Il silenzio amministrativo (can. 57)

Un'analisi della disciplina
silenzio amministrativo
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Indice

1. Premessa storica: la genesi del can. 57

2. Punti fermi dell’interpretazione testuale

3. La proroga ai sensi dell’art. 136 paragrafo 2 RGCR

4. L’obbligo di provvedere anche in assenza di richiesta

4.1 In particolare: la denuncia di delitto

5. L’applicabilità alle richieste di rescritti

6. Il provvedimento che sopraggiunge a termine ormai spirato

 

 

Can. 57paragrafo 1. Tutte le volte che la legge impone di dare un decreto oppure da parte dell’interessato viene legittimamente proposta una petizione o un ricorso per ottenere il decreto, l’autorità competente provveda entro tre mesi dalla ricezione della petizione o del ricorso, a meno che la legge non disponga un termine diverso.

paragrafo 2. Trascorso questo termine, se il decreto non fu ancora dato, la risposta si presume negativa, per ciò che si riferisce alla proposta di un ulteriore ricorso.

paragrafo 3. La presunta risposta negativa non esime la competente autorità dall’obbligo di dare il decreto, e anzi di riparare il danno eventualmente causato, a norma del can. 128.

 

Premessa storica: la genesi del can. 57

Il silenzio amministrativo è, ovviamente, un tema di portata generale e, già solo per questo, ritengo che, sebbene la sua disciplina sia collocata tra i canoni che riguardano i decreti, se ne debba trattare a parte, non fosse che per interrogarsi, quantomeno, sulla possibilità che il can. 57 si applichi anche al silenzio serbato su istanze volte ad ottenere rescritti o provvedimenti ad essi equiparati.

Si tratta – è bene sottolinearlo fin dall’inizio – di una norma del tutto nuova: in precedenza, sebbene si ammettesse per comune consenso un obbligo almeno morale di rispondere alle richieste presentate in debita forma, la questione degli effetti del silenzio non era regolata affatto[1] e, in concreto, non si poteva che ricorrere agli unici due strumenti possibili anche solo in astratto, ossia il sollecito (o riproposizione dell’istanza) al medesimo soggetto già interpellato oppure il ricorso al superiore. La lacuna, d’altronde, non creava particolari incertezze quanto agli obblighi o alla situazione del richiedente, che restava sempre ferma allo status quo ante, né lo esponeva a decadenze perché, in generale, egli era sempre libero di presentare vuoi il sollecito vuoi il ricorso; quanto alle domande di dispensa, invece, si ammetteva in teologia morale la possibilità di presumere una risposta favorevole qualora si fosse trattato di grazie solite a concedersi, perlomeno in presenza di serie difficoltà materiali o morali nel ricorso al superiore competente (o, per facile estensione, di quest’ultimo nel rispondere), sebbene non mancassero “zone grigie”. Restava però frustrata tutta l’area delle aspettative o degli interessi pretensivi, d’altronde in sé stessa poco considerata nel diritto anteriore, incluso quello uscito dalla codificazione del 1917. E anche dopo l’istituzione della Sectio Altera della Segnatura Apostolica, siccome il presupposto del ricorso giurisdizionale era pur sempre il provvedimento di un Dicastero romano, non è stato possibile esperire il nuovo rimedio avverso il semplice silenzio.[2]

In sede di riforma del Codice, tuttavia, l’affermata esigenza di tutela dei diritti e di realizzazione di una giustizia amministrativa propriamente detta ha portato sia il gruppo di studio De Processibus sia quello De Procedura Administrativa a proporre una norma in proposito, volta appunto a garantire la possibilità di ricorso;[3] la questione è stata rimessa per competenza al gruppo dedito alle norme generali, che l’ha esaminata prima nella riunione del 23/27 ottobre 1979, poi nell’ultima del 5/7 maggio 1980. Entrambe le proposte attribuivano al silenzio valore di rigetto, ma il coetus De Procedura esigeva la presentazione di un sollecito prima del ricorso vero e proprio; un Consultore,[4] proponendo un testo “di sintesi”, volle distinguere il caso in cui la richiesta o la questione andassero definite per decreto, rispetto a cui si sarebbe dato silenzio-rigetto con possibilità di ricorso immediato, dalla richiesta di licenza, rispetto a cui sembrava preferibile il silenzio-assenso; escludeva invece che potesse darsi un silenzio significativo rispetto ai precetti, che si danno sempre per impulso del Superiore, e alle domande di grazia. Su quest’ultimo aspetto non vi è stata particolare discussione; invece, sebbene un altro Consultore propugnasse il silenzio-assenso quale regola generale, la maggior parte di loro e il Segretario, Mons. Castillo Lara, si sono opposti anche alla sua ammissione per la sola licenza, che sembrava pericolosa, per l’indeterminatezza del concetto di licentia in dottrina, e pregiudizievole per l’autorità dei Superiori; il risultato, che non ha formato oggetto di rilievi in occasione della Plenaria del 1981, è diventato l’attuale can. 57.

 

Punti fermi dell’interpretazione testuale

Dal punto di vista dell’esegesi testuale, per lo più il dettato del canone è piuttosto chiaro e trova il consenso generale della dottrina[5]:

  • esiste un vero e proprio obbligo giuridico dell’amministrazione ecclesiastica a provvedere, almeno quando si tratti di emanare decreti;
  • tale obbligo ha portata generale e urge sia che si debba procedere d’ufficio, sia in caso di richiesta degli interessati;
  • il requisito di presentazione della richiesta in modo legittimo deve intendersi “in senso ampio, volendosi intendere che basta che si tratti di una petizione formale, rispettosa, con una certa logica e rivolta dall’interessato”;[6]
  • l’obbligo di provvedere è certo nell’an e nel quando, essendo previsto un termine generale di tre mesi, in mancanza di termini diversi per lo specifico provvedimento richiesto;
  • se il termine non è rispettato, la legge afferma che la risposta si presume negativa, ma solo agli effetti dell’esperibilità di un ricorso; si tratta quindi, piuttosto, di una “finzione giuridica equiparatrice”, secondo l’efficace espressione del Labandeira,[7] giacché l’autorità non è affatto liberata dall’obbligo di provvedere;[8]
  • infatti, a conferma della persistenza dell’obbligo stesso e anche della sua natura giuridica, al paragrafo 3 è espressamente previsto che l’inerzia sia fonte di responsabilità risarcitoria.[9]

