x

x

Traditio canonica

Traditio canonica
Traditio canonica

Credo che il modo migliore per presentare questa rubrica stia nello spiegarne il nome, giacché esso vuole render subito chiaro quale sia il metodo che verrà seguito nell’approfondimento, volta per volta, di singoli temi del diritto canonico.

Il termine “tradizione” è uno dei più importanti in assoluto nell’ambito cattolico, ma, forse proprio per questo, conosce una pluralità di accezioni diverse; la radice comune sta nel significato fondamentale del latino traditio, “consegna”.

In prima istanza, quindi, il vocabolo designa il momento in cui viene introdotta una dottrina oppure un’usanza, da intendersi metaforicamente “consegnata” ad una comunità di destinatari.[1]

Due cose mi sembrano qui degne di specifica menzione. Anzitutto, la dottrina non è mai priva di ricadute pratiche, né l’usanza di implicazioni o retroterra dottrinali. Inoltre, in entrambi i casi e in tutte le accezioni del termine “tradizione”, l’atto del tradere non ha mai per destinatario un individuo isolato.

In effetti, l’individualità sta semmai dalla parte del tradens, che può essere Dio Stesso – e parleremo allora di Tradizione divina – oppure un personaggio autorevole per varie ragioni, non escluso il possesso di un potere che gli deriva da Dio, ma almeno in quel caso non lo rende, per così dire, un alter ego del Medesimo; avremo allora la tradizione umana, giuridica o teologica, ma sempre priva della maiuscola reverenziale.

La tradizione canonica è un caso particolare di tradizione umana, che appartiene ovviamente all’ambito giuridico, ma che non si deve tanto a singoli individui quanto all’opera comune dei canonisti; per capire meglio i contorni del concetto, però, è necessario approfondire almeno un po’ le altre accezioni del termine, in particolare la Tradizione divina.

Mi scuso in anticipo con quanti troveranno l’esposizione troppo “teologica” o troppo complessa; ritengo tuttavia che, per comprendere davvero come funzioni il diritto della Chiesa, sia indispensabile partire dall’autorappresentazione della Chiesa stessa. Non necessariamente per un atto di fede personale, ma per la ragione molto più prosaica (sociologica, se vogliamo) che quello è il parametro di legittimità rispetto a cui le azioni delle autorità ecclesiastiche verranno valutate.

 

Tradizione e Rivelazione

Se consideriamo la Tradizione come atto, allora dobbiamo dire che l’insieme di tutti i molteplici atti con cui Dio ha trasmesso agli uomini una dottrina o un’usanza – la prima immutabile, la seconda non necessariamente – forma la Divina Rivelazione, l’evento che la Chiesa considera fondativo di tutto il suo essere.

Se invece guardiamo alla Tradizione-contenuto, il termine viene ad indicare sia tutto ciò che è stato da Dio rivelato sia, più in particolare, quelle dottrine oppure usanze che si assumono divinamente rivelate, ma non contenute nella Bibbia: la loro esistenza è da sempre uno dei maggiori punti di contrasto tra cattolici e protestanti, però anche in ambito cattolico, negli ultimi decenni, è stata messa in discussione. Un punto resta comunque fermo: per tutti i cattolici, la Scrittura è essenzialmente Tradizione messa per iscritto con una speciale assistenza divina. Perciò, nel prosieguo, mi riferirò tranquillamente a questo o quel suo contenuto come a un esempio di “Tradizione”, senza entrare nella disputa sulle verità rivelate ma non scritte, che non rileva ai nostri fini.[2] 

Nella concezione cattolica, dunque, Dio in Persona, nell’arco di una storia millenaria che parte dalla Creazione e arriva fino alla morte dell’ultimo apostolo, a più riprese si manifesta agli uomini - non come singoli, ma come parte di un popolo o, nel caso di Abramo, suoi progenitori - e “consegna” loro sia prescrizioni di ordine pratico, come ad es. la circoncisione, sia indicazioni via via sempre più precise sulla Sua stessa natura, sia un complesso di insegnamenti morali che sta, in un certo senso, a mezza via tra i primi due. Va peraltro notato che anche la circoncisione ha un profondo significato simbolico, in quanto è segno dell’Alleanza.

