Potere di Ordine e potere di giurisdizione

Potere di Ordine e potere di giurisdizione
Can. 129 - §1. Sono abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che sono insigniti dell'ordine sacro, a norma delle disposizioni del diritto.
§2. Nell'esercizio della medesima potestà, i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto.
Il canone in epigrafe riproduce l'esito, sostanzialmente compromissorio, di una delle più aspre battaglie della riforma del Codice, battaglia che però, avendo carattere propriamente teologico, non poteva essere risolta da un atto legislativo, ma avrebbe richiesto un intervento magisteriale, probabilmente anche una definizione dogmatica vera e propria. Dovendo invece il Codice offrire soluzioni pratiche capaci di disinnescare le potenziali ricadute concrete di tale diritto, il legislatore al can. 129 §1 ha dichiarato che in linea di principio la habilitas ad essere titolari della potestà di governo o giurisdizione spetta solo a chi ha ricevuto il Sacramento dell'Ordine (il che fa pensare, ex can. 124, alla nullità dell'atto contrario), però poi al §2 consente anche ai laici di “cooperare” all'“esercizio” di detta potestà, formula che parrebbe configurar un ruolo ancillare rispetto a singoli atti, se non fosse che poi, al can. 1421 §2, vediamo prevista la possibilità di nominare giudici laici, sia pure con la previsione che solo uno di essi possa entrare a far parte di un collegio giudicante (dove quindi la maggioranza deve essere composta di chierici); il can. 494 poi, non richiedendo l'Ordine sacro, ammette che possa essere laico l'economo diocesano.[1] Chiude in un certo qual modo il cerchio – o riapre il problema, se vogliamo – il can. 274 §1, che riserva ai chierici solamente quegli uffici per il cui esercizio sia richiesta la potestà di Ordine “o (aut) la potestà di governo ecclesiastico”.
Per comprendere la natura del problema, è bene ripercorrere un poco lo sviluppo della riflessione teologica relativa alla natura e all'esercizio della potestà nella Chiesa. Il tema si connette strettamente a quello della Sua visibilità, soprattutto dai tempi della Riforma protestante, ma ciò non significa che tra gli stessi catolici vi sia pieno accordo in tutti i dettagli. In particolare, il problema qui all'esame è: la Chiesa di Roma professa che il Sacramento dell'Ordine non è un semplice conferimento di funzioni (men che meno un'investitura da parte della comunità), ma un atto soprannaturale che trasforma in modo interiore e ontologico i destinatari, facendoli diventare diaconi o sacerdoti perché li inserisce in una catena di trasmissione di questo dono che risale fino agli Apostoli; oggi è comunemente ammesso, sebbene non definito, che anche l'episcopato sia un grado – il più alto – dello stesso Sacramento; del pari, deve essere creduto per fede che nella Chiesa esiste per istituzione divina un vero potere di governo o iurisdictio, mediante cui alcuni soggetti creano obblighi, e talvolta diritti, in capo ad altri in vista di un fine pubblico, che in ultima analisi è sempre la salvezza delle anime; tale potere risiede certamente in maniera piena nel Papa e nei Vescovi, i soggetti cioè che hanno la pienezza del Sacramento dell'Ordine; ma qual è di preciso il suo rapporto con il medesimo Sacramento?
Occorre ancora precisare, per completezza, che secondo la dottrina cattolica – perlomeno attualmente - la iurisdictio non deriva semplicemente dal diritto naturale, non sorge dalla pura e semplice esistenza di una qualsiasi organizzazione visibile: un potere del genere è ammesso anche nella Chiesa, ma rispetto a quelle realtà che non sono di diritto divino, come le associazioni di fedeli o gli Istituti di vita consacrata, e prende il nome tradizionale di potestas dominativa; qui invece parliamo di un potere soprannaturale, perché ordinato ai fini soprannaturali propri dell'unica societas fondata direttamente da Dio,[2] nonché di un potere che in qualche modo deve derivare dagli uffici capitali istituiti dal Divin Fondatore, dunque dal Papa o dal Vescovo. Se si trattasse di un potere solo umano asservito, per così dire, a fini soprannaturali, senza dubbio potrebbe spettare a chicchessia. Così, invece, sorge il dubbio che in qualche modo esso debba essere correlato con quello di Ordine, sia per la necessaria origine apostolica sia perché fin dai tempi più antichi si osserva che i Vescovi, nei rispetti territori, e il Papa a livello supremo sono titolari, se non di tutto il potere di governo, certamente di quello che prevale su tutti e tutti controlla.
