Il rescritto (cann. 59-75)

Il rescritto (cann. 59-75)
Sommario
1. Linee generali dell'istituto;
2. Legittimazione alla richiesta e forma della concessione;
3. Contenuto della richiesta e vizi del provvedimento (cann. 63 e 66);
4. La concessione di grazie negate in precedenza (cann. 64 e 65);
5. Acquisto e perdita dell'efficacia;
6. Conflitto tra rescritti (can. 67)
1. Linee generali dell'istituto
Esaurita la trattazione dei decreti, possiamo passare all'altro termine nella summa divisio dei provvedimenti singolari, il rescritto. In questo caso, non incontriamo sottotipi (com'è invece il precetto rispetto ai decreti): infatti, “con il termine di rescritto […] si indica la forma di un provvedimento che può avere contenuti sensibilmente diversi”, ma che in sé resta unitario; l'esito pratico, tuttavia, non è molto diverso, poiché “qualora [i rescritti] contengano un privilegio o una dispensa, devono osservarsi anche le disposizioni specificamente dirette a questi ultimi”,[1] che talvolta derogano alla disciplina generale. In linea di massima, tuttavia, si può dire che:
- il rescritto è, da sempre, un provvedimento emesso su richiesta;
- oggi, per espressa disposizione di legge, si qualifica tale solo quello che conceda una grazia, salva l'estensione della sua disciplina anche alle licenze (can. 59);
- i cann. 59-75, quindi, dettano una disciplina generale della concessione di grazie, rimandando ai successivi la regolamentazione di alcuni contenuti particolari (privilegio, dispensa).[2]
Il primo aspetto non richiede specifica illustrazione: l'istituto proviene dal diritto romano ed ha mantenuto il suo carattere di strumento mediante cui il princeps interviene su un caso concreto, che gli viene sottoposto in vista di un provvedimento di giustizia oppure di grazia. Semmai bisogna notare che, mentre il diritto delle Decretali (X.1.3 e VI.1.3) almeno in linea di principio riservava la potestas rescribendi al Romano Pontefice – e ciò in quanto il rescritto era considerato atto legislativo – il can. 36 §1 CIC17, adeguandosi d'altronde alla pratica già invalsa, la allargò a qualunque Ordinario;[3] il Codice vigente, in termini ancor più ampi, esige solo che il rescritto provenga “dalla competente autorità esecutiva”, cioè da chiunque abbia il potere-dovere di eseguire la legge da cui si chieda la dispensa, oppure possa concedere la tale grazia; fa eccezione il privilegio, per cui il can. 76 richiede che l'autore sia munito di potestà legislativa.
Storicamente – e con ciò veniamo al secondo punto – il rescritto, proprio in quanto espressione di plenitudo potestatis e quindi potenzialmente contra legem o innovativo dell'ordinamento, poteva avere qualsiasi oggetto; semmai si faceva distinzione per quelli che potessero pregiudicare i diritti di terzi, rispetto a cui si esigeva la presenza di formule inequivocabili che attestassero una volontà del principe in tal senso.[4] E anche in diritto canonico la dottrina classica, di cui il d'Avack si è fatto eco fedele anche dopo la codificazione, li considerava “leggi individuali o particolari emanate per una singola persona o per un singolo caso sia secundum, sia praeter, sia anche contra jus, ponendo così a favore di una persona, di un rapporto o di un oggetto una norma contraria al diritto comune (privilegio), o sospendendo nei suoi confronti l'efficacia della legge (dispensa).”.[5] Ma il Codice attuale ha scelto di attribuir loro natura amministrativa e contenuto esclusivo di grazia: de iure condito, gli atti che si limitano ad applicare il diritto - sebbene emanati in seguito a richieste e, per avventura, anche mediante la tecnica formale del rescritto - debbono sempre qualificarsi decreti. Ha dunque incontrato il favore del legislatore la tesi, propugnata in origine da Orio Giacchi,[6] della natura amministrativa del rescritto, in quanto provvedimento particolare (che lascia quindi immutata nel resto la norma generale cui deroga) bisognoso di una causa, ossia l'interesse particolare rappresentato nelle preces, e applicativo a sua volta di una norma generale che ne prevede l'emanazione, almeno in termini di facoltà; altrimenti detto, si è riconosciuto che fa parte integrante della funzione esecutiva anche la concessione di grazie, che provvedono ad evitare ingiustizie in quei casi che sono di per sé soggetti alla legge, ma non rientrano nell'id quod plerumque accidit che ne costituisce il presupposto.
