x

x

Aldo Moro e il riscatto della Santa Sede

Il Vaticano era pronto a pagare fino a dieci miliardi di lire per la liberazione del presidente della Dc, ostaggio delle Brigate Rosse
Aldo Moro
Aldo Moro

Aldo Moro: il 16 marzo 1978 sono quasi le 09,00 è l’auto con a bordo l’Onorevole Moro si avvicinava all’incrocio con Via Stresa, la strada è in discesa, e Moro sfogliava, come suo solito, la fascetta dei giornali acquistati nell’edicola di Monte Mario.

L’onorevole Moro ebbe un sussulto quando vide la terza pagina del quotidiano “La Repubblica”.

l quotidiano di Eugenio Scalfari intitolava a tutta pagina: “Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della DC”.

Aldo Moro era indicato come “L’Antelope Cobbleril famigerato e misterioso collettore delle tangenti dello scandalo Lockheed, della vicenda non si parlò più e per approfondirla si consiglia la lettura: Aldo Moro: lo scandalo Lockheed e “l’Antelope Cobbler” | Filodiritto

Lo statista non ebbe modo di finire di leggere l’articolo che poco dopo le 9, un commando delle Brigate Rosse entra in azione in via Fani, a Roma: blocca le auto del presidente Dc Aldo Moro, uccide i 5 uomini di scorta (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino) e portano via Moro su una Fiat 132 blu.

Il commando delle Br usò le armi in maniera molto “professionale” riuscendo a non ferire Aldo Moro.

Furono 93 i bossoli reperiti e catalogati, di questi ben 49 risulteranno sparati dalla stessa arma.

Le Brigate Rosse rivendicano l’azione con una telefonata all’Ansa.

Il sequestro terminerà 55 giorni dopo, il 9 maggio, con l’uccisione dello statista.

In questi giorni a Piazzale Clodio si vocifera che ci saranno presto delle novità dai pm della Procura di Roma, che hanno ricevuto lo scorso anno le carte raccolte dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sul rapimento e l’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana.

Il ponderoso incartamento è vagliato dal pm Eugenio Albamonte.

Tra gli spunti che il lavoro della commissione Parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro mette a disposizione dei magistrati è particolarmente interessante quello relativo alla presunta esistenza di un altro presunto luogo di prigionia per Moro, oltre a quello di via Montalcini, nella zona della Balduina.

In particolare il lavoro della “bicamerale” ha riguardato l’area di via Licinio Calvo dove i brigatisti, dopo il blitz di via Fani, lasciarono le auto utilizzate per sterminare gli agenti di scorta e prelevare l’allora presidente della Dc.

L’altro aspetto da chiarire è il mistero Vaticano su 10 miliardi di riscatto che erano pronti da consegnare per salvare lo statista.

Da chi erano stati raccolti i soldi? Quale era la loro provenienza?

Nel maggio 1978, pochi giorni prima del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, il Vaticano era pronto a pagare fino a dieci miliardi di lire per la liberazione del presidente della Dc, ostaggio delle Brigate Rosse. Le banconote – mazzette di dollari, con fascette di una banca ebraica – erano su una consolle nella residenza pontificia di Castel Gandolfo e furono mostrata da papa Paolo VI a monsignor Cesare Curioni, responsabile dei cappellani carcerari, il quale aveva attivato contatti per la liberazione di Moro. Era presente anche mons. Fabio Fabbri, segretario di don Curioni. Ma da dove provenivano tutti quei soldi? E che fine fecero? Nessuno lo sa.

Don Curioni è morto nel 1996 senza che quel mistero fosse svelato, mons. Fabbri ha detto alla Commissione Moro di non saperlo, e fonti vaticane, recentemente interpellate, hanno ribadito di ignorare chi procurò quel denaro e dove finì. Non era tuttavia, denaro dello Ior, ha precisato Mons. Fabbri, alimentando ancor più il mistero, ormai quasi irrisolvibile.

