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Il rescritto (cann. 59-75)

Rescritto
Rescritto

Il rescritto (cann. 59-75)
 

Sommario

1. Linee generali dell'istituto;
2. Legittimazione alla richiesta e forma della concessione;
3. Contenuto della richiesta e vizi del provvedimento (cann. 63 e 66);
4. La concessione di grazie negate in precedenza (cann. 64 e 65);
5. Acquisto e perdita dell'efficacia;
6. Conflitto tra rescritti (can. 67)     

 

1. Linee generali dell'istituto

Esaurita la trattazione dei decreti, possiamo passare all'altro termine nella summa divisio dei provvedimenti singolari, il rescritto. In questo caso, non incontriamo sottotipi (com'è invece il precetto rispetto ai decreti): infatti, “con il termine di rescritto […] si indica la forma di un provvedimento che può avere contenuti sensibilmente diversi”, ma che in sé resta unitario; l'esito pratico, tuttavia, non è molto diverso, poiché “qualora [i rescritti] contengano un privilegio o una dispensa, devono osservarsi anche le disposizioni specificamente dirette a questi ultimi”,[1] che talvolta derogano alla disciplina generale. In linea di massima, tuttavia, si può dire che:

  1. il rescritto è, da sempre, un provvedimento emesso su richiesta;
  2. oggi, per espressa disposizione di legge, si qualifica tale solo quello che conceda una grazia, salva l'estensione della sua disciplina anche alle licenze (can. 59);
  3. i cann. 59-75, quindi, dettano una disciplina generale della concessione di grazie, rimandando ai successivi la regolamentazione di alcuni contenuti particolari (privilegio, dispensa).[2]

Il primo aspetto non richiede specifica illustrazione: l'istituto proviene dal diritto romano ed ha mantenuto il suo carattere di strumento mediante cui il princeps interviene su un caso concreto, che gli viene sottoposto in vista di un provvedimento di giustizia oppure di grazia. Semmai bisogna notare che, mentre il diritto delle Decretali (X.1.3 e VI.1.3) almeno in linea di principio riservava la potestas rescribendi al Romano Pontefice – e ciò in quanto il rescritto era considerato atto legislativo – il can. 36 §1 CIC17, adeguandosi d'altronde alla pratica già invalsa, la allargò a qualunque Ordinario;[3] il Codice vigente, in termini ancor più ampi, esige solo che il rescritto provenga “dalla competente autorità esecutiva”, cioè da chiunque abbia il potere-dovere di eseguire la legge da cui si chieda la dispensa, oppure possa concedere la tale grazia; fa eccezione il privilegio, per cui il can. 76 richiede che l'autore sia munito di potestà legislativa.

Storicamente – e con ciò veniamo al secondo punto – il rescritto, proprio in quanto espressione di plenitudo potestatis e quindi potenzialmente contra legem o innovativo dell'ordinamento, poteva avere qualsiasi oggetto; semmai si faceva distinzione per quelli che potessero pregiudicare i diritti di terzi, rispetto a cui si esigeva la presenza di formule inequivocabili che attestassero una volontà del principe in tal senso.[4] E anche in diritto canonico la dottrina classica, di cui il d'Avack si è fatto eco fedele anche dopo la codificazione, li considerava “leggi individuali o particolari emanate per una singola persona o per un singolo caso sia secundum, sia praeter, sia anche contra jus, ponendo così a favore di una persona, di un rapporto o di un oggetto una norma contraria al diritto comune (privilegio), o sospendendo nei suoi confronti l'efficacia della legge (dispensa).”.[5] Ma il Codice attuale ha scelto di attribuir loro natura amministrativa e contenuto esclusivo di grazia: de iure condito, gli atti che si limitano ad applicare il diritto - sebbene emanati in seguito a richieste e, per avventura, anche mediante la tecnica formale del rescritto - debbono sempre qualificarsi decreti. Ha dunque incontrato il favore del legislatore la tesi, propugnata in origine da Orio Giacchi,[6] della natura amministrativa del rescritto, in quanto provvedimento particolare (che lascia quindi immutata nel resto la norma generale cui deroga) bisognoso di una causa, ossia l'interesse particolare rappresentato nelle preces, e applicativo a sua volta di una norma generale che ne prevede l'emanazione, almeno in termini di facoltà; altrimenti detto, si è riconosciuto che fa parte integrante della funzione esecutiva anche la concessione di grazie, che provvedono ad evitare ingiustizie in quei casi che sono di per sé soggetti alla legge, ma non rientrano nell'id quod plerumque accidit che ne costituisce il presupposto.

Resta invece inalterata – anche se, come si è accennato, non è più decisiva per la qualificazione – la veste formale caratteristica, cui l'istituto deve il nome stesso: rescriptum deriva infatti da re-scribere, “scrivere in risposta”, tipicamente in calce all'istanza. Per giunta, anche quando manchi quest'unione materiale con la richiesta (preces), anche oggi sussiste un imprescindibile legame morale, per così dire, in quanto il rescritto non reca una motivazione propria, ma si riporta appunto a quanto esposto. Siccome, poi, la sua emanazione avviene senza una previa istruttoria (non a caso, la disciplina di quest'ultima è contenuta nei canoni riferiti ai decreti) e la verifica dei presupposti di fatto, che sono stati esposti dal richiedente – orator nella terminologia tradizionale – è demandata all'esecutore oppure manca del tutto, è assolutamente necessaria una disciplina che preveda, con la debita cura, i casi di invalidità dovuti ad omissioni o, peggio, ad allegazione del falso. Questo è appunto l'oggetto principale, sebbene non esclusivo, dei cann. 59-75.[7]


2. Legittimazione alla richiesta e forma della concessione

I decreti in genere non presuppongono una richiesta, ma quando è necessaria (ad es. per i provvedimenti di incardinazione) essa deve provenire dal destinatario dell'atto. Non così per i rescritti: i cann. 60 e 61 sono molto chiari tanto nell'esigere che un'istanza vi sia[8] quanto nel prevedere, anzitutto, una legittimazione generale, perché il CIC 83 non vieta più la presentazione della richiesta neppure a scomunicati, interdetti o sospesi (che oltre a chiedere possono in linea di massima ottenere, perché questo è il senso di impetrare);[9] vi è inoltre la possibilità della richiesta in favore di terzo, a prescindere dal suo consenso previo o anche dall'accettazione successiva.[10] Questo ci ricorda, per un verso, che siamo pur sempre nell'ambito dei provvedimenti amministrativi e non degli atti consensuali o bilaterali (nonostante l'indubbio legame causale, e non meramente occasionale, tra preces e atto autoritativo); per altro, che l'interesse in gioco resta la salus animarum, in sé non riducibile ad un semplice “interesse privato” né, a rigore bene lecitamente disponibile per il singolo, sicché può ben darsi la possibilità di un intervento di grazia per segnalazione da parte di terzi, che modifichi la situazione giuridica perfino contro la volontà dell'interessato;[11] non può tuttavia (per le ragioni che vedremo a suo tempo) essere il caso delle dispense.