Nell’insieme, si può quindi convenire senz’altro che questo canone, “di grande importanza per la difesa dei diritti dei fedeli nella Chiesa”,[10] è “la sola norma, tra quelle sul procedimento, idonea a porre limiti rigorosi all’arbitrio discrezionale dell’autorità”,[11] tanto che è stata definita “alquanto severa verso l’organizzazione ecclesiastica” perché non è mai necessario un sollecito previo[12] (cfr. a conferma can. 1734 paragrafo 3 n. 3°), sempre obbligatorio invece nel parallelo can. 1518 CCEO.[13]

 

La proroga ai sensi dell’art. 136 paragrafo 2 RGCR

Il più complesso aspetto problematico della disciplina del silenzio, in verità, non deriva dal can. 57, ma da una norma posteriore, l’art. 136 paragrafo 2 del nuovo Regolamento Generale della Curia Romana, che prevede la possibilità, per il Dicastero investito di ricorso gerarchico, di prorogare il termine di conclusione del procedimento, avvisando altresì l’interessato delle ragioni che richiedono un esame più approfondito.[14]

Anzitutto, sebbene non sia per nulla chiara la natura dell’atto normativo in questione, si tende a convenire nell’attribuirgli rango secondario,[15] come tale ostativo alla possibilità di derogare all’uno o all’altro Codice; inoltre, in dottrina ha suscitato critiche assai vivaci la mancanza di indicazioni sul fatto che la proroga debba sopravvenire prima della scadenza o sulla durata massima del nuovo termine, che il Dicastero è bensì tenuto ad indicare, ma stabilisce a sua discrezione, per non parlare poi del fatto che, mancando un divieto espresso, sono ammesse anche più proroghe successive.[16]

Fortunatamente, però, sul terreno pratico la delicata questione è stata affrontata con grande sensibilità dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che l’ha risolta sempre a vantaggio del ricorrente, quindi “salvando” l’art. 136 paragrafo 2 come attributivo di tutele ulteriori: l’interessato, infatti, può ricorrere

  • contro il provvedimento di proroga (ad es. se manca la motivazione o, come sembra che accada piuttosto spesso, non si indica il termine ultimo entro cui si conta di provvedere);[17]
  • se essa perviene quando il trimestre è appena spirato, cumulativamente contro la proroga e contro il silenzio ormai formatosi, purché intra fatalia per entrambi;
  • solo avverso il silenzio, “come se” l’atto soprassessorio non fosse intervenuto, per cautelarsi contro l’eventualità di una mancata adozione del provvedimento finale espresso;[18]
  • se infatti la proroga non indica un dies ad quem entro cui si conta di provvedere e non viene impugnata per questo vizio, né si esperisce tempestivo ricorso avverso il silenzio del Dicastero quando il trimestre spira, non sarà poi possibile farlo in seguito; invece, in presenza di tale dies ad quem, inutilmente spirato, si viene in sostanza a disporre di una rimessione in termini per ricorrere ex can. 57.

Inoltre, poiché la Segnatura sollecita comunque il Dicastero a provvedere o a comunicarle le proprie intenzioni, si può instaurare un circolo virtuoso in cui all’impugnazione ex can. 57 segue una proroga espressa, che comunque lascia intatto il ricorso già presentato, e la pendenza del giudizio funge da effettivo stimolo a provvedere nel merito.[19] Sicché, quantomeno dal punto di vista della tutela dei diritti, si può dire che la pur discutibile e discussa innovazione abbia, a conti fatti, comportato un progresso in sé apprezzabile. Sarebbe tuttavia opportuno, de iure condendo, dettare una disciplina la cui fonte legislativa sia indiscussa e che estenda l’ambito di applicabilità della proroga alla generalità dei procedimenti, o comunque a casi diversi dai soli ricorsi gerarchici pendenti presso la Curia Romana: il can. 57, volendo sbarrare la strada ad espedienti elusivi e dilatori, probabilmente ha peccato per eccesso di rigidità (oltretutto mancando nei fatti l’obiettivo, perché i fedeli non conoscono la norma e quindi non se ne avvalgono a propria tutela; ma questa è un’altra qestione).

 

L’obbligo di provvedere anche in assenza di richiesta

Se, come detto in esordio, vi è consenso generale sul fatto che il can. 57 opera sia quando il decreto deve essere emanato d’ufficio, sia in seguito alla presentazione di una richiesta per ottenerlo (richiesta che deve pervenire, se non proprio dal destinatario del provvedimento finale, quantomeno da un diretto interessato, giacché in favore di terzi è consentito impetrar rescritti e grazie, ma non decreti), il panorama si fa assai più sfumato quando si tratta di esaminare più da vicino l’ipotesi in cui “la legge impone di dare un decreto” (“Quoties lex iubeat decretum ferri”) e la sua relazione con la richiesta.

In effetti, non mancano esempi di vera e propria confusione negli Autori: così ad es., per de Paolis “il fedele propone legittimamente la richiesta o il ricorso per ottenere un decreto per diverse ragioni: perché se ne ha il diritto, come per es. nel can. 179 paragrafi 2-3; perché è ammessa la possibilità, come nel can. 686 paragrafo 1, o perché lo impone la legge, come nel can. 1291.”.[20] Passi il can. 686 paragrafo 1 sull’indulto di esclaustrazione, ossia il permesso per un religioso di vivere temporaneamente fuori della comunità;[21] ma il can. 179, che riguarda la conferma dell’elezione ad un ufficio ecclesiastico, propriamente non attribuisce all’eletto il diritto di chiederla, gli impone l’onere di farlo a pena di decadenza dal diritto acquisito sull’ufficio stesso (ius ad rem); il can. 1291, poi, non prevede l’emissione di un decreto, ma, testualmente, di una licentia. Invece, secondo Miras-Canosa-Baura, in taluni casi “è la stessa legge che ordina all’autorità di emettere un decreto, senza necessità che alcuno lo richieda (cfr. c. 48): esiste dunque un diritto in senso stretto da parte degli interessati a che tale atto venga dato (cfr., per esempio, cc. 116-117, 163 ecc.).”.[22] Ma i primi due canoni riguardano l’erezione di un’universitas rerum o di un’universitas personarum in persona giuridica, rispetto a cui deve dirsi, semmai, che i fedeli hanno diritto sia di chiederla (e in tal caso il can. 57 opera a prescindere) sia di non chiederla; l’autorità può erigerne motu proprio per fini pubblici, se così ritiene, come anche astenersene per ritenuta inopportunità, senza vincoli particolari; di certo, invece, non può intervenire d’imperio su iniziative avviate dai fedeli che non abbiano chiesto un tale decreto. Quanto invece al can. 163, riguarda la nomina del candidato ad un ufficio ecclesiastico che sia stato all’uopo presentato da chi ne aveva il diritto, quindi una richiesta formale c’è stata, anche se (in via eccezionale) non proveniva dal nominando stesso.