In concreto, si contendono il campo tre teorie: quella oggi più in voga, secondo cui esiste una sola sacra potestas, che ha propriamente carattere sacramentale e deriva appunto dall'Ordine, sebbene non ogni ordinato possieda effettivamente anche il potere di governo; la teoria c.d. della bipartizione, dominante fino al Vaticano II, che afferma l'esistenza di due poteri distinti, Ordine e giurisdizione; infine la teoria tripartita, che ai primi due ne affianca un terzo, quello di insegnare con autorità obbligante in coscienza, ossia il potere di Magistero.[3] Il linguaggio del Codice favorisce la prima – come già si è visto all'inizio – ma il suo ordine sistematico, attribuendo alla Chiesa il triplice munus di insegnare, reggere e santificare, è improntato alla teza, mentre il complesso delle sue disposizioni è quantomeno compatibile (anche) con la seconda, visto che il giudice laico, se non altri, è indubbiamente titolare di una vera potestà di governo pur non essendo chierico.
In effetti, l'esistenza in ogni tempo di persone che, senza aver ricevuto il Sacramento dell'Ordine, erano titolari di uffici che comportavano una potestà di governo o li esercitavano legittimamente costituisce il principale argomento in favore delle teorie non moniste. Un altro è l'esistenza, a sua volta antichissima, di forme di autorità ecclesiastica sovradiocesana che non sono però, di diritto divino: Metropoliti e Patriarchi, sul piano sacramentale, sono Vescovi come tutti gli altri e non possono neppure vantare, come il Papa, una successione petrina che si affianca a quella apostolica comune a tutti i Vescovi, purtuttavia ab immemorabili possono comandare legittimamente su altri Vescovi. Similmente, nel Medioevo latino l'arcidiacono, che in origine era appunto solo un diacono, divenne l'antesignano dell'odierno Vicario generale, come dire che cominciò ad esercitare potere di governo anche sui preti, che oper grado di Ordine gli erano addirittura superiori; a loro volta poi, sia i Vescovi sia il Papa, una volta designati, compivano atti di governo anche prima della consacrazione episcopale, quando dunque, in termini sacramentali, erano solo preti e a volte neppure quello (Papa Silverio, p.es., prima dell'elezione era soltanto un suddiacono).
La teoria bipartita, la cui genesi storica deve molto allo sviluppo delle cc.dd. ordinazioni assolute, cioè di chierici muniti dell'Ordine sacro ma non di un gregge di fedeli,[4] è stata sviluppata da S. Tommaso d'Aquino in un sistema teologico apparentemente perfetto,[5] che non si può dire abbia subito mutamenti sostanziali in seguito.[6] Ora, va notato che per lui l'Episcopato non è un Sacramento e neppure un grado dell'Ordine: “Attenendosi a una tradizione teologica plurisecolare (che aveva avuto tra i suoi più qualificati esponenti Isidoro di Siviglia, Ugo di S. Vittore, Pier Lombardo, Gregorio Magno), la quale considerava i presbiteri e i vescovi eguali nel potere sacerdotale, pur riconoscendo al vescovo una maggiore autorità giurisdizionale, [Tommaso] nega la sacramentalità distinta dell'e.: esso non differisce dal presbiterato né rispetto al sacramento né rispetto all'ordine”, perché non attribuisce alcun maggior potere rispetto al compimento del Sacrificio eucaristico, considerato come scopo precipuo dell'Ordine sacro, ma solo una pienezza del Sacerdozio in senso giurisdizionale che serve, però, uno scopo solo secondario rispetto al Sacramento dell'Altare, ossia preparare i fedeli a riceverLo degnamente; tuttavia, essendo il solo a possedere questa pienezza, è anche l'unico possa legittimamente trasmettere l'Ordine sacro.[7] In quest'ottica, pertanto, tramite i Vescovi, successori degli Apostoli, la potestas Ordinis si perpetua in tutte le generazioni, ma quanto al potere di governo esso deriva in ultima analisi sempre dal Papa, cui è conferito direttamente da Cristo nel momento in cui accetta l'elezione canonica, anche se non fosse ancora Vescovo; patimenti, a tutti i titolari di uffici inferiori esso deriva dalla missione canonica ossia dall'atto di nomina, a prescindere dalla ricezione del Sacramento dell'Ordine; anzi, può essere conferito anche ai cc.dd. chierici minori, che nella gerarchia ecclesiastica rivestivano i gradi inferiori al diaconato e svolgevano mansioni cultuali varie, ma non avevano ricevuto (né si pensava che dovessero per forza ricevere in futuro) il Sacramento stesso: giuridicamente erano chierici, teologicamente erano laici. Questo è il sistema che troviamo recepito nel CIC 1917 (cfr. in particolare i cann. 196 e 210).
