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Equità

Tradizione
Ph. Fabio Toto / Tradizione

Indice:

1. Le radici teologiche del concetto

2. Le tre funzioni dell'aequitas in ambito canonico

2.1 Premessa e accezioni del termine

2.2 Il rafforzamento dell'osservanza della legge

2.3 L'aequitas come fonte suppletiva

2.4 L'aequitas tra ambito della retorica, ricerca di legittimazione e metodo

3. L'impiego del termine all'interno del CIC 1983

 

1. Le radici teologiche del concetto

Anche se ho già avuto modo di trattare dell'argomento mentre illustravo la teoria giuridica di S. Tommaso d'Aquino, riterrei inconcepibile non dedicare all'equità una voce a sé stante, a fortiori in quanto, sebbene l'Aquinate resti senz'altro l'autore di riferimento anche nella riflessione posteriore, di fatto al termine aequitas corrisponde, nella realtà del diritto canonico, un insieme di dati più ampio di quello cui egli pensava. Anzi, un insieme ampio ed eterogeneo, tanto che non sembra inutile esordire con qualche notazione etimologico-semantica.

Aequitas rimanda immediatamente ad aequum, quindi all'idea di eguaglianza;[1] solo in via mediata rimanda anche alla giustizia, appunto una giustizia fondata sull'uguaglianza.

Ma, nel contesto canonico, il termine richiama – con altrettanta immediatezza – Qualcuno con cui si possono avere soltanto rapporti di diseguaglianza: Dio.

Come spiegare, allora, l'apparente paradosso di un detto troppo fortunato per non essere anche (comunemente ritenuto) vero, Nihil aliud est aequitas quam Deus?[2]

Dio è sia il Creatore sia la causa finale di ogni creatura; per l'uomo, poi, è anche – in Cristo - causa esemplare, modello di comportamento in ogni circostanza e fonte della grazia santificante. Per questo, ripristinare un corretto rapporto con Dio – individuale anzitutto, sociale di conseguenza – è la condizione indispensabile perché anche le relazioni tra gli uomini tornino ad essere improntate a giustizia; e ciò che appunto re-ligat, riannoda il legame ontologico ed esistenziale intaccato della creatura dal Creatore è la religione.[3]

Si badi, però: la religione intesa come virtù, che in quanto consiste nel rendere a Dio ciò che Gli è dovuto è strettamente imparentata con la giustizia e l'ulpianeo Unicuique suum che la definisce;[4] essa comporta bensì l'osservanza della religione in senso oggettivo, della Legge di Dio, ma il suo atto caratteristico è principale è interiore e consiste nell'adorazione: “Adorare Dio è riconoscerlo come Dio, come Creatore e Salvatore, Signore e Padrone di tutto ciò che esiste, Amore infinito e misericordioso. 'Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai' (Lc 4,8), dice Gesù, ciando il Deuteronomio (Dt 6,13).”; “Adorare Dio è riconoscere, nel rispetto e nella sottomissione assoluta, il 'nulla della creatura', la quale non esiste che da Dio. Adorare Dio – come fa Maria nel 'Magnificat' – è lodarlo, esaltarlo e umiliare se stessi, confessando con gratitudine che egli ha fatto grandi cose e che santo è il suo nome. L'adorazione del Dio unico libera l'uomo dal ripiegamento su se stesso, dalla schiavitù del peccato e dall'idolatria del mondo” (CCC 2096 e 2097). 

In apparenza, siamo lontanissimi dall'ambito del diritto. Ma solo in apparenza.

Ogni sentenza di un Tribunale ecclesiastico è intestata – non “In nome della Chiesa”, non “In nome del Papa”, ma - “In Nomine Domini. Amen.”.[5] Con ciò, essa pone il proprio fondamento appunto in un atto di adorazione,[6] attesta di voler essere un contributo, limitato ed imperfetto quanto si voglia, al ristabilimento dell'Ordine voluto da Dio fin dal principio, all'attuazione della lex aeterna, il piano provvidenziale che abbraccia l'intero Universo fino alle più minute contingenze.

E, in ambito individuale, il “giusto” dell'AT è una persona che possiede la virtù della religione come habitus morale, che è proprio la ragione per cui “si distingue per l'abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il prossimo” (CCC 1807).

Quasi schiacciato tra questi due estremi, il singolo con la sua irriducibilità a norma e l'Ordine divino che abbraccia ogni singolarità, sta l'ordine umano, l'ordine delle leggi poste da legislatori terreni, chiamate anch'esse a concorrere all'attuazione della lex aeterna, ma la cui concreta rispondenza ai progetti divini appare sempre un poco incerta.

Con buone ragioni, si potrebbe anche aggiungere.

Proprio qui viene, allora, a collocarsi l'aequitas nel suo ruolo specificamente giuridico. Che, almeno in ambito canonico, non è semplicemente quello di antagonista della norma generale precostituita.

 

2. Le tre funzioni dell'aequitas in ambito canonico

2.1 Premessa e accezioni del termine

Tirando un poco le somme di quanto illustrato fin qui – illustrato, forse, in maniera troppo rapida per un tema così denso di storia e filosofia – penso che, mutatis mutandis, si possa applicare all'aequitas in ambito canonico il celebre frammento di Papiniano “Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam” (D.1.1.7.1).[7] Avremo allora qualcosa come “Aequitas est, quod pastores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi legis humanae gratia propter animarum salutem”, con l'importante precisazione che il riferimento ai pastores va comunque inteso alla funzione di giudici del caso concreto, non all'altra che li vuole legislatori.

In altre parole, come avvertiva giustamente il Fedele, in ambito canonico l'equità non si riduce semplicemente a deroga o mitigazione interpretativa della legge, tantomeno ad un generico appello alla misericordia del giudicante:[8] descrizioni simili, sebbene frequenti tuttora, ben che vada colgono una sola delle funzioni cui essa assolve, la legis humanae correctio. Si tratta, senza dubbio, di quella che ha ricevuto l'attenzione maggiore, sia nella veste puramente razionale dell'epieikeia aristotelico-tomista - dove si “corregge” il risultato ingiusto che, in un caso particolare, produrrebbe l'applicazione rigorosa di una legge in sé giusta quanto all'id quod plerumque accidit[9] - sia nella classica definizione dell'Ostiense, Aequitas est iustitia dulcore misericordiae temperata.[10] Tuttavia, insistendo troppo su tale aspetto, si corre il rischio di smarrire “il nuovo concetto dell'aequitas” rispetto al diritto romano, e caratteristico appunto del canonico: “non più strumento d'interpretazione, e neanche forza evolutiva del sistema normativo, ma ragione di esistenza della stessa norma giuridica.”.[11]

Ad un primo livello di significazione, pertanto, aequitas è il diritto divino, incluso quello naturale: la locuzione aequitas naturalis può indicare sia la giustizia naturale nel suo complesso, sia in particolare le esigenze razionali di “parità di trattamento” (aequitas come eguaglianza colta, però, in concreto, secondo la nozione di ascendenza ciceroniana per cui essa è rerum convenientia quae in paribus causis paria iura desiderat), sia anche l'epieikeia di Aristotele, che in un certo senso è complementare alla precedente perché evita di trattare allo stesso modo, id est di assoggettare alla regola generale, situazioni in realtà diverse.