Il Dio che parla con Mosé è, tra le altre cose, un legislatore intento a regolare tutti gli aspetti della vita di un popolo la cui caratteristica fondamentale è proprio questa chiamata ad essere il “Popolo di Dio”, tanto che, in un primo tempo, si contraddistingue per l’assenza di re. Ma nel momento in cui, ad es., visita il culto idolatrico o la stessa raffigurazione di Sé stesso, questo legislatore fa anche da maestro, insegna la spiritualità e la trascendenza dell’essenza divina.

I due aspetti, strettamente connessi, vanno però tenuti distinti, perché gli aspetti dottrinali hanno un valore perenne, e così pure i precetti morali generali (Dieci Comandamenti), ma le prescrizioni dettagliate e minute – sui sacrifici animali, sull’impurità rituale, i tabù alimentari, le sanzioni penali, la disciplina di proprietà e schiavitù… o anche la stessa circoncisione! – per i cristiani sono stati superati con la venuta di Gesù. In altri termini (almeno nella comprensione specificamente cattolica), il legislatore divino ha abrogato quella che per tale motivo viene chiamata “Legge antica”, che era destinata ad un contesto socio-culturale e ambientale unitario, la Terra Promessa al popolo eletto, perché adesso a quel popolo ne subentra un altro, che deve estendersi a tutti i luoghi della Terra senza però confondersi o identificarsi con nessuna nazione.

Qui il processo della traditio marca, pertanto, un indubbio momento di cesura, che assume anche carattere esistenziale, perché il Battesimo, che sostituisce la circoncisione come segno dell’Alleanza, diversamente da essa opera una trasformazione ontologica dell’individuo, che diventa “uomo nuovo” – secondo l’espressione di S. Paolo – e, nel contempo, parte di questo popolo di Cristo che, in una maniera misteriosa ma vera, viene detto anche Corpo (mistico) di Cristo Stesso.

In questo senso, non c’è nulla di strano che a uomini così diversi venga “consegnata” una Legge diversa, insieme con il mezzo – sacramentale – per produrre questa stessa diversità e anzi con tutto un nuovo ordinamento del culto, che sostituisce i sacrifici cruenti con il “sacrificio spirituale” oppure verbale, perché la morte di Gesù sulla Croce è il Sacrificio perfetto, compiuto una volta sola, ma dal valore infinito e perenne.

Tuttavia, altri cambiamenti sostanziali di questo genere non sono in vista fino al ritorno del Signore alla fine dei tempi; nel frattempo il popolo, per restare “popolo di Dio”, deve mantenersi fedele ciò che gli è stato consegnato e tramandarlo di generazione in generazione. Per questo motivo fondamentale, in genere, il termine “tradizione” viene a designare il contenuto, non più (o non principalmente) l’atto della trasmissione. Inoltre, una metafora giuridica molto antica, visibile già nella Lettera di S. Paolo a Timoteo, assegna una causa alla traditio stessa, come se desse luogo ad un contratto di deposito: l’obbligazione principale del depositario è, dopotutto, proprio custodire fedelmente quel che ha ricevuto e poi restituirlo al proprietario. Per questo il patrimonio dottrinale è definito “depositum Fidei.

Posso qui soltanto accennare ad un problema fondamentale della teologia cattolica, quello che normalmente si chiama lo sviluppo dogmatico.

Siccome è pacifico che, ad es., la Sacra Scrittura non contenga il termine “Trinità” e non definisca mai Maria “Madre di Dio”, non si può evitare l’esigenza, che d’altronde tende a ripresentarsi ciclicamente nel corso dei secoli, di giustificare la legittimità di tali espressioni e concetti.