Questi esempi, e gli altri che si potrebbero addurre, illustrano con chiarezza l’insufficienza di un approccio casistico ad un argomento di portata così vasta: occorre muovere, invece, dalla littera legis e rilevare che il can. 57 opera ogniqualvolta sia presentata una richiesta volta ad ottenere un decreto, ma che – dato l’uso della disgiunzione inclusiva vel – l’obbligo di provvedere sussiste anche in mancanza di richiesta o ricorso, se è la legge stessa ad imporre di emanare il decreto.

Tale conclusione però, pur imposta dal testo del canone, si presenta subito come problematica.

Anzitutto, quand’è che si può dire che la legge “ordini” di adottare un decreto? Non vi è forse una discrezionalità amministrativa?

Poi, come può l’interessato giovarsi di un obbligo di provvedere di cui in genere ignora l’esistenza, tanto più che spesso ignora anche quella dei relativi presupposti?

Infine, ma non certo da ultimo, il can. 57 paragrafo 1 prevede un solo dies a quo, la ricezione della richiesta o del ricorso. Cosa si dovrebbe concludere rispetto all’attività svolta d’ufficio, che sussistano obbligo di provvedere e responsabilità, ma senza un termine che dia loro concretezza? Oppure che il dies a quo si individui altrimenti? O anche, come prospettato da qualcuno, che in realtà la disciplina del silenzio si applichi solo a richieste e ricorsi gerarchici?[23]

A mio parere, debbono preferirsi le soluzioni che seguono:

  • da un lato, l’espressione “quoties lex iubeat decretum ferri” deve essere “interpretata strettamente, nel senso che si avrebbe il silenzio amministrativo, agli effetti stabiliti dal canone, solo dinanzi a un mandato legale specifico; non basterebbe, quindi, un qualsiasi preteso inadempimento dell’amministrazione del dovere generico di provvedere nelle vicende affidate alla sua cura”;[24] del resto, l’intervento di un Superiore può sempre essere sollecitato nell’ambito della sua funzione di vigilanza, senza che ciò configuri un ricorso gerarchico;
  • dall’altro lato, che, almeno per analogia, il termine ex can. 57 inizia a decorrere anche in assenza di richiesta o di ricorso, ogni volta che all’autorità sia reso noto il fatto o il provvedimento da cui scaturisce l’obbligo stretto di emanare un decreto, p. es. un mutamento di status rilevante rispetto al dovere di remunerare il servizio prestato dai chierici (can. 281 paragrafo 1), dove è chiaro che, anche in assenza di richiesta, l’inerzia produce un danno.[25]

In tali circostanze, a mio parere, occorrerebbe teorizzare uno sdoppiamento del termine: per l’autorità esso decorre come appena detto e rileva a fini sia morali, sia organizzativi, sia eventualmente penali, segnando il limite oltre cui può ritenersi integrato il delitto di omissione di atto d’ufficio, che, ai sensi del can. 1378 post-riforma del Libro VI,[26] può essere anche colposo; per l’interessato, invece, che in genere ignora il momento preciso in cui l’autorità viene a conoscenza del nuovo stato di cose, il trimestre non può che decorrere dal momento in cui egli riceve il primo stipendio rimasto immutato. Comunque deve escludersi che il silenzio amministrativo canonico possa “consolidarsi” per mancata impugnazione, alla stregua di un provvedimento espresso, perché vi osta il tenore letterale del can. 57 paragrafo 2, quindi sarà sempre possibile presentare la richiesta volta ad ottenere il decreto e far decorrere il termine per provvedere.

 

In particolare: la denuncia di delitto

A mio sommesso avviso, le considerazioni appena svolte trovano un’applicazione particolare nell’ambito della procedura penale canonica, a vantaggio del denunziante. O almeno di quel denunciante che abbia diritto al risarcimento dei danni, dal momento che può esercitare la relativa azione soltanto all’interno del processo penale e, se non lo fa, incorre in decadenza.[27] Si dà il caso, infatti, che l’Ordinario, a fronte di una notizia di reato “almeno verosimile”, sia tenuto ad indagare (can. 1717) e, una volta che “gli elementi raccolti sembrino bastare”, ad assumere una serie di decisioni (can. 1718): se procedere o meno, anche per ragioni di opportunità; se dirimere egli stesso la questione dei danni; se optare per la via giudiziaria o per la via amministrativa.

Da tale pur schematica ricognizione del quadro normativo, emerge che l’indagine ricade sicuramente nell’ambito del can. 57, quindi dovrebbe di per sé concludersi entro tre mesi, salva la possibilità di rivedere le decisioni prese in caso di sopravvenienze (il che sembra anzi doveroso, ex can. 1718 paragrafo 2); il denunziante, di fronte ad un’inerzia, patisce pregiudizio perché il suo diritto di azione rimane frustrato; quindi, sebbene il suo coinvolgimento non sia minimamente contemplato dalla procedura (ma assai sensato a termini del can. 50), ben potrà avvalersi del rimedio del ricorso una volta spirato invano il trimestre, anche se forse in questo caso sarebbe opportuno premettere un sollecito scritto, che potrebbe rivelarsi più efficace.

A ciò si aggiunga, per completezza, che deve essergli riconosciuto il diritto di impugnare – e quindi anzitutto di ricevere... – le decisioni assunte dall’Ordinario ex can. 1718, nella misura in cui lo possano pregiudicare: dunque sia la scelta di non procedere affatto, a fortiori se pretermetta del tutto il problema del risarcimento; sia la decisione di affrontare quest’ultimo fuori del processo, se egli ritenga che in tal modo gli si impedisca di dimostrarne compiutamente l’entità; sia al contrario la preferenza per una sua trattazione in sede giudiziale, se al contrario gli sembri che tutti gli elementi per decidere fossero già a disposizione.