La forma della richiesta non è specificata da nessuna parte, ma è sempre bene presentarla per iscritto;[12] credo comunque che, al di là dell'etimologia, dovrebbe qualificarsi rescriptum anche il provvedimento concessorio che facesse riferimento alle circostanze esposte a voce, salvi i problemi di interpretazione se non le riferisse. Esistono, semmai, requisiti di forma-contenuto, che consistono in sostanza nel dire tutto quello che “bisogna dire” (vedremo tra poco in che termini). E ciò è ben comprensibile, in quanto “L'esercizio del diritto di petizione (cfr. c. 212) comporta per l'autorità 'un obbligo – giuridicamente esigibile – di valutare adeguatamente la domanda e di dare a essa una risposta che sia la più corretta possibile o, se si tratta di materia discrezionale, la più conveniente' (del Portillo).”.[13] Non vi è un diritto al provvedimento favorevole, meno ancora negli esatti termini della domanda, ché altrimenti saremmo nel campo degli atti di giustizia; vi è però un diritto di chiedere e, quindi, anche di ottenere una risposta che, positiva o negativa, esamini il merito della richiesta; come già detto, ritengo altresì applicabile il can. 57 al silenzio su siffatte preces.

A termini del can. 59 §1, il rescriptum ha forma scritta, ma la relativa disciplina si applica anche alle concessioni di grazia vivae vocis oraculo; in questo modo si elimina ogni dubbio circa la validità di queste ultime, anche se la mancanza di un atto scritto potrebbe rendere difficile usare in foro esterno della grazia concessa (cfr. can. 74). Il provvedimento negativo, invece, siccome non contiene una grazia non si può qualificare rescritto, bensì decreto.[14] Non risulta trattato, che io sappia, il caso in cui venga accordata una grazia sostanzialmente diversa da quella richiesta: sarei orientato a ritenerlo un decreto, almeno se preceduto da congrua istruttoria; credo però che, in simili circostanze, l'autorità finirebbe piuttosto per avvalersi del rescritto in forma commissoria libera.
 

3. Contenuto della richiesta e vizi del provvedimento (cann. 63 e 66)

La riflessione canonica sull'istituto del rescritto non ha, ovviamente, mancato di concentrarsi sul punctum dolens della possibile falsità o lacunosità, più o meno intenzionale, delle richieste; le soluzioni elaborate, però, hanno oscillato tra l'incidenza causale determinante del vizio, oggettivamente considerato, e il rilievo da darsi alla buona o mala fede del richiedente, che, per ragioni intuitive, sembrava a sua volta una circostanza di peso.[15] La conseguente casistica, già semplificata non poco dal legislatore del 1917, oggi può dirsi abbandonata del tutto: il Codice del 1983 considera l'esposizione del falso (obreptio) o la mancata menzione del vero (subreptio) soltanto come fattori che oggettivamente comportino un errore determinante in capo all'autorità che provvede; alla buona fede si potrà provvedere mediante la riproposizione della richiesta, che incontra limiti solo in caso di diniego, mentre la mala fede costituisce delitto (can. 1391 n. 3 ante riforma).

Oggi, pertanto, in materia vige la duplice regola consacrata dal can. 63:

  • per ogni grazia, esiste un insieme di circostanze che, “secondo la legge, lo stylus e la prassi canonica”, hanno incidenza determinante circa la concessione; se anche una sola di queste viene taciuta (e, si intende, sussisteva ma in senso ostativo), il rescritto è invalido;
  • inversamente, se vogliamo, nel caso dell'obreptio, giacché le cause che sorreggono un rescritto possono essere impulsive, ossia accessorie, e motive ovvero determinanti;[16] l'atto è invalido se nemmeno una delle cause motive esposte è vera.[17]

Per il caso di silenzio, non di falsità positiva, vi è un'eccezione: se il rescritto - “secondo un uso che rimonta al pontificato di Giovanni XXII per i rescritti accordati ai cardinali ed ai personaggi importanti[18] - viene munito della clausola motu proprio, ciò significa che il rescribente intende tener ferma la concessione, “come se” procedesse dalla sua propria volontà, anche qualora, nella richiesta, sia stata taciuta una circostanza (o più) che in circostanze normali sarebbe determinante.[19] In altri termini: la potestà esecutiva non è imbrigliata a priori dal pur utilissimo reticolo dell'elaborazione legislativa e di prudentia iuris, conserva la capacità di svincolarsene rispetto al caso concreto, anche quando si tratti di requisiti legali;[20] ma giustamente un simile intento non si presume e deve essere esternato in una forma tipica, che assicuri la massima certezza legale. Sarebbe del tutto irragionevole, però, estendere una simile volizione anche ai casi in cui nessuna delle cause determinanti la volontà (giuridica) fosse vera.[21] Si noti, peraltro, che, nei rescritti ad efficacia immediata, alias in forma graziosa, la causa motiva deve essere vera al tempo in cui vengono emessi, negli altri al tempo dell'esecuzione (can. 63 §3).[22]

Va rilevato che, soprattutto per taluni Dicasteri e provvedimenti, conoscere lo stylus Curiae, prima ancora della praxis, può essere difficile. Talvolta la S. Sede invia istruzioni, anche riservate, o anche moduli; altre volte sarà opportuna una consultazione preventiva (il diritto particolare esige spesso che le richieste indirizzate a Roma passino prima al vaglio dell'Ordinario); ma in definitiva, nel dubbio, è meglio attenersi al criterio della completezza nella redazione dell'istanza, con tanto maggior rigore quanto più si teme che il tal elemento giochi a sfavore.