Un concetto specificamente canonico è mancato per lungo tempo, l'espressione aequitas canonica non compare ancora neppure in Suárez, che pur ne pone le premesse distinguendo con cura tra un fine naturale e uno soprannaturale della vita umana, ma che tratta dell'aequitas solo di passaggio, per spiegare la differenza tra ius, aequum et bonum (l'auctoritas sottesa è, ovviamente, la definizione celsina secondo cui ius est ars boni et aequi):[12] trattazone del tutto in linea con quanto appena esposto, poiché. richiamata la distinzione aristotelica tra giusto naturale e giusto legale, il Dottore Esimio dichiara che l'aequitas naturalis coincide con il primo e non è una correzione del diritto, ma piuttosto la sua fonte;[13] si oppone, invece, allo strictum ius in un'altra accezione, cioè quando indica la prudente moderazione della legge scritta, che ne supera il rigore per evitare di venir meno alla giustizia naturale in un caso particolare.[14] Non basta quindi – come egli stesso chiarisce riprendendo il tema nel Libro VI[15] - che in tale situazione la ratio legis non sussista, ma occorre che si dia una ratio in senso opposto; può anche trattarsi del bene particolare di qualcuno, allorché venga esposto ad un danno che sia grave e non richiesto da alcun'altra esigenza del bene comune. Poiché la salus animarum può rientrare a meraviglia in questo concetto, è chiaro che Suárez non ha bisogno di assumerla a fondamento di un'aequitas specifica del diritto canonico.

Tuttavia, al pur solitamente esaustivo Dottore Esimio – o almeno al suo sistema - sfuggono, in sostanza, due ulteriori accezioni di aequitas che il pensiero medioevale ha saputo tenere ben distinte dalla naturalis: l'aequitas rudis o primaeva, ossia il generico senso di giustizia che sta a monte di ogni riflessione razionale sul diritto, e l'aequitas scripta o constituta, in altre parole le leggi umane giuste, che per definizione portano anche a soluzioni eque nella maggior parte dei casi. Quando così sia, l'aequitas può svolgere una funzione diametralmente opposta alla correttiva che ci è più familiare: può rafforzare l'obbligatorietà della regola generale aggiungendovi un titolo ulteriore e più alto, o anche esigendo un trattamento sanzionatorio più severo e, prima del CIC 1917, perfino l'incriminazione di atti non previsti come reato da alcuna norma generale.

2.2 Il rafforzamento dell'osservanza della legge

Dinanzi ad una legge giusta e alle fattispecie concrete che rientrano nell'id quod plerumque accidit, tutte le citazioni delle Scritture inerenti l'origine divina del potere si mobilitano in suo soccorso e riecheggia nei cuori il monito sulla capacità delle leggi, anche meramente temporali, di obbligare sotto pena di peccato grave; tuttavia, se il ruolo dell'aequitas-diritto divino si risolvesse solo in siffatta funzione legittimante, meriterebbe dal giurista poco più di una nota a piè di pagina, alla stregua di un instrumentum regni qualunque.

Invece, egli è costretto a rilevare – non senza un certo stupore – che non di rado, proprio in quell'ambito canonico dove aequitas si associa tanto strettamente a misericordia, se ne trae una conseguenza di ben altro tenore, l'esigenza cioè di infliggere sanzioni più severe di quelle previste dalla legge (“all'arbitrio di Sua Eccellenza”, secondo il memorabile refrain delle gride manzoniane) o addirittura di incriminare fatti che essa non prevede come reati.

A quest'ultimo riguardo, va notato che, al tempo, un'esigenza simile era comunemente riconosciuta come legittima anche in ambito secolare, dove tuttavia la si soddisfaceva mediante una fattispecie aperta tratta dalla compilazione giustinianea, lo stellionato.[16] Invece per i canonisti, che non disponevano di un'arma analoga nel loro diritto positivo umano, la regula iurisOdia restringi et favores convenit ampliari” (R.J. in VI, n. 15), essa sì munita di sanzione legislativa, veniva ad esser quasi rovesciata nel suo contrario: «quante volte venga in giuoco il periculum animae, la norma penale da odiosa diviene favorabilis ed è suscettibile di interpretazione analogica: constitutio, etsi videatur odiosa, quia poenalis, favorabilis est, quia inducta in animarum favorem, ideo ipsius poena non est restringenda, sed dilatanda, ut vitentur pericula: così Giovanni d'Andrea, e Nicolò de' Tedeschi […] Non isolate testimonianze, queste, ma dottrina comune, da Antonio da Budrio a Felino Sandeo […] al Sanchez ed al Suárez.».[17] Un'esigenza analoga, a mio avviso, ha spinto i compilatori del CIC 1917 a foggiare il can. 21, secondo cui una legge emanata per contrastare un pericolo generale non perde forza obbligante neppure se, in un caso particolare, quel pericolo non si dia:[18] disposizione, in verità, indicata come priva di precedenti legislativi, ma ricca di precedenti dottrinali, primo fra tutti lo stesso Suárez.[19] Disposizione, anche, che sostanzialmente vieta all'equità correttiva di operare, perché il pericolo comune si evita solo se tutti sono astretti all'obbligo; esso può cessare solo se in concreto il pericolo è assente e in più l'osservanza della legge risulterebbe nociva,[20] o meglio fonte di peccato, e in questo controlimite cogliamo molto bene la differenza tra l'epieikeia aristotelica, che di per sé imporrebbe di esimere dalla legge il caso particolare, almeno se non si avesse ragione di temerne un incentivo all'inosservanza per altri che invece vi sarebbero tenuti, e l'aequitas canonica, che per prevenire il peccato può, secondo i casi, tanto precludere quest'esenzione quanto esigerla, in entrambe le ipotesi a titolo di norma suprema.[21]

Ci si può chiedere tuttavia, a buon diritto, se tali considerazioni siano ancora valide – malgrado le conferme desumibili da un'Allocuzione di Paolo VI alla Rota Romana[22] - posto che il Codice vigente reca un chiaro divieto di interpretazione estensiva in materia penale e che il vecchio can. 21 non è stato mantenuto. Senonché, la sua soppressione, dopo un'iniziale scelta di mantenerlo invariato e l'inclusione nello Schema del 1977, è stata motivata da ritenuta superfluità, non da un mutamento di concezione o di politica;[23] quanto invece all'ambito penale, si è mantenuta l'opzione del precedente Codice[24] per un'apposita, espressa Norma generalis o piuttosto di chiusura, l'odierno can. 1399:[25]Oltre i casi stabiliti da questa o da altre leggi, la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con giusta pena, solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli scandali.”.

