti.[2] Gli autori, dovendo chiarire quando, in concreto, operasse la riserva in favore della S. Sede e quando, invece, fosse possibile il ricorso al Vescovo, quasi per forza di cose sono giunti a teorizzare due “fori” id est “ambiti di giurisdizione” distinti, reimpiegando la vecchia fraseologia a proposito del forum conscientiae in un'accezione affine alla precedente,[3] ma nuova nel significato, come nuovo era il problema da affrontare. Per la precisione, il primo a parlare di forum internum e di interior iurisdictio, e già comprendono anche un ambito extrasacramentale, è stato Francisco Suárez,[4] che anche in questo caso – come un po' per tutta la teoria generale del diritto canonico - ha fatto scuola.[5]

 

2. L'ambito proprio del foro interno

Qui occorre sgomberare subito il campo da un equivoco in cui è facile cadere e, di fatto, non pochi cadono.

Unitamente alle predette origini storiche, il fatto che il foro interno sia chiamato anche “foro della coscienza” o che se ne parli come de “la sfera interiore di ogni singola persona”,[6] o si dica che quest'ambito riguarda le relazioni tra i singoli fedeli e Dio[7] (talvolta chiamandolo forum poli, contrapposto al forum fori),[8] può ingenerare facilmente la convinzione che esso riguardi unicamente la sfera interiore, gli atti interni di pensiero e di volontà che non sboccano in una manifestazione esterna. Con il possibile, ulteriore corollario che soltanto il foro esterno sarebbe intersoggettivo e veramente giuridico, l'interno apparterrebbe piuttosto alla sfera teologico-morale.[9]

Senonché, la norma definitoria del CIC 1917,[10] riportata in epigrafe, ci avverte che la comprensione della Chiesa al riguardo è diversa: nell'espressione “foro interno”, il termine “foro” va inteso nel senso tecnico di “ambito di esercizio della potestà”, per tale intendendosi una vera potestà di governo, sebbene distinta in maniera piuttosto netta da quella di foro esterno;[11] inoltre, non bisogna pensare soltanto al foro interno sacramentale - corrispondente al Sacramento della Confessione - giacché la potestà in discorso può esercitarsi anche in forme extrasacramentali.[12]

Quanto poi all'estensione di siffatto foro, tenuto conto di questi due modi possibili di esercizio, si può dire che “appartengono al foro interno: a) tutte le azioni in quanto siano considerate sotto l’aspetto del peccato, quindi anche i delitti, non in quanto turbano la società, ma in quanto turbanola coscienza; b) tutte le azioni occulte, finché restano occulte (quando diventano pubbliche passano al f. esterno se di loro natura appartengono a questo); c) le facoltà dirette al bene delle singole anime: così la facoltà di predicare tende direttamente a persuadere ogni individuo della verità cattolica; la facoltà di assolvere tende al perdono delle colpe dei singoli. Appartengono al f. esterno: a) il potere legislativo, giudiziario, esecutivo; b) il potere di concedere la facoltà di predicare e di assolvere, ecc., perché è direttamente di utilità pubblica che siano designati ministri che predichino, assolvano, ecc.”.[13]

Insomma, il foro interno abbraccia in realtà anche le azioni esterne, vuoi quando sono considerate sotto l'aspetto del peccato (e quindi sottoposte al confessore o al direttore spirituale), vuoi nel caso in cui siano occulte, cioè impossibili a provarsi in un processo ordinario[14] perché note soltanto all'interessato, o ad un'altra persona al massimo (dato che vale il principio “Testis unus, testis nullus”, sulla scorta del detto evangelico “In duorum vel trium testium ore stet omne verbum”).[15] In questo senso, si potrebbe forse dire che esso ha carattere residuale, nel senso che arriva là dove non arriva il foro esterno, tanto che gli cede il passo se l'azione, da occulta, diventa pubblica cioè passibile di prova in giudizio[16] (ad es. per autodenuncia del colpevole, che ovviamente ha valore confessorio e quindi può fare prova, anche piena);[17] ma se guardiamo alla ragion d'essere della potestas regiminis come tale, sembra più opportuno considerare i due fori complementari.

Il foro esterno infatti, come si sarà ben capito, è l'ambito che siamo abituati a considerare proprio del diritto e che di fatto viene inciso dalla normazione di qualunque societas: con la possibile eccezione dei regimi totalitari, i gruppi umani organizzati tendono a disinteressarsi degli atti occulti, a fortiori degli interni, e comunque non ritengono di poterli sottoporre ad una potestà coercitiva realmente efficace. Ma la Chiesa non può limitarsi a dettare norme ordinate al bene comune dei propri fedeli, perché la causa finalis dell'intero ordinamento canonico è la salus animarum intesa come salvezza di ogni singola anima;[18] come non potrebbe mai abbandonare a sé stesso un peccatore solo perché si tratta di un peccato interno od occulto, allo stesso modo non è libera di disinteressarsi di altri atti che non sono pubblici, ma pongono problemi di coscienza rilevanti. E qui, finalmente, si chiariscono le espressioni impiegate in esordio, giacché la potestà di foro interno attinge, senza dubbio, la sfera interiore e i rapporti dell'uomo con Dio.[19]

A quest'ultimo riguardo, appare opportuno precisare che – per la dottrina cattolica qual è stata definita al Concilio di Trento – l'assoluzione impartita dal confessore al penitente è un vero e proprio esercizio di giurisdizione: appunto la potestà di foro interno sacramentale. Ma basta considerare come accada ogni giorno che il Sacramento riguardi anche azioni esterne e pubbliche, o che viceversa, nella Chiesa latina, esistono sanzioni penali capaci di colpire anche i casi occulti, ossia le scomuniche latae sententiae,[20] per comprendere sia l'estensione penetrante della iurisdictio ecclesiastica, unica nel suo genere, sia la necessità di coordinare il suo esercizio nell'uno e nell'altro foro.

 

3. Il problema del coordinamento tra i due fori

Noi siamo abituati ad un'organizzazione amministrativa articolata per competenze esclusive, che semmai si coordinano all'interno del singolo procedimento, mediante la nota varietà di forme che va dal parere fino alla conferenza dei servizi, per non parlare dei controlli preventivi o successivi. Il diritto canonico funziona in maniera nettamente diversa e, in verità, non potrebbe fare altrimenti: iure divino, infatti, per ogni fedele esistono due Superiori con giurisdizione piena, immediata ed anche universale, il Papa e il Vescovo;[21] iure humano, sono state aggiunte figure ulteriori, diverse secondo i tempi e i luoghi, tra cui oggi principalmente i Dicasteri della Curia Romana e i Vicari generali. Quindi, la pluralità di competenze concorrenti – non solo in ambito amministrativo, ma, sebbene in misura minore, anche legislativo o giudiziario – costituisce un dato fisiologico del sistema, anzi è vista con un certo favore, almeno in ambito locale, e soltanto presso la Curia Romana si è optato per un riparto ratione materiae che favorisca la specializzazione dei vari organismi, ma senza con ciò evitare del tutto le possibili sovrapposizioni di competenze perfino a livello centrale. Rebus sic stantibus, naturalmente esistono regole di coordinamento, tutte più o meno improntate al criterio della prevenzione (cfr. i cann. 64, 139, 1415, 1417), e altre che mirano ad evitare il c.d. “forum shopping” (cann. 65 e 1488 §2).

Tali norme, tuttavia, non vengono considerate adatte a regolare i possibili contrasti tra i due fori. Ciò anzitutto per la speciale conformazione della potestà di foro interno, che è “principalmente ordinata ad solvendum, non il diritto divino ma l'obbligo che, mediante l’azione umana, è stato contratto davanti a Dio: con il peccato, con il giuramento, con il voto, ecc., oppure l'obbligo che dalla legge ecclesiastica è sorto di fronte a Dio (cf. L. Billot, Tractatus de Ecclesia Christi, 3a ed, I, Roma 1899, pp. 456-66). Gli stessi precetti che si possono imporre nel f. interno, come, ad es., la Penitenza sacramentale, l’opera nella quale è commutato il voto, ecc., sono diretti alla soluzione del vincolo contratto nel f. divino.”.[22] Invero, anche quando non si tratti del foro sacramentale, dov'è in gioco l'assoluzione dal peccato, si è sempre davanti ad un'anima alle prese con un impaccio sulla via della salvezza e ad un potere che, in linea di principio, è volto a liberarla. Già solo per questo, un possibile conflitto con il foro esterno non potrebbe essere evitato o risolto mediante un criterio formale come la prevenzione; in più, il ricorso al foro interno non è visto affatto come un espediente per imbrogliare il sistema, ma semmai come il momento in cui si fa emergere la verità e si raggiunge il più alto livello di giustizia possibile in terra, quindi non si può nemmeno pensare di vietarlo.

Così, la regola generale in subiecta materia – che troviamo sottesa al can. 130 – mira piuttosto ad escludere in radice le possibilità di conflitto tra i due fori, affermando che l'esercizio della potestà in foro esterno genera anche un obbligo in coscienza, un dovere morale di obbedire;[23] viceversa, quel che avviene in foro interno resta confinato in tale ambito. E quindi, giusto per fare un esempio solo in apparenza banale, un ladro non potrà eccepire, dinanzi al giudice, di essere già stato assolto in confessione; anzi, ferma comunque la remissione del peccato, sarà semmai il confessore stesso ad imporgli di restituire il maltolto, se non anche di costituirsi presso le autorità.[24] Ma ogni regola generale patisce eccezioni, specialmente poi se è in gioco il bene delle anime: in altre parole, si può dare l'esigenza di far emergere e prevalere l'esito del giudizio di foro interno, il che avviene sempre per evitare il peccato del singolo fedele o di altri. Il can. 130 si limita a prevedere la possibilità astratta del riconoscimento in foro esterno degli effetti dell'atto compiuto in foro interno, che mancava nel can. 202 CIC17[25] e la cui carenza aveva dato origine alla maggior parte dei problemi di coordinamento;[26] altre norme regolano le singole ipotesi, ciascuna delle quali richiede una disciplina apposita.[27]

Come in parte si desume già dalla trattazione svolta fin qui, le ipotesi in parola riguardano tipicamente:

  1. una sanzione latae sententiae non dichiarata, oppure
  2. impegni che ci si è assunti dinanzi a Dio con voto o con giuramento, da cui si desideri essere sciolti per valide ragioni (cfr. cann. 1191-1204);
  3. i vari casi di irregolarità, ossia l'aver ricevuto o esercitato gli Ordini sacri nonostante la presenza di un impedimento legale perpetuo, che è diverso da una pena latae sententiae anche se spesso concorre con essa; in genere, infatti, l'irregolarità consegue bensì a qualche delitto, ma l'ignorantia iuris non scusa dalla sua osservanza e, comunque, si dà almeno un caso di irregolarità incolpevole, le forme di pazzia che rendano inidonei al sacro ministero (cfr., su tutto l'argomento, i cann. 1041-9);[28]
  4. da ultimo, per così dire al confine tra foro interno e foro esterno, si agita spesso la questione della nullità matrimoniale che non si riesce a dimostrare in giudizio, ma al cui riguardo il soggetto nutre una vera certezza morale, ad es. perché sa perfettamente di aver apposto una riserva mentale al proprio consenso.[29]

Riguardo a quest'ultima ipotesi, nella presente sede possiamo limitarci a dire che si è sempre cercato di favorirne l'emersione in sede giudiziale, valorizzando le dichiarazioni delle parti quali indispensabili elementi conoscitivi, anche fino al punto di attribuire ad esse valore di prova piena, seppur non senza cautele.[30] Le altre meritano che si spenda qualche parola in più.