Da un altro punto di vista, invece, non costituiscono mai errori invalidanti quelli che, nel rescritto, riguardano l'identità dell'autore o del destinatario, il luogo o perfino l'oggetto, purché su quest'ultimo, a giudizio dell'Ordinario, non vi sia alcun dubbio (can. 66): qui non vale la regola generale dell'errore determinante, perché siamo a valle, sul piano dell'esternazione[23] e davanti ad un problema dell'esecutore (che infatti sarà, spesso, l'Ordinario). Il can. 66 “salva”, si può dire in automatico, i rescritti che non richiedono esecutore, perché in genere il destinatario comprenderà da sé a cosa si riferiscano e l'Ordinario interverrà solo in caso di contesa; implia poi che l'esecutore, quando invece è necessario, non possa considerare mai la presenza di simili errori quale causa di rifiuto del proprio ministero ex cann. 40 e 41.
 

4. La concessione di grazie negate in precedenza (cann. 64 e 65)

Dato che in diritto canonico le autorità competenti ad emettere un rescritto sono generalmente più di una, rientra nella normale prevedibilità che i richiedenti, oltre a cercar di rivolgersi al soggetto che suppongono più favorevole, tacciano maliziosamente un diniego ricevuto e ripropongano sic et simpliciter la richiesta a qualcun altro. Al livello dei Dicasteri della Curia Romana, in secoli trascorsi il fenomeno ha assunto proporzioni anche gravissime; almeno dopo la riforma di S. Pio X, però, dovrebbero essere divenuti assai rari i casi di competenze cumulative in foro esterno, che sono l'ovvio presupposto per simili concessioni. A livello locale, invece, occorre tener conto del fatto che, non di rado, su uno stesso tema hanno titolo ad intervenire Vescovi di sedi diverse e che, anche in una stessa Diocesi, sono Ordinari e possono quindi accordare rescritti sia il Vescovo, sia il Vicario generale, sia l'eventuale Vicario episcopale competente (cfr. can. 134).

Nella disciplina del Codice, è implicito che la riproposizione della richiesta, di per sé, deve intendersi consentita e che quindi, rispetto ad una grazia, non operino gli effetti preclusivi della mancata impugnazione del diniego;[24] tuttavia,

  • un Dicastero di Curia non può concedere validamente una grazia negata da un altro senza il preventivo assenso di quest'ultimo;[25] fa eccezione la Penitenzieria, ma per il solo foro interno (can. 64);[26]
  • lo stesso vale se la richiesta è riproposta ad altra autorità competente, inferiore al Romano Pontefice:[27] nel vecchio can. 43 ci si riferiva solo all'Ordinario, ora questi rimane incluso ma il divieto si è fatto più ampio, perché talvolta, per delega o altra ragione, potrebbero esserci autorità competenti che non sono Ordinari (ibid.);
  • è vietato ripresentare ad un altro Ordinario la richiesta respinta dal proprio, senza far menzione del diniego (can. 65 §1); “l'Ordinario proprio, ai sensi del can. 134 § 1, è l'Ordinario del luogo, in cui si ha il domicilio o quasi domicilio (can. 107)”, o il Superiore maggiore per i religiosi, e il divieto “non vale nel caso contrario, nel caso cioè che la negazione sia stata fatta da un Ordinario non proprio e ci si rivolga all'Ordinario proprio. Infine, il successore non è considerato un altro Ordinario.”;[28] si aggiunga che non vale neppure quando un soggetto ha più domicili canonici e, quindi, più Ordinari propri;[29]
  • se la richiesta è riproposta nel modo debito, l'Ordinario adito deve chiedere all'altro i motivi del diniego a suo tempo espresso (can. 65 §1); la norma suppone chiaramente l'eventualità di dinieghi orali o motivati solo con formule generiche (“Non sembra opportuno...”), che, rispetto alle domande di grazia, almeno in una certa misura paiono inevitabili;
  • entrambe queste prescrizioni sono per la liceità, quindi non invalidano l'atto, tuttavia “L'illiceità […] non è meramente morale, ma ha conseguenze anche giuridiche, quali l'eventuale revoca dell'atto, l'obbligo di riparare i danni prodotti (c. 128)” o le sanzioni;[30]
  • invece, nell'ambito della stessa Diocesi, o figura equiparata, un Vicario non può concedere validamente la grazia negata da un altro, pur avendone ricevuti i motivi (can. 65 §2);[31]
  • infine, ma non da ultimo, è invalida la concessione ottenuta dal Vescovo cui si sia taciuto il diniego del Vicario; così pure quella di un secondo Vicario; mentre se il diniego proviene dal Vescovo occorre il suo consenso anche solo perché sia valida la nuova richiesta che si presenti al Vicario (can. 65 §3).

Restano privi di disciplina espressa due casi: il diniego dell'Ordinario proprio seguito da nuova richiesta ad un Dicastero della Curia Romana; oppure la concessione da parte del Pontefice di una grazia negata dal Dicastero, ipotesi menzionata dal can. 64 solo per escludere che occorra l'assenso di quest'ultimo (il che d'altronde è ovvio, trattandosi di autorità inferiore).

Quanto al primo caso, il diniego potrebbe ovviamente essere impugnato, anche fuori termine perché la tardività converte in sostanza il ricorso in domanda di grazia, quindi non ci possono essere problemi quando l'esistenza del primo provvedimento è espresso. In linea generale e salvo che per singoli provvedimenti il diritto disponga il contrario, la mancata menzione del diniego non invalida il rescritto ottenuto, perché la giurisdizione della S. Sede è immediata e la concessione si basa su un apprezzamento autonomo delle circostanze; problemi potrebbero sorgere, semmai, in sede di esecuzione, che in genere si affida appunto all'Ordinario proprio. Ma soprattutto, un conto è tacere la semplice esistenza del diniego rispetto ad una richiesta riproposta pari pari, tutt'altra questione ometterne le ragioni, quando consistano in circostanze di fatto rilevate in via autonoma dall'Ordinario e ritenute ostative: qui il richiedente si assume il rischio che esse, se ed in quanto vere, inficino il rescritto ottenuto ai sensi del can. 63.