Restava, tuttavia, una questione teologica aperta: il rapporto tra gli uffici di Vescovo e di Papa. Secondo una visione solitamente definita curialista, il Vescovo, ricevendo tutto il potere di governo dal solo Romano Pontefice mediante l'atto di nomina (o, prima che si affermasse la riserva di tali nomine a Roma, mediante la conferma dell'elezione), doveva considerarsi detentore di un'autorità esercitata in nome altrui, non proprio; ma accanto a questa scuola ne è sempre esistita un'altra, secondo cui il Papa può creare e sopprimere le Diocesi, nonché nominare i loro titolari, però l'Episcopato come tale è di istituzione divina e al singolo Vescovo legittimamente designato il potere deriva da Cristo, sia pure per il tramite dell'atto papale. Il tema è rimasto aperto a Trento e non è stato definito neppure al Vaticano I, tuttavia entrambi i Concili hanno definito due punti di somma importanza: il Tridentino, che nella Chiesa esiste una gerarchia divinamente istituita, composta di Vescovi, Sacerdoti e ministri;[8] il Vaticano I, al cap. III della Cost. Ap. Pastor Aeternus, la supremazia papale sui Vescovi singoli o riuniti, ma con due indicazioni di segno contrario alla tesi curialista, in quanto la potestà del Papa è detta “veramente episcopale” e per questo motivo immediata, mentre si specifica che da questo suo carattere non patisce pregiudizio la giurisdizione dei Vescovi sui loro fedeli, chiaramente sentita come distinta e non quale mera emanazione di quella papale.
Inoltre, fra i teologi è maturata via via la convinzione che l'Episcopato sia Sacramento e precisamente l'Ordine sacro nella sua pienezza, poiché questo, pur essendo certamente funzionale all'Eucarestia, non si esaurisce nel potere di consacrare, ma include tutti i corollari necessari od utili per il SS.mo Sacramento, non ultimo il potere di ordinare altri ministri del culto;[9] la sua sacramentalità, sebbene non espressamente insegnata, è implicita nella Cost. Ap. Sacramentum Ordinis di Pio XII, che risolve una questione plurisecolare, determinando materia e forma dell'Ordine sacro, trattando solo i riti di conferimento del diaconato, del sacerdozio e, appunto, dell'episcopato. Si è così arrivati al Concilio Vaticano II con un rinnovato impulso verso la teoria monista, poiché il sistema tomista non poteva non entrare in crisi, nel momento in cui si dava per caduto uno dei suoi capisaldi. Nello stesso tempo si agitavano varie questioni collegate, non ultima quella c.d. della collegialità episcopale. Si può dire che il Concilio, pur non avendo definito dogmi ed essendosi anzi espresso in termini compatibili con le diverse tesi, nel proprio linguaggio ha privilegiato la teoria monista (ed ha altresì dato un notevole impulso a quella della tripartizione).
