Il diritto dei segreti: analogie e differenze tra il segreto confessionale e il segreto professionale

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Il diritto dei segreti: analogie e differenze tra il segreto confessionale e il segreto professionale

The right of secrets: differences and similarities between confessional and professional secrecy

 

ABSTRACT: This paper analyses the differences and the similarities between the discipline of confessional secrecy and the discipline of professional secrecy, and the related violations under art. 622 of the Penal code and Canon 1379 of the 1983 Code of Canon law. Then, it focuses on demonstrating the relative inviolability of professional secrecy and the absolute inviolability of confessional secrecy.

                    

Il segreto e la fiducia nel diritto

Alcune parole vengono sussurrate affinché nessun altro, oltre al legittimo destinatario, le ascolti. Le confidenze più intime, dai più svariati risvolti, potrebbero avere un impatto sociale inimmaginabile, se corressero veloci oltre i perimetri in cui si vuole che restino. Alcuni segreti poggiano il loro mistero su un istituto sociale antichissimo, che è la mera fiducia. Altri segreti, invece, si ritengono talmente delicati da richiedere una specifica protezione giuridica, che provveda alle conseguenze della loro rivelazione. Se nessuno può impedire a un confidente – che sia un amico, un professionista o un confessore – di non rivelare il segreto, l’ordinamento giuridico può prevedere almeno una sanzione per questa violazione. Ad una prima analisi, il discrimen delle discipline in questione risiede nel motivo della fiducia accordata al confidente. Se la fiducia ha natura meramente personale, la responsabilità è di chi si è fidato, e il diritto dell’ordinamento, a meno a che non sussistano obblighi di altra natura giuridica, magari contrattuale, ne resta indifferente. L’amico che tradisca una confessione intima perderà, probabilmente, il suo status di amico, o quantomeno dovrà impegnarsi per ristabilire quella fiducia tradita, ma non per questo, probabilmente, potrà temere conseguenze giuridiche. Sempre che dal passaggio di informazioni non derivino pregiudizi tali da scatenare conseguenze da portare all’integrazione di particolari istituti previsti dall’ordinamento. Lo stesso non vale allorquando il motivo della fiducia accordata al confidente abbia una natura sociale e giuridica, e sia per questo riposta nella c.d. pubblica fede. Il professionista e il confessore, cui viene accordata una fiducia da cui discendano confidenze di segreti, devono questa fiducia non solo e non tanto all’intuitus personae – e quindi alla sola fiducia –, quanto alla loro funzione sociale. Infatti, se non fosse per la loro qualifica sociale e giuridica di professionista e di confessore, ossia ministro di culto, quella fiducia non sarebbe loro accordata. Interessante, a proposito della tutela della pubblica fede, quanto evidenzia Luigi Lacroce: «L’ordinamento giuridico italiano prevede poi, a tutela della pubblica fede, il divieto di indossare abusivamente in pubblico la divisa o i segni distintivi di un ufficio o impiego pubblico. La finalità è quella di tutelare la fede pubblica che può essere tratta in inganno da false apparenze determinate, tra l’altro, dall’abito indossato. A riguardo, l’art. 498 c.p. sanziona, tra l’altro, l’uso abusivo in pubblico dell’abito ecclesiastico in quanto fonte di inganno a terzi, prevedendone il divieto.»[1]

Fino a qui, si sono accostate le figure del professionista e del confessore, per la comunanza del motivo sociale e giuridico per cui viene loro accordata la fiducia. In realtà, per una analisi ancora più profonda e penetrante, occorre operare ancora una distinzione. L’ordinamento giuridico, come chi si confida, non trascura neppure la natura laica o sacramentale del segreto. E per questo il suo intervento è proporzionato a tale distinzione. Specificamente, si assiste a un intervento penale in caso di violazione di un segreto professionale laico, con l’integrazione del reato di cui all’art. 622 del Codice penale, mentre la violazione – giuridicamente assoluta, e non relativa come per il segreto professionale, come si vedrà – di un segreto sacramentale è sanzionata da un’autorità non dello Stato, ma ecclesiastica, secondo quanto previsto dal diritto penale canonico. Si ricordi, a proposito, che i provvedimenti canonici devono essere ufficialmente comunicati alle autorità civili «così come prescritto dall’art. 23 del Trattato tra la Santa Sede e l’Italia stipulato l’11 febbraio 1929, che stabilisce, nel secondo comma, che hanno ‘invece senz’altro piena efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili’, nel nostro paese, ‘le sentenze e i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche ed ufficialmente comunicati alle autorità civili, circa persone ecclesiastiche o religiose e concernenti materie spirituali o disciplinari’ (Cass. civ. 3193/1997).»[2] Si assiste, già da questi primi cenni, a una fusione tra due ordinamenti giuridici conviventi – quello italiano e quello canonico –, che sussistono nel reciproco riconoscimento.