Quanto infine al Papa, è decisamente raro e improbabile che si arrivi ad un atto di concessione da parte sua saltando, per così dire, il vaglio di un Dicastero, che sarebbe in genere quello competente e scoprirebbe il diniego omesso; inoltre, ai sensi del can. 134 §1, il Papa si deve sempre considerare Ordinario proprio di tutti i fedeli e di tutti i luoghi, quindi a rigore il divieto del can. 65 §1, già di suo non invalidante, neppur si applica.[32] L'attenzione deve allora spostarsi, come nel caso precedente, sulle ragioni del diniego: se si tratta di un semplice giudizio di inopportunità, evidentemente il Pontefice può superarlo; ma se si fonda su circostanze di fatto non allegate dal richiedente e non valutate nell'atto concessorio, allora opera la regola generale del can. 63, salvo che sia presente ila clausola motu proprio, perché non si presume mai un'eventuale intenzione del Papa di derogare alla disciplina comune dei rescritti concedendo ciò che in genere non si concede.

Sarà opportuno notare, in conclusione, che la disciplina dei cann. 63-65 sottintende una decisa opzione per il carattere oggettivo e non soggettivo della causa: ciò che conta non è l'ignoranza o l'errore del rescribente, che magari, ad es., in termini soggettivi si sarebbe regolato altrimenti se avesse saputo di un precedente diniego (a prescindere dalle sue ragioni); contano, invece, i requisiti oggettivi di verità materiale e completezza dell'istanza. Si tratta di un'innovazione notevole rispetto alla tradizione canonica, ma anche di un passo necessario alla “spersonalizzazione” del rescritto che, pur mantenendo il carattere discrezionale della concessione, rende il provvedimento concessorio assimilabile agli atti amministrativi.[33]  
 

5. Acquisto e perdita dell'efficacia

Sebbene il Codice non lo stabilisca espressamente, perché in proposito rimanda alla disciplina generale, il rescritto può essere sottoposto a termine oppure a condizione. In quest'ultimo caso, è evidente che sarà necessario un esecutore che ne verifichi l'adempimento; non si tratta peraltro dell'unica ipotesi, dal momento che si avverte di frequente l'esigenza, d'altronde intuitiva, di far verificare i presupposti della concessione. Per questo il can. 62, riferendosi al momento in cui acquistano efficacia, recepisce la distinzione tradizionale, tra i rescritti che richiedono l'esecutore, detti dunque in forma commissoria (che sarà commissoria libera se la stessa concessione è demandata all'atto esecutivo: cfr. can. 70), e quelli che invece sono in forma graziosa: immediatamente efficaci questi ultimi, non appena vengono concessi e prima ancora di esser ricevuti; gli altri, invece, solo dal momento dell'esecuzione, appunto perché soggetti ad una verifica ulteriore da parte dell'autorità. E siccome l'efficacia presuppone la validità, il can. 63 §3 detta le stesse regole rispetto al momento in cui deve essere vera almeno una delle cause motive.

Può tuttavia sorgere il dubbio sull'appartenenza del rescritto all'una o all'altra categoria: lo risolve il can. 68. Da esso si desume, innanzitutto, che il provvedimento può essere in forma commissoria anche se non contiene la nomina espressa di un esecutore: quando si tratta dei rescritti della Sede Apostolica, infatti, il ruolo spetta all'Ordinario del richiedente anche ipso iure, ma in due soli casi, cioè quando occorre comprovare le condizioni oppure “se si tratta di cose pubbliche”.[34] In altre parole: deve intendersi concesso in forma graziosa solo il beneficio puramente individuale, come p.es. una dispensa dal digiuno eucaristico; altrimenti, è sempre sottintesa la necessità dell'esecutore e del suo controllo.[35]

Ci si può chiedere se, nel silenzio del canone, le stesse regole valgano per i rescritti di autorità diverse dalla Sede Apostolica. Ritengo che la risposta sia affermativa solo per quanto riguarda la prova delle condizioni, che è un requisito la cui verifica non si può omettere; in ogni altro caso, la maggior vicinanza del rescribente alla situazione di fatto rende ragionevole anche l'impiego della forma graziosa, se ritenuto opportuno.

Quante volte sussista l'obbligo di presentazione del rescritto all'esecutore, il can. 69 avverte che ciò può farsi senza limiti di tempo, salvo che il ritardo dipenda da frode e dolo.[36] La ragione è chiara: sebbene in ipotesi l'interesse non sia meramente individuale, resta tuttavia un interesse particolare, la cui cura spetta quindi al beneficiario; non vi è, in altre parole, una particolare sollecitudine dell'ordinamento affinché i rescritti in forma commissoria acquistino efficacia, ma semmai ad evitare ritardi volontari che mirino – come in genere mireranno – ad evitare che si esiga il rispetto di condizioni ritenute troppo stringenti. Tuttavia, il concedente può stabilire, nell'atto, un termine entro cui la presentazione deve avvenire: l'effetto dell'inottemperanza, allora, in genere sarà la perdita della grazia accordata.

La perdita dell'efficacia del rescritto, invece, è regolata dai cann. 72 e 73, cui si può in qualche modo accostare il 71.

Anzitutto, il can. 72 implica che i rescritti concessi a tempo determinato perdano efficacia alla scadenza, esclusa ogni forma di rinnovo tacito o proroga presunta; si rende necessario un nuovo atto di concessione. Tuttavia – qui il dettato legislativo interviene in deroga rispetto al non detto – i rescritti della Sede Apostolica, una volta scaduti, possono essere “prorogati”, una volta sola e per un tempo non superiore a tre mesi: si tratta evidentemente di una “proroga-ponte” parametrata al tempo entro cui Roma dovrebbe normalmente rispondere. Invero, a rigore, il termine “proroga” non è del tutto corretto,[37] perché si richiede una giusta causa apposita, che dovrà ragionevolmente comprendere sia una valutazione di fondatezza della nuova richiesta nel merito, sia un pregiudizio concreto se venisse ripristinata l'osservanza della legge. La competenza spetta al Vescovo diocesano: ai sensi del can. 134 §3, la dicitura include gli altri Prelati preposti a strutture assimilate alle Diocesi ex can. 368, però esclude sia i Superiori religiosi, sia il Vicario generale e quello episcopale, se sprovvisti di apposita delega (speciale mandatum).[38] In ogni caso, il can. 72 è una norma eccezionale, quindi non può essere estesa a consentire una proroga vera e propria, quando la scadenza del rescritto debba ancora sopraggiungere, né una posteriore ma retroattiva fino al momento della domanda.