Va detto, al riguardo, che il Cap. III della Costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium (LG) non parla affatto né di potestà di Ordine né di potestà di giurisdizione, ma solo dell'Episcopato come tale, nella cui configurazione “fisiologica” tutti convengono che tutti i poteri si trovano di fatto riuniti. Insegna poi espressamente (n. 21) che esso è un Sacramento e che la consacrazione conferisce non solo il munus di santificare, ma anche quelli di insegnare e governare, però aggiunge subito che questi ultimi, per loro natura, non possono essere esercitati che nella communio hierarchica con gli altri e con il “Capo del Collegio dei Vescovi” cioè il Papa; all'interno del n. 23 precisa che, sebbene tutti e singoli i Vescovi debbano sentire una viva premura per la Chiesa intera, questa tuttavia al di fuori della loro Diocesi non si traduce in atti di giurisdizione; al n. 24 riprende il discorso e precisa che “La missione canonica dei vescovi può essere data per mezzo delle legittime consuetudini, non revocate dalla suprema e universale potestà della Chiesa, o per mezzo delle leggi fatte dalla stessa autorità o da essa riconosciute, oppure direttamente dallo stesso successore di Pietro; se questi rifiuta o nega la comunione apostolica, i vescovi non possono essere assunti all'ufficio”;[10] infine, al n. 27, afferma altresì che la sacra potestas del Vescovo nella sua Diocesi è sua propria, sicché egli non va considerato vicario del Romano Pontefice, sebbene gli sia subordinato. Si può ancora aggiungere, per l'indubbio rilievo ai nostri fini, che il n. 33 dichiara i laici abili a ricoprire alcuni uffici ecclesiastici, non meglio specificati.
Sui testi conciliari e la loro retta interpretazione sono scorsi fiumi di inchiostro, anche per alcune ambiguità terminologiche.[11] Basti dire che – come credo si comprenda a sufficienza dal pur scheletrico riassunto che precede – sono compatibili con tutte le testi, sono stati volutamente redatti in tal modo; non a caso, dunque, se sulle prime pareva definitivamente acquisita la teoria monista (tanto che, p.es. i Segretari delle Congregazioni romane furono tutti promossi Vescovi e che, nella nuova disciplina dell'elezione papale del 1975, non si parlò più di possesso della potestà iure divino, da parte del Papa non ancora Vescovo, fin dal momento dell'accettazione),[12] si assistette in seguito alla riscossa delle altre – cui restavano, d'altronde, argomenti più che validi anche una volta riconosciuta la sacramentalità dell'Episcopato – e il Codice, dopo un passaggio redazionale (Schema del 1980) in cui distingueva tra una potestas regiminis fondata e una non fondata sull'Ordine sacro, ha adottato la soluzione di compromesso di cui si è detto. Va forse ancora aggiunto che il can. 145 definisce l'ufficio ecclesiastico come un incarico stabile, anche privo di potestà di Ordine o giurisdizione, quindi il can. 228 §1 può recepire l'insegnamento di LG 33 e consentire ai laici di ricoprirne alcuni, ad normam iuris; assolvendo al compito suo proprio, il Codice non dirime le diatribe dottrinali, ma stabilisce volta per volta i requisiti per il conferimento di un particolare ufficio.
Se, all'esito di tutto l'excursus, torniamo al can. 129 non possiamo stupirci di trovare divergenze anche significative tra i suoi interpreti. Si ammette senza dubbio una siccata preferenza per il nesso tra Ordine sacro e potestas regiminis, ma in termini che possono divergere in modi anche piuttosto netti:
- “Il can. 129 §1 dice che abili alla potestà di governo sono i chierici; i laici pertanto sono inabili. L'inabilità, a norma del can. 10, rende nullo l'atto posto da chi è da essa affetto. Ma si tratta di una legge divina o umana? Se è divina non può essere dispensata; se è umana, sì.”;[13]
- “A riguardo dei laici non viene detto che siano inabili a norma del c. 10, ma che possono esercitare detta potestà come collaboratori”;[14]
- Se “Il can. 129 par. 1 va […] interpretato nel senso che i ministri sacri hanno una predisposizione radicale al potere di governo” (si trasmetta poi esso con l'Ordine sacro, con la missione canonica o con entrambi gli atti), “Il can. 129 §2 nega, invece, ai laici questa capacità ontologico-sacramentale di governare in nome di Cristo. Questi soltanto 'possono cooperare nell'esercizio di detta potestà'”, il che in concreto significa che non possono ricoprire uffici capitali, “tuttavia, possono essere titolari della potestà di governo, purché non in nome proprio, e sempre che si tratti di una funzione o di un ufficio non capitale, con funzioni di cooperazione rispetto ad un ufficio capitale”;[15]