 

La segretezza nel quadro costituzionale

L’ordinamento giuridico italiano individua nell’art. 15 della Carta costituzionale la massima tutela dei beni della «libertà» e della «segretezza» di ogni comunicazione interpersonale. In questo modo, sono protette due situazioni giuridiche soggettive distinte: la prima inerisce alla libertà di corrispondere e comunicare, la seconda – che presuppone la prima – riguarda la libertà di corrispondere e comunicare segretamente. L’articolo 15 della Costituzione pone a presidio dei beni tutelati tre istituti di garanzia che sono previsti altresì per la libertà personale (art. 13 Cost.) e per la libertà di domicilio (art. 14 Cost): la inviolabilità, la riserva di legge assoluta e la riserva di giurisdizione. Anzitutto, l’inviolabilità delle libertà tutelate non è assoluta: essa, piuttosto, è un termine tecnico che «allude alla irrivedibilità, in sede di revisione costituzionale, del ‘nucleo duro ed essenziale’ della disciplina giuridica di quella libertà.»[3]  Quindi sono beni inviolabili – nel senso che sono intrinsecamente appartenenti all’ordinamento giuridico e non potrebbero non esserlo neppure in sede di revisione – che, però, possono subire limitazioni «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria», «con le garanzie stabilite dalla legge». I provvedimenti restrittivi della libertà di corrispondenza e di comunicazione sono disciplinati nel decreto del Presidente della Repubblica 29 marzo 1973, n. 156. Dal fermo delle corrispondenze, al sequestro di corrispondenza fino alle intercettazioni, è possibile riconoscere più violazioni legittime della libertà e della segretezza delle comunicazioni, tutte giustificate dalla tutela di beni superiori. L’art. 11 del citato decreto del Presidente della Repubblica 29 marzo 1973 n. 156 prevede il fermo delle corrispondenze qualora queste «possano costituire pericolo alla sicurezza dello Stato o recare danno alle persone ed alle cose» oppure «costituiscano esse stesse reato punibile d’ufficio». Così, il sequestro di corrispondenza è previsto nei casi in cui l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo che la comunicazione sia stata spedita dall’imputato o sia a lui diretta, oppure che possa avere relazioni con il reato contestato. Mentre le intercettazioni captano – e perciò violano – l’intero spettro di comunicazioni che si avvalgono di sistemi informatici e telefonici.  Si assiste, dunque, a una inviolabilità relativa, di volta in volta sottoposta alle diverse esigenze di bilanciamento del sistema.

 

Il segreto professionale e la sua rivelazione ex art. 622 c.p.