Per il resto, sulla perdita di efficacia dei rescritti vale la disciplina generale degli atti amministrativi: deve tuttavia notarsi che la revoca di quello concesso in forma graziosa sarà efficace dalla sua ricezione, il che deroga al principio di simmetria, tutelando la posizione di vantaggio del beneficiario. Il can. 73, invece, reca una disposizione che risale palesemente al tempo in cui fiorivano i privilegi, ma ha senso anche oggi per tutti i rescritti, quale che sia il loro contenuto, perché risponde alla presunzione di maggior adeguatezza del provvedimento concreto rispetto all'astratto: la sopravvenienza di una legge ad esso contraria non comporta revoca del rescritto, salvo che vi sia una clausola apposita volta a produrre tale effetto.

Infine, il can. 71 regola un'ipotesi affine alla perdita di efficacia, cioè il non uso: ciascuno è libero di non utilizzare il rescritto che gli sia stato accordato (e ciò vale in special modo per chi non lo avesse neppure richiesto). Occorre però che esso sia stato concesso unicamente in suo favore e che un obbligo giuridico ad usarlo non nasca da altro titolo: “Così chi ha ottenuto con un rescritto la facoltà di dispensare dal matrimonio super rato, o di assolvere dalle censure[,] è tenuto a farlo in caso di necessità.”.[39] Questi però sono esempi di grazie concesse a beneficio altrui; nella fattispecie del can. 71, invece, “essa è concessa unicamente in suo favore, ma egli è canonicamente obbligato ad utilizzarla per un altro motivo.”.[40] I lavori preparatori non aiutano ad individuare esempi; si può tuttavia pensare ad una dispensa dal digiuno eucaristico, o ad una commutazione dell'obbligo dell'Ufficio, dove l'obbligo sorge occasionalmente se valersi della grazia è l'unico modo per potere, ad es., celebrare per il popolo alla tale ora.
 

6. Conflitto tra rescritti (can. 67)

I cann. 64 e 65 si sono occupati della pluralità di richieste successive; ma è possibile, e forse non infrequente, anche il caso delle istanze “a pioggia”, o comunque prima che sia arrivata una risposta. Di conseguenza, il can. 67 deve affrontare il problema del concorso di provvedimenti favorevoli, ma tra loro in contrasto, che possono provenire sia da autorità diverse sia dalla stessa.

La prima regola è di carattere oggettivo: il contenuto più specifico prevale sul più generico, perché lo sorregge una presunzione di maggior adeguatezza al caso concreto.

Quando però le previsioni siano egualmente particolari o egualmente generali,[41] soccorre il criterio cronologico; e prevale, si noti, il rescritto precedente, non il successivo, perché si tutela la posizione di vantaggio già accordata (“Decet concessum a Principe beneficium esse mansurum”: Regulae Juris in VI, n. 16). Anzi, il momento cui si riferisce la valutazione della priorità è sempre quello della concessione, anche per i rescritti in forma commissoria. In due casi, tuttavia, prevale il rescritto successivo: se faccia menzione anche implicita dell'anteriore, perché allora si sottintende la volontà di revocarlo, o se vi sa stato dolo o notevole negligenza nella presentazione del primo. Infine, in caso di dubbio – il vecchio Codice faceva l'esempio delle concessioni accordate lo stesso giorno – occorre rivolgersi al rescribente; non è detto però a quale, se i provvedimenti siano di autorità diverse (la S. Sede prevarrà sempre, per il criterio gerarchico, ma quid tra più Dicasteri, o tra più Ordinari?).

Note

[1]    P.A. d'Avack – C. Cardia, Fonti del diritto. II) Diritto canonico, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma 1987, §3.4.2.

[2]    Sono storicamente esistiti anche i rescritti generali; tuttavia, oggi la disciplina dell'istituto si colloca, per sedes materiae, negli atti amministrativi singolari. Da un punto di vista sistematico, sembra di poter dire che un rescritto generale dovrebbe qualificarsi – secondo i casi – come 1) modifica della legge, quindi soggetta in tutto alla disciplina delle leggi, dove la supplica fungerebbe al più da occasione dell'intervento; 2) sospensione temporanea della legge in via di grazia se, in virtù di ragioni eccezionali, includesse tutti i casi da essa previsti sottoponendoli ad un regime diverso; 3) concessione di un privilegio o di una dispensa a comunità intere. In quest'ultimo caso, la natura amministrativa dell'atto è ovvia, salva la necessità della potestà legislativa per accordare privilegi; nel secondo, anche, ma se una necessità è tanto grave da prevalere, seppure temporaneamente, sulla legge nella generalità dei casi (un esempio recente: sospensione del precetto festivo in tempo di pandemia), più che di grazia si tratta di giustizia e, in ogni caso, essendo materialmente impossibile che la richiesta provenga da tutti gli interessati, l'atto dovrebbe meglio qualificarsi “decreto generale” (ai sensi e per gli effetti dei cann. 31-33), perché i rescritti non si possono estendere, neppure per analogia, alle persone in essi non contemplate.  

[3]    Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. I, Roma 1938, pag. 392, nt. 2: “Sensu lato in hac notione verbum principis etiam Legatum vel Episcopum comprehendit. Ceterum canones huius tituli Codicis agunt de rescriptis sive S. Sedis sive Ordinariorum, praesertim vero de prioribus. Ceteri Superiores, qui Ordinariorum nomine non veniunt[,] huiusmodi praescriptis non tenentur in concedendis gratiis, favoribus, vel licentiis intra propriae competentiae limites.”.