 

4. La rimessione delle pene latae sententiae non dichiarate (can. 1357)

Si è accennato in esordio all'antica prassi della penitenza pubblica: benché sia caduta in disuso ormai da secoli, ne sopravvive un residuo, oggi disciplinato al can. 1340, e sembra bene parlarne in questa sede perché va tenuto distinto dalle penitenze imposte dal confessore.

Ai sensi di detto canone, nell'ambito dei poteri discrezionali che spettano all'Ordinario quando deve valutare l'opportunità di un processo, rientra la facoltà di sostituire l'inflizione di una pena canonica – o la dichiarazione di quella latae sententiae: cfr. can. 2312 §1 CIC17 - con una o più penitenze (cfr. can. 1343), facoltà che viene esercitata nel momento in cui le indagini mettono in luce che vi è un delitto con un responsabile, ma il processo penale o l'irrogazione della pena per atto amministrativo non sono necessari per altre ragioni, come la riparazione dello scandalo, e sembrano inopportuni in concreto (cfr. cann. 1341 e 1343). Queste penitenze “Sono le stesse opere che vengono imposte in foro interno sacramentale per i peccati”,[31] ma qui possono anche prescindere dallo stesso pentimento del reo, a fortiori dal perdono dei peccati, vengono imposte in foro esterno e fungono, in sostanza, da sanzioni sostitutive atipiche.[32] Tant'è vero che possono anche aggravare il trattamento sanzionatorio, aggiungendosi tanto ai rimedi penali – che non sono pene, perché presuppongono che un delitto non vi sia o non sia dimostrabile in giudizio[33] - quanto alle pene previste dalla legge se, all'esito del giudizio, sono state riscontrate circostanze aggravanti (cfr. can. 1326 §2).

Altra cosa, dunque, è il condono della pena non ancora del tutto scontata, che il Codice chiama rimessione o anche assoluzione, nei casi in cui può eccezionalmente avvenire in foro interno sacramentale. Anche in questo caso, invero, si potrà avere l'imposizione di una penitenza, ma essa non avrà carattere penale né rientrerà nel foro esterno.

In primo luogo, occorre chiarire che l'intervento del confessore non è possibile se la pena è stata inflitta o dichiarata: salvo solo il caso di pericolo di morte, il reo deve rivolgersi al titolare della potestà esecutiva;[34] quindi, in concreto, adirà l'Ordinario autore della condanna o quello del luogo in cui si trova (cfr. cann. 1354-6).

Tuttavia, sono previste eccezioni qualora egli sia incorso nella scomunica o nell'interdetto latae sententiae non dichiarati: queste pene impediscono la ricezione dei Sacramenti (cfr. can. 1331 §1), quindi il soggetto, per quanto pentito lo si possa ritenere, non potrebbe essere assolto dal confessore, neppure per il solo peccato.[35] Tale facoltà viene tuttavia attribuita ipso iure al canonico penitenziere, che deve essere nominato in ogni Diocesi, ai sensi del can. 508 §1,[36] nonché, giusta il can. 1357, ad ogni confessore allorché al penitente sia gravoso rimanere in stato di peccato per il tempo occorrente al Superiore per provvedere.[37] In quest'ultimo caso, pertanto, il confessore lo può assolvere, imponendogli però – insieme con una congrua penitenza e a riparazione dei danni e dello scandalo – l'onere di ricorrere al Superiore entro un mese, sotto pena di ricaduta nella censura, e di attenersi alle ulteriori condizioni che questi stabilirà per l'assoluzione dalla pena; anzi, può egli stesso incaricarsi di presentare il ricorso, tacendo in esso il nome del penitente, che convocherà presso di sé una volta ricevuta la risposta dal Superiore.[38] La stessa procedura è seguita dal penitenziere allorché si trovi dinanzi ad una censura da cui non può assolvere perché sottratta alla competenza del Vescovo e riservata alla Sede Apostolica.[39]

Come si vede, il coordinamento tra i due fori è assicurato anzitutto dalla norma generale del can. 130: il caso va sottoposto al Superiore che ha potestà per il foro esterno. Nello stesso tempo, però, si prevede un'eccezione che provvede subito al bene del fedele, assicura comunque che il Superiore venga informato e possa esercitare il proprio potere-dovere di giudicare, evita in radice l'insorgenza di un conflitto tra i due fori, perché la rapida emersione del caso rende molto improbabile che, nel frattempo, esso possa esser deferito da chicchessia al foro giudiziale.[40] Probabilmente per questo è scomparsa, in quanto ritenuta superflua, la restrizione del vecchio can. 2251, secondo cui il penitente, purché evitasse lo scandalo, poteva avvalersi anche in foro esterno dell'assoluzione ottenuta nell'interno, ma il Superiore conservava il diritto di urgere l'osservanza della pena, a meno che l'assoluzione non si potesse provare o anche solo presumere. Di fatto, questo sembra possibile solo se si tratti di un soggetto assolto in pericolo di morte da una sanzione inflitta o dichiarata, oppure di una pena latae sententiae non dichiarata ma notoria, perché altrimenti egli potrebbe ragionevolmente invocare il can. 1352 §2, che sospende l'obbligo di osservare tali pene se non sono notorie, nella misura in cui vi sia pericolo di grave scandalo o di infamia. In entrambe le ipotesi, comunque, la brevità del termine mensile dovrebbe porre ben presto fine alla questione: o il penitente ricade nella censura, oppure il Superiore è posto a conoscenza dell'assoluzione impartita in foro sacramentale ed ha il dovere di prendere posizione al riguardo.

 

5. L'attività della Penitenzieria Apostolica

Sia nel caso dell'assoluzione da censure non dichiarate, sia talvolta per le dispense da voti o giuramenti, ma soprattutto nei casi di irregolarità e di impedimenti matrimoniali occulti, si pone un problema ulteriore: la prova dell'assoluzione o della grazia concessa nel foro interno, quando sia produttiva di effetti anche nell'esterno. Infatti, com'è nella natura delle cose e viene anche dichiarato dal can. 74, finché si resta nell'ambito del foro interno ciascuno può usare liberamente di una grazia anche se gli è stata concessa a voce, a fortiori poi dell'assoluzione sacramentale; ma in foro esterno il can. 37 esige che gli atti amministrativi rivestano forma scritta. Il problema riguarda specialmente il confessore, che, in forza del sigillo sacramentale, anche quando abbia direttamente la potestà di assolvere non potrebbe rilasciare il conseguente attestato. La soluzione escogitata, non solo per questo caso ma più in generale per la miglior amministrazione di tutto il foro interno, è la creazione di un Tribunale specializzato, unico nel suo genere: la Penitenzieria Apostolica.

Di origine molto antica, con la riforma promulgata da S. Pio V nel 1569 la Penitenzieria è stata privata della possibilità di intervenire in foro esterno,[41] ma in compenso è divenuta l'unico Dicastero della Curia competente per l'interno:[42] le attribuzioni degli altri Dicasteri sono suddivise per materia, ma non importa se la tal questione spetti ordinariamente alla Congregazione per la Dottrina della Fede, al Clero, alle Chiese Orientali..., quando si presenta un caso di foro interno va sempre deferito alla Penitenzieria.[43]

Per la precisione, a norma dell'art. 118 della Cost. Ap. “Pastor Bonus” sulla Curia Romana, “Per il foro interno, sia sacramentale che non sacramentale, essa concede le assoluzioni, le dispense, le commutazioni, le sanazioni, i condoni e le altre grazie.”. Qualche breve nota di commento:

  • anzitutto, si conserva la dicitura “foro interno sacramentale”, quindi il legislatore del 1988 ha sconfessato la tesi secondo cui, siccome il nuovo CIC non parla più di necessaria giurisdizione per il confessore bensì, ex can. 966 §1, di necessario possesso della “facoltà” per confessare (facoltà soggetta, però, alla stessa disciplina del conferimento di giurisdizione), il Sacramento doveva ritenersi ricondotto in toto alla sfera della potestas ordinis e quindi estraneo alla nozione di foro interno ex can. 130;[44]
  • la Penitenzieria è un Tribunale, ma la sua attività consiste nel concedere grazie; giudica casi concreti, ma allo scopo di assolvere, di liberare da vincoli od oneri, sebbene a volte li commuti e quindi in pari tempo ne imponga;
  • sebbene il testo non lo dica, sta nella natura delle grazie che possano essere concesse solo su istanza dell'interessato (cfr. can. 59) o comunque con il suo consenso, che deve perdurare fino al momento in cui riceve l'atto di concessione;[45]
  • siccome le decisioni della Penitenzieria alleggeriscono sempre la posizione del ricorrente, questi, anche se le trova troppo onerose, non può contestarle in alcuna sede, né esse, quantunque rivestano la forma di atti amministrativi (rescritti), vanno soggette al sindacato del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.[46]

Invero, proprio perché può emanare provvedimenti in forma scritta, quindi dimostrabili alla bisogna anche in foro esterno, la Penitenzieria risolve l'anzidetto problema dei confessori: essi, quante volte ritengono anche solo opportuno che un'assoluzione sia documentata, ricorrono a questo singolarissimo Tribunale, per lettera;[47] tacciono il nome del penitente, così mantenendo la questione in foro interno e facendo salvo il sigillo sacramentale, siccome nessuno potrà mai risalire alla sua identità (cfr. cann. 983-4);[48] la risposta arriva in doppia busta, l'esterna indirizzata al confessore ricorrente, mentre l'interna, che contiene il rescritto, “Discreto viro confessario ex approbatis”, perché il documento è destinato al penitente che ha diritto di farselo dare e, se le condizioni imposte lasciano un certo margine di discrezionalità al confessore, di cercarne uno più mite qualora lo ritenga troppo severo.[49] Si può dire, insomma, che per il foro interno sacramentale la Penitenzieria funziona come una sorta di “confessionale a distanza”.