Qui occorre considerare distintamente alcuni aspetti.

In primo luogo, il combinato disposto con i cann. 18 e 19 ci dice che non vi è più spazio per l'interpretazione estensiva delle leggi incriminatrici, ma l'esigenza e la ratio che stavano alla base dell'opinione dottrinale opposta (che, essendo comune e costante, aveva forza di legge) hanno trovato soddisfazione appunto nel can. 1399: oggi non c'è più bisogno di forzare i limiti testuali di questo o quel canone odiosus, perché la favorabilitas della legge penale, il suo valore come tutela delle anime, è espressa in pieno dalla fattispecie predisposta proprio per i casi non contemplati da altre leggi. Da un punto di vista complementare, si può aggiungere che, se il giudice ritiene di dover punire un fatto che di per sé non costituisce reato, è bene che ammetta esplicitamente questa scelta e se ne assuma la responsabilità.

Inoltre, sebbene il principio di legalità possa in un certo qual modo dirsi salvo perché la condotta richiesta consiste pur sempre nella violazione di una lex, tutti gli altri parametri indicati rimandano all'aequitas. Così, innanzitutto, il riferimento alla Legge divina, per avventura non munita di sanzioni penali dal legislatore umano; così la “speciale gravità”, che è un criterio di ordine morale e rimanda o alla gravità della materia o (vuoi in aggiunta, vuoi rispetto alla trasgressione di norme umane in materia di per sé non grave) a quella del danno;[26] così, soprattutto, la ratio scandali, che poi altro non è che la tutela delle anime altrui.[27]

Lo stesso ragionamento vale anche rispetto alla trasgressione, non di una legge, ma di un precetto penale, ossia un ordine impartito, nel caso concreto, sotto comminatoria di sanzione, sia per urgere l'osservanza della legge ex can. 49 (nel qual caso, in pratica, si sta evitando di applicare il can. 1399 per il pregresso rendendo, però, certa la minaccia di azione per il futuro), sia anche – si badi bene - per vietare un comportamento in sé non proibito da norma alcuna, ma ritenuto discutibile in quelle date circostanze.

E parimenti i rimedi penali possono essere irrogati a chi versa in pericolo prossimo di delinquere o sia gravemente sospettato, perfino in caso di assoluzione (cfr. cann. 1339 e 1348), mentre le penitenze perseguono il duplice compito di sostituire la pena per chi ne è stato assolto, tenendo però fermo un quid di afflittivo, oppure di aggiungersi ad essa per stimolare il pentimento, poiché si tratta del compimento di un'opera di religione, di carità o di pietà (cfr. cann. 1312 §3 e 1340).

Da tutto ciò risulta chiaramente come l'aequitas conservi tuttora anche la propria veste severa di esigenza di tutela rafforzata; le esigenze di conoscibilità ex ante ricevono tutela quanto all'aspetto morale, nel senso che si deve trattare della violazione di una legge (divina od umana) preesistente, oppure di un precetto già intimato, non invece riguardo alla calcolabilità delle conseguenze, sia perché il rispetto della legge è a sua volta un valore morale e non si potrebbe incentivare il calcolo utilitaristico di costi e benefici, sia perché proprio rispetto alla trasgressione della legge si manifesta appieno la forza dell'aequitas anche come “giustizia del caso concreto” nel senso di “tale da portare ad una pena adeguata”.[28]

In effetti, ci si può chiedere se la distanza rispetto al nostro ordinamento sia poi tanto siderale e se non vi siano, in realtà, margini per ravvisare l'equità all'opera anche nel nostro diritto penale, perfino in malam partem.

Il tema, ancorché ripreso negli anni Trenta da Maggiore (uno degli italiani più sensibili alle suggestioni dell'esperienza giuridica nazista) ma soprattutto da Carnelutti, che ha colto l'essenza del problema con la consueta maestria,[29] sembra oggi scomparso dagli orizzonti della dottrina penalistica italiana, forse anche perché gli argomenti lato sensu equitativi sono stati spesi, negli ultimi decenni, soprattutto per mitigare un trattamento sanzionatorio feroce solo sulla carta. Tuttavia, se si pensa al luogo comune della dottrina secondo cui la truffa funge un po' da “tappabuchi” del sistema – guarda caso, il suo antecedente storico è proprio lo stellionato – o ai casi di critica contro le interpretazioni estensive, o in un passato ancora recente alla giurisprudenza dei cc.dd. pretori d'assalto, forse la discussione meriterebbe di essere riaperta.

Analogamente, se il precetto penale sollecita una comparazione ben fatta con l'art. 650 c.p., o anche magari con i poteri di ordinanza assistiti da sanzione preesistente, la materia dei rimedi penali e delle penitenze chiama in causa le misure di sicurezza e, più in generale, la crisi dell'intero apparato sanzionatorio, motivata in larga misura dalla sua inadeguatezza rispetto ai diversi casi e alle varie esigenze.

Ma allora, facciamo un passo in più e chiediamoci - al di là delle considerazioni di politica del diritto, che di solito tengono banco quando si parla di carcere, sanzioni sostitutive etc. - se, dopotutto, il ruolo che la legge stessa assegna fisiologicamente al giudice penale, che determina una pena compresa tra un minimo e un massimo, non sia proprio un'espressione di aequitas, un'individuazione del “giusto mezzo” o anche della giusta misura.[30] È poi così grande la differenza con il precetto che si rinviene tante volte nel CIC, “sia punito con una giusta pena”? E se uno spazio per l'equità si rinviene proprio lì dove ci si aspetterebbe il massimo presidio della legge, a garanzia del singolo da una parte e della collettività dall'altra, chissà che l'intera materia non meriti di essere riletta secondo un punto di vista nuovo, o meglio dimenticato.[31]

 

2.3 L'aequitas come fonte suppletiva

Sebbene il ruolo che l'aequitas gioca nel sistema penale assomigli molto all'integrazione delle lacune propriamente detta, a rigor di termini non è questo il caso, giacché si tratterà comunque di fare applicazione di disposizioni legislative, quindi semmai bisognerebbe parlare di aequitas scripta.

Fuori dell'ambito penale, però, opera il can. 19, con il suo ricco apparato di fonti suppletive.

Tra queste, a ben vedere, l'equità non figura: il testo parla di generalia iuris principia cum aequitate canonica servata. E siccome il diritto precodiciale prevedeva, invece, proprio questo suo ruolo di fonte sussidiaria, né la dizione mutata né il fatto che il CIC 1917 non indichi alcuna fonte per l'omologo can. 20 possono dirsi casuali; resta allora da chiedersi quale sia stata l'intenzione del legislatore e se si possa ancora parlare dell'aequitas come di una fonte suppletiva.