La fattispecie penale di rivelazione di segreto professionale, di cui all’art. 622 del Codice penale, è la consacrazione giuridica della concezione di segreto dell’ordinamento. La condotta incriminatrice può essere integrata da «chiunque», «per ragione del proprio stato o ufficio, o della professione o arte», avendo notizia di un segreto, lo rivela. La norma non si occupa di una generica tutela dei segreti, ma si concentra su tutte le informazioni che il soggetto attivo abbia appreso in ragione del proprio status. Per l’integrazione della fattispecie è quindi necessario un nesso di causalità tra l’esercizio della professione e la conoscenza del segreto, al punto che, la rivelazione di un segreto conosciuto per ragioni non attinenti al proprio status professionale o sociale non costituisce reato. È altresì richiesto che dalla rivelazione possa derivare un nocumento – non che ne derivi effettivamente quindi, ma che ne venga ravvisata una possibilità oggettiva per il soggetto passivo. La rivelazione, ancora, purché sia penalmente rilevante, dev’essere impiegata per il raggiungimento di un profitto, proprio o altrui, il quale deve essere prospettato, ma non necessariamente conseguito, e può avere contenuto patrimoniale oppure consistere in un vantaggio di qualsiasi altra natura. In alternativa la rivelazione deve avvenire in assenza di giusta causa, nozione non specificata dalla disposizione, e pertanto suscettibile di interpretazioni più o meno estensive. È possibile riconoscere nella nozione di giusta causa il perseguimento di un altro bene giuridico riconosciuto dall’ordinamento e considerato di rango gerarchico superiore. A proposito, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 8838 del 1997 – in riferimento all’art. 616 del Codice penale (Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza) – ha argomentato che, in assenza di una espressa definizione normativa, la nozione di “giusta causa” deve riferirsi a un generico concetto di giustizia, come desumibile dalla stessa locuzione normativa.

In definitiva, in assenza dei suddetti elementi costitutivi del reato oggettivi e soggettivi, alquanto stringenti, la rivelazione del segreto professionale non è perseguita da questa norma. Si comprende ora l’esigenza particolare del legislatore di tutelare un tipo di segreto determinato e alquanto relativo alle circostanze della condotta. È quasi possibile affermare che l’integrazione della presente fattispecie criminosa sia di una certa complessità, tanti sono gli elementi costitutivi concorrenti della stessa. La prova dell’assenza di uno solo di questi dà luogo alla caduta del capo di imputazione. Orbene, è chiaro che la rivelazione di un segreto può essere lecita, e altrettanto lecita può essere la rivelazione di un segreto professionale, magari avvenuta in presenza di una non meglio specificata giusta causa.

È possibile immaginare un caso limite. L’assassino che confida al suo psicologo di aver procurato un omicidio può temere, a buon diritto, che il professionista a cui ha confessato lo denunci alle autorità. L’obbligo del segreto professionale dello psicologo – per sviscerare questa esemplificazione –, infatti, viene meno nel momento in cui il professionista entra in conoscenza di un reato perseguibile d’ufficio. Nel momento della conoscenza del fatto-reato perseguibile d’ufficio viene meno l’obbligo di fede al segreto, e subentra l’obbligo di denuncia. L’urgenza della tutela di più alti beni giuridici opera un bilanciamento in negativo per il segreto professionale. Lo stesso esempio è ripetibile per altri tipi di professionisti, e per altre condotte incriminatrici suscettibili di denuncia, facoltativa od obbligatoria. Si pensi ai casi emblematici dei reati sessuali o dei reati contro lo Stato. Un’eccezione è riservata tuttavia al difensore e ai suoi ausiliari, i quali, ai sensi dell’art. 344-bis c.p.p., non hanno un obbligo di denuncia dei reati di cui abbiano avuto notizia per ragione della loro peculiare attività. La ratio legis è rinvenibile nell’esigenza di garantire una difesa tecnica – non necessariamente morale – in un procedimento giudiziario vincolato a una procedura tipica orientata alla costruzione di una verità processuale – ovverosia una verità cui si giunge in modo dialettico attraverso il rispetto dei principi del giusto processo. La verità storica, in sé stessa, non è idonea a procurare effetti giuridici: occorre, a questi fini, una verità processuale.

 

Il segreto confessionale nell’ordinamento italiano

Ogni diritto, inteso come situazione giuridica attiva, per poter essere esercitato, richiede un sacrificio, ovverosia una corrispondente situazione giuridica passiva. Se la scienza giuridica fosse una scienza dura come la chimica, si potrebbe affermare che ogni diritto a cui corrisponde un dovere è come un atomo che ha carica neutra: perfettamente bilanciato. Il binomio diritto-dovere sarebbe un atomo elettricamente neutro in cui le cariche negative e quelle positive si equivalgono, garantendo la stabilità della struttura. Ma il diritto è più complesso, e pertanto il bilanciamento tra i diritti e i doveri è continuamente sottoposto alle tempeste elettromagnetiche delle società e dei suoi sentire.