L'attività nell'ambito extrasacramentale è poi ancor più vasta – del resto, lo lascia intendere anche la lettera dell'art. 118 PB – perché comprende, oltre agli interventi su situazioni almeno oggettivamente peccaminose come la maggior parte delle irregolarità, anche misure preventive del peccato come la dispensa da impedimenti matrimoniali occulti[50] oppure, in tutt'altro ambito, la riduzione degli oneri di Messe a carico di un prete che, magari per inavvertenza, si è impegnato a celebrare più Messe di quanto possa, anche rivolgendosi ad altri:[51] sono soltanto alcuni esempi di un'attività multiforme, proprio perché la competenza del Dicastero è generale.[52]

Un caso specifico, di cui ho conoscenza per ricerche d'archivio ma non posso, data proprio la sua singolare natura, fornire i riferimenti, illustra molto bene quali situazioni possano esigere la documentazione scritta della grazia. Un Sacerdote diocesano era fuggito con una parrocchiana, ma non era stato ridotto allo stato laicale o altrimenti sanzionato con provvedimento espresso, né aveva chiesto la dispensa dal celibato o regolarizzato in altro modo la propria posizione canonica; a norma del CIC17 allora vigente, però, il chierico concubinario incorreva in sanzioni automatiche. Egli dunque, dopo molti anni, ritrovatosi a vivere in Inghilterra con un'altra donna, in seguito alla morte di lei avrebbe desiderato potersi accostare ai Sacramenti, ma legalmente non gli era possibile, non senza l'assoluzione previa dal delitto e dalla connessa sanzione di “infamia”. Avendo mantenuto rapporti con il proprio Vescovo di un tempo, frattanto divenuto emerito, è venuto in Italia e, suo tramite, dapprima ha tentato la via di foro esterno, chiedendo alla S. Congregazione per la Dottrina della Fede di assolverlo nei termini ora detti; non avendo però ricevuto risposta,[53] in seguito è passato alla via di foro interno, confessandosi con il medesimo Vescovo, che ha presentato ricorso alla Penitenzieria. Si noti, per quanto di nostro precipuo interesse in questa sede, che siffatta trasposizione da un foro all'altro doveva considerarsi consentita, perché il fatto delittuoso era notorio nel luogo dove era stato commesso, ma non in quello dove egli viveva: nessuno, lì, lo conosceva come Sacerdote. La conseguente impossibilità morale che si venisse mai a sapere qualcosa della sua condizione o del delitto commesso illo tempore, a fortiori che si avviasse un processo al riguardo, prevaleva sull'astratta facilità con cui, se ciò mai fosse avvenuto, si sarebbero potute ottenere  le debite informazioni dalla Diocesi a qua. Il caso poteva dunque considerarsi occulto: la Penitenzieria ha accordato il rescritto di assoluzione, specificando che il soggetto avrebbe potuto accostarsi ai Sacramenti anche pubblicamente e che il documento, valevole per il foro interno, avrebbe fatto prova all'uopo in foro esterno se fosse stato necessario.[54]

 

6. “Questioni di foro interno”: in particolare, accesso ai Sacramenti e situazioni matrimoniali irregolari

L'esempio addotto mostra sia che un fatto pubblico o perfino notorio in un luogo può considerarsi occulto in un altro, sia la stretta corrispondenza tra il ricorso al foro interno e la ratio scandali, nel duplice senso che occorre l'assenza del rischio di scandalo nel luogo in cui l'interessato si trova e che, d'altra parte, dello scandalo occorre anche prevenire l'insorgenza.

Quest'ultimo aspetto è particolarmente importante per un problema di attualità come l'accesso ai Sacramenti da parte dei soggetti che, pubblicamente, versino in situazioni matrimoniali irregolari (o in ogni altra condizione di peccato grave esterno), problema che viene ad investire in modo particolare il foro interno, pur non implicando, in genere, l'esercizio della potestà rispetto al caso concreto: la presente trattazione non sarebbe completa, quindi, se non ne parlasse almeno per sommi capi.

Già si è detto quanto sia antico il principio per cui non si deve mai infliggere una penitenza pubblica per una colpa occulta; bisogna adesso aggiungere un corollario più specifico, cioè che il ministro della Comunione, se personalmente sa che Tizio è un peccatore ostinato ma il fatto non è pubblico, può rifiutarsi di comunicarlo se questi gli chiede il Sacramento in privato, però non se lo chiede in pubblico: il rifiuto farebbe sorgere quello scandalo che al momento non esiste.[55] Il vecchio Codice enunciava espressamente questa regola al can. 855 §2,[56] come complementare al generale obbligo di allontanare dal Sacramento i publice indigni (ivi, §1), ma naturalmente essa è molto più antica e risale almeno al Pontificato di Eugenio III (decretale Si sacerdos, X.1.31.2),[57] se pure non si trova già nel Decretum di Graziano;[58] si trova affermata a chiare lettere da S. Tommaso d'Aquino[59] e S. Alfonso Maria de' Liguori,[60] che anzi la illustrano con una certa ampiezza; non da ultimo, l'autorità ecclesiastica l'ha costantemente ribadita nel corso dei secoli quando se n'è presentata la necessità.[61] Per completezza, infine, si può aggiungere che il ministro deve amministrare il Sacramento se non è sicuro del fatto peccaminoso o della sua notorietà e pubblicità, ma è pubblica la richiesta.[62]

Secondo il Codice pio-benedettino, i publice indigni di cui al can. 855 §1 comprendevano, oltre a scomunicati e interdetti, anche i manifesto infames, tra cui – per espressa previsione del diritto[63] – i bigami, categoria in cui rientravano anche i divorziati risposati.[64] In effetti, la bigamia stessa costituiva delitto e poteva essere punita anche con l'interdetto personale o la scomunica, secondo la gravità del reato (can. 2356), quindi i conti tornavano.[65] Dal canto loro, i concubinari e quanti avessero commesso un delitto pubblico di adulterio erano puniti con una pena inferiore e andavano considerati infami solo se avessero persa in concreto la buona reputazione;[66] questo, però, nelle condizioni e secondo la mentalità del tempo si poteva dare per scontato, pertanto il can. 855 §1 riguardava senz'altro anche loro.

Tuttavia – e qui sta il punto di nostro specifico interesse – il divieto in tanto urgeva in quanto sussistesse la sua ratio, cioè solo dove la loro condizione fosse pubblica; dove invece era occulta, essi, purché debitamente disposti – quindi pentiti, confessati e assolti – potevano ricevere il Sacramento ai sensi del can. 855 §2. Circostanza forse poco nota, ma confermata da svariati documenti ufficiali che giustificano tale soluzione proprio richiamandosi al foro interno. Con il che, evidentemente, non si intende che vi sia un esercizio della potestà di governo quale si potrebbe avere mediante un rescritto della Penitenzieria, ma solo che il divieto, pensato per esigenze della società ecclesiale e dunque posto in foro esterno, cessa nel momento in cui la ratio scandali si ribalta e, da causa di esclusione, diviene causa di ammissione, nei termini già detti. Il presupposto, tuttavia, è che hic et nunc sia occulta la condizione oggettiva di peccato, ancorché pubblica e magari notoria altrove: così posto, il caso rientra senza meno nell'ambito del foro interno e l'assoluzione del confessore è sufficiente al comunicando per accedere al Sacramento in tranquillità di coscienza.

Quando, mutate le condizioni sociali e, oltretutto, in un contesto di grave crisi anche della prassi del Sacramento della Penitenza, si è vista un'esplosione dei casi di divorzio ed hanno cominciato a levarsi le richieste di trovare un modo per consentire l'ammissione ai Sacramenti a chi si trovava impedito dalla condizione oggettiva di bigamia, la S. Congregazione per la Dottrina della Fede – dopo aver confermato “l’obbligo di premettere la confessione sacramentale prima della sacra comunione quando c’è la coscienza del peccato grave[67] - ha affrontato il problema nella Plenaria del 14-15 novembre 1972 e, oltre ad attenuare il divieto di concedere la sepoltura ecclesiastica,[68] per ordine del Papa ha inviato ai Vescovi una Lettera riguardante l’indissolubilità del matrimonio dove esorta alla vigilanza contro le dottrine contrarie e, per quel che più ci interessa, aggiunge: “gli Ordinari del luogo vogliano, da una parte, invitare all'osservanza della disciplina vigente della Chiesa e, dall'altra, fare in modo che i pastori delle anime abbiano una particolare sollecitudine verso coloro che vivono in una unione irregolare, applicando nella soluzione di tali casi, oltre ad altri giusti mezzi, l'approvata prassi della Chiesa in foro interno.”.