Un’applicazione rigorosa del can. 57, com’è facile immaginare, gioverebbe assai tanto all’immagine quanto all’effettività della giustizia ecclesiastica, mitigando non poco gli effetti problematici della scelta per la via amministrativa in materia penale e consentendo di sottoporla ad un sindacato efficace, di cui si sente la mancanza.

 

L’applicabilità alle richieste di rescritti

Come si è visto (cfr. supra, paragrafo 1), le indicazioni dei lavori preparatori e la sedes materiae stessa depongono in senso contrario all’applicabilità del can. 57 in caso di silenzio su richieste volte ad ottenere, non un decreto, ma un rescritto o qualche provvedimento equiparato, incluse le licenze (cfr. can. 59 paragrafo 2).

In dottrina, accanto a chi afferma nettamente l’insindacabilità del diniego opposto alla concessione di una qualsiasi grazia, e perciò l’inutilità di una disciplina del silenzio,[28] e a chi non si esprime,[29] vi è chi invece distingue, vuoi ammettendo il ricorso avverso la mancata concessione di una dispensa e negandolo per il privilegio, che avrebbe in sostanza carattere legislativo,[30] vuoi propugnando il principio del silenzio-assenso quando il contenuto del provvedimento sia predeterminato, secondo un criterio che ricorda da vicino quello non accolto dai codificatori riguardo alla licentia.[31] Numerose e autorevoli, però, sono le voci che si spingono ben oltre, arrivando a concludere recisamente per l’applicabilità del can. 57 anche alle domande di grazia. “In effetti, pare illogico aver previsto questa misura di protezione del diritto a ricevere una risposta esclusivamente per gli atti che dallo stesso codice si ritengono emanati di regola motu proprio, e averla invece esclusa per gli atti, quali i rescritti, che sono ordinariamente diretti a rispondere alle preces degli interessati. […] Sembra al contrario più corretta l’opinione che richiama la volontà del legislatore di estendere ai rescritti le procedure di revisione dell’operato della gerarchia e perciò sostiene che anche la disposizione sull’impugnazione dell’inattività, pur se non richiamata formalmente, sia applicabile come necessario completamento del sistema di giustizia.”.[32] Invero, poiché il can. 1732 stabilisce espressamente che le disposizioni dettate in tema di ricorso gerarchico avverso i decreti si applicano a tutti gli atti amministrativi singolari dati in foro esterno, senza formulare clausole di riserva, non si può dubitare della sindacabilità della dispensa o del suo diniego, d’altronde ammessa da tempo in giurisprudenza; deve quindi concludersi per l’applicazione del can. 57 anche ai rescritti (almeno se il loro contenuto è davvero un atto amministrativo), altrimenti sarebbe “un’ironia nei confronti degli amministrati parlare di controllo gerarchico e giudiziale, e permettere al contempo al superiore di eluderlo semplicemente con un atteggiamento passivo”.[33] Tanto più che gli atti di grazia sono inclusi nella corrispondente disciplina del can. 1518 CCEO.[34] E infine, il fatto che, perlomeno a certe condizioni, una grazia negata possa essere domandata ad altri (cfr. cann. 64-5), come non impedisce la proposizione di ricorso gerarchico avverso il diniego espresso, a fortiori non può ostare a quello avverso il silenzio, dato che il richiedente ha anche interesse a non incorrere nelle restrizioni al diritto di rivolgersi altrove.

A mio avviso, si può addurre ancora un altro argomento. Se nel diritto anteriore, CIC 17 incluso, il termine “rescritto” designava tanto la risposta favorevole quanto la negativa, oggi il can. 59 attesta inequivocabilmente che per tale deve intendersi solo l’atto che concede la grazia richiesta; ergo, quello che la nega dev’essere qualificato come decreto, giacché tertium non datur. Ovviamente, la petizione non era rivolta ad ottenere il decreto, bensì l’esatto contrario cioè l’atto favorevole; entra però in gioco, a mio avviso, l’altro dei due presupposti del can. 57, il “quoties lex iubeat decretum ferri”. Beninteso, non si può dire che la legge ordini sic et simpliciter di respingere tutte le richieste di grazia, perché ciò equivarrebbe a negarne in radice l’ammissibilità stessa; costituisce tuttavia principio generale (arg. ex cann. 63, 90 e 91) il divieto di concedere grazie senza una causa giusta, ragionevole e proporzionata, la cui prova spetta al richiedente; ciò anche in ragione del fatto che la legge, dovendo esser giusta secondo l’id quod plerumque accidit, si presume giusta anche rispetto al caso concreto all’esame, finché non si dimostri il contrario. L’ordinamento canonico vuole, dunque, che tutte le richieste di grazia vengano ben ponderate nel merito, però muove dal presupposto che la giusta causa, pur potendo sussistere in generale, non si dia nel caso concreto; questo consente di interpretare il silenzio come applicazione della relativa praesumptio iuris e dunque del mandato legale “rigetta, a meno che...”; l’effetto è consentire all’interessato di assolvere al proprio onere della prova in altra sede, mediante la procedura del ricorso, e quindi di ottenere appunto la valutazione nel merito voluta dall’ordinamento; si richiede, tuttavia, di attenuare in questo caso il rigore nell’interpretazione restrittiva del verbo iubeat; e si può forse anche affermare che la presunzione di risposta negativa non è qui una semplice finzione, ma veramente esprime la conformità ad un id quod plerumque accidit, sebbene non si possa comunque equiparare appieno il silenzio al provvedimento espresso.

Deve infatti rilevarsi che, benché in passato si sia ritenuta possibile la concessione tacita della dispensa, nel caso del superiore che, pur a conoscenza delle trasgressioni commesse dal suddito, non interveniva per reprimerle sebbene lo potesse fare senza particolari difficoltà o incomodi,[35] oggi questa possibilità deve intendersi esclusa sia in forza del can. 37,[36] sia per l’efficacia limitata delle concessioni vivae vocis oraculo, sia per l’obbligatoria esistenza di una causa giusta e ragionevole, che non si può presumere (come appena detto) e senza la quale la dispensa sarebbe invalida.[37] Per le stesse ragioni non sembra ammissibile, neppure de iure condendo, un’estensione del silenzio-assenso alle richieste di grazia, mentre lo sarebbe per le dispense, almeno a mio avviso, dato il carattere sostanzialmente vincolato dell’attività amministrativa, oltretutto con una praesumptio iuris che stavolta milita in favore dell’istante.