- “Il verbo 'cooperare' è di portata molto elastica. Può significare semplicemente qualcosa che è vicino all'esercizio della potestà di governo, ma non è propriamente esercizio della potestà di governo; ma può significare anche l'esercizio della stessa potestà di governo.”.[16]
La conclusione non può che essere aperta quanto la stessa formulazione legislativa: fermo il dato di diritto divino per cui gli uffici capitali sono destinati a coloro che sono insigniti dell'Ordine episcopale (almeno nel senso che intendono riceverlo), sia per quanto riguarda natura e articolazione dei poteri, sia per quel che concerne quello di governo e la partecipazione dei laici ad esso, il Codice attende sviluppi che potranno essere pratici o legislativi, ma dovranno essere – prima o poi – dottrinali, anzi dogmatici. Ad es., la recente riforma della Curia Romana, approvata con Cost. Ap. Praedicate Evangelium (19 marzo 2022), al §II n. 5 prevede espressamente che qualunque fedele, dunque anche un laico, possa presiedere un'Istituzione curiale, motivando la scelta con il carattere vcario della relativa potestà, che non si esercita in nome proprio, ma in nome del Romano Pontefice; tuttavia, in concreto la prima applicazione di tale norma, avvenuta con la nomina a Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica di una donna, incapace di ricevere l'Ordine sacro e quindi, per la teoria monista, anche la giurisdizione, è stata accompagnata dalla nomina di un Pro-Prefetto, il cui ruolo non mi risulta a tutt'oggi spiegato; è lecito pensare che, appunto al fine di scongiurar problemi di validità degli atti, si sia previsto un obbligo di firma congiunta ogniqualvolta si eserciti vera e propria giurisdizione. L'escamotage ha una sua intelligenza, ma i limiti sembrano piuttosto evidenti; semmai, esso rende più chiaro e anche più urgente che occorre affrontare i nodi gordiani di alcuni dogmi da definirsi.
[1] Non si tratta comunque degli unici casi; ma figure come l'uditore o il promotore di giustizia si possono più agevolmente ricondurre al concetto di “collaborazione nell'esercizio” di una potestà principalmente altrui.
[2] “Tale potestà è soprannaturale per il fine, per l'origine e per la sua stessa natura. È la stessa potestà divina data alla Chiesa. Dato il fine soprannaturale non può essere che potestà divina anche nella natura, in sé stessa. Solo la grazia, una realtà soprannaturale, può raggiungere un fine soprannaturale. La potestà della Chiesa è dunque la potestà del Padre e di Cristo Gesù. Tale la società tale la potestà. Una società soprannaturale come la Chiesa non può essere governata che da una potestà soprannaturale. Notiamo bene: è soprannaturale sia la potestà di santificare (ordine), che di insegnare (magistero) e di governare (governo o giurisdizione).”. V. de Paolis, Le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 425. In altri termini, “in Cristo, fonte originaria di ogni potere, vi è un solo potere. Occorre, però, valutare se vi siano ragioni valide per poter sostenere che nella Chiesa c'è una diversità di poteri, in ragione della fonte, del contenuto o del fine perseguito.”. E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 46.
[3] Per la teoria bipartita, invece, il Magistero ecclesiastico, appunto per il suo carattere imperativo, è un atto di giurisdizione; oggi però depone in senso contrario LG 25, secondo cui all'insegnamento dei Vescovi sono tenuti a prestare ossequio tutti, non solo i loro sudditi, che potrebbero anche mancare. Va detto però che qualche fautore della bipartizione annovera, invece, il Magistero all'interno dell'Ordine.
[4] Fino al XII sec. circa, si era sempre ordinati al servizio di una determinata chiesa (oggi diremmo parrocchia), o nel caso dei Vescovi di una determinata Diocesi (c.d. ordinazioni relative), sicché quasi sempre viera coincidenza attuale, nella stessa persona, tra potere di governo e potestà di Ordine. Con il diffondersi dei Vescovi c.d. titolari, che solo nominalmente avrebbero un gregge di fedeli perché in realtà le loro sedi sono in partibus infidelium, dunque in mano ai pagani e per di più senza che colà siano rimasti cristiani (il fenomeno risale alla progressiva perdita della Terrasanta, alle cui sedi si continuò comunque a deputare Vescovi), i tempi erano maturi per una riflessione che distinguesse bene l'aspetto sacramentale dalla potestà di governo.