La Conferenza Episcopale degli Stati Uniti si affrettò a chiedere cosa significasse, di preciso, questo riferimento che doveva suonarle un po' criptico; il responso - giunto soltanto il 21 marzo 1975, dopo vari solleciti, tanto che il Dicastero si sentì in obbligo di scusarsi per il ritardo - recita: “this phrase must be understood in the context of traditional moral theology. These couples may be allowed to receive the [S]acraments on two conditions, that they try to live according to the demands of Christian moral principles, and that they receive the [S]acraments in churches in which they are not known so that they will not create any scandal”.[69]

In seguito, però, sono sorti dubbi in merito alla perdurante legittimità di questa prassi: un importante atto magisteriale, e non meramente disciplinare, come l'Esortazione Apostolica post-Sinodale Familiaris consortio del 22 novembre 1981, al n. 84 recita “La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati”, senza menzionare affatto la possibile soluzione in foro interno e, anzi, giustificando il divieto, non solo con la ratio scandali, ma anche con una sorta di incompatibilità oggettiva;[70] in termini analoghi si è poi espresso anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1650 e 1651. Per giunta, frattanto era sopravvenuto il nuovo Codice,[71] che, al can. 915, enuncia il divieto di accesso alla Comunione per tutti coloro che “ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”, ma non riporta più l'eccezione del vecchio can. 855 §2. Il dubbio sulla permanenza in vigore di essa, quindi, era ben lecito, tanto più che il can. 916 aveva esteso l'obbligo della Confessione previa a tutti i peccati gravi ancorché non mortali, scelta che pareva indicativa di una linea di accresciuto rigore.[72] Deponevano in contrario, però, oltre all'andamento dei lavori preparatori,[73] l'indicazione dell'intero can. 855 come fonte del nuovo 915 e, soprattutto, il fatto che un soggetto pentito, anzi disposto pure ad impegnarsi a vivere in continenza da quel momento in poi, di sicuro non persevera nel peccato, tantomeno poi in modo ostinato.[74]

La Congregazione per la Dottrina della Fede, facendo il punto sugli sviluppi posteriori alla “Familiaris consortio” nel contesto dell'Anno Internazionale della Famiglia, ha risolto il dubbio confermando – sia pure senza particolare enfasi – la prassi anteriore: “Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l'accesso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall'assoluzione sacramentale, che può essere data «solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò importa, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, "assumano l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi"»(8). In tal caso essi possono accedere alla comunione eucaristica, fermo restando tuttavia l'obbligo di evitare lo scandalo.”.[75] Posizione poi ribadita dal Magistero pontificio ancora nel 2007,[76] nonché dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi in un importante documento sulla retta lettura del can. 915: “Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo.”.[77]

Tralascio – per ragioni di spazio, complessità e limitata attinenza tematica – le discussioni sul se e in che termini l'Esortazione Apostolica post-Sinodale “Amoris Laetitia abbia modificato il divieto superando, in tutto o in parte, la necessità della probata praxis; mi limito ad alcune osservazioni conclusive sulla medesima, per le peculiarità che consente di mettere in luce rispetto al tema del foro interno.

  • Anzitutto, da un punto di vista tecnico la probata praxis può essere vista come un caso di coordinamento tra i due fori, però non a termini del can. 130, perché manca una disposizione espressa che autorizzi l'estensione al foro esterno dell'atto del confessore; piuttosto si deve dire che il legislatore stesso, formulando il can. 915, ha circoscritto l'operatività del divieto legale alle sole situazioni di foro esterno, sicché il confessore non fa che assolvere dal peccato, non vi è necessità di fargli accordare alcuna dispensa o grazia.[78]
  • Il foro interno costituisce uno dei più importanti strumenti di flessibilità operativa del diritto canonico, ma non fa mai sconti su quegli imperativi di diritto divino che obbligano semper et pro semper.
  • Rientra nella natura delle situazioni giudicate in questo foro che, all'atto pratico, l'autoresponsabilità del fedele giochi un ruolo molto ampio e difficilmente sindacabile in concreto, specialmente per i casi dove non è possibile provvedere una volta per tutte, la situazione deve essere nuovamente valutata ogni volta.[79] E di fatto, ogni fedele che voglia accostarsi ai Sacramenti deve sempre esaminare la propria coscienza per sincerarsi che ciò gli sia lecito.
  • Peraltro, l'intervento del confessore o del direttore spirituale etc., lungi dall'essere impossibile o illecito, viene anzi presupposto, perché opportuno anche solo per la retta formazione della coscienza, o in funzione di monito. Questo sia quando si tratti delle disposizioni interiori, che a loro vengono manifestate, sia a fortiori riguardo a circostanze suscettibili di apprezzamento da parte di terzi, come la presenza o meno del pericolo di scandalo o di infamia che, ex can. 1352 §2, sospende l'obbligo di osservare la censura non dichiarata.[80]
  • Nondimeno, da un lato le scelte ultimo non possono che essere compiute in concreto dal singolo, dall'altro non ogni scelta è lecita per il solo fatto che questi è convinto o anche convintissimo di aver ragione; solo che eventuali errori o trasgressioni, pur rilevanti anche per il diritto e non solo per la morale, vengono lasciati al perdono della Chiesa, se il reo si pentirà e confesserà, oppure al giudizio di Dio.
  • Qui, in definitiva, si palesa il carattere per così dire sussidiario dell'intero ordinamento canonico: agli antipodi della pretesa di disciplinare tutto e tutto risolvere, esso rammenta di non essere che uno strumento per l'attuazione di un disegno assai più ampio e alto di ogni realtà umana; sa che il proprio scopo, in definitiva, è ultramondano e si attua – oppure no - proprio nell'istante della morte, quando l'anima decide irrevocabilmente del proprio destino eterno; quindi, pur spingendo i propri interventi fin nell'aldilà (suffragi e indulgenze per le anime purganti), accetta di lasciar campo già nell'aldiquà al Giudizio divino cui, in definitiva, non fa che preparare il terreno.

 

[1]    Cfr. C.M. Fabris, Foro interno. Genesi ed evoluzione dell'istituto canonistico, Modena 2020, pagg. 25-56, e relativi riferimenti (per Graziano, cfr. la disamina a pagg. 27-36, che refuta tra l'altro la lettura di Par. X 103-5 secondo cui per “l'uno e l'altro foro” dovrebbero intendersi appunto l'interno e l'esterno).

[2]    Cfr. Concilio di Trento, Sess. XXIV, decreto De reformatione, 11 novembre 1563, can. 6: “Liceat episcopis, in irregularitatibus omnibus et suspensionibus, ex delicto occulto provenientibus, excepta ea, quae oritur ex omicidio voluntario, et exceptis aliis deductis ad forum contentiosum, dispensare, et in quibuscumque casibus occultis, etiam Sedi Apostolicae reservatis, delinquentes quoscumque sibi subditos, in dioecesi sua per se ipsos aut vicarium, ad id specialiter deputatum, in foro conscientiae gratis absolvere, imposita poenitentia salutari. Idem et in haeresis crimen in eodem foro conscientiae eis tantum, non eorum vicariis, sit permissum” (v. anche il can. 8).

[3]    Operazione tanto più agevole in quanto proprio il Concilio di Trento ha elevato a dogma la natura giudiziaria dell'assoluzione sacramentale, su cui si fondavano le teorizzazioni dell'alta Scolastica sul forum conscientiae.

[4]    Cfr. F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, Napoli 1872, 3.21 (spec. §§1, 2 e 9), 4.12 e 4.13, 8.6; Id., De censuris, disp. I, sect. 2, in Id., Opera omnia, t. XX, Venezia 1749, pagg. 8-9: “Rursus potestas iurisdictionis distingui solet in interiorem et exteriorem; quae ita appellantur; non quia utraque non exerceatur per actus sensibiles et externos; nam, cum utraque sit in hominibus respectu aliorum hominum, necesse est, ut per actus exteriores exerceatur; sed ita appellantur quia una ordinatur ad forum sacramentale, quod pertinet solum ad conscientiam et internum bonum animarum, et ideo interior iurisdictio appellatur; de qua diximus agentes de ministro sacramenti Poenitentiae. Altera vero potestas ordinata est ad gubernandam Ecclesiam in exteriori foro, per iudicia, poenas, etc., quae ad bene constituendam et regendam hominum rempublicam necessaria sunt; et haec vocatur potestas iurisdictionis exterioris.”.

[5]    Per gli sviluppi nella riflessione posteriore di moralisti e canonisti, condensati poi nel CIC17, cfr. C.M. Fabris, op. cit., pagg. 93-128 (in particolare, Reiffenstuel esclude l'esistenza di un foro interno extrasacramentale: cfr. pag. 101; all'opposto, la sottolineatura del carattere giuridico questa potestà è propria di Berardi e per suo tramite è infine arrivata ad imporsi nel CIC17: cfr. pagg. 104-6; Bouix, dal canto suo, dilata il foro interno extrasacramentale al punto di comprendervi “sacramentali, orazioni pubbliche in favore di singole persone, consigli privati, ecc.”, pag. 110).

[6]    J.I. Arrieta, Commento al can. 130, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi Complementari commentato, Roma 2020, pag. 144.

[7]    Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal – Ph. Aguirre, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. II – De personis, Roma 1943, pag. 423: “Iurisdictio fori interni (forum conscientiae) est illa quae primario et directe bonum privatum fidelium, ordinat relationes illorum morales ad Deum...”. Ma al riguardo v. la notazione di C.M. Fabris, op.cit., pag. 184: “E interessante notare come nella definizione che precede sia stata introdotta una notevole differenza rispetto a quella data nello Ius decretalium: nello Ius canonicum è tutto il foro interno, a prescindere dalle sue suddivisioni, che viene definito come foro della coscienza, mentre in precedenza Wernz faceva coincidere il foro della coscienza con il solo foro interno extra penitenziale. Tale significativo cambiamento e certamente frutto della formulazione del can. 196 CIC17 il quale assimila per l’appunto il foro interno al foro della coscienza, quasi i due termini fossero in sostanza dei sinonimi. In questo senso si può pensare che Wernz ritenga che il foro interno abbia natura prevalentemente morale, sebbene non si sbilanci in un senso piuttosto che nell’altro.”. Senonché, essendo Wernz morto nel 1914, la modifica parrebbe piuttosto da ascriversi a Vidal.

[8]    Espressioni in verità tradizionali in quanto già presenti nel Decretum di Graziano, ma con altro significato: v. infra nel testo.

[9]    Cfr. V. de Paolis, Le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 436: “Il modo di dire del canone [196 CIC17] ('alia... alia') poteva indurre e di fatto ha indotto non pochi studiosi a considerare la potestà di giurisdizione di foro interno una giurisdizione diversa da quella di foro esterno. La clausola poi 'seu conscientiae' poteva portare a concludere, e di fatto non pochi così concludevano, che la potestà di foro interno non fosse propriamente una potestà riconducibile all'ordine giuridico, ma soltanto all'ambito morale davanti a Dio. Le discussioni sulla natura e sul significato della potestà di foro interno si fecero particolarmente vivaci durante il tempo della revisione del Codice. Non mancavano proposte di eliminarla, appunto perché riguardante l'ambito della coscienza, dall'ordinamento canonico”, ma la Commissione si orientò diversamente nel Principio direttivo riportato in epigrafe, approvato, insieme con gli altri, al primo Sinodo dei Vescovi nel 1967. Il dibattito sulla potestà in parola, peraltro, era aperto almeno dal 1940, quando Carnelutti e Ciprotti si erano trovati in disaccordo circa il carattere giuridico da riconoscersi all'ordinamento canonico, ma concordi nel negare l'intersubiettività al foro interno, che per Ciprotti corrisponde appunto all'ambito della morale.