Nel caso della divina Maternità, il compito è relativamente semplice:[3] nessun dubbio che dal Vangelo Maria risulti la madre di Gesù; chiarito che Egli, per le medesime fonti evangeliche, è contemporaneamente Dio e Uomo, si tratta di mettere in luce che l’unione è tanto stretta che le due nature formano una sola Persona (c.d. “unione ipostatica”); e sebbene Dio come tale non nasca, certamente non da una creatura, questa Persona ha una nascita nel tempo e, in virtù dell’unione tra le due nature, Maria può essere detta, “nel più vero senso dell’ espressione, Madre di Dio”, senza che questo ne faccia una dea o porti a confonderla con le amanti mortali delle divinità pagane.[4]

S. Vincenzo di Lérins, nel 434, scrivendo appunto in difesa del Concilio di Efeso, che ha definito come dogma questa dottrina, giustifica l’innegabile elemento di novità appellandosi alla parabola dei talenti, dove il Padrone si aspetta che il depositum gli venga restituito accresciuto, ma sottolinea l’identità di fondo, perché se al servo è stato dato oro, oro egli deve restituire, non può mutare le specie monetaria ma solo accrescere la quantità.[5] E questo carattere accidentale dello sviluppo dogmatico resta a tutt’oggi comunemente ammesso – in effetti è stata definita come dogma proprio l’impossibilità che il processo conduca legittimamente un significato contraddittorio rispetto a ciò che prima si credeva[6] – pur nella varietà delle spiegazioni che si danno del fenomeno, talvolta anche rischiando di sottovalutare l’indubbia tensione, che invece emerge molto bene dagli studi storici, tra “conservazione” e “novità”.

In altre parole: la natura “tradizionale” della Chiesa, ossia il compito di depositaria che Essa crede e professa di aver ricevuto, implica che tutto ciò che si presenta come “nuovo”, si tratti di una dottrina oppure di una norma pratica che vorrebbe diventare usanza, di per sé è sospetto; nello stesso tempo, tuttavia, si manifesta anche un’esigenza di verifica delle opinioni teologiche consolidate – quando non costituiscono dogma propriamente detto – e ancor più di leggi e consuetudini umane, perché le une e le altre potrebbero essere bisognose di riforma in senso forte, di un ritorno cioè a quella “forma” di Chiesa che è stabilita una volta per tutte, però mai attuata in modo veramente perfetto.

Credo che non servano esempi: sono noti anche a chi ha solo una conoscenza superficiale della storia della Chiesa, dato che questa tensione è un dato costante. Basti dire che non è sempre facile capire dove finisca la riforma legittima e cominci ciò che, per la Chiesa, necessariamente equivale all’alto tradimento: la negazione di un punto del depositum Fidei, vale a dire l’eresia.

 

Lo sviluppo del diritto canonico

Come ho detto, una delle differenze principali tra Antico e Nuovo Testamento sta nel fatto che, per quest’ultimo, il diritto divino non regola più, in maniera diretta, ogni singolo aspetto dell’esistenza, sacro o profano che sia; ne discende, per un verso, la legittimità di un’autorità temporale distinta da quella religiosa, ma per altro anche la necessità di leggi aggiuntive e umane nello stesso ambito religioso. Basti dire che gli Apostoli non ricevono un rituale dettagliato come quello dei sacrifici mosaici, ma solo il comando “Fate questo in memoria di Me”, e S. Paolo p.es. deve lottare contro l’interpretazione “‘questo’ = cena”, per strutturare il rito in modo che si distingua da un pasto; né i cristiani hanno a disposizione un “tariffario penitenziale” come quello del Levitico; ecc. In altre parole, è necessario un diritto canonico, inteso come legislazione umana che integra e attua il diritto divino, ma diversamente da questo è destinata a variare secondo i tempi e i luoghi.