Il punto di partenza non può che essere lo stesso da cui muove la traditio canonica, ossia il c. Ex parte (X.1.36.11): “In his vero quibus ius non invenitur expressum, procedas aequitate servata, semper in humaniorem partem declinando, secundum quod personas et causas, loca et tempora videris postulare.”. Si trattava in origine di una direttiva contingente, legata alla situazione di debolezza militare e politica in cui versava l'Impero latino d'Oriente, molti dei cui nobili si erano macchiati di gravi colpe contro la Chiesa, che occorreva punire ma senza recar danni maggiori alla struttura istituzionale; già nella lettura della Glossa, e a fortiori nelle mani della dottrina posteriore, divenne l'appiglio legislativo sentito come necessario, o almeno molto utile, per colmare le lacune della legge scritta.

Può essere interessante notare che “aequitate servata” si riferisce senz'altro al diritto divino e alla necessità di rispettarlo in ogni caso,[32] però nel contesto originario – espunto dai compilatori del Liber Extra – implicava un riferimento alla necessità di tutelare i diritti della Chiesa e, quindi, legittimava la punizione anche di condotte non incriminate da alcuna legge scritta: prova ne sia il richiamo, subito dopo, al canone interpretativo-correttivo della humanior pars, che non avrebbe senso se non si stesse ragionando in termini almeno potenzialmente sanzionatori.[33] In definitiva, però, secondo Onorio III si tratta di ricavare la soluzione più adatta al caso dal complesso delle circostanze: appunto l'impiego creativo dell'equità.

Tutto ciò, a ben vedere, ci dice molto sul funzionamento concreto di questa fonte.

Intanto – lo nota Zaki in un contesto privo di riferimenti al diritto canonico, ma il rilievo ha portata generale – non è per nulla scontato che l'equità si possa considerare davvero fonte secondaria e che il rimando ad essa nel silenzio di ogni altra non sia, piuttosto, il riconoscimento di una superiorità, perché tutte le altre fonti possono essere lacunose, ma essa mai.[34]

La ragione di questa sua caratteristica, poi, non sta nel fatto che l'equità si riduce ad una sorta di creatività estemporanea del giudice: soprattutto in ambito canonico, ma direi anche nelle esperienze novecentesche di rottura della legalità formale, giudicare secondo equità significa aver chiaro in testa un ordine giuridico tutto intero, la cui giuridicità si manifesta proprio nel momento in cui legittima decisioni che, per esser percepite come “eque”, debbono presentarsi in modo credibile quali parti o frutti di quel medesimo ordine. Nel caso della decretale di Onorio III, il destinatario avrebbe dovuto tener presente, innanzitutto, il complesso delle leggi scritte - anche solo per poterne riconoscere le lacune - ma specialmente la trama dei diritti della Chiesa e la molteplicità dei valori sottesi; anche la raccomandazione di declinare in humaniorem partem in tanto ha senso, in quanto si sappia quale sia la humanior pars, come ci conferma la lettura “rovesciata” del principio Odia restringi et favores convenit ampliari proprio in ambito penale; e anche lo stesso richiamo all'instabilità politica ha senso perché relativo ad un contesto in cui la solidità dell'Impero latino era vitale per la possibilità della Chiesa cattolica di operare in quelle regioni.  

Ma, appunto perché procede come concretizzazione di un ordine giuridico già dato, l'equità opera bensì con metodo casistico, però non semplicemente sotto l'impulso dei fatti concreti, bensì alla luce di quei criteri di massima che troviamo espressi nelle regulae iuris (non a caso munite di forza di legge da Bonifacio VIII): per capire bene il senso e la portata di ciascuna regula, occorre padroneggiare l'intero diritto positivo,[35] ma, una volta riconosciuto che il caso rientra nell'ambito che le è proprio, essa illumina, per così dire, la direzione che l'equità deve prendere.[36]

In altre parole ed in sintesi: come fonte, l'equità si struttura in principi generali.

Non è qui il caso di discutere se sia nato prima l'uovo o la gallina, se i principi costituiscano la razionalizzazione ex post di un corpus di precedenti che si è formato via via, sulla scorta piuttosto dell'aequitas rudis, o se, preesistendo alle singole decisioni, abbiano guidato lo sviluppo del corpus stesso; d'altronde, la stessa aequitas rudis consiste pur sempre nell'intuizione, ancorché confusa, di un ordine che preesiste e, forse, la miglior descrizione di codesto sviluppo è proprio il passaggio dal confuso al distinto, tra una figura in lontananza che ci sembra di riconoscere e la stessa persona giunta a portata d'occhio, riconosciuta per sicurezza come Tizio. Comunque sia, almeno da un certo stadio di sviluppo in avanti, equità e principi generali tendono a diventare intercambiabili.

Questo è particolarmente vero nel caso del diritto privato italiano;[37] ma lo è perché, in origine, il diritto romano è stato filtrato attraverso il prisma dell'aequitas canonica, che ne ha rilevato più di un difetto e, nello sforzo di correggere e supplire, ha costruito un nuovo sistema, dove i vecchi materiali vengono ri-compresi alla luce di nuovi princìpi generali, come ad es. la buona fede; se abbiamo tuttora, all'art. 1374, un riconoscimento espresso dell'equità come fonte integrativa del contratto, ciò si deve a ragioni storiche ben precise e, posto pure che abbia ragione Rodotà ad affermare che in un sistema capitalistico “equità” equivale a “criteri di libero mercato”,[38] resterebbe comunque confermato che il termine implica il riferimento ad un intero ordine; solo, non si tratta più dell'ordine canonico.

Storicamente, l'aequitas canonica ha operato come fonte suppletiva proprio e soprattutto nell'ambito che oggi definiremmo privatistico: il riconoscimento di tutela giuridica al pactum nudum, ma anche al contratto in favore di terzi o alla promessa del fatto del terzo; il ruolo della buona fede nell'esecuzione del contratto e la costruzione della regola inadimplenti non est adimplendum; in ambito successorio, il sostanziale svincolo del testamento dai canoni dell'atto formale; e non si possono trascurare le radici canoniche di un istituto come il trust, frutto in definitiva di una rilettura delle fonti romanistiche in tema di fideicommissum, che le ha combinate con il tema prettamente canonico della pia voluntas.[39] In tutti questi casi, la matrice dell'intervento è stata il periculum animae, ma il risultato, per esempio la generale libertà delle forme in diritto civile o la pacifica ammissione dei contratti atipici, si è spesso mostrato capace di sopravvivere alla secolarizzazione e di operare, senza troppe scosse, anche in un contesto giuridico del tutto diverso.