[4]    Cfr. F. Ciapparoni, Rescritto. Diritto intermedio, in Nss. Dig. It., vol. XV, Torino 1968, pagg. 587-8, qui 587: “Per la dottrina giuridica intermedia il rescritto è una fonte normativa, talora di portata particolarissima, espressione della volontà sovrana diretta alla soluzione di un caso concreto: la non univocità terminologica delle fonti medioevali impedisce tuttavia di riconoscere costantemente nell'atto così denominato un indirizzo produttivo di diritti particolari o quanto meno semplici ordini amministrativi. Entrambi infatti si qualificano come emanazioni della volontà sovrana secondo la teoria, non incontrastata, della incoercibilità del principe alla legge, princeps legibus solutus, sia pure nei limiti del rispetto di norme superiori ritenute indipendenti dalla umana volontà.”.

[5]    P.A. d'Avack, Rescritto. Diritto canonico, in Nss. Dig. It., vol. XV, Torino 1968, pagg. 588-90, qui 588.

[6]    In diversi scritti, a partire da O. Giacchi, Natura giuridica dei rescritti in diritto canonico, in Studi Senesi LI (1937), pag. 207-33. Mette conto notare, vista appunto la pregressa disputa in dottrina, che “L'inquadramento del rescritto tra gli atti amministrativi è stato adottato fin dall'inizio dei lavori di revisione del codice latino, come se fosse un dato scontato”. I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pag. 521, nt. 98.

[7]    Rispetto ai cann. 36-72 CIC 1917, la notevole minor estensione materiale si spiega in larga misura con il fatto che molte norme sono state trasposte nella disciplina generale comune a tutti gli atti singolari; non manca però qualche caso in cui lo sforzo di sintesi nella formulazione dei canoni riformati li rende meno perspicui, p.es. concetto ed effetti della clausola motu proprio si comprendono assai meglio dal vecchio can. 46.

[8]    Per E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 324, “Su tale punto la nuova legislazione è restrittiva, visto che prima si poteva anche ricorrere all'autorità presentandole un'esposizione dei fatti o una relazione (relatio) perché questa provvedesse, o un parere (consultatio) perché l'autorità indicasse un criterio di azione o interpretasse una norma”. In realtà, tutte queste iniziative restano possibili, quindi il can. 59 §1 può dirsi “restrittivo” solo nel senso che esclude le risposte dalla definizione di rescritto e dalla relativa disciplina.

[9]    Resta però ferma l'invalidità della concessione se la circostanza soggettiva è taciuta e, qualora conosciuta, avrebbe comportato determinazioni diverse da parte dell'autorità. Inoltre, soprattutto lo scomunicato non può legittimamente fruire di svariate grazie.

[10]  Tuttavia, “Il diritto esige in determinati casi che l'oratore o firmatario dell'istanza sia la medesima persona che beneficerà del rescritto (per esempio, nei casi di cui ai cc. 241, 293, 597, 690, 735, 1034 ecc.).”; e del pari, “in determinate circostanze [...è] necessaria l'accettazione dell'interessato, come accade, per esempio, nel caso previsto dal c. 692”. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 266.

[11]  “Così, per esempio, è valida la delega che concede a un sacerdote la facoltà di assistere a un matrimonio (cfr. c. 1109), benché costui non l'abbia richiesta e non sappia dell'istanza fatta da altri in suo favore. Se, nonostante tale mancanza di informazione, la delega è stata concessa da parte dell'autorità competente prima della data delle nozze, il matrimonio celebrato in presenza del sacerdote in parola è valido. Diversamente, sarebbe nullo per difetto di forma.”. Ibid. La delega di potestà, infatti, non avviene mediante un contratto di mandato privatistico, ma mediante provvedimento amministrativo unilaterale, quindi di per sé idoneo a modificare la sfera giuridica del destinatario.

[12]  Cfr. comunque le buone indicazioni di J.P. McIntyre, ad can. 59, in J.P. Beal – J.A. Coriden – T.J. Green (curr.), New Commentary on the Code of Canon Law, New York-Mahwah 2000, pag. 116: “The body of the petition, usually a formal letter, should contain the following points: the precise request desired, the worthiness of the recipient, the concrete reasons applicable for this particular case, any supporting testimonials, and an appropriate conclusion.”.

[13]  Ibid., pag. 255.

[14]  Dubitativo, ma in sostanza negli stessi termini, E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 326: “il vigente c. 59 non considera l'ipotesi di risposta negativa […] Ciò significa forse che, attualmente, il rifiuto di una grazia richiesta non è un rescritto, anche se si tratta di una risposta dell'autorità ad una petizione? Non ci arrischiamo a sostenere tale affermazione. […] Riteniamo che, in tali casi, ci troviamo di fronte ad un atto amministrativo propriamente detto prima che ad un rescritto. Evidente è l'analogia tra questa figura con [sic] quella del decreto denegatorio, prodotto quando non si acconsente all'emanazione di un determinato decreto, sollecitato a norma del c. 57.”. Contra, invece, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 263, secondo cui “Vi sono […] rescritti in cui, anziché concedere, si rinvia la concessione o si nega la grazia impetrata. Ciò è comprovato dalla prassi della Curia romana: le negazioni delle grazie richieste mantengono la forma scritta del rescritto, ma hanno un tenore diverso […]. Il diniego viene di solito espresso mediante formule di stile”. Il punto decisivo, a mio parere, è messo in luce da I. Zuanazzi, Praesis ut prosis, cit., pag. 519, che, pur non esprimendosi sul punto specifico nota che, con la nuova definizione recata dal can. 59, “La restrizione del concetto di rescritto portava quindi a dilatare quello di decreto.”. Infatti, oggi il rescritto è sì un provvedimento qualificato dalla struttura formale, ma con l'aggiunta di un requisito di contenuto; quindi, le risposte negative dei Dicasteri romani debbono qualificarsi decreti (tanto più che, in genere, le formule di stile figurano in dispositivo, ma sono precedute da congrua motivazione, che in un rescritto manca). Si tratta, quindi, di un decreto che produce effetti suoi propri, quelli dei cann. 64 e 65.

