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La licenza

Licenza
Licenza

La licenza


Can. 59 §2 - “Le disposizioni che sono stabilite sui rescritti, valgono anche per la concessione della licenza, come pure per le concessioni di grazie fatte a viva voce, se non consta altrimenti.
 

Sprovvista di una disciplina generale, a parte il richiamo riportato in epigrafe che la assimila ai rescritti, la licenza compare però a più riprese nelle pieghe del Codice, soprattutto a proposito di libri da pubblicarsi o di atti giuridici patrimoniali; come si capisce esaminando le differenze tra i vari atti amministrativi singolari, consiste in un provvedimento adottato su richiesta – donde l'assimilazione ai rescritti – ma di giustizia e non di grazia. Pinto ne riassume le caratteristiche in modo esemplare:

- è un controllo preventivo di legittimità e di merito;

- è una condicio iuris perché il Subalterno possa agire validamente e lecitamente, esercitando la propria capacità;

- è l'atto con cui il Superiore rimuove l'ostacolo posto dalla legge;

- il provvedimento [o l'altro atto, che viene poi compiuto,] è del soggetto agente autorizzato”.[1]

Questa descrizione permette altresì di conciliare le apparenti antinomie ravvisabili nelle varie definizioni dottrinali della licenza, alcune delle quali accentuano la legittimità della condotta, mentre altre parlano piuttosto di rimozione di un divieto legale.[2] Prendiamo ad es. un caso tipico di licentia, il c.d. imprimatur, ossia il permesso dell'Autorità ecclesiastica competente che deve essere chiesto ed ottenuto in vista della pubblicazione di un libro su dati argomenti (cfr. cann. 825-9): è ovvio che, da un lato, scrivere e pubblicare sono attività perfettamente lecite in sé stesse, anzi per i docenti universitari, i teologi etc. si possono quasi considerare doverose, o comunque esercizio di un “diritto” inteso in un senso più forte della semplice libertà di compiere, ma anche di non compiere, determinate azioni. E tuttavia, chi pubblicasse senza aver ottenuto l'imprimatur sarebbe passibile di sanzione: in questo senso, essa può senz'altro dirsi necessaria a rimuovere un ostacolo legale a monte, un “Non pubblicare se non...”. Sono, in definitiva, le due facce di quella medaglia che, in diritto amministrativo italiano, chiamiamo regime di “autorizzazione”, distinguendolo da quello di “concessione”, che attribuisce diritti prima inesistenti.

A parte le considerazioni di ordine sistematico che la definizione può suggerire, l'assenza di un'apposita disciplina positiva generale limita molto quel che si può dire sulla licenza in sé: in concreto, si tratta semplicemente di formulare un giudizio di compatibilità della disciplina sui rescritti; toccherà poi alle norme speciali, di volta in volta, individuare i presupposti cui la concessione di onuna delle diverse licenze dovrà dirsi ancorata, nonché eventualmente derogare al quadro generale così ricostruito. Bisogna però aggiungere che, trattandosi di un atto dovuto in giustizia, anche chi non condividesse la tesi dell'applicabilità del can. 57 al silenzio sulle richieste di dispensa dovrebbe ammetterla, almeno in termini di estensione analogica,[3] quando si sia chiesta una licenza.[4]

La licentia, per quanto si è detto fin qui, è sempre secundum legem, ma quanto agli effetti, o meglio alle conseguenze della sua mancata richiesta, può essere necessaria per la liceità dell'atto (è il caso dell'imprimatur), o per la stessa validità, come avviene nelle alienazioni di beni ecclesiastici. Quanto ai profili soggettivi, siccome il can. 59 §2 suppone che si tratti di un atto amministrativo, può essere concessa dal titolare di potestà esecutiva competente a provvedere per il caso e deve assumere forma scritta.[5] Si discute non poco circa la possibilità che sia tacita o presunta; a mio parere, secondo il diritto odierno la risposta dev'essere negativa sotto entrambi gli aspetti, anche se una vera praesumptio hominis potrebbe sussistere in concreto e giustificare sul piano morale. Quanto infine all'estensione degli effetti, in dottrina si menzionano, alcune ipotesi di licenza generale, ma si dovrebbe piuttosto parlare di licentia cum tractu successivo, come ad es. per l'autorizzazione data una volta per tutte alla collaborazione abituale con un quotidiano o una rivista,[6] oppure per la o le celebrazioni in cappella privata (can. 1228).[7]