Gli Apostoli, oltre a predicare il Vangelo e quindi a tradere il depositum, hanno anche svolto quest’indispensabile attività legislativa, di cui troviamo ampie tracce nell’epistolario paolino; anche questa è tradizione, nel senso che dà vita ad un’usanza; però qui essi agivano semplicemente come uomini, sia pure costituiti in autorità sui fedeli, e perciò queste tradizioni si chiamano “umano-apostoliche” e sono mutevoli.

Un esempio è il velo per le donne in chiesa, raccomandato da S. Paolo ma poi caduto in disuso e riportato in auge, agli inizi del Quattrocento, da S. Vincenzo Ferrer, nel corso della sua predicazione itinerante tra Italia, Francia e Spagna. Un altro esempio, più complesso, sono i riti liturgici delle diverse Chiese d’oriente e d’Occidente, che senz’altro non risalgono tali e quali all’età apostolica, però in essa hanno cominciato a svilupparsi come distinti gli uni dagli altri.

Lo sviluppo del diritto canonico, in tutti i suoi ambiti, per i primi secoli è stato affidato quasi esclusivamente alla fonte consuetudinaria, nel senso che il richiamo all’esempio degli Apostoli è sempre rimasto forte e normativo, però si traduceva in un’esortazione a osservare le usanze tramandate, perché soltanto nella continuità del loro passaggio di mano in mano le nuove generazioni potevano riagganciarsi a quel fondamento. Nello stesso tempo, e pur nella relativa scarsità di informazioni, si sa che questa fonte è stata viva e ha prodotto molteplici usanze locali, come attestano, in particolare, gli inevitabili scontri, quando una Chiesa o regione ha giudicato illegittime quelle di altre, ritenendo che la loro traditio fosse stata adulterata: così ad es. Roma nei confronti di Cartagine, sulla questione della validità del Battesimo amministrato dagli eretici.

È così emersa l’esigenza, a un tempo, di un giudice visibile nelle questioni di fede, anche perché le eresie non mancavano di fare proseliti, e di un criterio sicuro per giudicare l’autenticità di una traditio; già alla fine del sec. II, S. Ireneo di Lione predicava la necessità di rifarsi alla traditio della Chiesa di Roma, pur difendendo, contro Papa Vittore, la legittimità della diversa usanza asiatica circa la datazione della Pasqua. A riprova di quanto il problema possa presentarsi complesso in concreto.

Con la fine delle persecuzioni, la fonte legislativa, pur non assente in precedenza, comincia a lasciare testimonianze scritte e a intervenire in modo più consistente, con ampie “consolidazioni” del patrimonio preesistente (nel noto senso tecnico che il termine assume rispetto ai processi codificatorii). Questo tuttavia non ha indebolito né il richiamo al dato tradizionale né la diffidenza verso le novità, o anche verso l’iniziativa di un singolo: i Concili locali o generali – queste grandi riunioni dei Vescovi, successori degli Apostoli – sono la sede principale in cui si risolvono i problemi dottrinali, si giudicano le cause principali, tra cui le accuse contro i Vescovi, e si riaffermano o modificano le norme disciplinari.

Va peraltro notata una particolarità: nel diritto canonico, almeno secondo la sua formulazione e comprensione attuale, la forza obbligante della consuetudine discende dall’approvazione del legislatore, che conserva sempre il potere di modificarla o di abrogarla (cfr. can. 23); è fin dall’inizio stato chiaro che le usanze possono allontanarsi dall’esempio di quelli che erano visti come legislatori supremi, gli Apostoli. Di qui il carattere ancipite degli interventi dell’autorità ecclesiastica, che da un lato si legittimano proprio come “potere tradizionale” nel senso di Max Weber, dall’altro però rivendicano talvolta anche il potere di correggere la tradizione umana, rispetto a cui la superiorità del diritto divino, del resto, viene proclamata a chiare lettere dai Vangeli.