De iure condito, quindi, anche se sarebbe sicuramente preferibile un’interpretazione autentica che risolvesse il dubbio giuridico una volta per tutte, si deve concludere che la disciplina del can. 57 si applica anche alle domande di grazia.

 

Il provvedimento che sopraggiunge a termine ormai spirato

Tralasciata la questione della responsabilità per il caso di inerzia, che rientra a pieno titolo nel can. 128, occorre completar la presente trattazione con il problema del provvedimento tardivo. Nulla quaestio, vista la lettera del paragrafo 3, che in linea di principio la sua adozione resti legittima e anche doverosa; se, per qualunque motivo, il silenzio non era stato impugnato, il provvedimento espresso sarà impugnabile alla maniera solita e si sarà semplicemente posta fine all’anomalia. L’esigenza di un approfondimento si pone, invece, rispetto ai possibili effetti della sopravvenienza rispetto al ricorso ex can. 57 già presentato, ma ancora pendente: se infatti fosse già stato deciso con un provvedimento definitivo, non residuerebbero più né un silenzio né una competenza non esercitata dell’autorità inferiore; semmai ci troveremmo di fronte ad un caso di conflitto tra decreti o tra rescritti.

In primo luogo, occorre considerare il can. 139, secondo cui, se una questione viene deferita all’autorità esecutiva superiore, questo non sospende la competenza dell’inferiore che già ne era investita; essa però non deve esercitarla se non per causa grave e urgente (che nel caso potrebbe consistere proprio nel liberarsi dalla responsabilità per danni), avvertendone immediatamente il superiore adito. Si tratta di una regola procedurale di coordinamento tra livelli di governo la cui opportunità è intuitiva, ma nel caso del can. 57 sembra difficile sostenere che l’autorità inferiore sia tenuta a non intromettersi nell’affare deferito al superiore, perché vi è un chiaro favor per l’adozione di un provvedimento espresso che possa poi, se del caso, meglio percorrere tutto l’iter del ricorso gerarchico.

Cionondimeno, “per ragioni di equità è necessario che non si arrivi ad un automatico congelamento del ricorso, il che cagionerebbe un doppio danno all’interessato, ma è opportuno che il ricorso rimanga efficace”:[38] se il provvedimento espresso accoglie la richiesta, infatti, può residuare la questione dei danni; se è negativo ma senza motivazione, si può trascurare affatto;[39] il caso più interessante è, naturalmente, quello del decreto negativo ma debitamente motivato. Qui, infatti, la regola secondo cui la presunzione cede alla verità trova un adattamento molto opportuno: perlomeno nel giudizio davanti alla Segnatura – ma la stessa regola dovrebbe valere per i ricorsi gerarchici – non si esige la proposizione di un nuovo ricorso, ritenendosi che la materia del contendere sia sostanzialmente la stessa; si tratterà solamente di “metterla a fuoco” meglio nell’iter processuale, formulando acconce censure avverso i motivi infine espressi di un rigetto che, dopotutto, già era stato censurato.[40] In altre parole: quando si approda in Segnatura, il silenzio del Dicastero viene inteso alla stregua di semplice conferma del provvedimento espresso del Vescovo diocesano, dimodoché bisogna verificare la legittimità di quest’ultimo.[41] Ma quid per il fedele che arrivi al Supremo Tribunale censurando un duplice silenzio, del Vescovo prima, del Dicastero poi? Non sono noti precedenti e sarebbe molto interessante disporne, giacché la Segnatura non può esaminare il merito amministrativo (a meno che non le venga appositamente deferito dal Papa), quindi ai trova quasi di fronte a “un bivio […]: o semplicemente dichiarare l’illegittimità del silenzio (operazione che avvicina molto il giudice amministrativo, nel caso unico e supremo, al mitico Sisifo) o proporsi di rispondere alla petitio o al recursus iniziale, cui non ha risposto l’autorità ecclesiastica.”.[42] Tanto più che può ben trovarsi investita anche della questione dei danni. De iure condito, anche se con l’incognita dell’atteggiamento della giurisprudenza, la questione può oggi essere affrontata ricorrendo agli artt. 90-4 della Lex Propria della Segnatura Apostolica: proprio per risolvere la controversia, oggi i giudici hanno il potere di stabilire (statuere) in sentenza gli effetti immediati e diretti dell’illegittimità dichiarata (art. 90, cfr. art. 93 paragrafi 3-4);[43] il caso del silenzio non viene espressamente trattato, ma deve intendersi incluso nella regola generale, dimodoché il Collegio giudicante potrà e dovrà, secondo i casi, inquadrare la fattispecie in diritto e accertare la sussistenza di tutti o di alcuni degli elementi di fatto necessari. Se poi fosse ancora necessario un provvedimento per dare esecuzione alla sentenza e non vi provvedesse il Dicastero, su richiesta della parte interessata e previa informazione al Papa deciderà lo stesso Supremo Tribunale (art. 92), sembra mediante la procedura giudiziaria, per una miglior garanzia di tutti gli interessati, e lo stesso, ma nella più agile articolazione del Congresso, dirime anche le controversie sul modo dell’esecuzione (art. 94). Insomma, sebbene la lotta contro il silenzio amministrativo sia dura e complicata, perfino nel caso estremo in cui manchi qualunque provvedimento, il fedele può sperar di raggiungere, come al termine di un lungo tunnel, una pronuncia della Segnatura che risolva il suo caso. E ad un sistema di giustizia, in definitiva, null’altro si chiede.

 

 

[1]    Le Regulae Juris in Sexto, in effetti, contenevano al riguardo due brocardi contraddittori: “Qui tacet consentire videtur” (n. 43) e “Is qui tacet non fatetur, sed nec utique negare videtur” (n. 44). il rispettivo ambito di applicazione, però, riguardava principalmente il diritto provato e il silenzio-assenso prevaleva rispetto a quei risultati che l’ordinamento intendeva favorire: cfr. P. Fedele, Lo spirito del diritto canonico, Padova 1962, pagg. 688-91. Solo in ambito giudiziale, cioè rispetto all’ammissione del libello di domanda, il can. 1710 CIC 17 prevedeva un meccanismo di ricorso avverso il silenzio.