In ragione dell'applicabilità dei cann. 60 e 61, inoltre, il destinatario della licenza può non coincidere con la persona del richiedente; così, p.es. il Vescovo può chiedere alla S. Sede, per conto di una persona giuridica della sua Diocesi, la licentia ad alienare beni di valore superiore alla soglia oltre la quale il provvedimento è riservato a Roma (cfr. can. 1292). Inoltre, sempre alla stregua del rescritto, anche qui si prescinde dal consenso del beneficiario; del resto, si tratta semplicemente di ampliare la sua sfera di azione lecita, senza con ciò obbligarlo a fare nulla. Più dubbia, per quanto riguarda invece l'autorità concedente, la possibilità di accordare la licentia anche in forma commissoria, dato che si tratta in sostanza di atto vincolato, non discrezionale; a ben vedere, però, il problema non si pone per la commissoria necessaria, che consiste in un semplice controllo ex post, mentre il presupposto della commissoria libera non consiste nella discrezionalità amministrativa in senso tecnico, ma nella ritenuta opportunità di delegare ad altri il potere di provvedere: p.es., a norma del can. 830 §3, il censore incaricato di esaminare un libro deve esprimere un semplice parere, mentre la decisione finale sulla licenza compete all'Ordinario, ma questi può benissimo (per fiducia particolare, per eccesso di impegni...) demandarla al censore stesso.

Non solo si applica alla licentia la disciplina dei rescritti in tema di surrezione ed orrezione, ma, siccome il can. 63 §1 prevede l'impiego della clausola Motu proprio solo in un rescritto di grazia, sembra che l'ordinamento sia più severo e non faccia mai salva la licenza ottenuta in via surrettizia. Questo si può ben comprendere, attesa proprio la sua natura di atto vincolato: ciò che è stato omesso, se non è irrilevante, può solo essere un elemento ostativo. A parte questo caso, non mi è data ravvisare alcun'altra incompatibilità tra la natura della licenza e la disciplina dei rescritti, che do quindi per presupposta, brevitatis gratia, riguardo agli aspetti non trattati.

Una volta delineata la fisionomia generale dell'istituto, però, all'interprete resta un compito non facile: comprendere quali dei mille e mille provvedimenti previsti dal Codice, dal diritto particolare o dalla prassi si possa considerare licentia, piuttosto che dispensa o privilegio. Spesso, infatti, lo stesso dettato codicistico ricorre a termini che non figurano nella tipologia o nella disciplina degli atti singolari, come “indulto” (cann. 684 §2, 686...), “facoltà” (cann. 882-4, 966-9, 1108-12...) etc.; e perfino quando impiega il nomen iuris di licentia, il che dovrebbe tagliare la testa al toro, talvolta si esprime in modi che fanno pensare ad un atto discrezionale o grazioso, certo non vincolato, p.es. al can. 1125, quando richiede la “causa giusta e ragionevole” per la licentia a celebrare un matrimonio misto tra una parte cattolica ed una acattolica. Non è ovviamente possibile, in questa sede, passare in rassegnare e tantomeno risolvere tutti i singoli casi; posso però dire che, quando il legislatore ha impiegato il termine licentia, lo ha fatto sempre o quasi sempre con cognizione di causa. Appunto il can. 1125 offre, a mio avviso, una conferma notevole in tal senso: nel regime anteriore, infatti, vigeva un vero e proprio impedimento matrimoniale (cfr. can. 1060 CIC 1917), che oggi è rimasto solo se una parte è cattolica e l'altra non battezzata, e in tal caso si ha tuttora una dispensa (cfr. can. 1086); nel caso di due battezzati, però, oggi si afferma che il ius connubii sussiste, non vi sono più ostacoli come la possibile scomunica della parte acattolica (se tale dalla nascita), che è esclusa in radice dal can. 11.