Tutto questo, probabilmente, spiega perché i compilatori del CIC 1917 abbiano scelto di formulare il can. 20 in quei termini, che quasi parrebbero escludere l'equità dal novero delle fonti suppletive: in realtà si tratta, per un verso, della presa d'atto che l'utrumque ius era una realtà ormai tramontata e che la sola realtà ancora capace di operare in senso transnazionale ed unificante, nell'Occidente dei nazionalismi di inizio Novecento, era la dottrina con le sue costruzioni concettuali; in questo senso, la scelta si lega al superamento di un'altra fonte suppletiva riconosciuta fino ad allora, il diritto romano.[40] Per altro verso, evitando di riprodurre un'antologia di regulae iuris dotate di forza di legge, il legislatore canonico ha “delegificato” quest'ambito in favore della dottrina, vuoi sotto forma di communis opinio vuoi appunto quale sede privilegiata di elaborazione dei princìpi generali, suscettibile anche di nuovi sviluppi, sicché l'aequitas, in una visione siffatta, resta soprattutto un meccanismo di controllo dei risultati nel caso concreto.[41]

Questo complesso di considerazioni depone univocamente per un'innovazione rispetto alla decretale Ex parte tua, nel senso che il ruolo di fonte suppletiva dev'essere demandato soprattutto alla dottrina, e quindi ritengo che il can. 20 CIC 1917 si possa effettivamente considerare, sotto quest'aspetto, un testo nuovo.[42] Tuttavia, si tratta di un'innovazione “morbida”, perché i princìpi generali sono pur sempre il frutto di riflessioni condotte al lume dell'aequitas ed essa è sempre presente per mantenerli o riportarli entro i limiti che ne conseguono. E soprattutto, se è vero che si dà per scontato che, nella maggior parte dei casi, saranno sufficienti i princìpi generali e l'elaborazione giurisprudenziale di tanti secoli, resta ancor più vero che il ruolo dell'aequitas come fonte suppletiva non poteva essere escluso, dato che deriva direttamente, in sostanza, dalla salus animarum come norma suprema: si dovrà allora dire che, in concreto, esso opererà o sotto forma di meditata applicazione dei princìpi generali, oppure come riconoscimento del fatto che qui la trama di quel sistema tanto ben congegnato ha una smagliatura, un caso non previsto e forse non prevedibile, in cui il tale o il talaltro principio[43] non possono applicarsi, perché produrrebbero un risultato contra fas. Dopodiché, sempre l'aequitas procederà a costruire la soluzione e, insieme con essa, l'embrione di una regola aggiuntiva.

Il che ci porta al duplice problema del funzionamento concreto e della legittimazione del giudizio di equità. Non soltanto in ambito canonico, trattandosi di tema aperto, almeno di fatto, a influssi e suggestioni di ogni genere. 

 

2.4 L'aequitas tra ambito della retorica, ricerca di legittimazione e metodo

A dire il vero, fin da Aristotele – ma quello della Retorica più che dell'Etica – la giustificazione dell'equità, soprattutto nel suo aspetto correttivo, ha oscillato tra l'intenzione del legislatore e le esigenze oggettive della giustizia; il che si spiega agevolmente, considerato che per lui, ma anche nell'esperienza giuridica romana[44] e senz'altro per tutto il Medioevo, “il problema dell'equità” non si pone “come pertinente al dominio della logica in senso assoluto, e nemmeno come appartenente, in modo esaustivo, al dominio dell'etica. Egli ha visto invece l'equità riferita alla tecnica dell'argomentazione retorica, che non è la dimostrazione inconfutabile, a cui si giunge col metodo dell'apodissi, che si effettua attraverso i sillogismi della logica. Nell'ambito della retorica si può giungere infatti a conclusioni contrastanti tra loro, essendo la retorica strumentata per mezzo degli entimemi […] Parimenti, si può rilevare che Aristotile non ha costretto l'equità nel giro dei confini dell'etica, perché accanto all'elemento etico ha introdotto in essa quello patetico, e cioè quello della disposizione sentimentale, o psicologica, su cui si esercita per l'appunto il metodo della retorica, che è capacità dimostrativa e persuasiva insieme.”.[45]  

Queste considerazioni restano perfettamente vere anche per l'ordinamento canonico, se non altro perché l'esigenza di persuadere il giudice esiste dappertutto e la retorica serve appunto a costruire le relative mosse e contromosse. Resta vero, specialmente, che nel caso concreto si possono prospettare – spesso, non sempre – come probabili conclusioni diverse o addirittura opposte, giacché le capacità umane di indagine e giudizio toccano qui come altrove, anzi forse più che altrove, i limiti insondabili dei segreti noti soltanto a Dio, dalla verità sulle intenzioni o le opinioni di qualcuno fino a “Cosa sarebbe successo se...?”, per non parlare dello stato di grazia o di peccato in cui versa un'anima.

Forse per esorcizzare lo spettro, comunque ricorrente nei secoli, dell'aequitas cerebrina, che si trova cioè solo nel cerebro di quel singolo giudice poiché si riduce a suo capriccio personale, oppure di un processo ridotto a gara di trovate retoriche che strattona il giudice di qua e di là, si è sostenuto che il giudizio secondo equità interverrebbe, nel sillogismo giudiziale, solo al momento di trarre le conseguenze, non già in sede di accertamento e prova dei fatti.[46] Questo però, sebbene possa esser vero in generale, non lo è sempre, potendo esistere limiti legali all'uso di mezzi di prova che vengono a cadere, e soprattutto non vale rispetto all'operazione forse più delicata di tutte, la selezione dei fatti rilevanti, che mai come in questo tipo di giudizi avviene in funzione di un risultato.[47] Si può quindi convenire che in linea di principio si tiene ferma la valutazione della legge su quali siano i fatti rilevanti, si presume che essa sia equa (a più forte ragione per il diritto canonico, dove, per esser legge, è necessario che conduca a soluzioni giuste secondo l'id quod plerumque accidit); ed è giusto esigere che il giudice motivi indicando sia i fatti che lo hanno indotto a ritenere equa una soluzione diversa, sia i criteri cui si è informato questo suo giudizio.[48] Ma sotto quest'ultimo profilo, evidentemente, torna il problema della legittimazione, cui non può sottrarsi alcuna fonte del diritto: fatti “rilevanti” e “meritevoli” sulla base di cosa?

Il diritto canonico non è, ovviamente, al riparo dal rischio dell'arbitrio nell'accezione deteriore del termine, non più di qualsiasi altro ordinamento terreno; dispone però di un apparato teorico capace di render ragione delle, e fornire ragioni alle, soluzioni equitative. Il che non mi sembra poco.

Il criterio mediante cui si selezionano i fatti estranei alla situazione “tipica”, all'id quod plerumque accidit presupposto dalla legge (che va quindi preventivamente indagato), almeno all'interno della Chiesa non può che essere un criterio morale: siccome la Legge divina è universale e inderogabile ogni fatto trova in essa una qualificazione precisa, da cui non è lecito prescindere. In questo senso, l'equità canonica è l'esatto contrario della c.d. etica della situazione, che vorrebbe – essa sì – creare ogni volta la regola a partire dalle circostanze: l'aequitas va prima di tutto a cercare, per fare il punto, le costellazioni dell'ordinamento sotto la cui Luce deve sempre navigare.[49] L'esigenza della correctio legis, in particolare, lo evidenzia ogniqualvolta scaturisca dalla necessità di evitare che, in concreto, una legge altrimenti giusta induca o addirittura costringa al peccato; ma, sebbene questa sia l'ipotesi più semplice di intervento dell'aequitas, non è l'unica. Assai più interessante, perché più problematica, la varietà di casi in cui il problema non è evitare che si produca un male, ma non impedire o favorire lo sviluppo di un bene, da intendersi anch'esso in senso morale. Bastino alcuni esempi appena accennati.