Resta invece inalterata – anche se, come si è accennato, non è più decisiva per la qualificazione – la veste formale caratteristica, cui l'istituto deve il nome stesso: rescriptum deriva infatti da re-scribere, “scrivere in risposta”, tipicamente in calce all'istanza. Per giunta, anche quando manchi quest'unione materiale con la richiesta (preces), anche oggi sussiste un imprescindibile legame morale, per così dire, in quanto il rescritto non reca una motivazione propria, ma si riporta appunto a quanto esposto. Siccome, poi, la sua emanazione avviene senza una previa istruttoria (non a caso, la disciplina di quest'ultima è contenuta nei canoni riferiti ai decreti) e la verifica dei presupposti di fatto, che sono stati esposti dal richiedente – orator nella terminologia tradizionale – è demandata all'esecutore oppure manca del tutto, è assolutamente necessaria una disciplina che preveda, con la debita cura, i casi di invalidità dovuti ad omissioni o, peggio, ad allegazione del falso. Questo è appunto l'oggetto principale, sebbene non esclusivo, dei cann. 59-75.[7]
2. Legittimazione alla richiesta e forma della concessione
I decreti in genere non presuppongono una richiesta, ma quando è necessaria (ad es. per i provvedimenti di incardinazione) essa deve provenire dal destinatario dell'atto. Non così per i rescritti: i cann. 60 e 61 sono molto chiari tanto nell'esigere che un'istanza vi sia[8] quanto nel prevedere, anzitutto, una legittimazione generale, perché il CIC 83 non vieta più la presentazione della richiesta neppure a scomunicati, interdetti o sospesi (che oltre a chiedere possono in linea di massima ottenere, perché questo è il senso di impetrare);[9] vi è inoltre la possibilità della richiesta in favore di terzo, a prescindere dal suo consenso previo o anche dall'accettazione successiva.[10] Questo ci ricorda, per un verso, che siamo pur sempre nell'ambito dei provvedimenti amministrativi e non degli atti consensuali o bilaterali (nonostante l'indubbio legame causale, e non meramente occasionale, tra preces e atto autoritativo); per altro, che l'interesse in gioco resta la salus animarum, in sé non riducibile ad un semplice “interesse privato” né, a rigore bene lecitamente disponibile per il singolo, sicché può ben darsi la possibilità di un intervento di grazia per segnalazione da parte di terzi, che modifichi la situazione giuridica perfino contro la volontà dell'interessato;[11] non può tuttavia (per le ragioni che vedremo a suo tempo) essere il caso delle dispense.
La forma della richiesta non è specificata da nessuna parte, ma è sempre bene presentarla per iscritto;[12] credo comunque che, al di là dell'etimologia, dovrebbe qualificarsi rescriptum anche il provvedimento concessorio che facesse riferimento alle circostanze esposte a voce, salvi i problemi di interpretazione se non le riferisse. Esistono, semmai, requisiti di forma-contenuto, che consistono in sostanza nel dire tutto quello che “bisogna dire” (vedremo tra poco in che termini). E ciò è ben comprensibile, in quanto “L'esercizio del diritto di petizione (cfr. c. 212) comporta per l'autorità 'un obbligo – giuridicamente esigibile – di valutare adeguatamente la domanda e di dare a essa una risposta che sia la più corretta possibile o, se si tratta di materia discrezionale, la più conveniente' (del Portillo).”.[13] Non vi è un diritto al provvedimento favorevole, meno ancora negli esatti termini della domanda, ché altrimenti saremmo nel campo degli atti di giustizia; vi è però un diritto di chiedere e, quindi, anche di ottenere una risposta che, positiva o negativa, esamini il merito della richiesta; come già detto, ritengo altresì applicabile il can. 57 al silenzio su siffatte preces.