Soldi Vaticani per salvare Moro.

Filodiritto pubblica una piccola parte (le pagine 216-218) dei lavori della Commissione Parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, dove si parla della trattativa della Santa Sede e dei dollari raccolti.

Ulteriori accertamenti sulla “trattativa” della Santa Sede.

Già nella precedente relazione si era dato conto di alcuni accertamenti compiuti, sulla base delle dichiarazioni rese in audizione da monsignor Fabio Fabbri, intorno alla vicenda dei tentativi della Santa Sede di promuovere una trattativa sulla vita di Moro.

In quella sede era stato confermato il ruolo centrale di monsignor Cesare Curioni, responsabile dei cappellani carcerari, che attivò molteplici contatti, sia con brigatisti in carcere sia con un ignoto intermediario.

Fabbri ha dichiarato di non aver conosciuto né incontrato l’intermediario con cui Curioni trattava, ma di ritenere – per via di alcuni accenni – che l’interlocutore fosse mandato dalle Brigate rosse. Ha precisato che gli incontri – almeno uno a settimana – avvenivano previ contatti telefonici, e avevano luogo prevalentemente nella metropolitana di Napoli e in qualche caso nell’Italia settentrionale. Fabbri ha inoltre dichiarato di aver visto, il 6 maggio 1978, nella residenza pontificia di Castel Gandolfo, le mazzette di dollari messe a disposizione per il riscatto, del valore di circa dieci miliardi di lire, appoggiate sopra un tavolo e coperte da un panno di ciniglia azzurra.

Secondo Fabbri le mazzette recavano la fascetta di una “banca ebraica”.

Fabbri ha poi riferito che, grazie alle fonti che Curioni aveva nel carcere di San Vittore e che comprendevano l’avvocato Guiso, lo stesso Curioni ricevette dall’intermediario delle Brigate rosse, alcune fotografie di Moro prigioniero.

La prima fotografia, secondo monsignor Fabbri, fu mostrata a Paolo VI, il quale ritenne che l’immagine non garantisse che Moro era vivo. Per questo motivo – ha riferito l’audito – fu successivamente scattata una seconda foto nella quale Moro aveva in mano il quotidiano “la Repubblica” del giorno.

In entrambi i casi Curioni e Fabbri portarono personalmente al Pontefice le fotografie, di cui Fabbri dichiara di ignorare il destino.

Fabbri ha poi smentito alcuni articoli di stampa in cui si afferma che Curioni era con Paolo VI e con Macchi nell’appartamento papale la sera del 21 aprile 1978 e che partecipò materialmente alla stesura della lettera del Papa “agli uomini delle BR”.

Per quanto egli ricorda, infatti Curioni era nella sua casa di Asso, in Lombardia, dove – dopo la mezzanotte – ricevette una telefonata del Pontefice, che gli lesse il testo dell’appello per avere un suo riscontro in merito.

La situazione rimase tuttavia aperta fino alla fine, tanto che, secondo quanto riferito da Fabbri, l’8 maggio 1978 la Santa Sede era in attesa di un segnale positivo per il rilascio di Moro, che poi non arrivò. Ha infine affermato che Curioni dedusse, dalle fotografie dell’autopsia di Moro, che il modus operandi dell’assassino di Moro era quello tipico di un criminale di professione, da lui conosciuto al carcere minorile Beccaria di Milano.

Questa ricostruzione, che pure lascia aperte numerose questioni, è stata approfondita anche con diverse audizioni.

In particolare, nell’audizione del 4 ottobre 2017, Gianni Gennari, che all’epoca dei fatti era assistente spirituale di Benigno Zaccagnini e in relazione con diverse personalità della politica e della Chiesa, come Antonio Tatò e Cesare Curioni, ha ridimensionato la vicenda dell’intermediario, dichiarando di aver raccolto da Curioni la confidenza che questi non era una persona particolarmente affidabile. Ha inoltre affermato che Curioni gli disse di aver partecipato materialmente alla stesura della lettera del Papa “agli uomini delle Brigate rosse”, e che l'espressione “senza condizioni” era presente nella lettera fin dalla prima stesura. Gennari non ricorda peraltro se la partecipazione di Curioni avvenne telefonicamente – come affermato da monsignor Fabio Fabbri – o con la sua presenza fisica in Vaticano.