Daniela Milani, in apertura di uno studio dedicato alla libertà religiosa e all’autonomia confessionale, citava Arturo Carlo Jemolo:

«“Il segreto, cioè il diritto di mantenere il segreto, oppure l'obbligo, sotto sanzione giuridica o morale, di mantenerlo” – proseguiva – è “un limite al diritto di essere informati”, che può essere finalizzato tanto alla tutela della riservatezza dell'individuo nei confronti dello Stato, quanto del diritto di quest'ultimo “di non palesare tutte le sue attività”. Ma – concludeva – mentre di norma gli interessi che sono coinvolti presuppongono relazioni fra uomini, “sia tra singoli sia tra la collettività, impersonata dallo Stato, ed un singolo uomo”, il sigillum sacramentale si connota in termini assolutamente peculiari, implicando un rapporto diretto con la divinità.»

Si evince, grazie a questo ragionamento denso e raffinato, che la posizione dello Stato e dei consociati nei confronti del segreto non può essere favorevole in senso assoluto, per la intrinseca contrarietà dello stesso al diritto di essere informati. Da un lato, si staglia un diritto al mantenimento del segreto – e un dovere a non infrangerlo –, dall’altro un diritto all’informazione, quanto mai necessario in una forma di Stato democratica – e il dovere di non tutelare i segreti a determinate condizioni. Fino a questo punto della riflessione, assistiamo a un tipico caso di bilanciamento di diritti e doveri. Ma la conclusione del ragionamento, preceduto da una avversativa, chiariva che si stava ancora trattando delle relazioni fra uomini. Il bilanciamento, infatti, sarebbe stato diverso in presenza del sigillum sacramentale, che sottintende un rapporto non più fra uomini, ma con Dio. L’ingresso del divino in un ragionamento che sembrava eminentemente di diritto secolare stravolge le gerarchie predefinite e impone di ripensare il bilanciamento: ubi maior minor cessat. Arturo Carlo Jemolo, ripreso da Daniela Milani, in poche righe tocca il punto nevralgico della questione, la cui analisi non può prescindere da una attenta lettura della normativa vigente pattizia e canonica.

Sul piano del diritto italiano vigente, si ha un forte riconoscimento processuale dell’inviolabilità del segreto confessionale nell’art. 200 c.p.p., il quale statuisce che «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione […] i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano» – oltre ai ministri di culto, gode dello stesso privilegio una ristretta categoria di professionisti: avvocati, investigatori privati autorizzati, consulenti tecnici, notai; medici, chirurghi, farmacisti, ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. È opportuno specificare che la presente tutela processuale differisce dall’obbligo di denuncia giudiziaria a carico del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio – come lo è un medico pubblico ufficiale – qualora, a causa delle sue funzioni, venga a conoscenza di un fatto che presenti i caratteri di un reato perseguibile d’ufficio (cfr. artt. 357-358 c.p.). Un obbligo, a carico dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, cui, evidentemente, non sono sottoposti i ministri di culto. La disposizione processuale – di cui all’art. 200 c.p.p. – consacra una non ingerenza dello Stato nei rapporti privati tra il fedele e il ministro di culto, al punto che quest’ultimo non ha alcun obbligo nei confronti dello Stato, nonostante la sua deposizione possa essere determinante ai più alti laici fini di giustizia e verità. Una ulteriore conferma deriva dalla norma pattizia di cui all’art. 4, c. 4 dell’Accordo di Villa Madama, stipulato il 18 febbraio 1984 tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano (l. n. 121/1985): «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero.» Il pensiero è rivolto particolarmente al Sacramento della Riconciliazione, e alle informazioni che ivi si collocano, ma la norma estende la tutela a tutte le informazioni su persone o materie di cui gli ecclesiastici siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero. In questo modo, lo Stato dichiara di astenersi assolutamente dal vantare qualche diritto sul sigillum sacramentale e su qualsiasi conoscenza che il chierico abbia acquisito in ragione del suo status. La tutela, dunque, si estende dal un più preciso e collocato segreto confessionale al più ampio accompagnamento spirituale, fino ai colloqui spirituali e a tutte le informazioni acquisite nella Chiesa per il fatto di appartenervi. La norma dell’accordo si concentra, comprensibilmente, sugli ecclesiastici, ma diventa urgente domandarsi se la stessa tutela non debba essere apprestata a tutti i fedeli laici che, in forza del sacramento del battesimo, sono depositari di confidenze spirituali e si prestano all’accompagnamento spirituale. Si ricordino, a proposito, le opere di misericordia spirituali di consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori e consolare gli afflitti. È evidente che taluni fedeli laici, impegnati nella sequela di Cristo, meritino la stessa tutela. Ad ogni modo, nel diritto italiano, lo Stato riconosce la qualità di ecclesiastico a chi la possiede secondo il diritto canonico – con alcune eccezioni, quale, ad esempio, la considerazione dei ministri di culto che abbiano lasciato l’abito: per la Chiesa cattolica sono sacerdoti eterni in virtù della sacra ordinazione, per lo Stato comuni cittadini. Nel diritto canonico sono ecclesiastici in senso lato i chierici, di cui offre una definizione il canone 207, §1 del Codice di diritto canonico del 1983: «Per istituzione divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici.» Concentrando l’attenzione sul sacramento della penitenza o della Riconciliazione, da cui deriva il sigillum sacramentale, ossia il segreto confessionale, il canone 965 precisa che «Ministro del sacramento della penitenza è il solo sacerdote.» Proprio questo ministro di culto, infatti, è tenuto alla gelosa e assoluta conservazione del segreto, con particolari implicazioni giuridiche – di diritto penale canonico – nel caso della sua illegittima rivelazione, giuridicamente mai ammessa.