[5] “Probabilmente il primo canonista che pone chiaramente l'accento su tale bipartizione è Uguccio, alla fine del sec. XII.”. E. Labandeira, op.cit., pag. 48 e relativi riferimenti.
[6] Se si eccettua la successiva aggiunta di una distinzione parallela tra potestà propria e vicaria, dove i due aggettivi non hanno lo stesso senso del Codice odierno: “Di fronte agli Stati agnostici e assolutisti, la Chiesa, nel difendere la sua autonomia e indipendenza, non poteva ricorrere alla rivelazione, rivendicando la sua missione di insegnare e di santificare in nome di Dio. […] Sorse allora quella distinzione che ebbe poi tanto successo: la Chiesa ha una potestà propria ed una vicaria. Quella vicaria è propria di Dio, particolarmente quella di ordine, e che Dio esercita attraverso la Chiesa, ma non appartiene alla Chiesa in quanto società organizzata umana. Quella propria invece appartiene alla Chiesa in quanto società organizzata, è propria della Chiesa appunto perché le appartiene in quanto società di tipo organizzativo umano; perciò tale potestà appartiene ad ogni società.”. V. de Paolis, op.cit., pagg. 425-6.
[7] B. Mondin, Dizionario Enciclopedico del pensiero di S. Tommaso d'Aquino, s.v. Episcopato, Bologna 2000, pagg. 243-4. Per i testi pertinenti, cfr. S. Tommaso d'Aquino, In Sententias IV, dd. 24-5 (la trattazione più ampia), nonché Id., Summa Theologiae II-II, qu. 185, e Supplementum qq. 37-8.
[8] “Si quis dixerit, in Ecclesia catholia non esse hierarchiam, divina orinatione institutam, quae constat ex episcopis, presbyteris et ministris, anathema sit.”. Concilio Ecumenico Tridentino, Sess. XXIII, 15 luglio 1563, Doctrina et canones de Sacramento Ordinis, can. 6 (DH 1776). Il linguaggio del decreto non menziona la sacramentalità dell'Episcopato, ma nemmeno la esclude, così come rispetto agli Ordini minori lascia aperta la loro inclusione o meno nel novero dei ministri divinamente istituiti.
[9] Per lo sviluppo della riflessione teologica, cfr. B. Bartmann, Teologia Dogmatica, Alba 1956, pagg. 1326-7.
[10] Lascio volutamente da parte la Nota explicativa praevia, che richiederebbe ulteriori precisazioni e riguarda soprattutto la collegialità; osservo solo che essa conferma che il munus regendi ricevuto nella consacrazione episcopale non consiste di per sé in un potere giuridico concretamente esercitabile su qualcuno.
[11] “Nei documenti del Concilio Vaticano II è presente la distinzione tra le due potestà, anche se sembra passare in secondo piano rispetto alla dottrina dei tre munera, con la quale, peraltro, non è incompatibile. Si fa, però, riferimento alla potestas sacra, che a volte sembra comprenderle entrambe (LG, 10 e 18), altre volte, invece, si identifica con la potestas regiminis (LG 27), della quale, con diverse denominazioni, si parla in riferimento al Romano Pontefice, ai Vescovi, ai Vicari generali ed episcopali ecc. Si fa anche riferimento, pur se in minore misura, alla potestà di ordine, e si afferma che i presbiteri dispongono della sacra potestas ordinis per offrire il Sacrificio e perdonare i peccati (PO, 2), e che sia questa potestà sia quella dei diaconi rendono le persone ordinate cooperatori dell'ordine episcopale (CD, 15).”. E. Labandeira, op.cit., pagg. 49-50.
[12] Anzi, Paolo VI, Cost. Ap. Romano Pontifici eligendo, 1 ottobre 1975, n. 89, prescriveva che solo dopo la consacrazione episcopale si prestassero all'eletto l'ossequio e l'obbedienza e si desse l'annuncio al popolo.
[13] V. de Paolis, op.cit., pag. 428.
[14] J.I. Arrieta, Commento ai cann. 129-144, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pagg. 142-153, qui 143 (sub can. 129)
[15] E. Labandeira, op.cit., pag. 68.
[16] V. de Paolis, loc.ult.cit.