[10]  Non ripresa nel nuovo, che preferisce lasciare alla dottrina il compito di definire gli istituti, ma sempre valida come riferimento e, comunque, tuttora presente nel CCEO come can. 980 §1

[11]  A questo proposito, però, deve ritenersi migliore l'attuale can. 130: la potestà di governo resta sempre una sola; l'ipotesi normale è il suo esercizio in foro esterno. Del resto, anche il vecchio can. 202 §3 (non riprodotto nel Codice attuale perché ritenuto superfluo) asseriva che, qualora l'atto di concessione della potestà non avesse specificato a quale dei due fori la riferisse, essa doveva intendersi concessa per entrambi.

[12]  Cfr. W.P. Müller, The Internal Forum of the Later Middle Ages. A Modern Myth?, in Law and History Review33, (2015), pagg. 887-913, che, esaminando specialmente la prassi della Penitenzieria nel XV sec., confuta appunto l'errore, che afferma diffuso tra gli storici, di considerare il forum conscientiae pretridentino come sinonimo del forum internum posttridentino... ma cade a sua volta nell'errore di circoscrivere quest'ultimo all'ambito sacramentale.

[13]  D. Staffa, s.v. Foro, in Enciclopedia Cattolica, vol. V, Roma 1950, coll. 1531-4, qui 1553. Si noti, però, che la facoltà di assolvere riguarda il foro esterno quanto all'esercizio, ma l'atto di concessione appartiene al foro esterno (cfr. Ch. Augustine, A Commentary on the New Code of Canon Law, vol. II – Clergy and Hierarchy, St. Louis–London 1919, pag. 171, nt. 6). Inoltre, da secoli si discute se la legge ecclesiastica abbia, in astratto, il potere di ordinare anche atti meramente interni (con prevalenza della tesi negativa), ma è pacifico che possa comandarne di interni connessi agli esterni, ad es. il precetto di ricevere la Comunione almeno una volta l'anno esige che si tratti di una buona Comunione, completa quindi di tutti gli atti interiori all'uopo necessari od opportuni: cfr., oltre a F. Suárez, Tractatus..., cit., 4.12 e 4.13, F.X. Wernz – P. Vidal, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. I – Normae generales, Roma 1938, pagg. 176-84.

[14]  Cfr. A. Blat, Commentarium textus Codicis I.C., vol. II – De personis, Roma 1921, pagg. 167-8: “Altera « iurisdictio fori externi » se refert ad iura, obligationes ac negotia quaecumque fidelium, prout se referunt ad bonum publicum aut commune fidelium, ac proinde exercetur publice in ecclesiastica societate. et cum effectibus iuridicis seu canonicis. Illud « publicum » vel interesse « commune» facit, ut in foro externo pertractentur quae apparent ac uti probantur, e contra ad forum inernum remittantur, quae vel non patent ut probari queant, vel nemo ea probat.

[15]  Il principio conosce eccezioni anche notevoli, ad es. per tutta una serie di testi cc.dd. “qualificati”, ma non è questa la sede per approfondire l'argomento.

[16]  Per l'opportuna distinzione e definizione dei concetti, occorre tuttora far riferimento al can. 2197 CIC 1917: “Delictum est:

1.o Publicum, si iam divulgatum est aut talibus contigit seu versatur in adiunctis ut prudenter iudicari possit et debeat facile divulgatum iri;

2.o Notorium notorietate iuris, post sententiam iudicis competentis quae in rem iudicatam transierit aut post confessionem delinquentis in iudicio factam ad normam can. 1750;

3. Notorium notorietate facti, si publice notum sit et in talibus adiunctis commissum, ut nulla tergiversatione celari nulloque iuris suffragio excusari possit;

4. Occultum, quod non est publicum; occultum materialiter, si lateat delictum ipsum; occultum formaliter, si eiusdem imputabilitas.”. La definizione etensiva di “occulto” era tributaria della prassi della Penitenzieria.

[17]  L'esigenza della confessione come unica alternativa alle prove testimoniali, con testi di numerus e qualitas richiesti dal diritto canonico, era affermata con nettezza già all'interno del Decretum: “Presbiter aut diaconus, quem asseris crimina nolle publice confiteri, sed velle cum sacramento defendere se, et si tamen notum sit episcopo esse scelus ipsius perpetratum, non potest per aliquam penitenciam sacerdotali uel diaconali offitio potiri. Sed mirandum, si ipse confessus non fuerit, quomodo notum possit esse episcopo scelus ab ipso perpetratum, nisi accusatore forte ydoneo per testes ydoneos approbante. Unde si examinante episcopo causam presbiteri uel diaconi non fuerit per testium approbationem presbiter uel diaconus forte conuictus, non est scelus episcopo legitime manifestum, nisi sua sponte ipsum confiteatur. Quod nisi fecerit, interim non videmus suo debere presbiterum uel diaconum offitio priuari. Sola ergo spontanea confessio, et canonicus numerus, uel qualitas testium (decernentibus episcopis, et accusatore quod obiecerat conprobante) clericum privat proprio gradu.” (C. 15 q. 5 c. 2). In questo caso è implicito anche un altro divieto, quello di utilizzo della “scienza privata” del giudice, che in diritto canonico trova un'applicazione particolarmente rigorosa rispetto a quanto un Superiore qualsiasi abbia appreso nell'atto della Confessione sacramentale (cfr. can. 984 §2).

[18]  Interessante il rilievo di D. Staffa, op. cit., col. 1532: “La società civile trova già costituita dalla natura la famiglia, la quale provvede direttamente, nell'ordine naturale, al bene degli individui; la Chiesa invece, società soprannaturale, non trova costituita in questo ordine nessuna società od organo che prenda cura dei singoli; per conseguenza spetta ad essa la cura diretta anche di questi”.

[19]  Gli autori parlano spesso della potestà di foro interno come di un quid funzionale al bene “privato”, anziché “comune” o “pubblico” com'è per il foro esterno. Sarebbe meglio dire “individuale”, perché le ragioni appena esposte nel testo, nella Chiesa il bene spirituale del singolo è sempre una questione pubblicistica.

[20]  Lett. “come se la sentenza fosse già stata pronunziata”: il colpevole, se non sussiste alcuna delle circostanze attenuanti di cui ai cann. 1323-4 (tra cui, si noti, l'ignoranza incolpevole dell'esistenza di una pena), “contrae” la scomunica nel momento stesso in cui commette il fatto, ossia è automaticamente obbligato, dalla legge stessa, a comportarsi come scomunicato; l'eventuale provvedimento dell'autorità, che potrebbe anche non sopraggiungere mai, non farebbe altro che “dichiarare” l'esistenza di questa sanzione già in essere, per renderla coercibile. Beninteso, la scomunica latae sententiae si contrae anche se il delitto è pubblico o addirittura notorio; tuttavia, poiché in tali circostanze tendono a seguire provvedimenti formali, il problema dell'esistenza di essa è tipicamente, sebbene non di necessità, una questione di foro interno.

[21]  A meno che il primo non abbia, rispetto al caso concreto che venisse in rilievo, scelto di limitare o escludere la giurisdizione del secondo, vuoi mediante una legge vuoi tramite avocazione.

[22]  D. Staffa, op.loc.cit.

[23]  Non però necessariamente di riconoscere la giustizia del provvedimento, generale o particolare che sia. Soltanto per gli atti del Magistero (al cui proposito gli autori discutono se debbano considerarsi frutto della potestà di governo o di un distinto potere di insegnamento) non basta il c.d. silenzio ossequioso, ma vige un vero e proprio dovere di prestare un sincero assenso interiore e religioso: cfr. can. 752.

[24]  Va notato che l'obbligo così imposto dal confessore è funzionale alla salvezza di quella singola anima, rientra quindi perfettamente nella logica del foro interno. Questo è un caso in cui tale potestà viene usata per legare, non per sciogliere; ma lo scopo ultimo resta sempre sciogliere. Cfr. W. Bertrams, De natura iuridica fori interni Ecclesiae, in Id., Quaestiones fundamentales iuris canonici, Roma 1969, pagg. 183-207, qui 189: “Actus iurisdictionis fori interni ordinatur in bonum privatum fidelium. Hinc actu iurisdictionis fori interni obligationes relaxantur aut solvuntur, non autem conduntur et imponuntur, nisi in quantum obligationes per actum iurisdictionis fori interni imponendae constituunt satisfactionem, reparationem, commutationem pro debito relaxando aut solvendo”.

[25]  Non per questo, tuttavia, poteva dirsi un caso estraneo o ignoto all'ordinamento: cfr., rispetto alla Penitenzieria Apostolica, Pio XI, Cost. Ap. Quae divinitus, 25 marzo 1935, in AAS 27 (1935) 97-113, n. 6 lett. c), “Volumus autem quo tempore Audientiae intermissae sunt, Cardinalem Paenitentiarium Maiorem casibus urgentioribus providere posse, etiam si agatur de sententiis, quae in foro quoque externo vim exserere suam postulent, cum a Nobis bonum animarum aliis omnibus rebus anteponatur; in proxima tamen Audientia de sententiis a se datis, prout opus erit, referet.

[26]  Anche questa formulazione è degna di nota, perché ribadisce il carattere unitario della potestà; inoltre,  secondo V. de Paolis, op. cit., pag. 437, “Notiamo che non è detto che non vi siano gli effetti nel foro esterno; ma che non sono riconosciuti nel foro esterno. Questo significa che di fatto il fedele può stare tranquillo sia in coscienza sia di fronte alla Chiesa-comunità.”. Mi sembra, tuttavia, che la premessa sia condivisibile (almeno quanto alla lettera del can. 130, dato che è contraria al can. 980 CCEO) ma la conclusione eccessiva: per come enunciata, sembra un'interpretatio abrogans della regola di non riconoscimento, mentre in realtà, quand'esso non è previsto, il fedele può “stare tranquillo” solo se non è necessario perché la questione si è risolta lì, altrimenti dovrà essere cura del Superiore di foro interno adoperarsi perché si arrivi ad una soluzione corrispondente anche nell'esterno: in particolare il confessore, i cui atti non sono mai documentabili, dovrà sempre rivolgersi, per conto del penitente, al Tribunale della Penitenzieria Apostolica (cfr. infra nel testo, §4).