Ha infine affermato che Curioni gli espresse l’impressione che sul cadavere di Moro ci fosse un solo colpo sparato a bruciapelo su Moro vivo, che aveva lasciato l’alone caratteristico di bruciatura e mostrava il sangue che ne era fuoriuscito, mentre tutti gli altri colpi, una decina, fossero stati sparati a distanza maggiore e dopo parecchio tempo.

L’audizione – in forma segreta – di altra persona in relazione con monsignor Curioni ha integrato questa indicazione, con l’informazione che, proprio sulla base dell’osservazione dei colpi inferti a Moro, Curioni avrebbe dedotto che l’uccisore di Moro sarebbe stato Giustino De Vuono.

Gli accertamenti condotti dalla Commissione in relazione a questa convinzione soggettiva di una personalità certo non superficiale come monsignor Curioni, espressa a diverse persone in relazione con lui, non hanno consentito di trovare riscontri probanti di un ruolo di De Vuono nel sequestro Moro, che peraltro fu evocato già all’epoca dei fatti. Se infatti gli spostamenti di De Vuono – allora latitante – tra l’Italia e l’America del Sud sono compatibili con una sua presenza in Italia nel periodo del sequestro, non sono stati rinvenuti elementi certi a sostegno di una sua diretta partecipazione al sequestro Moro.

La Commissione ha inoltre accertato – delegando specifiche attività all’Arma dei Carabinieri – che, contrariamente a quanto affermato in sede giornalistica, risulta accertato che De Vuono morì nel penitenziario di Carinola nel 1994.

Rimane tuttavia l’interrogativo rappresentato dall’appunto del Centro informativo della Guardia di finanza di Roma consegnato al Ministro dell’interno la sera del 17 marzo 1978.

Nell’appunto, si relazionavano le notizie acquisite da una “fonte confidenziale degna di fede” che aveva riferito sulla presenza di Giustino De Vuono (insieme a Lauro Azzolini e Rocco Micaletto) nella capitale e della probabile presenza del sequestrato in una prima prigione munita di un garage collocata a breve distanza dai via Fani. Una zona che, nei due appunti successivi originati dalla stessa fonte, veniva circoscritta alla zona Monte Mario e cioè la zona ove si trovano via Licinio Calvo e via Massimi.

Il lavoro della Commissione si è quindi appuntato, visti i riferimenti sia a De Vuono sia alla zona di via Massimi, sul tentativo di individuare la fonte che aveva contattato il Centro informativo della Guardia di finanza. Purtroppo l’ufficiale che aveva avuto il contatto, individuato nel capitano Renato Mancusi, è da tempo deceduto. L’audizione dei suoi colleghi che è stato possibile rintracciare ha tuttavia fornito elementi significativi. Le notizie erano state effettivamente acquisite dal capitano Mancusi pochissime ore dopo il sequestro, forse già la stessa mattina del 16 marzo, la fonte era già conosciuta dal sottufficiale, vi erano stati più incontri uno dei quali nei pressi dell’abitazione del capitano Mancusi.

La fonte era probabilmente una persona gravitante in un ambiente vicino a quello brigatista. Restano quindi aperte domande in merito alla presenza di De Vuono in quei giorni Roma e in merito al primo rifugio nei pressi di via Fani in cui Moro potrebbe essere stato portato, ricerca oggetto di un complesso lavoro di indagine della Commissione.

Così conclude la Commissione Parlamentare, ora vediamo se il sussurrio di Piazzale Clodio si tramuterà in clamorose novità.