A termini del can. 59 §1, il rescriptum ha forma scritta, ma la relativa disciplina si applica anche alle concessioni di grazia vivae vocis oraculo; in questo modo si elimina ogni dubbio circa la validità di queste ultime, anche se la mancanza di un atto scritto potrebbe rendere difficile usare in foro esterno della grazia concessa (cfr. can. 74). Il provvedimento negativo, invece, siccome non contiene una grazia non si può qualificare rescritto, bensì decreto.[14] Non risulta trattato, che io sappia, il caso in cui venga accordata una grazia sostanzialmente diversa da quella richiesta: sarei orientato a ritenerlo un decreto, almeno se preceduto da congrua istruttoria; credo però che, in simili circostanze, l'autorità finirebbe piuttosto per avvalersi del rescritto in forma commissoria libera.
3. Contenuto della richiesta e vizi del provvedimento (cann. 63 e 66)
La riflessione canonica sull'istituto del rescritto non ha, ovviamente, mancato di concentrarsi sul punctum dolens della possibile falsità o lacunosità, più o meno intenzionale, delle richieste; le soluzioni elaborate, però, hanno oscillato tra l'incidenza causale determinante del vizio, oggettivamente considerato, e il rilievo da darsi alla buona o mala fede del richiedente, che, per ragioni intuitive, sembrava a sua volta una circostanza di peso.[15] La conseguente casistica, già semplificata non poco dal legislatore del 1917, oggi può dirsi abbandonata del tutto: il Codice del 1983 considera l'esposizione del falso (obreptio) o la mancata menzione del vero (subreptio) soltanto come fattori che oggettivamente comportino un errore determinante in capo all'autorità che provvede; alla buona fede si potrà provvedere mediante la riproposizione della richiesta, che incontra limiti solo in caso di diniego, mentre la mala fede costituisce delitto (can. 1391 n. 3 ante riforma).
Oggi, pertanto, in materia vige la duplice regola consacrata dal can. 63:
- per ogni grazia, esiste un insieme di circostanze che, “secondo la legge, lo stylus e la prassi canonica”, hanno incidenza determinante circa la concessione; se anche una sola di queste viene taciuta (e, si intende, sussisteva ma in senso ostativo), il rescritto è invalido;
- inversamente, se vogliamo, nel caso dell'obreptio, giacché le cause che sorreggono un rescritto possono essere impulsive, ossia accessorie, e motive ovvero determinanti;[16] l'atto è invalido se nemmeno una delle cause motive esposte è vera.[17]
Per il caso di silenzio, non di falsità positiva, vi è un'eccezione: se il rescritto - “secondo un uso che rimonta al pontificato di Giovanni XXII per i rescritti accordati ai cardinali ed ai personaggi importanti”[18] - viene munito della clausola motu proprio, ciò significa che il rescribente intende tener ferma la concessione, “come se” procedesse dalla sua propria volontà, anche qualora, nella richiesta, sia stata taciuta una circostanza (o più) che in circostanze normali sarebbe determinante.[19] In altri termini: la potestà esecutiva non è imbrigliata a priori dal pur utilissimo reticolo dell'elaborazione legislativa e di prudentia iuris, conserva la capacità di svincolarsene rispetto al caso concreto, anche quando si tratti di requisiti legali;[20] ma giustamente un simile intento non si presume e deve essere esternato in una forma tipica, che assicuri la massima certezza legale. Sarebbe del tutto irragionevole, però, estendere una simile volizione anche ai casi in cui nessuna delle cause determinanti la volontà (giuridica) fosse vera.[21] Si noti, peraltro, che, nei rescritti ad efficacia immediata, alias in forma graziosa, la causa motiva deve essere vera al tempo in cui vengono emessi, negli altri al tempo dell'esecuzione (can. 63 §3).[22]
Va rilevato che, soprattutto per taluni Dicasteri e provvedimenti, conoscere lo stylus Curiae, prima ancora della praxis, può essere difficile. Talvolta la S. Sede invia istruzioni, anche riservate, o anche moduli; altre volte sarà opportuna una consultazione preventiva (il diritto particolare esige spesso che le richieste indirizzate a Roma passino prima al vaglio dell'Ordinario); ma in definitiva, nel dubbio, è meglio attenersi al criterio della completezza nella redazione dell'istanza, con tanto maggior rigore quanto più si teme che il tal elemento giochi a sfavore.