[2]    E ciò sebbene lo stesso Card. Prefetto, Dino Staffa, fosse favorevole alla sua equiparazione al rigetto: cfr. D. Staffa, Dissertationes de administratione iustitiae in Ecclesia. II – De Supremo Tribunali Administrativo seu de Secunda Sectione Supremi Tribunalis Signaturae Apostolicae, in Periodica de re canonica 61 (1972, pagg. 19-29, qui 28. per la segnalazione di simili casi di rigetto, cfr. Z. Grocholewski, La "Sectio Altera" della Segnatura Apostolica con particolare riferimento alla procedura in essa seguita, in Apollinaris 54 (1981), pagg. 65-110, qui 96-7, nt. 112.

[3]    Sebbene tali proposte risalgano al 1972-3, la norma in parola, così come del resto l’intera procedura amministrativa, non figura nello Schema di Codice del 1977, perché giudicata bisognosa di ulteriore riflessione e, quindi, rimandata alla fase successiva dei lavori di riforma.

[4]    I verbali non riportano i nomi degli intervenienti, ma il loro numero d’ordine (“primus Consultor”, etc.) rispetto ad un elenco noto alla Pontificia Commissione.

[5]    Cfr. P. Lombardía, ad can. 57, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi Complementari commentato, Roma 2020, pagg. 104-5; G.P. Montini, Problemata quaedam de silentio et recursu iuxta can. 57 C.I.C., in Periodica de re canonica 80 (1991), pagg. 469-98; E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pagg. 426-34; V. de Paolis, Il Libro I del Codice: le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pagg. 336-7; I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pagg. 599-603; P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pagg. 256-64; J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pagg. 240-2.

[6]    E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 432. Ben a ragione J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pagg. 240-1, parlano di un “diritto di petizione” incluso nell’ampia formulazione del can. 212 paragrafo1. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto del Congresso 18 gennaio 2013, prot. n. 46613/12 CA, Revocationis conventionis, Sr. X / Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, a conferma di precedente rigetto in limine del Segretario, ha ritenuto che non sussistesse illegittimità nel silenzio del Dicastero sulla richiesta di revocare un nulla osta all’esecuzione di un accordo che non era un atto amministrativo, né lo era divenuto per effetto di tale intervento, cui non doveva annettersi natura provvedimentale. Id., Sentenza definitiva 18 marzo 2006, c. Erdö, prot. n. 31858/C/04 CA, Concessionis Capituli electionis, Ordine X / Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ha ritenuto non legittimamente presentata la petizione di chi aveva già subito la revoca della facoltà di agire in nome della persona giuridica interessata, per giunta in un caso in cui si era omesso di impugnare una precedente decisione negativa.

[7]    Così E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 429; cfr. amplius ibid., pagg. 428-30 e 433. Nello stesso senso, pur dichiarando di voler prescindere “dalla polemica dottrinale, se il silenzio debba anche ritenersi come una equivalente manifestazione di volontà”, P.V. Pinto, Diritto amministrativo..., cit., pag. 263, che parla infatti senz’ambagi di “finzione giuridica, all’unico scopo di rendere possibile il ricorso del fedele all’autorità esecutiva superiore e, se occorra, al Tribunale amministrativo.”. Dal canto suo, G.P. Montini, Problemata quaedam..., cit., pagg. 477-8, nota la strettissima analogia, anche a livello di formulazione testuale, con l’art. 94 della legge spagnola sulla Pubblica Amministrazione e ipotizza, pertanto, che la redazione del can. 57 si debba ad un Consultore che avesse familiarità con la medesima.

[8]    In altre parole, “Il tempo stabilito non è ad finiendam obligationem, ma ad urgendam, come è detto nel paragrafo 3.”. V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pag. 337.

[9]    P. Lombardía, op.loc.cit., pag. 105, scorge anzi qui la conferma di un più ampio principio generale di “responsabilità dell’organizzazione ecclesiastica per i danni che possa causare nella propria attività, se mai residui un qualche dubbio circa l’applicabilità del principio espresso al c. 128 all’attività svolta dai titolari di uffici dotati di potestà esecutiva.”.

[10]  V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pag. 336.

[11]  I. Zuanazzi, Praesis ut prosis..., cit., pag. 599.

[12]  P. Lombardía, op.loc.cit., pag. 104. Ovviamente il sollecito non è vietato, ma non ha effetto sul termine di conclusione del procedimento e, soprattutto, su quello per ricorrere.

[13]  G.P. Montini, Problemata quaedam..., cit., pag. 476, nt. 15, segnala in proposito che lo schema del CCEO ha recepito senza particolari discussioni la proposta iniziale del coetus latino De Procedura Administrativa, che non ha suscitato significativo dibattito nemmeno una volta approvato il testo definitivo del nuovo CIC. “Normativae ergo latina et orientalis hoc in puncto, sine ulla ratione perspicua, valde diversae evadunt”.

[14]  L’esame dei ricorsi deve concludersi entro i termini prescritti dal can. 57 del Codice di Diritto Canonico e dal can. 1518 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali; qualora il ricorso esiga un esame più approfondito, si avverta il ricorrente del tempo di proroga e delle motivazioni che l’hanno causata.”. In realtà, il can. 1518 CCEO prescrive il meccanismo di reazione, ma i termini per la risposta sono fissati dal can. 1002.

[15]  Sebbene taluno, in virtù specialmente dell’approvazione con rescriptum ex audientia SS.mi, tenda a farne un atto pontificio vero e proprio.

[16]  Contra, però, sulla scorta del can. 18 perché intende l’art. 136 paragrafo 2 come una legge eccezionale, J. Miras, L’oggetto del ricorso contenzioso-amministrativo canonico, in E. Baura – J. Canosa (curr.), La giustizia nell’attività amministrativa della Chiesa: il contenzioso amministrativo, Milano 2006, pagg. 275-304, qui 294 (e amplius sull’RT. 136 paragrafo 2 ibid., pagg. 292-7).

[17]  L’equiparazione di un atto che, comunque lo si voglia definire, certo non è il provvedimento definitivo alla decisio ex can. 51, implicita nell’obbligatorietà della motivazione e nella prassi che ammette l’impugnabilità in Segnatura, non è priva di importanza per la teoria generale; ma non è questa la sede adatta per trattarne ex professo. Mi sembra di poter dire che anche rispetto alla proroga si dia (quello che considero) il tratto distintivo della decisio, ossia la scelta tra più alternative tra loro non indifferenti.

[18]  Esprime perplessità sul ricorso ad cautelam, che investirebbe la Segnatura di un compito di vigilanza estraneo alla funzione di tribunale amministrativo, J. Miras, L’oggetto..., cit., pagg. 295-6.