[27]  Cfr., in senso critico, C.M. Fabris, op. cit., pag. 283: “In realtà la nuova disposizione del can. 130 non ha risolto tutti i problemi di coordinamento tra i due fori, ed in particolare ha lasciato sostanzialmente irrisolte le problematiche legate agli effetti che l’esercizio della potestà di giurisdizione in foro interno sacramentale può eventualmente produrre in foro esterno.”. Ma, a mio parere, la mens della legge è molto chiara: si tratti di impedimenti matrimoniali occulti, censure non dichiarate o altre questioni di rilevanza anche solo possibile in foro esterno, il confessore farà bene ad indirizzare il penitente ai Superiori competenti a provvedere alla bisogna e potrà sempre adire la Penitenzieria Apostolica. E sostanzialmente nello stesso senso mi pare che si orienti l'A. nelle proprie conclusioni, a pag. 324.

[28]  L'irregolarità non consiste in una sanzione penale accessoria, ma in un'inidoneità obiettiva, tant'è vero che quelle conseguenti al concorso nel delitto di aborto o di omicidio (can. 1041 n. 4), o di tentato suicidio o grave mutilazione, tenta o consumata, sulla persona propria o altrui (can. 1041 n. 5), obbligano anche i soggetti che, nel momento in cui hanno commesso il fatto, non erano cattolici e quindi non andavano soggetti, in forza del can. 11, alla disciplina penale ecclesiastica: cfr. Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Interpretazione autentica del can. 1041, nn. 4 e 5, 31 maggio 2016, in AAS 108 (2016) 707.

[29]  V. de Paolis, op. cit., pag. 436, riferendosi ai problemi di coordinamento tra i due fori avvertiti al tempo della riforma del Codice, menziona altresì il caso della dispensa da un impedimento matrimoniale occulto, la quale “non sempre era dimostrabile nel foro esterno”, se concessa in quello interno sacramentale; ma oggi il tenore del can. 1078 e l'esigenza che l'autore della dispensa sia titolare di potestà esecutiva (che il confessore qua talis non ha) circoscrivono il problema al pericolo di morte, dove il can. 1079 offre al confessore la possibilità di dispensare anche – e preferibilmente – fuori del Sacramento; se poi lo facesse in foro sacramentale e l'infermo si ristabilisse, è chiaro che si dovrebbe provvedere quanto prima a ricorrere al Superiore per avere la prova scritta della dispensa.

[30]  In particolare, dopo l'ultima riforma dei processi di nullità matrimoniale, non si richiedono più elementi a conferma perché tali dichiarazioni possano fare prova piena, ma basta che il complesso degli atti e delle circostanze non le smentisca.

[31]  A. Calabrese, Diritto penale canonico, Roma 2006, pag. 138.

[32]  Invece, la penitenza sacramentale ha uno scopo diverso: ogni peccato consiste contemporaneamente in un'offesa a Dio, che merita la pena della privazione della visione beatifica nell'aldilà (poena damni, temporanea nel caso del Purgatorio, perpetua all'Inferno), e in un turbamento nell'ordine da Lui stabilito, che merita nell'aldiquà pene temporali (al limite anche le semplice sofferenze quotidiane), nell'aldilà i tormenti sensibili, c.d. “pena del senso”. L'assoluzione sacramentale libera dalla poena damni, non però da quella temporale; la penitenza è un modo per scontare una parte di quest'ultima, mentre la sua remissione parziale o totale è possibile tramite lo strumento delle indulgenze, che possono essere acquisite anche mediante il compimento dell'opera ingiunta come penitenza.

[33]  Per la precisione, i rimedi penali consistono nel rimprovero e nell'ammonizione: a questa si fa ricorso quando il soggetto sia gravemente sospetto di delitto ma la colpa non risulti dimostrabile in giudizio, oppure versi in occasione prossima di peccato; a quello se il suo comportamento (pur non essendo in sé delittuoso) ha fatto sorgere scandalo o turbato l'ordine. Soprattutto in questi ultimi casi sembra opportuna l'aggiunta di una penitenza, che però è consentita  ex can. 1340 §3 anche rispetto alle ammonizioni.

[34]  Esecutiva, perché per l'ordinamento canonico l'esecuzione della condanna, pur dovendo essere ordinata dal giudice che ha inflitto o dichiarato la pena (cfr. cann. 1651 e 1728) ed essendo munita di azione apposita (cfr. can. 1363), di per sé non è demandata alla potestà giudiziale in quanto iudex munere suo functus est; questa semmai la agevola comminando nuove sanzioni a chi non osserva quelle già in essere (can. 1393)

[35]  Così non è, invece, per la sospensione, che può essere a sua volta contratta latae sententiae ma è una pena caratteristica dei chierici e vieta soltanto di amministrare Sacramenti o Sacramentali, non già di riceverli. Siccome il chierico sospeso latae sententiae non resta comunque privo dei Sacramenti nelle more, è sempre tenuto a rivolgersi al Superiore competente, in foro interno extrasacramentale oppure in foro esterno.

[36]  Inoltre, ai sensi del can. 976, ogni Sacerdote, perfino se ridotto allo stato laicale, assolve validamente da qualunque peccato e da qualunque censura ecclesiastica il penitente che versi in pericolo di morte. Se però si ristabilisce, questi è tenuto all'obbligo di ricorrere al Superiore come previsto dal can. 1357: cfr. infra nel testo. Il precetto in tal senso è abbastanza antico da potersi fondare sul Decretum: “Si quis suadente diabolo huius sacrilegii vicium incurret, quod in clericum vel monachum violentas manus iniecerit, anathematis vinculo subiaceat, et nullus episcoporum illum presumat absolvere, nisi mortis urgente periculo, donec apostolico conspectui presentetur, et eius mandatum suscipiat.” (C. 17 q. 4 c. 29).

[37]  “Si intende per 'caso urgente' il dolore o la difficoltà che causerebbe al penitente il rimanere alcune settimane senza poter essere assolto dai peccati e senza poter ricevere l’Eucaristia.”. Penitenzieria Apostolica, descrizione delle competenze s.v. Delitti.

[38]  Tacendo il nome, perché se lo esprimesse il suo atto si convertirebbe in denuncia e trasferirebbe il caso al foro esterno: a quel punto, in teoria si potrebbe perfino arrivare al processo...

[39]  Oggi, i delitti puniti con censura riservata alla Sede Apostolica - che è sempre la scomunica latae sententiae - sono sei: profanazione delle Specie consacrate (can. 1367), violenza fisica contro il Romano Pontefice (can. 1370 §1); assoluzione del complice nel peccato contra Sextum (can. 1378 §1), consacrazione episcopale senza mandato pontificio (can. 1382), violazione del sigillo sacramentale (can. 1388 §1); attentata ordinazione sacerdotale di una donna, anche rispetto al soggetto ricevente (m.p. “Sacramentorum sanctitatis tutela”, art. 5, n. 1). Non vanno confusi con i delitti di cui alla Sede Apostolica è riservata la cognizione: il loro elenco coincide solo in parte e, comunque, sono diversi gli effetti, perché nell'un caso Roma si riserva solo il giudizio (oggi, solo in grado di appello, che non potrà quindi mai essere esperito in sede locale), nell'altro anche la rimessione della pena, che quindi non potrà essere chiesta ad altri, salvo sempre il caso di pericolo di morte.

[40]  Tanto più tenuto conto del fatto che, abolita l'azione penale privata dal CIC 1917, oggi qualunque notizia di reato, in ambito canonico, mette capo ad un'investigatio praevia i cui risultati passano al vaglio dell'Ordinario: lo stesso soggetto chiamato a decidere se processare, quindi, in genere è competente anche a decidere sulle condizioni a cui assolvere.

[41]  Che è altra cosa dalla possibilità di emanare in foro interno atti validi, all'occorrenza, anche per l'esterno: anzi, questo potere è oggi quasi la sua raison d'être come Dicastero.

[42]   “Un ulteriore passaggio, fondamentale per la distinzione tra il foro esterno ed il foro interno, e dato dalla emanazione, sempre ad opera di papa Pio V, della costituzione Ut bonus paterfamilias del 18 maggio 1569, con la quale si riducono drasticamente le competenze del Penitenziere Maggiore, limitandole al solo foro conscientiae nei riguardi di ecclesiastici (secolari o regolari) ed ai fedeli laici (uomini o donne) anche se residenti nelle rispettive diocesi di origine”. C.M. Fabris, op. cit., pag. 69. Sulle incertezze nell'identificazione delle materie di foro interno, determinate dalla competenza della Penitenzieria sui casi dubbi, nonché da successive attribuzioni (oggi non più esistenti) che hanno riportato nella sua sfera casi di foro esterno, cfr. ibid., pagg. 136-44. Per il periodo anteriore e fors'anche in termini più generali, appare utile W.P. Müller, op.cit., che esamina specialmente la prassi della Penitenzieria nel XV sec. e mostra, attraverso i casi concretamente trattati, come essa intervenisse anche situazioni in cui si erano sparse voci sul conto del soggetto, o si interpretavano in modo erroneo eventi noti: il concetto di occultum come dato non suscettibile di prova giudiziaria si intrecciava con il duplice ruolo della fama, che da un lato non poteva costituire fonte probatoria, ma dall'altro era buon indice di scandalo o di notorietà del fatto. Il saggio ha, tuttavia, il difetto di non tenere conto delle competenze più ampie di cui la Penitenzieria godeva prima della riforma di S. Pio V e ciò impone cautela nel valutarne le conclusioni.

[43]  Per la verità, il can. 64, consentendo alla Penitenzieria di concedere in foro interno una grazia già negata da un altro Dicastero della Curia Romana senza l'assenso di quest'ultimo, sembra implicare che anche gli altri Dicasteri possano intervenire in casi di foro interno; e tale era senza dubbio la conclusione per il corrispondente vecchio can. 43. Oggi, però, il combinato disposto degli artt. 14 e 117 della Cost. Ap. “Pastor Bonus” porta ad intendere il foro interno come una vera e propria “materia” ai fini del riparto di competenze, che pertanto lo ha assegnato alla Penitenzieria in via esclusiva (mentre nella “Regimini Ecclesiae Universae” di Paolo VI gli artt. 112 e 113 facevano pensare che ciò valesse solo per l'attribuzione relativa alle indulgenze); se ne può desumere una conferma indiretta anche dal fatto che l'art. 133 del vigente Regolamento Generale della Curia Romana non prevede più l'ipotesi dei provvedimenti concessi a voce e validi per il solo foro interno, che figurava invece nell'antecedente Ordo servandus del 1909. Quindi, il can. 64 sembra piuttosto da intendersi come deroga al generale divieto di passare dal foro esterno all'interno: se la questione è già stata deferita ad altro Dicastero, s'intende perché era pubblica, ma nel frattempo è divenuta occulta (ad es. perché il richiedente si è trasferito altrove e nel nuovo domicilio non vi sono testimoni del fatto), la Penitenzieria può trattarla senza dover infrangere il proprio segreto d'ufficio per interpellare altri; tuttavia, il ricorrente dovrà comunque far menzione del precedente diniego e dei suoi motivi.