Da un altro punto di vista, invece, non costituiscono mai errori invalidanti quelli che, nel rescritto, riguardano l'identità dell'autore o del destinatario, il luogo o perfino l'oggetto, purché su quest'ultimo, a giudizio dell'Ordinario, non vi sia alcun dubbio (can. 66): qui non vale la regola generale dell'errore determinante, perché siamo a valle, sul piano dell'esternazione[23] e davanti ad un problema dell'esecutore (che infatti sarà, spesso, l'Ordinario). Il can. 66 “salva”, si può dire in automatico, i rescritti che non richiedono esecutore, perché in genere il destinatario comprenderà da sé a cosa si riferiscano e l'Ordinario interverrà solo in caso di contesa; implia poi che l'esecutore, quando invece è necessario, non possa considerare mai la presenza di simili errori quale causa di rifiuto del proprio ministero ex cann. 40 e 41.
4. La concessione di grazie negate in precedenza (cann. 64 e 65)
Dato che in diritto canonico le autorità competenti ad emettere un rescritto sono generalmente più di una, rientra nella normale prevedibilità che i richiedenti, oltre a cercar di rivolgersi al soggetto che suppongono più favorevole, tacciano maliziosamente un diniego ricevuto e ripropongano sic et simpliciter la richiesta a qualcun altro. Al livello dei Dicasteri della Curia Romana, in secoli trascorsi il fenomeno ha assunto proporzioni anche gravissime; almeno dopo la riforma di S. Pio X, però, dovrebbero essere divenuti assai rari i casi di competenze cumulative in foro esterno, che sono l'ovvio presupposto per simili concessioni. A livello locale, invece, occorre tener conto del fatto che, non di rado, su uno stesso tema hanno titolo ad intervenire Vescovi di sedi diverse e che, anche in una stessa Diocesi, sono Ordinari e possono quindi accordare rescritti sia il Vescovo, sia il Vicario generale, sia l'eventuale Vicario episcopale competente (cfr. can. 134).
Nella disciplina del Codice, è implicito che la riproposizione della richiesta, di per sé, deve intendersi consentita e che quindi, rispetto ad una grazia, non operino gli effetti preclusivi della mancata impugnazione del diniego;[24] tuttavia,
- un Dicastero di Curia non può concedere validamente una grazia negata da un altro senza il preventivo assenso di quest'ultimo;[25] fa eccezione la Penitenzieria, ma per il solo foro interno (can. 64);[26]
- lo stesso vale se la richiesta è riproposta ad altra autorità competente, inferiore al Romano Pontefice:[27] nel vecchio can. 43 ci si riferiva solo all'Ordinario, ora questi rimane incluso ma il divieto si è fatto più ampio, perché talvolta, per delega o altra ragione, potrebbero esserci autorità competenti che non sono Ordinari (ibid.);
- è vietato ripresentare ad un altro Ordinario la richiesta respinta dal proprio, senza far menzione del diniego (can. 65 §1); “l'Ordinario proprio, ai sensi del can. 134 § 1, è l'Ordinario del luogo, in cui si ha il domicilio o quasi domicilio (can. 107)”, o il Superiore maggiore per i religiosi, e il divieto “non vale nel caso contrario, nel caso cioè che la negazione sia stata fatta da un Ordinario non proprio e ci si rivolga all'Ordinario proprio. Infine, il successore non è considerato un altro Ordinario.”;[28] si aggiunga che non vale neppure quando un soggetto ha più domicili canonici e, quindi, più Ordinari propri;[29]
- se la richiesta è riproposta nel modo debito, l'Ordinario adito deve chiedere all'altro i motivi del diniego a suo tempo espresso (can. 65 §1); la norma suppone chiaramente l'eventualità di dinieghi orali o motivati solo con formule generiche (“Non sembra opportuno...”), che, rispetto alle domande di grazia, almeno in una certa misura paiono inevitabili;
- entrambe queste prescrizioni sono per la liceità, quindi non invalidano l'atto, tuttavia “L'illiceità […] non è meramente morale, ma ha conseguenze anche giuridiche, quali l'eventuale revoca dell'atto, l'obbligo di riparare i danni prodotti (c. 128)” o le sanzioni;[30]
- invece, nell'ambito della stessa Diocesi, o figura equiparata, un Vicario non può concedere validamente la grazia negata da un altro, pur avendone ricevuti i motivi (can. 65 §2);[31]
- infine, ma non da ultimo, è invalida la concessione ottenuta dal Vescovo cui si sia taciuto il diniego del Vicario; così pure quella di un secondo Vicario; mentre se il diniego proviene dal Vescovo occorre il suo consenso anche solo perché sia valida la nuova richiesta che si presenti al Vicario (can. 65 §3).