[19]  Sull’argomento, cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto definitivo 3 luglio 2004, c. Coccopalmerio, prot. n. 32943/01 CA, Nullitatis constitutionis in personam iuridicam, Sig.ra X / Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Più in generale, cfr. ex professo sull’argomento l’ampio ed informato studio di G.P. Montini, I tempi supplementari nei ricorsi gerarchici presso la Curia Romana e il ricorso alla Segnatura Apostolica. L’art. 136 paragrafo 2 del Regolamento Generale della Curia Romana tra normativa, prassi e giurisprudenza, in J. Conn James – L. Sabbarese (curr.), Iustitia in Caritate. Miscellanea di studi in onore di Velasio de Paolis, Roma 2005, pagg. 523-48; esplicita, in particolare, l’affermazione secondo cui “Se l’art. 136 paragrafo 2 RGCR […] si legge come una norma di cortesia nei confronti della parte ricorrente, non si porrà alcun contrasto con il can. 57.”: “Poiché il superamento del termine di tre mesi ‘non esime la competente autorità dall’obbligo di dare il decreto’ (can. 57 paragrafo 3) richiesto, il Dicastero avvertirebbe il ricorrente che potrà attendersi la risposta entro un tempo indicato e ciò per le motivazioni specificate. Sarebbe una cortesia istituzionale, che discende da un prescritto (can. 57 paragrafo 1) che non si è potuto osservare (ad impossibilia nemo tenetur)” (pag. 534). Questa tesi viene tuttavia rigettata, perché implicherebbe l’irrilevanza giuridica della proroga, non condivisa né dalla prassi né dalla giurisprudenza, e si preferisce una lettura “che limiti il più possibile l’area di conflitto normativo e, soprattutto, permetta di mantenere tutta la forza innovativa e garantistica del prescritto codiciale” (pag. 540).

[20]  V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pagg. 336-7.

[21]  Anche se si può sostenere che abbia natura di grazia, tanto più che la possibilità di imporlo d’ufficio e contro la volontà dell’interessato, dunque senz’altro come misura di giustizia, è distintamente prevista al paragrafo 3 dello stesso canone. Come grazia, pur senza particolare approfondimento, lo qualifica J. Canosa, La concessione di grazie attraverso i rescritti, in Ius Ecclesiae 6 (1994), pagg. 237-57, qui 244, testo e nt. 19, che tali considera gli indulti in genere.

[22]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 241. In sé stesso il ragionamento non fa che affermare che il decreto è un atto di giustizia; ma non ad ogni atto di giustizia corrisponde un diritto soggettivo degli interessati ad ottenerlo, soprattutto quando esso richieda valutazioni attinenti al bene pubblico. Sembra, in effetti, che gli illustri Autori confondano il diritto ad ottenere un provvedimento espresso (la cui sussistenza è innegabile) con il diritto ad ottenere un provvedimento favorevole, immediatamente evocato dagli esempi da loro addotti.

[23]  Sembra in particolare – sebbene il punto non venga affrontato ex professo – la posizione di J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 241, che parlano di “obbligo di provvedere a fronte delle richieste e dei ricorsi legittimi” (enfasi grafica nell’originale); più chiaro J. Miras, L’oggetto..., cit., pag. 291, secondo cui “ogni attuazione dell’autorità riguardante una situazione particolare ed avente effetti giuridici sui terzi potrebbe diventare oggetto del ricorso [avverso il silenzio], ovviamente [!] nei casi in cui ci fosse stata la previa richiesta”. Invece, forse per l’eccessivo sforzo di sintesi, mi resta oscura la posizione di V. de Paolis, op.loc.cit.; E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 433, ripreso da I. Zuanazzi, Praesis ut prosis..., cit., pag. 601, nt. 326, si limita a scrivere che “il silenzio dell’Amministrazione è considerato alla stregua di un atto denegatorio di quanto richiesto, in caso di petizione o ricorso. Più difficile sarebbe precisare cosa si intenda per risposta negativa quando si tratta di negligenza nell’emissione di un atto d’ufficio imposta dalla legge”; tace affatto sul punto P.V. Pinto, op.loc.cit.

[24]  J. Miras, L’oggetto..., cit., pag. 290.

[25]  Così G.P. Montini, Problemata quaedam..., cit., pagg. 478 e 482.

[26]  Il Libro VI del CIC 83, dedicato al diritto penale sostanziale, è stato integralmente sostituito con effetto dall’8 dicembre 2021; sul punto in esame, comunque, non si registrano differenze di rilievo rispetto all’anteriore can. 1389.

[27]  Anche se il combinato disposto dei cann. 1729 e 1731, di per sé, a mio avviso lascerebbe aperta la possibilità di un’azione contenziosa proposta in data posteriore alla chiusura del giudizio penale (sia pure senza il beneficio del giudicato di condanna), tale non è la conclusione della dottrina: “La parte lesa che non sia intervenuta nella prima istanza e prima della conclusione in causa perde ogni diritto. E non può adire il tribunale nemmeno proponendo un’azione separata, indipendentemente dal processo penale, sia perché il risarcimento suppone che i danni siano stati causati dal delitto e che il delitto e la sua imputabilità siano stati provati nel giudizio penale, sia perché la legge non prevede altra via che quella indicata dal can. 1729, 1 e dal citato can. 1731, ossia il giudizio penale. In altre parole, il risarcimento dei danni, anche se appartiene alla via contenziosa, è legato e dipende dal giudizio penale.”. A. Calabrese, Diritto penale canonico, Roma 2006, pag. 190.

[28]  Cfr. A.M. Punzi Nicolò, Privilegio (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXV, Milano 1986, pagg. 775-83, qui 780-1.

[29]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 241, affermano che “il Codice, di fatto, applica la norma sul silenzio amministrativo ai soli decreti singolari”, ma che ciò non pregiudica “il carattere eventualmente dovuto della risposta alle preces per ottenere un rescritto”, su cui rinviano ad una trattazione successiva che, tuttavia, non mi sembra di rintracciare nel testo.

[30]  Cfr. A. Talamanca, Rescritto pontificio, in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXIX, Milano 1988, pagg. 987-94, qui 991-2, nt. 29.

[31]  Cfr. A. Bettetini, Il silenzio amministrativo nell’ordinamento canonico, Padova 1999, pag. 108.

[32]  I. Zuanazzi, Praesis ut prosis..., cit., pag. 602.