  1. La conversione del peccatore è considerata quale bene sommo nell'ordinamento canonico; ma nel caso concreto, per produrla, sarà più utile la sanzione o un altro rimedio? Questa sanzione o quell'altra? Qual è la “giusta” pena che, tante volte, il legislatore esplicitamente comanda di infliggere, senza specificarla?
  2. Per regola generale di prudenza, prima di affidare a qualcuno incarichi importanti, o di promuoverlo agli ordini sacri, è necessario un congruo periodo di prova; ma talvolta questo potrebbe impedire un bene maggiore, p.es. di fronte ad un entusiasmo trascinante. Insistere nella regola generale o ammettere l'eccezione?
  3. Discorso analogo si può fare per le realtà associative, specialmente le forme di vita religiosa: per poter essere approvata, un'organizzazione deve dimostrare, tra le altre cose, di disporre di mezzi materiali sufficienti. Ma può spuntare un emulo di S. Francesco, deciso a vivere di sole elemosine e di lavori con compenso a giornata, perché vuole affidarsi in tutto alla Provvidenza...   

Potrei continuare a lungo, ma credo che il punto centrale sia chiaro.

In tutte queste ipotesi, solo Dio può sapere per certo quale sia la cosa giusta da fare, se Tizio così entusiasta persevererà o meno, fino a che punto Caio abbia peccato e come reagirà ai diversi mezzi, e così via; il giudice ecclesiastico può e deve chiedere l'illuminazione di Dio, che lo aiuti nella scelta, ma questo non gli può comunque dare la certezza infallibile di essere stato esaudito o di aver compreso bene il messaggio dall'Alto. E qui sta la ragione ineliminabile per cui, anche in ambito canonico, sarà sempre bene che vi sia la dialettica degli argomenti pro et contra.

La soluzione di equità, infatti, non può limitarsi a consistere in una deroga alla legge scritta: per essere equa davvero, deve tutelare anche il valore, il bene, che la regola generale è chiamata a proteggere. La prudenza insegna che l'entusiasmo, più spesso che no, cede dinanzi alle difficoltà, quindi l'entusiasta va bensì incoraggiato, ma anche sostenuto mediante una rete organizzativa e, dove più dove meno, pure tenuto sotto controllo; l'esperienza fattuale e giuridica della primitiva forma vivendi francescana insegna che essa è pienamente lecita, ma anche che tende a trasformarsi in qualcosa di altro, di meno eroico, non appena l'eroismo iniziale finisce per attirare le masse, sicché sarà bene attrarre l'attenzione dei volenterosi su questo punto, come anche sulle difficoltà concrete che dovranno affrontare, perché in questo modo si prevengono probabili future defezioni dalla vita religiosa; e così via. Insomma, si conferma una volta di più che “l'esser l'equità nel diritto canonico propriamente aequitas canonica vuol dire che l'elementum correctivum iuris non consiste in astratti o arbitrari princìpi di giustizia (come in alcuni diritti e in alcuni momenti storici l'equità fu concepita); ma negli stessi princìpi che sono alla base del sistema canonico e ne costituiscono la specifica struttura.”.[50]

Tuttavia, esiste un ambito in cui il diritto positivo è assai poco flessibile, si piega di rado ad esigenze equitative comunque intese: l'ambito delle procedure.

La ragione, a ben vedere, è semplice: la disciplina di un procedimento è chiamata a perseguire due scopi, l'accertamento dei fatti rilevanti e la ponderazione adeguata dei diversi aspetti o interessi che vanno tenuti presenti. Quindi, di per sé la sua osservanza costituisce il miglior mezzo per arrivare ad una soluzione equa, che, comunque si definisca l'equità, di sicuro include tali aspetti.

Senonché, occorre osservare che la disciplina canonica del procedimento amministrativo resta tuttora, quasi sempre, affidata a disposizioni scarne (perlomeno all'interno del Codice), quindi esiste uno spazio ampio ed importantissimo in cui l'aequitas è chiamata a svolgere  la propria funzione integrativa, in particolare assicurando che il modus procedendi in concreto seguito rispetti il diritto alla difesa o comunque al contraddittorio. Questo però, di fatto, il più delle volte non avviene, in larga misura anche perché gli operatori non hanno ricevuto una formazione adeguata nel diritto canonico, che pur sono chiamati ad applicare. Risultato? Caduta verticale di garanzie e peggio, perché l'imprevedibilità dei procedimenti rischia di tradursi, quasi fatalmente, in imprevedibilità delle decisioni, difetto che l'aequitas propriamente intesa non dovrebbe mai comportare. 

Per quel che riguarda le procedure giudiziarie, per fortuna, la disciplina legislativa è più corposa e il controllo sul suo rispetto più efficace.

Sebbene in linea di principio anche le leggi processuali debbano essere interpretate ed applicate secondo aequitas (cfr. can. 221 §2), questo di fatto può valere soprattutto per l'equità integrativa, oppure in caso di ambiguità testuale o di pretesa antinomia, giacché il potere di dispensa è riservato alla Sede Apostolica (cfr. can. 87 §1), più precisamente alla Segnatura (Cost. Ap. “Pastor Bonus”, art. 124 n. 2),[51] quindi il giudice non potrebbe dispensare sé stesso, meno ancora le parti, dall'osservanza della regola generale. Inoltre, non è comunque mai ammessa la dispensa dagli elementi essenziali di un istituto giuridico, anche quando sono di diritto umano, e quando l'istituto in ballo è il processo giudiziale essi sono di diritto naturale.

Solo una norma del Codice, a mio avviso, corrisponde ad un'esigenza riconducibile all'aequitas: il combinato disposto dei cann. 1290 e 1547, che ammette sempre la prova testimoniale in materia di contratti, anche quando sarebbe preclusa dalla legge civile che li regola.[52] Ma che dire della prassi in punto concessione delle dispense, unico terreno su cui si possa sperar di misurare l'incidenza dell'equità correttiva?[53]