Ogni buon manuale di storia del diritto traccia un quadro adeguato dell’evoluzione del diritto canonico e non è necessario ai nostri fini ripercorrerla più in dettaglio; basti dire che, nel corso dei secoli, la Chiesa d’Occidente è venuta formando una disciplina distinta sotto molti aspetti da quelle orientali, il diritto canonico latino, che sarà oggetto precipuo di questa rubrica, e che nel suo sviluppo si è sempre più accentuato il peso dell’autorità papale.

Tuttavia le Decretali pontificie, essendo per lo più interventi su casi singoli, tendevano ad inserirsi senza strappi nel più ampio quadro preesistente e, anche in caso di provvedimenti legislativi di più ampio respiro, restava sempre intesa la regola che oggi troviamo espressa nel can. 21 del Codice latino vigente, per cui nel dubbio l’abrogazione non si presume, ma le leggi in contrasto devono essere armonizzate dall’interprete riconducendo le nuove alle vecchie (non il contrario). Sarà chiaro, a questo punto, quanto una disposizione in apparenza così tecnica sia intimamente legata all’autocomprensione della Chiesa, della sua missione e della sua storia: anche l’evoluzione della disciplina umana predilige una continuità senza rotture che vuole ricollegarsi, almeno idealmente, all’età fondativa.

Dal momento in cui il diritto canonico si costituisce come scienza – un processo che possiamo considerare pressoché compiuto quando appare il Decreto di Graziano – il sistema delle fonti viene a mutare, nel senso che i provvedimenti normativi ora sono raccolti e studiati nell’ambito delle Università, che svolgono appunto l’opera conciliatrice cui ho appena accennato: già nella Glossa, ma soprattutto presso i Commentatori, quella che è nata come una congerie di provvedimenti estemporanei e, prima ancora, detti dei Padri riferiti alle circostanze più disparate viene per così dire pressofusa in unità sistematica; le diverse consuetudini entrano in questo processo soltanto per via indiretta, cioè in quanto siano state oggetto di una redazione scritta che le renda passibili di studio universitario, mentre nel loro aspetto fattuale continuano a evolversi, ma sono sempre più compresi come deroga ad un diritto comune, caratterizzato dalla forma scritta, dall’elaborazione “sapienziale” e dall’autorità pontificia come fattore uniformante non trascurabile.

Questa situazione perdura fino all’età della Controriforma, quando le esigenze di salvaguardia del depositum dalle pretese di “riforma” in senso protestante – pretese che tendevano a manifestarsi innanzitutto come innovazioni di ordine pratico, specialmente in ambito liturgico – e anche di provvedere ad un’autentica “riforma cattolica”, vincendo resistenze fondate sugli usi locali, hanno portato ad una fortissima centralizzazione della disciplina latina, il cui esempio principale sono senz’altro i decreti del Concilio di Trento.

La fonte consuetudinaria è bensì rimasta viva, naturalmente, ma soprattutto come artefice di consuetudini secundum o praeter legem, che in genere i Vescovi locali hanno sottoposto alla Curia Romana, almeno ad cautelam, per l’approvazione; a maggior ragione hanno richiesto quella deroga espressa che appariva necessaria a legittimare un’usanza contra legem. Le raccolte dei decreti dei vari organismi, perciò, sono un’autentica miniera di decisioni, dispense, autorizzazioni e privilegi; assicurare una qualche coerenza in tutto questo non è più stato compito principalmente della dottrina, ma della prassi dei diversi organismi curiali, la cui conoscenza aveva un peso maggiore della formazione universitaria. Tuttavia, la pura e semplice difficoltà materiale di gestire un apparato di volumi in costante crescita ha portato, infine, ad un intervento di riordino più radicale, per opera della fonte legislativa, quando è stato adottato il Codice del 1917.

 

Traditio canonica

La codificazione del 1917 è stata, a ben vedere, una “consolidazione” che dichiara espressamente di mantenere per lo più la disciplina anteriore (can. 6); e questo sebbene scaturisse dal Pontificato di S. Pio X, contraddistinto da una forte attività riformatrice. Più radicali i caratteri di novità presenti in quella del 1983, che infatti non contiene una dichiarazione analoga e segue, d’altronde, ad un Concilio e ad una stagione di riforme che, almeno per ampiezza, eguaglia quella tridentina. Proprio qui, tuttavia, incontriamo il concetto che ne occupa, traditio canonica.