Restano privi di disciplina espressa due casi: il diniego dell'Ordinario proprio seguito da nuova richiesta ad un Dicastero della Curia Romana; oppure la concessione da parte del Pontefice di una grazia negata dal Dicastero, ipotesi menzionata dal can. 64 solo per escludere che occorra l'assenso di quest'ultimo (il che d'altronde è ovvio, trattandosi di autorità inferiore).
Quanto al primo caso, il diniego potrebbe ovviamente essere impugnato, anche fuori termine perché la tardività converte in sostanza il ricorso in domanda di grazia, quindi non ci possono essere problemi quando l'esistenza del primo provvedimento è espresso. In linea generale e salvo che per singoli provvedimenti il diritto disponga il contrario, la mancata menzione del diniego non invalida il rescritto ottenuto, perché la giurisdizione della S. Sede è immediata e la concessione si basa su un apprezzamento autonomo delle circostanze; problemi potrebbero sorgere, semmai, in sede di esecuzione, che in genere si affida appunto all'Ordinario proprio. Ma soprattutto, un conto è tacere la semplice esistenza del diniego rispetto ad una richiesta riproposta pari pari, tutt'altra questione ometterne le ragioni, quando consistano in circostanze di fatto rilevate in via autonoma dall'Ordinario e ritenute ostative: qui il richiedente si assume il rischio che esse, se ed in quanto vere, inficino il rescritto ottenuto ai sensi del can. 63.
Quanto infine al Papa, è decisamente raro e improbabile che si arrivi ad un atto di concessione da parte sua saltando, per così dire, il vaglio di un Dicastero, che sarebbe in genere quello competente e scoprirebbe il diniego omesso; inoltre, ai sensi del can. 134 §1, il Papa si deve sempre considerare Ordinario proprio di tutti i fedeli e di tutti i luoghi, quindi a rigore il divieto del can. 65 §1, già di suo non invalidante, neppur si applica.[32] L'attenzione deve allora spostarsi, come nel caso precedente, sulle ragioni del diniego: se si tratta di un semplice giudizio di inopportunità, evidentemente il Pontefice può superarlo; ma se si fonda su circostanze di fatto non allegate dal richiedente e non valutate nell'atto concessorio, allora opera la regola generale del can. 63, salvo che sia presente ila clausola motu proprio, perché non si presume mai un'eventuale intenzione del Papa di derogare alla disciplina comune dei rescritti concedendo ciò che in genere non si concede.