La Segnatura, per quanto è dato comprendere dalle informazioni di pubblico dominio,[54] si è esercitata soprattutto su temi piuttosto specifici: deroghe alla competenza,[55] soprattutto a quella obbligatoria della Rota Romana in terza ed ulteriore istanza, per ovviare a difficoltà delle parti, ma anche in senso contrario cioè per far giudicare la Rota fin dalla prima istanza; titoli di studio richiesti dalla legge per poter essere nominati giudici o difensori del vincolo;[56] dispensa, molto rara, dall'obbligo della c.d. “doppia conforme” perché la sentenza di nullità matrimoniale divenisse efficace e permettesse nuove nozze (esistendo un mezzo processuale che permetteva la conferma celere della pronuncia di primo grado, la Segnatura ne ha dispensato quasi soltanto chi versasse davvero in pericolo di morte).[57] Ma non sono mancati casi più delicati, come la richiesta di esser dispensati dall'obbligo di citare le parti convenute che “presentano o fanno prevedere atteggiamenti violenti o pericolosi”, oppure “potrebbero subire vessazioni nel caso in cui fossero invitate a collaborare con il tribunale ecclesiastico”.[58] Nonostante l'indubbia esistenza di situazioni gravi, la prassi costante esclude la possibilità di dispensa,[59] perché il contraddittorio è un elemento essenziale del processo e non si può pensare di simularlo designano un curatore in luogo del diretto interessato che rimane all'oscuro di tutto, almeno non nelle cause matrimoniali[60] (dove, oltretutto, in genere si verrebbe comunque a sapere del nuovo matrimonio). Tuttavia, sono stati ammessi altri rimedi, dallo spostamento di competenza per ragioni di sicurezza alla secretazione dell'indirizzo di parte attrice, fino al differimento della citazione ad un momento successivo alla deposizione in giudizio della stessa parte convenuta, che altrimenti sarebbe stata messa in pericolo.[61]

I casi addotti, sia con la loro particolarità sia specialmente con la relativa marginalità, valgono quindi a conferma del fatto che le norme di procedura subiscono difficilmente deroghe per ragioni di aequitas. E il motivo più profondo va ravvisato, a mio parere, nella loro funzionalità all'accertamento dei fatti nella loro verità materiale, oppure all'attenta ponderazione del giudizio: elementi forse ancor più necessari del solito, quando si tratti di costruire e ancor più di legittimare una pronuncia secondo equità.

Va notato, infatti, che l'obbligo di motivazione delle sentenze, in diritto canonico, vanta una lunga tradizione e non ha mai escluso il caso della pronuncia resa secondo equità.[62] Dunque anch'esse andranno motivate; a questo proposito possono tornare utili i rilievi di Frosini, secondo cui nel sillogismo giudiziale si mostra che il fatto rientra nella tal norma, mentre la premessa di un giudizio secondo equità è in qualche modo opposta, l'individuazione delle ragioni per cui il caso andrebbe inquadrato nel tale e talaltro modo, ma la conseguenza de rigore iuris è inaccettabile. Questo per l'equità correttiva; per quella suppletiva, costruire un modello di ragionamento è assai più complesso, ma chiaramente la premessa può solo essere la ricognizione della lacuna legis, magari anche in termini di inapplicabilità di norme specifiche per analogia (anche se forse, nella maggior parte dei casi, lo stesso risultato si potrebbe raggiungere, o giustificare a posteriori, sia mediante l'analogia legis sia ricorrendo ai principia generalia cum aequitate canonica).[63]

Ma se l'aequitas presuppone una conoscenza scrupolosissima dei fatti, che dire allora di quei casi, come il nostro art. 1226 c.c., in cui essa viene invocata proprio per supplire ad un'insufficienza di prova relativa alla quaestio facti?

Tale accezione di equità è estranea all'ordinamento canonico, almeno oggi, ma merita almeno un cenno.

Nel caso specifico del risarcimento per equivalente, la risposta non può che essere – forse secondo lo stesso diritto italiano, ma di sicuro in caso di sua applicazione da parte del giudice ecclesiastico – che, una volta che sia certo l'an della lesione, sorge l'obbligo di riparare e ristabilire, nei limiti del possibile, lo status quo ante; aequitas è qui la giustizia commutativa, che postula l'equivalenza tra riparazione e danno, sia che si esprima in termini economici sia che passi attraverso un risarcimento in forma specifica. Quindi, in concreto il problema sarà di due tipi diversi: un danno patrimoniale di difficile quantificazione, e allora la condanna andrà contenuta entro i limiti in cui, magari mediante il ricorso a massime di esperienza o presunzioni, si raggiunge la certezza morale che quel tot di danno è stato effettivamente patito; oppure un danno non patrimoniale, e qui i fattori da considerarsi sono giuridico-morali, perché l'equivalenza tra realtà eterogenee come il patrimonio e, poniamo, l'onore è una fictio iuris che potrà esser resa operante, di volta in volta, mediante il ricorso a paradigmi sanzionatori (somma equa nel senso di adeguata a prevenire violazioni future), di arricchimento illecito (stima dei vantaggi indiretti), di tariffazione paralegale etc.[64] 

 

3. L'impiego del termine all'interno del CIC 1983

Chiarito il quadro concettuale, può essere utile verificare sul campo, cioè sul testo del Codice, la riscontrata varietà di usi ed accezioni. Molto più difficile, infatti, sarebbe un riscontro articolato attraverso le fonti giurisprudenziali, in cerca dell'equità correttiva o integrativa: le informazioni di pubblico dominio sono troppo poche, la giurisprudenza canonica edita nell'ultimo secolo è quasi tutta incentrata sull'ambito matrimoniale e l'eccezione più notevole, quella della Segnatura in materia amministrativa, offre spunti interessanti ma troppo circoscritti.[65]

Le concordanze del CIC 1983 sorprendono l'interprete per la scarsità di riferimenti all'aequitas e ai termini affini: a parte alcuni casi in cui aequum o aeque significano “identico”, “allo stesso modo”,[66] le occorrenze rilevanti si riducono a nove. Ma, visto che l'obbligo di applicare la legge secondo aequitas e il correlato diritto del fedele a ricevere tale applicazione, sancito dal can. 221, costituiscono princìpi generali, è comprensibile che solo per alcune fattispecie particolari il legislatore avverta l'esigenza di richiamar l'attenzione sul punto in modo specifico. Si tratta, se non mi inganno, di nove casi in tutto.t

 

Can. 271 §3

Questo canone tratta dello svolgimento del ministero da parte di un prete in una Diocesi che non è la sua e, premesso che i due Vescovi interessati debbono regolare l'attività di costui con un accordo previo,[67] dichiara, al §3, che il Vescovo alla cui Diocesi egli appartiene lo può richiamare, “dummodo serventur conventiones cum altero Episcopo initae atque naturalis aequitas”, e alle stesse condizioni il Vescovo presso cui si trova può negargli il rinnovo del permesso di restare.

Qui, la naturalis aequitas svolge pacificamente una funzione (che noi diremmo) “integrativa del contratto”; ma subito sorgono due domande, a) quale sia il criterio di valutazione da impiegarsi, visto che non si sta parlando della remunerazione, e b) a tutela di quali esigenze sia pensata la disposizione.

La risposta, secondo me, è una sola per entrambi i quesiti: le necessità della Diocesi ospite, la cui soddisfazione è, dopotutto, la causa finalis per cui viene stipulata la conventio.

Invece, quando è proprio la Diocesi ospite a porre termine al servizio del prete de quo, all'evidenza tale criterio non opera: l'aequitas dovrà, allora, avere riguardo alle condizioni personali di lui, al tempo che gli occorre per riorganizzare bene i propri affari etc.; tutti elementi che possono rilevare anche nella simmetrica ipotesi di richiamo nella Diocesi di appartenenza,[68] ma solo in seconda battuta.