[15]  “È facile intuire che l'intera problematica relativa alla causa e alla rilevanza giuridica dei vizi di orrezione e surrezione ruota attorno alla natura stessa della relazione che corre tra chi richiede il rescritto e chi lo emana. Nella misura in cui il diritto antico guardava a tale relazione come ad una specie di negozio di diritto privato simile alla donazione, negozio in cui il superiore 'donava' una grazia, che poteva concedere o negare, ed il fedele sollecitante sembrava trovarsi in una posizione simile a quella del donatario, il problema della veridicità di quanto richiesto veniva ad essere riguardato come una questione connessa a tre dati fondamentali: a) il superiore condiziona la sua concessione ad un determinato grado di veridicità di quanto richiesto (se all'inizio si era molto rigorosi nell'applicare questo principio, a poco a poco si è divenuti più elastici); b) colui che avanza una petizione, così come chi beneficia di una donazione, è tenuto nei confronti del donante ad una particolare lealtà, di cui costituisce un elemento fondamentale l'agire in buona fede; c) il rescritto si perfezionava – come la donazione – con l'accettazione di quanto concesso.”. P. Lombardía, ad can. 63, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi compementari commentato, Roma 2020, pag. 108. La concezione del rescritto come atto ad instar donationis, sulla scorta specialmente di “due testi di Innocenzo IV (VI, 3, 7, 1) e Bonifacio VIII (VI, 3, 4, 17)” (E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 321, nt. 130; v. amplius P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 232, nt. 590), è stata superata dal CIC 1917, che, ai cann. 37 e 38, sanciva la non necessità dell'accettazione, salvo il diritto di non usare della grazia concessa. Deve quindi dirsi, in termini più generali, che “Il rescritto per valere non ha bisogno di essere accettato, dal momento che esso giuridicamente non è una donazione, ma un atto di comando, di governo.”. V. de Paolis, Il Libro I del Codice: Le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, Roma 1995, pag. 339, nt. 10.

[16]  “In verità, questa classificazione non è del tutto chiara, perché non mancano esempi in cui il ricorrere di più cause impulsive può supplire alla mancanza di cause motivanti.”. P. Lombardía, op.loc.cit.

[17]  “Per esempio, se qualcuno chiede la dispensa dalla forma matrimoniale canonica per poter contrarre davanti a un ministro acattolico, perché questi è suo padre, la circostanza di essere figlio del ministro acattolico, in questo caso, sarebbe la causa motiva che giustifica la concessione. Se questa fosse l'unica causa motiva addotta e risultasse essere falsa, il rescritto, e pertanto anche la dispensa e quindi il successivo matrimonio, sono invalidi, perché la falsità della menzionata circostanza costituisce obrezione. Non accade lo stesso nel caso in cui [non] rispondessero a verità altre circostanze addotte, che risulterebbero solo cause impulsive (per esempio, il fatto che la celebrazione svolta in questo modo possa servire per avvicinare alla fede cattolica la famiglia acattolica dei contraenti).”. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 264.

[18]  P.A. d'Avack, Rescritto, cit., pag. 589.

[19]  Non è, quindi, corretto affermare che i rescritti motu propriosono quelli dati dall'autorità senza che vi sia stata un'istanza da parte dell'interessato” (J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio..., cit., pag. 255), né che nelle relative petizioni “non è sancita la necessità […] di specificare […] le circostanze richieste” (P. Lombardía, op.cit., pag. 110) e nemmeno che essi sono concessi “indipendentemente dall'istanza che sia stata occasione della loro emanazione” (P.A. d'Avack, loc.ult.cit.): al contrario, essa esiste necessariamente, come postula il can. 59 §1, e svolge il suo indispensabile ruolo causale, senza cui non avrebbe neppure senso parlare di rescritto, però lo svolge nella forma minima necessaria, l'apporto di almeno una causa motiva che sia vera. Vale ora in generale, quindi, ciò che F.X. Wernz – P. Vidal, op.vol.cit., pag. 393, scrivevano a proposito del Papa: “dum in rescripto R.P. apponit clausulam motu proprio hoc fit ad firmiorem reddendam concessionem et sananda petitionis vitia ad normam can. 45.”. Sempre P. Lombardía, loc.ult.cit., ritiene che l'apposizione della clausola motu proprio richieda l'esercizio della potestà legislativa; ma questa è una petizione di principio, fondata su un concetto di potestà esecutiva che non è dato rinvenire nel Codice e che non ha fondamento nel testo di legge.

[20]  Del resto, il Codice vigente ha risolto in senso affermativo il dubbio secolare sulla possibilità di accordare una dispensa a sé stessi.

[21]  Lo notano J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 268: “è quanto meno illecito concedere una grazia senza una causa sufficiente e, di fatto, la mancanza di tale causa provoca in molti casi anche l'invalidità della concessione (cfr. c. 90).”. V. de Paolis, op.cit., pag. 339, aggiunge che l'eccezione in discorso non vale “ove si tratti della subreptio in rescritti che non siano per la concessione di una grazia.”. In ciò, egli ha dalla sua il dettato legislativo, giacché il can. 63 §1 parla espressamente di rescriptum gratiae; ma poiché oggi, a rigore, non esistono altri rescritti, deve intendersi che la dicitura sia volta ad escludere che in questo caso operi l'equiparazione ex can. 59 §2, per le richieste di licenza, o comunque per quegli atti che, sebbene emanati sotto forma di rescritto, abbiano in realtà natura di decreti. Del resto, trattandosi di provvedimenti di giustizia, la clausola motu proprio non avrebbe proprio senso, dovrebbe semmai ipotizzarsi una dispensa da qualche requisito legale... che tuttavia dovrebbe essere anzitutto richiesta.

[22]  L'espressione “al tempo”, secondo P.V. Pinto, op.cit., pag. 235, “fa supporre che il tempo non deve essere calcolato matematicamente (se uno ha chiesto un sussidio per la costruzione di un asilo, e vince la lotteria di capodanno dopo qualche giorno che è stato eseguito, il rescritto non è valido).”. L'opinione dell'illustre Autore mi lascia alquanto perplesso, benché possa concordare che, nell'esempio addotto, la concessione sottintendesse che, secondo l'id quod plerumque accidit, l'inopia esposta fosse destinata a perdurare per un tempo notevole.

[23]  In questo senso, non parlerei di “errori accidentali” come fa V. de Paolis, op.cit., pag. 339, ma appunto di errori (materiali o comunque) nella dichiarazione di una volontà che, nell'ipotesi di legem deve comunque ritenersi univoca e non inficiata da alcun vizio rilevante.

[24]  O meglio, essi opereranno in quanto non sarà possibile, salvo un ulteriore elemento di grazia, far retroagire al tempo della prima richiesta la concessione ottenuta in un secondo momento, né si potranno contestare direttamente le ragioni di inopportunità che fossero state addotte.