Il can. 6 del nuovo Codice, al primo paragrafo, enuncia un’ampia serie di abrogazioni espresse, cominciando con il Codice anteriore; però la tempera al paragrafo successivo: 

can. 6 §2: “I canoni di questo Codice, nella misura in cui riportano il diritto antico, sono da valutarsi tenuto conto anche della tradizione canonica” - “Canones huius Codicis, quatenus ius vetus referunt, aestimandi sunt ratione etiam canonicae traditionis habita.”

La spiegazione è offerta dalla disposizione corrispondente del vecchio Codice (can. 6 nn. 2-4):

“2. I canoni che riportano integralmente il diritto anteriore sono da valutarsi secondo l’autorità del diritto anteriore, e perciò secondo le interpretazioni accolte presso gli autori approvati.

3. I canoni che soltanto in parte concordano con il diritto anteriore, devono essere valutati secondo il diritto antico nella parte in cui concordano; in quella in cui discordano, secondo il loro proprio tenore.

4. Nel dubbio se qualcuno dei canoni discordi dal diritto anteriore, non ci si deve allontanare dal diritto anteriore”.[7]

Oltre alla regola già citata per cui le innovazioni non si presumono, qui vediamo all’opera anche un meccanismo più complesso. Da un lato, gli “autori approvati”, cioè di sicura ortodossia, comunemente citati, i cui testi hanno seguito nelle Università ecclesiastiche, soprattutto negli ultimi secoli si sono affermati perché collaboravano con qualche Dicastero romano e costituivano preziose fonti d’informazione sulla prassi, soprattutto quando non esisteva una raccolta ufficiale di decreti[8]; dall’altro, il loro consenso ha spesso dato vita ad una vera e propria consuetudine interpretativa, o secundum legem, che in diritto canonico si considera la miglior interprete possibile (cfr. can. 27); e non va dimenticato che sia i principi generali del diritto – tipico costrutto dottrinale – sia la prassi e la procedura della Curia Romana, sia lo stesso consenso dei giuristi (“opinione comune e costante”, non necessariamente unanime), ai sensi del can. 19 sono fonti suppletive con cui l’interprete è autorizzato a colmare le lacune della legislazione canonica.

La tradizione di cui parliamo, dunque, è soprattutto scientifica, almeno nel senso che si rintraccia nelle opere dei canonisti da Graziano in avanti (del resto erano opinioni dottrinali, in quanto semplici progetti di sentenza, anche le decisiones della Rota), però nello stesso tempo serve come fonte di cognizione di prassi e consuetudini passate, possibile autrice di consuetudini presenti e, all’occorrenza, fonte di produzione diretta[9].

Tutto questo ragionamento vale anche per il più sintetico disposto del Codice del 1983 – perché il sistema delle fonti è identico – sebbene con l’avvertenza che il riferimento alla traditio non costituisce più il criterio di interpretazione esclusivo; novità che si spiega facilmente, visto che anche i canoni che riproducono il diritto anteriore si trovano spesso ad operare in un contesto notevolmente mutato dalle riforme postconciliari.

In termini pratici, la traditio canonica è soprattutto un metodo, un richiamo a tutto ciò che sta a monte della lettera del testo: si presume che essa non sia mai una tabula rasa, d’altronde difficilmente concepibile nella Chiesa, e quindi, più che l’esegesi delle singole parole, giova la ricostruzione della storia degli istituti considerati, dei problemi emersi e affrontati nell’arco di una storia ormai millenaria, delle controversie interpretative come delle difficoltà applicative. Solo una volta chiarito il quadro di quest’evoluzione sarà possibile comprendere fino a che punto il testo recepisca il precipitato dottrinale, per così dire, oppure se ne discosti[10].