Sarà opportuno notare, in conclusione, che la disciplina dei cann. 63-65 sottintende una decisa opzione per il carattere oggettivo e non soggettivo della causa: ciò che conta non è l'ignoranza o l'errore del rescribente, che magari, ad es., in termini soggettivi si sarebbe regolato altrimenti se avesse saputo di un precedente diniego (a prescindere dalle sue ragioni); contano, invece, i requisiti oggettivi di verità materiale e completezza dell'istanza. Si tratta di un'innovazione notevole rispetto alla tradizione canonica, ma anche di un passo necessario alla “spersonalizzazione” del rescritto che, pur mantenendo il carattere discrezionale della concessione, rende il provvedimento concessorio assimilabile agli atti amministrativi.[33]
5. Acquisto e perdita dell'efficacia
Sebbene il Codice non lo stabilisca espressamente, perché in proposito rimanda alla disciplina generale, il rescritto può essere sottoposto a termine oppure a condizione. In quest'ultimo caso, è evidente che sarà necessario un esecutore che ne verifichi l'adempimento; non si tratta peraltro dell'unica ipotesi, dal momento che si avverte di frequente l'esigenza, d'altronde intuitiva, di far verificare i presupposti della concessione. Per questo il can. 62, riferendosi al momento in cui acquistano efficacia, recepisce la distinzione tradizionale, tra i rescritti che richiedono l'esecutore, detti dunque in forma commissoria (che sarà commissoria libera se la stessa concessione è demandata all'atto esecutivo: cfr. can. 70), e quelli che invece sono in forma graziosa: immediatamente efficaci questi ultimi, non appena vengono concessi e prima ancora di esser ricevuti; gli altri, invece, solo dal momento dell'esecuzione, appunto perché soggetti ad una verifica ulteriore da parte dell'autorità. E siccome l'efficacia presuppone la validità, il can. 63 §3 detta le stesse regole rispetto al momento in cui deve essere vera almeno una delle cause motive.
Può tuttavia sorgere il dubbio sull'appartenenza del rescritto all'una o all'altra categoria: lo risolve il can. 68. Da esso si desume, innanzitutto, che il provvedimento può essere in forma commissoria anche se non contiene la nomina espressa di un esecutore: quando si tratta dei rescritti della Sede Apostolica, infatti, il ruolo spetta all'Ordinario del richiedente anche ipso iure, ma in due soli casi, cioè quando occorre comprovare le condizioni oppure “se si tratta di cose pubbliche”.[34] In altre parole: deve intendersi concesso in forma graziosa solo il beneficio puramente individuale, come p.es. una dispensa dal digiuno eucaristico; altrimenti, è sempre sottintesa la necessità dell'esecutore e del suo controllo.[35]
Ci si può chiedere se, nel silenzio del canone, le stesse regole valgano per i rescritti di autorità diverse dalla Sede Apostolica. Ritengo che la risposta sia affermativa solo per quanto riguarda la prova delle condizioni, che è un requisito la cui verifica non si può omettere; in ogni altro caso, la maggior vicinanza del rescribente alla situazione di fatto rende ragionevole anche l'impiego della forma graziosa, se ritenuto opportuno.
Quante volte sussista l'obbligo di presentazione del rescritto all'esecutore, il can. 69 avverte che ciò può farsi senza limiti di tempo, salvo che il ritardo dipenda da frode e dolo.[36] La ragione è chiara: sebbene in ipotesi l'interesse non sia meramente individuale, resta tuttavia un interesse particolare, la cui cura spetta quindi al beneficiario; non vi è, in altre parole, una particolare sollecitudine dell'ordinamento affinché i rescritti in forma commissoria acquistino efficacia, ma semmai ad evitare ritardi volontari che mirino – come in genere mireranno – ad evitare che si esiga il rispetto di condizioni ritenute troppo stringenti. Tuttavia, il concedente può stabilire, nell'atto, un termine entro cui la presentazione deve avvenire: l'effetto dell'inottemperanza, allora, in genere sarà la perdita della grazia accordata.
La perdita dell'efficacia del rescritto, invece, è regolata dai cann. 72 e 73, cui si può in qualche modo accostare il 71.
Anzitutto, il can. 72 implica che i rescritti concessi a tempo determinato perdano efficacia alla scadenza, esclusa ogni forma di rinnovo tacito o proroga presunta; si rende necessario un nuovo atto di concessione. Tuttavia – qui il dettato legislativo interviene in deroga rispetto al non detto – i rescritti della Sede Apostolica, una volta scaduti, possono essere “prorogati”, una volta sola e per un tempo non superiore a tre mesi: si tratta evidentemente di una “proroga-ponte” parametrata al tempo entro cui Roma dovrebbe normalmente rispondere. Invero, a rigore, il termine “proroga” non è del tutto corretto,[37] perché si richiede una giusta causa apposita, che dovrà ragionevolmente comprendere sia una valutazione di fondatezza della nuova richiesta nel merito, sia un pregiudizio concreto se venisse ripristinata l'osservanza della legge. La competenza spetta al Vescovo diocesano: ai sensi del can. 134 §3, la dicitura include gli altri Prelati preposti a strutture assimilate alle Diocesi ex can. 368, però esclude sia i Superiori religiosi, sia il Vicario generale e quello episcopale, se sprovvisti di apposita delega (speciale mandatum).[38] In ogni caso, il can. 72 è una norma eccezionale, quindi non può essere estesa a consentire una proroga vera e propria, quando la scadenza del rescritto debba ancora sopraggiungere, né una posteriore ma retroattiva fino al momento della domanda.