[44]  Cfr. in tal senso V. de Paolis, op. cit., pag. 438. In realtà, si dovrebbe piuttosto dire che, mentre prima del Concilio Vaticano II tra i teologi predominava la tesi dell'esistenza di due potestà distinte, Ordine e giurisdizione (tesi formalmente recepita anche nel CIC17), i testi conciliari inclinano piuttosto per una sola sacra potestas di carattere fondamentalmente unitario di cui la iurisdictio concretamente posseduta sarebbe solo un'estrinsecazione; ma il problema era aperto prima e lo è rimasto tuttora. Il Codice, non potendo decidere un problema teologico, pur adeguando la terminologia alla scuola ora più in voga ha dettato una disciplina compatibile con entrambe le posizioni, così da rendere il loro contrasto del tutto irrilevante nella pratica. Del resto, per chi tiene ferma la distinzione tra le due potestà, giusta i decreti del Concilio di Trento sarebbe impossibile ricondurre sic et simpliciter l'attività del confessore all'Ordine sacro, senza un ruolo almeno concorrente (ma fondamentale) per la giurisdizione.

[45]  Cfr. a tale ultimo riguardo, sia pur rispetto a provvedimenti in foro esterno, Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, sentenza definitiva 1 giugno 1974 in causa prot. 3671/72 CA, Cuernavacensis – Dimisssionis, c. Staffa, in P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico, Bologna 2006, pagg. 433-7 (caso di dispensa non richiesta dalle religiose interessate, di cui anzi constava agli atti l'esplicito dissenso); Id., sentenza definitiva 8 aprile 1978 in causa prot. 7607/76 CA, Mexicana – Dispensationis a votis religiosis, c. Carpino, in Commentarium pro Religiosis 60 (1979), pagg. 267-74 (la religiosa era stata convinta a chiedere la dispensa, ma se n'era frattanto pentita e la Superiora non aveva reso noto al Dicastero romano questo mutamento di opinione). 

[46]  Deve comunque ritenersi consentito un nuovo ricorso alla stessa Penitenzieria, per esporre i motivi che rendono troppo gravosa o non confacente la soluzione prescelta dal Tribunale, specialmente trattandosi di fatti non dedotti in precedenza, magari perché non sembravano rilevanti.

[47]  Nella prassi, il ricorso si indirizza per lo più alla persona del Cardinale Penitenziere Maggiore, che “omnes et singulas facultates Sacro huic Tribunali datas ipse in se complectitur”, mentre le facoltà degli altri Officiali sono più limitate: cfr. Pio XI, Cost. Ap. Quae divinitus, cit., tuttora vigente come lex propria della Penitenzieria.

[48]  Circa le cautele da seguirsi negli invii epistolari a tutela del segreto, cfr. S. Penitenzieria Apostolica, Monitum 1 febbraio 1935, in AAS 27 (1935) 62.

[49]  Il confessore può comunque conservare una copia del rescritto per sua istruzione o altri scopi legittimi.

[50]  Nonché la sanazione in radice dei matrimoni nulli, se le parti hanno espresso e tengono fermo un vero consenso matrimoniale, ma c'è un problema di forma canonica, o di impedimento dirimente da cui non è avuta a suo tempo dispensa, e non sembra opportuno dare pubblicità alla grazia perché la nullità stessa è occulta, quindi il vincolo viene normalmente considerato valido.

[51]  Ricevuta un'intenzione di Messa, il prete è tenuto a soddisfarla, tanto che commette delitto canonico se trae illegittimamente profitto dall'elemosina della Messa evitando di celebrarla o cumulando le intenzioni ricevute in un'unica celebrazione, senza il consenso degli offerenti (cfr. can. 1385: la pena può arrivare anche alla scomunica). Esiste, però, un limite legale al numero di Messe che è possibile celebrare ogni giorno, così come possono sopravvenire impedimenti oggettivi; è indice sicuro ed eloquente della gravità della materia il fatto che la riduzione degli oneri celebrativi sia riservata alla Sede Apostolica (quindi alla Penitenzieria per il foro interno), eccettuati alcuni casi di minor importanza (cfr. can. 1308).

[52]  Un'attribuzione ulteriore è la competenza esclusiva in materia di indulgenze, che con il foro interno presenta notevoli affinità, sia per il nesso con la Confessione sacramentale, sia perché in genere solo il diretto interessato sa se ha lucrato un'indulgenza o no; ma in proposito non possono sorgere controversie, dato che, se anticamente l'indulgenza liberava da una certa quantità di penitenza pubblica, oggigiorno i suoi effetti sono esclusivamente spirituali.

[53]  Il fatto si colloca in un momento molto vicino al trasferimento di questa competenza alla Congregazione per il Clero, sopravvenuto nel 1980, il che potrebbe aver fatto perdere le tracce della sua pratica.

[54]  Ne ho trovato copia tra le carte personali del Vescovo emerito, non riordinate dopo la sua morte. Una particolarità degna di nota: il rescritto riporta generalità del confessore prescelto e data della confessione.

[55]  Scandalo, in senso proprio e attivo, è infatti un “atteggiamento o comportamento che induce altri a compiere il male” (CCC 2284): gli astanti commetterebbero, con ogni probabilità, peccati di giudizio temerario o di maldicenza. Il fatto che possano esservi propensi di loro non scusa colui che, comunque, crea un'occasione concreta di peccato Cfr. G. D'Annibale, Summula theologiae moralis, vol. II, Roma 1908, pag. 75, nt. 4 e relativi riferimenti. Ovviamente, la stessa ratio sorregge e illustra la regola opposta nel caso opposto: se a tutti o a molti è nota la condizione di Tizio, dandogli la Comunione il ministro darebbe scandalo, perché non potrebbe evitare l'impressione di approvare la sua condotta, o almeno di non curarsene.

[56]  “Can. 855. § l. Arcendi sunt ab Eucharistia publice indigni, quales sunt excommunicati, interdicti manifestoque infames, nisi de eorum poenitentia et emendatione constet et publico scandalo prius satisfecerint.

      § 2. Occultos vero peccatores, si occulte petant et eos non emendatos agnoverit, minister repellat; non autem, si publice petant et sine scandalo ipsos praeterire nequeat.”.

[57]  Si tratta del testo più antico citato nell'apparato delle fonti del can. 855 §2: il Vescovo che sa per certo che Tizio è colpevole e non emendato, se non può provarlo in foro esterno, in pubblico non lo deve rimproverare indicandolo per nome e cognome, ma genericamente, come ha fatto il Signore dicendo “Uno di voi mi tradirà”; né può privarlo della Comunione, “sed debet eum admonere, ne se ingerat, quia nec Christus Iudam a communione removit”.

[58]  Cfr. infatti, per un caso molto vicino a quello esposto da Eugenio III, ma stranamente non inserito tra i fontes dai compilatori del CIC17 (neanche rispetto ad altre disposizioni), C. 6 q. 2 c. 2: “Si tantum episcopus alieni sceleris se conscium novit, quamdiu probare non potest, nichil proferat, sed cum ipso ad conpunctionem eius secretis correctionibus elaboret. Quod si forte correptus pertinacior fuerit, et se communionem publicae ingesserit, etiam si episcopus in redarguendo illum, quem reum iudicat, probatione deficiat, indempnatus (licet his qui nichil sciunt, secedere ad tempus pro personae maioris auctoritate iubeatur) ille tamen, quamdiu nichil probare potest, in communione omnium, preterquam eius, qui eum reum iudicat, permanebit”.

[59]  Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, III, qu. 80, a. 6: “Videtur quod sacerdos debeat denegare corpus Christi peccatori petenti. Non est enim faciendum contra Christi praeceptum propter vitandum scandalum, neque propter vitandum infamiam alicuius […] Respondeo dicendum quod circa peccatores distinguendum est. Quidam enim sunt occulti, quidam vero manifesti; scilicet per evidentiam facti, sicut publici usurarii aut publici raptores; vel etiam per aliquod iudicium ecclesiasticum vel saeculare. Manifestis ergo peccatoribus non debet, etiam petentibus, sacra communio dari. [...] Si vero non sunt manifesti peccatores sed occulti, non potest eis petentibus sacra communio denegari. Cum enim quilibet Christianus, ex hoc ipso quod est baptizatus, sit admissus ad mensam dominicam, non potest eis ius suum tolli nisi pro aliqua causa manifesta. [...] Potest tamen sacerdos qui est conscius criminis, occulte monere peccatorem occultum, vel etiam in publico generaliter omnes, ne ad mensam domini accedant antequam poeniteant et Ecclesiae reconcilientur. Nam post poenitentiam et reconciliationem, etiam publicis peccatoribus non est communio deneganda, praecipue in mortis articulo.”.

[60]  Trattando del ministro della Comunione, egli ricorda che Essa non va data ai pubblici peccatori, ma aggiunge che, “si occulte tantum scias esse indispositum, occulte quidem, non tamen publice petenti est neganda: nisi indispositio ex confessione sit nota; tunc enim extra eam ne licet quidem monere” (S. Alfonso M. de' Liguori, Theologia Moralis, lib. VI, n. 246). Passando, quindi, ad occuparsi del comunicando, stabilisce come punto di partenza che “Qui est in mortali, tenetur sub mortali ante sumptionem Eucharistiae confiteri, nisi sit necessitas celebrandi, vel communicandi, et Confessarius desit. […] Dixi 1 In peccato mortali: tum quia Eucharistia delet venialia, ex opere operato: tum quia venialia (esto comitentur, imo reddant virtualiter malam ipsam sumptionem) non ponunt obicem gratiae sanctificanti. Quod si tamen multa sint, et intra genus suum gravia, de quibus nulla poenitentia concipitur, actualem devotionem, et fructum majorem impediunt.” (Ibid., n. 255; cfr. anche n. 270). Infine, nel dubbio sulla commissione del peccato mortale o sull'integrità della Confessione, si è tenuti al precetto di confessarsi (Ibid., n. 258).