[25]  Il canone in parola non riguarda il silenzio ex can. 57, né “una grazia negata da un'autorità inferiore”, il cui assenso non sarebbe comunque necessario, né “l'ipotesi di una stessa grazia già accordata da un dicastero, qualora essa fosse passibile di una nuova concessione.”. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 258.

[26]  P.V. Pinto, op.cit., pag. 235, pensando al caso in cui qualcuno riproponga altrove una richiesta respinta dalla Penitenzieria, giustamente nota che essa non potrebbe “mai rivelare le ragioni del diniego” (eccettuato però, preciserei, il caso in cui reputi che la materia spetti al foro esterno); il dettato legale, tuttavia, pensa piuttosto al caso inverso e vuol consentire l'intervento del Tribunale di foro interno, che, per le medesime ragioni di riservatezza, non potrebbe neppure chiedere lumi ad altri Dicasteri.

[27]  Sarà quindi sempre necessario l'assenso del Dicastero: V. de Paolis, op.cit., pag. 340. Si diceva un tempo che, quando inizia a trattare una questione, la S. Sede vi “appone la mano”, dimodoché nessun altro, in seguito, può occuparsene senza il Suo assenso; il principio, attesi i cann. 64 e 139, resta valido tuttora.

[28]  V. de Paolis, op.cit., pagg. 340-1.

[29]  Cfr. P.V. Pinto, op.cit., pag. 236.

[30]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 260.

[31]  Per V. de Paolis, op.cit., pagg. 340-1, in linea di principio “l'autorità inferiore o dello stesso livello non può cambiare la precedente decisione”, pertanto qui “Le ragioni sono ovvie: si tratta di autorità dello stesso livello”. Ma in realtà il can. 64 consente una tale modifica, sebbene con il consenso del pari grado, e per J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 261, “anche se nel testo del canone non venga detto esplicitamente”, lo stesso dovrebbe valere anche qui, “dal momento che tale assenso, successivo al primo diniego, ne costituirebbe una revoca”. Io ritengo piuttosto che la questione debba essere sottoposta al Vescovo; potrà darsi il caso di revoca, ma il consenso a che altri conceda una grazia non vale necessariamente condivisione né, a rigore, esercizio del potere esecutivo in re (l'istanza non pende dinanzi al Vicario preventivamente adito, il punto sta proprio lì).

[32]  Cfr. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 260.

[33]  Non a caso, proprio su questo punto Pio Fedele contestava la tesi di Giacchi sulla natura amministrativa del rescritto: “con specifico riferimento” a subreptio e obreptio, “tipici vizi del rescritto, il Fedele riteneva che, conformemente alla tradizione canonistica e sulla base del codex, essi determinassero l'invalidità del rescritto in ragione dell'errore e dell'ignoranza del rescribente e non, come sosteneva il Giacchi, in ragione del criterio oggettivo della mancanza della causa.”. A. Talamanca, Rescritto pontificio, in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXIX, Milano 1988, pagg. 987-94, qui 900, e relativi riferimenti.

[34]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pagg. 271-2, pur muovendo dalla premessa che “In questo caso, la pubblicità si riferisce piuttosto alla notorietà del contenuto del rescritto, che determina una precisa relazione con il bene pubblico”, di fatto poi la applicano in termini ben più ampi della notorietà anche solo potenziale: “Le disposizioni possono essere rese pubbliche: a motivo delle persone a cui si dirige il rescritto (per esempio, i membri di un istituto religioso), per ciò che si riferisce alla pubblicità della loro condizione; a motivo delle modalità di esercizio della facoltà concessa (per esempio, mediante atti pubblici); a motivo, infine, della materia (per esempio, concessione di indulgenze a chiese di istituti religiosi, dedicazione di altari a beati in chiese ed oratori per indulto pontificio, dispensa da matrimonio rato e non consumato, concessione del permesso per esporre reliquie alla pubblica venerazione e tutti quei privilegi che limitano la giurisdizione dell'Ordinario.”. Per V. de Paolis, op.cit., pa. 342, “Non è questione di validità del rescritto, ma di esienze derivanti dalla pubblicità del rescritto stesso, perché non sorga stupore nella gente.”.

[35]  Il can. 68 prevede anche la possibilità che il documento stesso ingiunga la presentazione all'Ordinario; per J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 271, è in particolare il caso dei rescritti della Penitenzieria Apostolica con cui “vengono concesse speciali facoltà a determinati sacerdoti per assolvere da censure nel foro interno”: essi sono immediatamente efficaci, ma è opportuno che l'Ordinario ne sia informato.

[36]  Per V. de Paolis, op.cit., pag. 342, “frode e dolo vanno intesi in modo disgiuntivo; basta che vi sia la frode o il dolo.” (La formulazione, tuttavia, impiega et fin dalla fonte remota, X.1.3.16: peserei semmai ad un'endiadi). Nello stesso senso, sembra, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pagg. 270-1, che formulano altresì l'ipotesi che l'attesa sia volta a far sì che “alcune circostanze, che erano false al momento della concessione, si verifichino nel momento dell'esecuzione”. 

[37]  Cfr. V. de Paolis, op.cit., pag. 343, nt. 13: “Il testo latino da una parte suppone che i rescritti siano spirati ('quae expiraverint') e dall'altra parte parla di proroga ('prorogari possunt'): se sono spirati, sono cessati: come si può prorogare ciò che non esiste più?”. Indubbiamente l'impiego del termine non è appropriato, ma sottolinea che l'oggetto dev'essere identico e che, quanto alla giusta causa, che il Vescovo deve porsi in un'ottica di continuità degli effetti del provvedimento, sul presupposto che sarà rinnovato.

[38]  Tuttavia, è stata estesa ai Legati pontifici in forza delle facoltà abituali a loro concesse.

[39]  V. de Paolis, op.cit., pag. 343.

[40]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 273.

[41]  Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal, op.vol.cit., pag. 394: i rescritti si dividono in generali o particolari nel senso che “priora pertinent ad omnes causas determinatarum personarum aut ad omnes determinati loci personas; posteriora ad determinatas causas aut ad determinatas personas referuntur”.