Per il resto, sulla perdita di efficacia dei rescritti vale la disciplina generale degli atti amministrativi: deve tuttavia notarsi che la revoca di quello concesso in forma graziosa sarà efficace dalla sua ricezione, il che deroga al principio di simmetria, tutelando la posizione di vantaggio del beneficiario. Il can. 73, invece, reca una disposizione che risale palesemente al tempo in cui fiorivano i privilegi, ma ha senso anche oggi per tutti i rescritti, quale che sia il loro contenuto, perché risponde alla presunzione di maggior adeguatezza del provvedimento concreto rispetto all'astratto: la sopravvenienza di una legge ad esso contraria non comporta revoca del rescritto, salvo che vi sia una clausola apposita volta a produrre tale effetto.
Infine, il can. 71 regola un'ipotesi affine alla perdita di efficacia, cioè il non uso: ciascuno è libero di non utilizzare il rescritto che gli sia stato accordato (e ciò vale in special modo per chi non lo avesse neppure richiesto). Occorre però che esso sia stato concesso unicamente in suo favore e che un obbligo giuridico ad usarlo non nasca da altro titolo: “Così chi ha ottenuto con un rescritto la facoltà di dispensare dal matrimonio super rato, o di assolvere dalle censure[,] è tenuto a farlo in caso di necessità.”.[39] Questi però sono esempi di grazie concesse a beneficio altrui; nella fattispecie del can. 71, invece, “essa è concessa unicamente in suo favore, ma egli è canonicamente obbligato ad utilizzarla per un altro motivo.”.[40] I lavori preparatori non aiutano ad individuare esempi; si può tuttavia pensare ad una dispensa dal digiuno eucaristico, o ad una commutazione dell'obbligo dell'Ufficio, dove l'obbligo sorge occasionalmente se valersi della grazia è l'unico modo per potere, ad es., celebrare per il popolo alla tale ora.
6. Conflitto tra rescritti (can. 67)
I cann. 64 e 65 si sono occupati della pluralità di richieste successive; ma è possibile, e forse non infrequente, anche il caso delle istanze “a pioggia”, o comunque prima che sia arrivata una risposta. Di conseguenza, il can. 67 deve affrontare il problema del concorso di provvedimenti favorevoli, ma tra loro in contrasto, che possono provenire sia da autorità diverse sia dalla stessa.
La prima regola è di carattere oggettivo: il contenuto più specifico prevale sul più generico, perché lo sorregge una presunzione di maggior adeguatezza al caso concreto.
Quando però le previsioni siano egualmente particolari o egualmente generali,[41] soccorre il criterio cronologico; e prevale, si noti, il rescritto precedente, non il successivo, perché si tutela la posizione di vantaggio già accordata (“Decet concessum a Principe beneficium esse mansurum”: Regulae Juris in VI, n. 16). Anzi, il momento cui si riferisce la valutazione della priorità è sempre quello della concessione, anche per i rescritti in forma commissoria. In due casi, tuttavia, prevale il rescritto successivo: se faccia menzione anche implicita dell'anteriore, perché allora si sottintende la volontà di revocarlo, o se vi sa stato dolo o notevole negligenza nella presentazione del primo. Infine, in caso di dubbio – il vecchio Codice faceva l'esempio delle concessioni accordate lo stesso giorno – occorre rivolgersi al rescribente; non è detto però a quale, se i provvedimenti siano di autorità diverse (la S. Sede prevarrà sempre, per il criterio gerarchico, ma quid tra più Dicasteri, o tra più Ordinari?).