Questo è il metodo adottato a suo tempo dalla scuola dell’Università Gregoriana e seguito, con grande rigore, nel celebre commento dei padri Wernz e Vidal al Codice del 1917, che resta tuttora un punto di riferimento imprescindibile. Molto più modestamente, è il metodo che intendo seguire anch’io, perché mi sembra il più adatto ad offrire al lettore – che potrebbe magari essere incuriosito anche da episodi o notizie storiche – un quadro almeno degli istituti principali del diritto canonico.

All’uopo mi riprometto di procedere da quelli più generali a temi più specifici, senza escludere deroghe anche per ragioni di attualità; la forma sarà simile a questa, quindi il progetto consisterà nella redazione di una serie aperta di voci adatte ad un dizionario giuridico di alta divulgazione. Questo, beninteso, salvo che le preferenze dei lettori vadano in direzioni diverse.

 

[1]Oportet tamen in primis advertere, in rigore aliud esse traditionem, aliud consuetudinem. Traditio enim ad mores pertinens, de qua nunc loquimur, videtur esse prima institutio alicuius operis, seu modus operandi; vel doctrinam, per quam talis institutio hominibus data est, seu promulgata; consuetudo vero traditionem continens est exsecutio, et quasi conservatio primae traditionis”. F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, Napoli 1872, Lib. VII, Cap. III, n. 6. Cfr. anche infra, n. 7: “invenitur quidem consuetudo sine traditione praeceptiva, non tamen omnino sine traditione; nam ipsummet initium consuetudinis ab Apostolis et primis pastoribus Ecclesiae approbatum traditionis vim habuit”. ll testo è stato il manuale di riferimento per la teoria generale del diritto almeno fino alla codificazione del ‘17.

[2] Fermo restando, però, che almeno una deve esistere: l’elenco completo di tutti e soli i libri ispirati da Dio - il cosiddetto “Canone della Bibbia” - non può, per evidenti ragioni logiche, trovarsi all’interno della Bibbia stessa, né alcuno ha mai preteso che vi si trovi.

[3] Per la Trinità, invece, le cose sono più complicate: si tratta di mettere in luce che le Scritture e la Tradizione presentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo come tre Persone, a tutte attribuiscono la divinità, ma anche un’unità così stretta che non è possibile parlare di tre dèi (neppure a voler pensare che agiscano sempre in perfetto accordo), e descrivono i loro rispettivi rapporti in termini di “generazione” e “processione”. La dottrina trinitaria spiega le apparenti contraddizioni, e risolve anche il problema filosofico dell’incomunicabilità della natura divina, chiarendo che Dio resta essenzialmente Uno, in quanto l’individualità delle tre Persone sta tutta soltanto nei loro rispettivi rapporti, le relazioni sono cioè sussistenti come soggetti. Cfr. sul tema Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 238-56.

[4] Anche questo caso semplice, tuttavia, richiede un notevole lavoro concettuale e una riflessione che, come vediamo, va a coinvolgere ambiti dottrinali anche molto lontani, in apparenza, dal tema trattato.