Il segreto confessionale nell’ordinamento canonico

Per indagare l’assoluta inviolabilità del segreto confessionale si possono prendere le mosse dalla Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale del 1° luglio 2019, la cui pubblicazione è stata ordinata dal Sommo Pontefice Francesco il 21 giugno dello stesso anno. «Recentemente, parlando del sacramento della Riconciliazione, il Santo Padre Francesco ha voluto ribadire l’indispensabilità e l’indisponibilità del sigillo sacramentale: “La Riconciliazione stessa è un bene che la sapienza della Chiesa ha sempre salvaguardato con tutta la propria forza morale e giuridica con il sigillo sacramentale. Esso, anche se non sempre compreso dalla mentalità moderna, è indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del penitente; il quale deve essere certo, in qualunque momento, che il colloquio sacramentale resterà nel segreto della confessione, tra la propria coscienza che si apre alla grazia di Dio, e la mediazione necessaria del sacerdote. Il sigillo sacramentale è indispensabile e nessun potere umano ha giurisdizione, né può rivendicarla, su di esso”. L’inviolabile segretezza della Confessione proviene direttamente dal diritto divino rivelato e affonda le radici nella natura stessa del sacramento, al punto da non ammettere eccezione alcuna nell’ambito ecclesiale, né, tantomeno, in quello civile. Nella celebrazione del sacramento della Riconciliazione è come racchiusa, infatti, l’essenza stessa del cristianesimo e della Chiesa: il Figlio di Dio si è fatto uomo per salvarci e ha deciso di coinvolgere, quale “strumento necessario” in quest’opera di salvezza, la Chiesa e, in essa, quelli che Egli ha scelto, chiamato e costituito quali suoi ministri.»[4]  Gli elementi della santità del sacramento e della libertà di coscienza del penitente pongono il segreto su un rapporto non umano ma divino, di cui il sacerdote è il mediatore necessario per istituzione di Dio. In più, i riferimenti all’inviolabilità del segreto da parte tanto del confessore quanto dei poteri civili trova conferma giuridica nell’ordinamento italiano. Con attenzione particolare all’ordinamento canonico, è indispensabile individuare la base normativa di tutte le affermazioni sulla segretezza del sigillum sacramentale nel can. 983, §1: «Il sigillo sacramentale è inviolabile; pertanto non è assolutamente lecito al confessore tradire anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa.» Ad avvalorare la forza del canone è la previsione di una sanzione canonica per la sua violazione, così il can. 1379: «Il sacerdote che agisce contro il disposto del can. 977, incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica.» La pena latae sententiae si applica automaticamente al momento della realizzazione del fatto, e nel caso di specie ha per oggetto la scomunica. La norma non prevede casi in cui la violazione del can. 977 sia consentita, pertanto ogni violazione da parte del ministro di culto penitenziere porta direttamente alla scomunica. Tanta è la considerazione della assoluta inviolabilità del segreto confessionale nella Chiesa cattolica che per il suo tradimento è prevista la censura ecclesiastica che esclude il battezzato dalla comunione dei fedeli vietandogli, in particolare, di amministrare e ricevere i sacramenti. Per questo, rivelare il sigillum sacramentale costituisce, per il responsabile, condizione sufficiente per compromettere la sua unione con la Chiesa cattolica, corpo mistico di Cristo.