[61]  Cfr. in particolare, con molta ampiezza perché tratta dei refrattari alla bolla “Unigenitus”, Benedetto XIV, Lett. Enc. Ex omnibus, 10 ottobre 1756, in P. Gasparri (cur.), Codicis Iuris Canonici fontes, vol. II, Roma 1948, n. 441, pagg. 534-8. Inoltre, il medesimo concetto espresso nella decretale e anche l'esempio di Giuda tornano in Suprema S. Congregatio S. Officii, Portus Aloisii, Resp. 1 agosto 1855, a proposito dei Massoni occulti, in P. Gasparri (cur.), Codicis Iuris Canonici fontes, vol. IV, Roma 1951, n. 932, pagg. 206-12.

[62]  Così, nel vigore del vecchio Codice, Ch. Augustine, A Commentary, cit., vol. IV, pag. 230, che si appoggia sull'autorità del Lehmkuhl; la conclusione appare in verità inevitabile, perché, sebbene il can. 14 implichi che le leggi proibenti non obbligano in presenza di un dubbio di fatto, qui si tratta nello stesso tempo di una legge che restringe l'esercizio di un diritto, come tale da interpretarsi in senso stretto ex can. 18.

[63]  L'infamia, infatti, come istituto giuridico si distingueva in “infamia di fatto” - relativa alle persone che, a giudizio dell'Ordinario, avessero persa la buona reputazione presso fedeli probi e gravi, in ragione di delitti commessi o di costumi depravati, cfr. cann. 2293 e 2295 – e in “infamia di diritto”, una pena accessoria prevista dal can. 2294 e annessa a delitti ritenuti meritevoli di particolare biasimo (tra cui sodomia, stupro, incesto, lenocinio o rapporti sessuali con minori di sedici anni: cfr. can. 2357).

[64]  Commetteva il delitto di bigamia, infatti, chiunque, essendo già legato da un vincolo matrimoniale, avesse attentato altro matrimonio anche solo civile. Incorreva nella pena anche il “secondo coniuge”, se era a conoscenza della situazione (Ch. Augustine, A Commentary, cit., vol. VIII, St. Louis – London 1922, pag. 412-3).

[65]  Va notato, peraltro, che il Codice mitigava, in un certo qual modo, il trattamento sanzionatorio precedente, visto che  il Decretum prevedeva come sanzioni scomunica e penitenza pubblica, cui la Cost. Ap. Magnum in Christo di Urbano VIII aveva aggiunto la condanna alle galee, oppure ad una fustigazione pubblica e al carcere a vita.

[66]  Il trattamento più mite dei concubinari – o perfino degli adulteri – rispetto ai bigami non deve stupire, essendo ben più grave la lesione che questi ultimi arrecano al vincolo coniugale; nel regime del CIC17, tutte le categorie incorrono nel divieto di amministrare beni ecclesiastici o svolgere incarichi come giudice, notaio, avvocato in foro canonico, nonché di fungere da padrino di Battesimo o Cresima e di votare nelle elezioni regolate dal diritto della Chiesa, esercitare il giuspatronato o comunque presentare o nominare candidati ad uffici ecclesiastici (cfr. cann. 2256 e 2294); ai bigami, però, è altresì interdetto l'accesso agli ordini sacri, come pure il conseguimento di uffici, pensioni o dignità ecclesiastiche, l'esercizio del diritto o dignità che già posseggano, nonché qualunque forma di collaborazione alle sacre funzioni. Lo stesso trattamento più severo si applica anche a tutti gli infami di fatto. La differenza è che l'infame di diritto è inabile a compiere certi atti, quindi se li compie sono nulli; non così l'infame di fatto, cui sono vietati ma non invalidati.

[67]  S. Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposta riguardante l’obbligo di premettere la confessione sacramentale prima della sacra comunione quando c’è la coscienza del peccato grave, 11 luglio 1968, in X. Ochoa (cur.), Leges Ecclesiae post Codicem Iuris Canonici editae, vol. III, Roma 1972, n. 3674, coll. 4503-4. Peraltro, il documento è volto a ribadire la vigenza dell'allora can. 856, che parlava di coscienza del peccato mortale, non semplicemente grave; i lavori di revisione del Codce hanno comunque portato a recepire questa lettura più stringente (cfr. l'attuale can. 916).

[68]  Con decreto del 20 settembre 1973, approvato, però, da Paolo VI il 17 novembre 1972.

[69]  S.C. pro Doctrina Fidei, Allegantur rationes quibus “probata praxis Ecclesiae” fundatur circa eos catholicos qui unionem matrimonialem quovis modo irregularem ac illegitimam ducunt, in X. Ochoa (cur.), op.cit., vol. VI, Roma 1987, n. 4657, coll, 7605-6. Il numero di protocollo della pratica è 1284/66, il che fa pensare che il dubium sia stato accorpato a precedenti richieste analoghe.

[70]  . Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.”. Dunque, alla ratio scandali si aggiunge un'incompatibilità obiettiva, che sembrerebbe più importante perché radicata nella stessa natura dei Sacramenti in gioco: il matrimonio naturale e indissolubile è stato eletto da Dio quale segno della “unione di amore tra Cristo e la Chiesa”; la rottura di un vincolo matrimoniale valido e la pretesa di sostituirlo con un altro contraddicono al segno e impediscono l'accesso all'Eucaristia, che “significa e attua” quella stessa unione indissolubile tra Cristo e la Chiesa. La logica dell'argomento – che, per quanto ne so, qui viene proposto dal Magistero per la prima volta - porterebbe a non ammettere mai i divorziati risposati alla Comunione, finché questa loro condizione perduri; e, in questo senso, si avrebbe un irrigidimento della disciplina, venendo abrogata l'eccezione di cui al can. 855 §2, allora vigente, e fors'anche negandosi l'applicabilità del can. 856.

[71]  Il quale non contempla più né l'infamia di diritto né quella di fatto; i delitti contra Sextum sono puniti solo se commessi da chierici (cfr. can. 1395), quindi concubinato e bigamia restano “semplici” peccati gravi, che non comportano più sanzioni canoniche (salva la possibile applicazione dei cann. 1319 e 1399; ma sembra molto difficile che la minaccia diella pena induca al ravvedimento). La condizione giuridica di concubinari e divorziati risposati, quindi, è migliorata e in particolare, a mio avviso, ora consente la collaborazione alle sacre funzioni, visto che i cann. 230 e 231 non contengono formule ostative di sorta.

[72]  Innovazione deliberata e ponderata, essa non figura nella prima discussione sulle norme De Eucharistia, che pure è stata piuttosto vivace sulla sorte del can. 856 [cfr. il verbale del Coetus De Sacramentis (Sessio VI), 7-8 dicembre 1970, ad loc., in Communicationes 31 (1999), pagg. 138-42]; è stata proposta da un Consultore, e accolta all'unanimità, nella VII sessione del coetus De Sacramentis [cfr. il verbale in Communicationes 31 (1999), pagg. 203-4]; figura, quindi, nel can. 76 dello Schema De Sacramentis (1975) e, nel prosieguo dell'iter, è stata confermata con un voto espresso di quattro Consultori contro tre [Coetus De Sacramentis, 29 marzo – 2 giugno 1978, ad loc., in Communicationes 13 (1981), pag. 413].

[73]  In un primo tempo, durante la revisione, si era ipotizzato di restringere il divieto di accesso ai soli casi di ostinazione nel delitto (“qui graviter deliquerunt et in contumacia manifesto perseverant”), scelta tenuta ferma ancora nella sessione del 1978 (che ha ulteriormente precisato “graviter et publice deliquerunt”,cfr. il verbale del Coetus De Sacramentis, 29 marzo – 2 giugno 1978, ad loc., in Communicationes 13 [1981], pag. 413). Poiché già si prevedeva che bigamia e concubinato non sarebbero più stati delitti per i laici, il divieto a carico di tali soggetti sarebbe caduto. La scelta definitiva ha tenuto in maggior considerazione la ratio scandali. Sempre alla prima riunione risale – con voto unanime, ma senza indicazione dei motivi – la decisione di non riprodurre il can. 855 §2, che non è più stata ridiscussa, almeno per quanto mi è dato sapere.

[74]  Inoltre, la ratio del divieto è chiaramente enunciata dall'aggettivo manifesto, certamente non applicabile ai peccatori occulti. Semmai, quindi, vi sarebbero argomenti per sostenere una qualche mitigazione della disciplina, poiché non ogni peccato pubblico, ossia passibile di prova in Tribunale, è anche manifesto ossia (propriamente) notorio con scandalo: cfr. Benedetto XIV, Lett. Enc. Ex omnibus, cit., §§3-5, nonché il can. 1184 §1 n. 3, in tema di sepoltura ecclesiastica. Poiché però l'uso della terminologia non è costante né tra i vari autori né all'interno del Codice, sembra preferibile interpretare l'aggettivo come equivalente all'anteriore “manifesto infames”: l'istituto giuridico dell'infamia è scomparso, ma qui ha lasciato il posto ad una categoria che in realtà è più ampia; sia per la conseguente esigenza di circoscriverla, sia perché è rimasta identica la ratio individuata dalla traditio canonica sul punto,  si deve dunque concludere che qui manifestum significhi “pubblico”.

[75]  Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 settembre 1994, n. 4, in fine.

[76]  Cfr. Benedetto XVI, Esortazione Apostolica post-Sinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, n. 29: “Infine, là dove non viene riconosciuta la nullità del vincolo matrimoniale e si danno condizioni oggettive che di fatto rendono la convivenza irreversibile, la Chiesa incoraggia questi fedeli a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, come amici, come fratello e sorella; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale.”.

[77]  Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione circa l'ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati, 24 giugno 2000, n. 2. Il documento conferma anche che, per l'operatività del divieto, non si richiede non si richiede la concreta presenza di reazioni scandalizzate tra i fedeli.

[78]  Diverso sarebbe il discorso se si ragionasse sull'obbligo di Confessione previa: in tal caso servirebbe necessariamente una dispensa, dato beninteso che sia ammissibile in astratto e che in concreto si riesca a ravvisare una causa giusta, proporzionata, sufficiente.

[79]  Anche un ipotetico rescritto della Penitenzieria in favore di un fedele in “situazione irregolare” non potrebbe far altro che elencare le condizioni a cui gli è lecito accostarsi ai Sacramenti, ma non lo esimerebbe dal grave dovere di verificare ogni volta, prima, se in quel momento le soddisfi.

[80]  La Penitenzieria anzi, oltre alla funzione propriamente giurisdizionale, svolge anche un'attività che si potrebbe definire di consulenza, proprio rispetto a casi in cui confessori o direttori chiedono lumi su quali indicazioni impartire, al di là dell'aspetto strettamente giuridico.