[5] “Il deposito custodisci [citazione dalla lettera di S. Paolo a Timoteo, che fa da falsariga alla riflessione di S. Vincenzo]: conserva intatto e inviolato il talento della fede cattolica. Quanto ti è stato affidato, quello rimanga presso di te, quello sia da te a tua volta tramandato. Ti è stato dato oro, restituisci oro, non voglio che tu mi dia, imbrogliando, una cosa per un’altra; non voglio che sfrontatamente tu mi dia piombo o bronzo al posto dell’oro; voglio la realtà, non l’apparenza dell’oro. O Timoteo, o Vescovo, o intellettuale, o teologo, se il dono divino ti ha reso idoneo al tuo ministero per ingegno, per impegno, per dottrina, sii il tabernacolo spirituale di Bezehel, scolpisci le gemme preziose del dogma divino, fedelmente costruisci, sapientemente abbellisci, aggiungi splendore, grazia, bellezza. Quando tu spieghi, si comprenda in maniera più chiara quello che prima si credeva in modo oscuro. Per mezzo tuo i posteri godano di aver capito ciò che gli antichi pur non capendo veneravano. Insegna tuttavia le stesse cose che hai imparato e benché tu le dica in modo nuovo, non dire cose nuove (Eadem tamen quae didicisti doce, ut, cum dicas nove, non dicas nova).”. S. Vincenzo di Lérins, Commonitorium, 22, 5-7, in Id., Commonitorio – Estratti, Milano 2008, intr., trad. e note di C. Simoncelli. Si può forse convenire con la Curatrice che S. Vincenzo non sia stato “il primo teorico dello sviluppo del dogma” [p. 201 n.]; ma tutto il Commonitorium è dedicato ad affermarne la legittimità e, insieme, ad indicarne e (qui sì) teorizzarne il limite: la Tradizione, intesa in un’accezione ben precisa, quel consenso unanime dei Padri (“quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est”, citazione famosa ma spesso fraintesa) che esprime, certifica e tramanda il senso spirituale autentico delle Scritture.

[6] Cfr. Concilio Vaticano i, Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica, 24 aprile 1870, can. 3 su “Fede e ragione”: “Se qualcuno dice che è possibile che ai dogmi proposti dalla Chiesa talvolta, secondo il progresso della scienza, si debba attribuire un senso altro rispetto a quello che la Chiesa ha inteso e intende: sia anatema

[7]  “2.deg. Canones qui ius vetus ex integro referunt, ex veteris iuris auctoritate, atque ideo ex receptis apud probatos auctores interpretationibus, sunt aestimandi;

3.deg. Canones qui ex parte tantum cum veteri iure congruunt, qua congruunt, ex iure antiquo aestimandi sunt; qua discrepant, sunt ex sua ipsorum sententia diiudicandi;

4.deg. In dubio num aliquod canonum praescriptum cum veteri iure discrepet, a veteri iure non est recedendum.

[8] Cfr. Ch. H. F. Meyer, Probati auctores. Ursprünge und Funktionen einer wenig beachteten Quelle kanonistischer Tradition und Argumentation, in Zeitschrift des Max-Planck-Instituts für europäische Rechtsgeschichte 20 (2012), pagg. 138-54.

[9] Cfr., anche per ulteriori riferimenti, L. Cavalaglio,"Traditio canonica" e Legal Tradition, in Mnitr Ecclesiasticus 129 (2014) 377-408, che raffronta altresì il concetto con quello di tradizione giuridica nel senso culturale, e la presentazine di O. Échappé, La tradizione tra interpretazione e legislazione nell’ordinamento canonico, ibid., pagg. 369-76

[10]Face à ce foisonnement des normes que l’Église a pu connaître depuis son origine, lenjeu de l’interprétation apparaît comme le discernement de ce qui permet de penser lunité intérieure traversant lancien droit, autrement dit la tradition canonique. À cet égard, il faut noter le singulier de terme traditio dans le texte du canon qui désigne un phénomène plus unifié que la multiplicité des traditiones. Concernant cette interprétation, le verbe employé n’est pas interpretor (donner une explication) mais æstimo (donner de la valeur). Il sagit dès lors davantage de penser la tradition canonique moins comme ce qui donne immédiatement le sens de la loi que comme ce qui lui donne du poids, de la richesse. Cette différence entre interpretor et æstimo ouvre une herméneutique où ce n’est pas tant l’énoncé de la norme elle-même qui en donne le sens que l’interprétation du juriste, praticien ou docteur, qui en recueille le poids, lourd de son historicité, et qui en discerne le juste sens dans son rapport à telle ou telle réalité”. T. Joubert, Le droit canonique au défi de l’historicité du sacré, in G. Meylan (cur.), Sacré-Responsabilité, Parigi 2020, pagg. 81-100, qui 97.