Conclusioni: l’assoluta inviolabilità del segreto confessionale e l’inviolabilità relativa del segreto professionale                   

Compiuta una prima analisi del quadro normativo vigente, è possibile giungere a conclusioni anche di ordine pratico. La prima attiene alla natura secolare del segreto professionale, che in quanto posto a tutela di un interesse non assoluto, ma relativo, è suscettibile di bilanciamento con altri interessi tutelati dallo Stato. La seconda conclusione, altrettanto utile, attiene alla assoluta inviolabilità del segreto confessionale. Questo segreto, infatti, essendo un segreto con Dio, più che con il ministro di culto, mero mediatore, non può essere tradito dal sacerdote in nessun caso. È così riconosciuto dall’ordinamento giuridico italiano e canonico uno spazio intimo e personale in cui il fedele ha il diritto di confessarsi con Dio stesso, mediante il confessore, senza che alcun altro interferisca. Infatti, questa dimensione non può considerarsi sociale neppure se si ha la presenza di un terzo come il ministro di culto. Al contrario, è una dimensione personale della creatura con il Creatore, e per questo l’organizzazione sociale e le sue leggi non ne solo coinvolte. L’inviolabilità è assoluta al punto che «la difesa del sigillo sacramentale da parte del confessore, se fosse necessario usque ad sanguinis effusionem, rappresenta non solo un atto di doverosa “lealtà” nei confronti del penitente, ma molto più: una necessaria testimonianza – un “martirio” – resa direttamente all’unicità e all’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa».[5] Pertanto, qualora il confessore entri in conoscenza di notizie di reato gravissime, ha l’obbligo di non riferirne e non denunciare giudiziariamente, neppure se i reati in questione fossero perseguibili d’ufficio oppure così odiosi e insopportabili da dover essere perseguiti. A proposito, la Chiesa specifica che «La difesa del sigillo sacramentale e la santità della confessione non potranno mai costituire una qualche forma di connivenza col male, al contrario rappresentano l’unico vero antidoto al male che minaccia l’uomo e il mondo intero; sono la reale possibilità di abbandonarsi all’amore di Dio, di lasciarsi convertire e trasformare da questo amore, imparando a corrispondervi concretamente nella propria vita. In presenza di peccati che integrano fattispecie di reato, non è mai consentito porre al penitente, come condizione per l’assoluzione, l’obbligo di costituirsi alla giustizia civile, in forza del principio naturale, recepito in ogni ordinamento, secondo il quale «nemo tenetur se detegere».[6] Il ministro di culto penitenziere, infatti, assiste a una comunicazione intimissima che il fedele rivolge a Dio, e in qualità di mediatore non è tenuto a particolari iniziative, se non alla remissione dei peccati che rende presente e concreta la misericordia infinita di Dio.

La relazione personale di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio è così intangibile nel momento sacramentale della Riconciliazione da dover rimanere segreta ad ogni costo, specialmente se si ammette che in quel momento vi sia un mediatore che assume il ruolo di Cristo.

 

Note:

[1] L. LACROCE, I ministri di culto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Il Diritto Ecclesiastico, 2012, pp. 736-737.

      [2] Ibidem.

[3]  F. Rigano, M. TERZI, Lineamenti dei diritti costituzionali, Franco Angeli, Milano, 2021, p. 181.

[4] Cfr. Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 01.07.2019, URL: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2019/07/01/0565/01171.html

[6] Ibidem.