[33]  P. Lombardía, ad can. 59, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice..., cit., pag. 106. Critico nei confronti di un’esclusione di cui non coglie la ratio anche E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 296, che però ivi non sembra arrivare a superarla in via interpretativa; vi perviene invece in Id., Cuestiones de Derecho Administrativo Canónico, Pamplona 1992, pag. 449. Assai netto, infine ma non da ultimo, J. Canosa, La concessione..., cit., pagg. 249-50: “Caratteristica comune di tutti gli atti di iniziativa o preces è che comportano sempre una manifestazione di volontà e che la loro presentazione determina nell’autorità competente l’obbligo di provvedere, anzi, per meglio dire, l’obbligo di pronunciarsi, anche in senso negativo in ordine all’istanza rivolta: altrimenti non avrebbe molto senso l’ampliamento a tutti gli atti amministrativi singolari che fa il c. 1732 del Codice latino, in sede di ricorso gerarchico, che richiede il riconoscimento dell’applicazione del silenzio amministrativo nella disciplina della concessione dei rescritti.”.

[34]  Lo segnala I. Zuanazzi, Praesis ut prosis..., cit., pag. 603, nt. 134.

[35]  Cfr. amplius in tema P.V. Pinto, Diritto amministrativo..., cit., pagg. 260-1, e relativi riferimenti.

[36]  Così, in termini del tutto condivisibili, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 306, che aggiungono: “Si potrebbe invece pensare al caso di una dispensa data implicitamente quando un atto dell’autorità comporta necessariamente la previa concessione di un rilassamento della legge: in questi casi, andrebbe tuttavia provata l’esistenza della volontà dell’autorità di dispensare e degli altri elementi essenziali dell’istituto in parola. In ogni caso, questo tipo di concessione dovrebbe essere riservato a casi rarissimi”. Considerazioni condivisibili; io peò, pur ammettendo in astratto la possibilità della dispensa implicita, se munita di queste cautele, ravviso in concreto un ostacolo insormontabile nel can. 38, che esige che la deroga alla legge sia sempre espressa, a pena di nullità: con ciò, infatti, il requisito sostanziale de voluntate dispensandi è trasformato in requisito formale.

[37]  A rigore, ex can. 91, l’invalidità riguarda la dispensa concessa da chi gode della sola potestà esecutiva o, comunque, non è né il legislatore che ha emanato la legge né un suo superiore: prima che si introducesse la distinzione di potestà, la dispensa era ritenuto atto riservato al legislatore, quindi i ragionamenti dei canonisti presupponevano che il Superiore inerte potesse accordare una dispensa valida anche in assenza di causa. Oggi questo non è più vero, almeno in molti casi, e occorre pertanto modificare di conseguenza la teoria generale.

[38]  E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 434.

[39]  Così G.P. Montini, Problemata quaedam..., cit., pag. 488.

[40]  In tal senso, ex professo, Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Sentenza definitiva 14 novembre 2007, c. Cacciavillan, prot. n. 37707/05 CA, Amotionis ab officio Vice-Rectoris Seminarii, Rev. X / Congregazione per l’Educazione Cattolica; ma questo criterio si trova applicato, oltretutto senza speciale motivazione, già in Id., Decreto del Congresso 23 novembre 1990, prot. n. 20468/88 CA, Salernitana – Iurium, Revv.di X e Y / Congregazione per il Clero. E G.P. Montini, Problemata quaedam..., cit., pag. 488, dava a sua volta per scontata la possibilità di procedere ad una simile integrazione, per censurare i motivi finalmente addotti, ai sensi dell’art. 114 delle Normae Speciales allora vigenti presso la Segnatura.

[41]  Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Sentenza definitiva 29 novembre 2017, c. Versaldi, prot. n. 50273/15 CA, Exercitii ministerii. Atteso il tenore della motivazione, non sembra rilevante che, nel caso, la causa fosse pervenuta alla Segnatura per deferimento da parte del Sommo Pontefice, che aveva concesso la remissione in termini rispetto alla fase del ricorso gerarchico: lo stesso criterio di giudizio, nonostante una formula del dubbio equivoca perché parlava di “silenzio con cui è stato respinto il ricorso”, è stato seguito in Id., Sentenza definitiva 21 maggio 2011, c. Echevarría Rodríguez, prot. n. 42677/09 CA, Conchen. - Poenalis, Rev F.X. Mahía Colao / Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, dove si è dichiarata bensì l’illegittimità del silenzio, però sia in procedendo sia in decernendo, cioè per non aver rilevato che il decreto penale era affetto da incompetenza, e quindi si è di fatto annullato il provvedimento del Vescovo. Il principio è del pari affermato in Id., Sentenza definitiva 18 marzo 2006, c. Echevarría Rodríguez, prot. n. 32756/01 CA, Revocationis missionis canonicae, Rev. X / Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. G.P. Montini, Problemata quaedam..., cit., pag. 489, lo giustificava richiamandosi al diritto italiano.

[42]  G.P. Montini, I tempi supplementari..., cit., pag. 548, nt. 98. Più ampie considerazioni in favore della seconda ipotesi, con il solo limite della discrezionalità amministrativa e a patto che fossero disponibili, o acquisiti nell’ambito del processo, gli elementi necessari a risolvere il caso in Id., Problemata quaedam..., cit., pagg. 488-98.

[43]  Cfr. il commento “a caldo”, ma a mio avviso tuttora condivisibile, di S. Berlingò, La competenza di legittimità e di merito della Segnatura Apostolicasecondo la Lex propria, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (rivista telematica), marzo 2009, pag. 10: “Il tenore della disposizione sembra implicare una potestà ultimamente risolutoria della controversia, e quindi tale non solo da rendere possibile ma da garantire, nel caso di un accoglimento del ricorso, il conseguimento da parte del ricorrente della situazione finale, ossia del bene concreto della vita di cui si contende. Non si tratta di meri effetti di accertamento della illegittimità, mirati a porre semplicemente fine al dibattito giudiziale sulla ricorrenza o no della stessa; né di effetti esclusivamente rescissori, ma di effetti integralmente ripristinatori e/o restitutori, pienamente satisfattivi di aspettative e/o pretese ingiustamente eluse o frustrate; e quindi di effetti capaci di risolvere («solvere»), ossia disfare una volta per tutte e direttamente («immediate et directe»), il grumo delle ragioni conducenti ad ogni ulteriore possibile strepitum iudicii («contentio»).