Resta, però, un'esigenza inderogabile di diritto divino: evitare il pericolo per la Fede che può correre la parte cattolica, o che correrebbero i figli se non fossero battezzati ed educati nella Chiesa Cattolica (cfr. can. 1125 n. 1°): l'esercizio del diritto viene, quindi, sottoposto ad un regime di autorizzazione, volto a verificare che il consenso sia integro, note le proprietà e noti i fini del Matrimonio, chiara la volontà della parte cattolica di evitare i predetti pericoli, per quanto sta in lei. Non si richiede tuttavia, si badi bene, che l'altra parte acconsenta a far battezzare ed educare i figli come cattolici, o a non tentare di convertire il coniuge etc.: basta che sia consapevole degli impegni che a quest'ultimo richiede la Chiesa.

Sia per queste ragioni sia per la debolezza della volontà umana, una certa misura di rischio sussiste sempre: questo, a mio avviso, è il motivo per cui il can. 1125 non si accontenta di veder soddisfatte le condizioni, ma esige un quid pluris, la sussistenza di una “causa giusta e ragionevole”, che sarà per forza di cose un elemento di particolare vantaggio per il fedele. Tutto questo vale anche per la dispensa dall'impedimento di mista religione, perché il can. 1086 richiama proprio il can. 1125; ma vi è una differenza notevole, che tra battezzati la giusta causa si dà, in pratica, quasi sempre, perché il loro matrimonio, se valido, ha ipso facto natura sacramentale e quindi conferisce ad entrambi i coniugi tutto un insieme di grazie.

Dunque l'espressione legale serve, per un verso, a ribadire una sacrosanta esigenza di particolare cautela, per altro ad indicare che l'asticella è relativamente bassa (non si richiede una necessità, né una causa gravissima, anzi neppure una causa grave), per un terzo a richiamare il can. 90 §1 quando ciò è richiesto dal combinato disposto del can. 1086; ma in tutto questo, la licentia del can. 1125, se tutti i requisiti sono soddisfatti, resta un atto dovuto, non fosse che per non esporre i nubendi al pericolo di peccato. 

Note:
 

 

[1]    P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 556.

[2]    Cfr., per gli opportuni riferimenti, J. Gonzáles Argente, La licencia en el Código de Derecho Canónico, in Anuario de Derecho Canónico 2 (2013), pagg. 45-96, qui 47-50.

[3]    Si applicano senz'altro alla licenza i cann. 64 e 65, ma devono intendersi riferiti alla grazia negata in modo espresso; l'assimilazione del silenzio al rigetto è disposta proprio dal can. 57 e solamente al fine di consentire il ricorso. Del resto, esso deve considerarsi possibile anche contro i dinieghi espressi, che, in quanto atti di (ritenuta) iustizia e comunque non favorevoli, si daranno per decreto.

[4]    Cfr., in materia di libri, Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione “Il Concilio Vaticano II” circa alcuni aspetti dell'uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede, 30 marzo 1992, in Communicationes 24 (1992) 18-27, n. 10 §1: “Poiché la licenza costituisce una garanzia, sia giuridica sia morale, per gli autori, gli editori e i lettori, colui che ne fa richiesta, o perché essa è obbligatoria o perché è raccomandata, ha diritto alla risposta dell’autorità competente.”. Il can. 57 può intendersi richiamato per effetto del §3, che prevede la possibilità di ricorso e rimanda in blocco ai cann. 1732-9, incluso quindi il can. 1734 che distingue termini e fasi anche secondo l'esistenza di un provvedimento o di un silenzio.

[5]    Contra, però, P.V. Pinto, op.cit., pag. 240, secondo cui essa può provenire anche da soggetti titolari di semplice potestà dominativa ed essere emessa a viva voce. Giustamente invece J. Gonzáles Argente, op.cit., pag. 52, richiama al riguardo il can. 35; ne desume tra l'altro che la licentia propriamente detta non può essere accordata dal Parroco, in quanto sprovvisto di potestà esecutiva, salvo che la competenza gli derivi da norma speciale o delega.

[6]    Cfr., oltre al can. 832, Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione cit., n. 17 §3.

[7]    Contra, J. Gonzáles Argente, op.cit., pag. 51, che recepisce la locuzione “licenza generale” e adduce quale esempio anche il can. 905 §2. Ma qui deve dirsi, piuttosto, che esso attribuisce agli Ordinari – e nello stesso tempo circoscrive – il potere di dispensare dal divieto, posto dal §1, di celebrare più di una volta al giorno.