Ne segue che, in realtà e sebbene dica “iisdem condicionibus”, il can. 271 §3 enuncia due regole diverse, anche e proprio rispetto al parametro di aequitas da applicarsi.

 

Can. 281 §1

Il chierico che esercita il ministero ecclesiastico ha diritto ad una remunerazione congrua, che tra le altre cose deve permettergli anche di provvedere alla aequa retributio di quanti siano al suo servizio. Qui non ci sono particolari problemi interpretativi: si tratta della giustizia commutativa da osservarsi verso i prestatori d'opera, cui al massimo può aggiungersi qualcosa perché è bene che il chierico eserciti anche la virtù della liberalità e non si esponga alla taccia di avarizia.

 

Can. 702

Aequitatem, all'accusativo, fa la sua comparsa al can. 702, che prima enuncia la regola secondo cui  il religioso che lascia l'Istituto di appartenenza o ne viene espulso non può ripetere nulla a titolo di compenso per l'opera in esso prestata; poi però la tempera intimando all'Istituto stesso di osservare verso di lui l'aequitas e la evangelica caritas. Ci si può chiedere se non si tratti di un'endiadi, ma il precedente del can. 643 CIC 1917 lo esclude e vale tuttora, a mio avviso, a spiegare il senso complessivo della norma: fermo che non vi è un debito di giustizia, la naturalis aequitas esige che gli si somministri di che vivere onestamente per un certo lasso di tempo, la evangelica caritas vi aggiunge il soccorso per le necessità immediate del momento.

Resta tuttavia escluso il mantenimento a vita o a tempo indeterminato, anche quando si tratti di una persona ormai anziana e inabile, obiettivamente, al lavoro:[69] quest'esito potrebbe sembrare iniquo e appunto per tale ragione appare significativo il fatto che l'aequitas non intervenga a porvi rimedio, giudicandolo coerente con la natura della professione religiosa, del rapporto cui dà luogo e dell'uscita dall'Istituto, volontaria o coatta.[70] In altre parole, qui l'aequitas funziona soprattutto come diritto divino sovraordinato, che limita l'applicabilità del principio “Nulla è dovuto”; almeno per quanto concerne la naturalis aequitas, però, la posizione giuridica del religioso dimesso è di diritto soggettivo, anche se di non semplice liquidazione. In assenza della disposizione specifica, si sarebbe dovuti ricorrere all'equità correttiva e/o all'officium iudicis; per come è formulato il precetto legale, probabilmente anche le controversie sul quantum vanno risolte indulgendo un po' più al singolo e ai suoi bisogni che all'Istituto.

 

Can. 1148 §3

Il battezzato che proviene da una realtà poligamica può scegliere quale delle mogli tenere con sé, ma l'Ordinario del luogo, tenuto conto delle condizioni morali, sociali e personali, deve vigilare affinché egli provveda a sufficienza ai bisogni delle altre, “iuxta normas iustitiae, christianae caritatis et naturalis aequitatis”.

Qui probabilmente iustitia va inteso nel senso stretto di “giustizia legale”, da riferirsi alle leggi giuste, secolari od ecclesiastiche, applicabili al caso; la naturalis aequitas non può, invece, comportare ciò che forse comporterebbe in astratto, cioè il mantenimento dello stesso tenore di vita, sia per l'oggettiva impossibilità (salvo che il patrimonio del marito sia tanto ampio da poter provvedere in tal senso), sia perché la posizione di lui gode del favor iuris, l'obbligo non è risarcitoria ma indennitario e, come tale, non esige una restitutio integrale.

Il riferimento alla caritas christiana può essere inteso sia in senso sfavorevole alle mogli (qualcosa di meno della naturalis aequitas, perché viene in ballo la caritas erga Deum), sia in senso opposto, ma quest'ultima interpretazione mi sembra preferibile: il neofita può ritenere la moglie che preferisce, ma non gli è lecito disprezzare le altre o manifestare verso di loro qualcosa di meno della caritas che, come cristiano, deve comunque a tutti gli uomini.

Deve però aggiungersi, di nuovo in termini di giustizia, che oltre alle esigenze patrimoniali in sé e per sé questi casi comportano anche possibili pregiudizi per la reputazione delle donne coinvolte, che si dovranno a loro volta prevenire.

Per identità di ratio, la norma mi sembra infine applicabile anche al caso di società poliandrica.

 

Can. 1310 §2

Le pie volontà dei fedeli sono prese molto sul serio dal diritto canonico e forse la prova migliore di ciò sta nella cautela estrema di cui la disposizione in commento circonda l'ipotesi di riduzione degli oneri che da esse derivano. In primo luogo, la riduzione del numero delle Messe - si sta pensando alle disposizioni in favore dell'anima, esempio classico di pia volontà – è addirittura riservata alla Santa Sede; per gli oneri differenti, poi, si richiede che la riduzione dei redditi vincolati allo scopo o un'altra causa abbia reso impossibile l'adempimento integrale, senza colpa alcuna degli amministratori... e tuttavia, ancora non basta: bisogna sentire tutti gli interessati, udire il parere del Consiglio per gli affari economici e rispettare comunque la volontà del disponente nel miglior modo possibile. Solo a queste condizioni è possibile “onera aeque imminuere”,

Verrebbe da dire che qui il riferimento all'aequitas può perfino essere improprio, perché ci troviamo dinanzi alla presa d'atto di una parziale impossibilità sopravvenuta: la giustizia del caso concreto trova, del resto, un criterio regolatore piuttosto preciso nel massimo rispetto per la volontà del disponente, quindi il giudizio dell'Ordinario – sebbene debba tener conto di tutte le circostanze del caso, il che è quasi tautologico – si riduce ad una valutazione economica su quanta parte degli oneri rimanga sostenibile. E, sebbene il testo di legge non lo dica perché il caso è raro e il canone suppone un problema non transitorio, mi sembra di poter sostenere che, qualora i redditi riprendano valore o venga comunque meno la causa impediente, riprenderà vigore l'obbligo originario. A mio avviso, l'apprezzamento dell'Ordinario acquista importanza soprattutto rispetto ad un problema piuttosto specifico, cioè se al momento presente, fatto 100 il valore degli oneri, vi sarebbero i mezzi per eseguirne 80, ma senza garanzia di sostenibilità nel lungo periodo, mentre con una riduzione a 70 accompagnata da opportuni investimenti si prevede di poter assicurare, a regime, i redditi necessari a sostenerne 75: in questo caso il Vescovo ha il potere di ridurre gli oneri in misura superiore allo stretto necessario, ma conforme alla volontà presunta del disponente (stiamo infatti parlando di fondazioni perpetue) e alla struttura stessa delle pie volontà come istituto giuridico. Dunque, o intendiamo aeque come un generico riferimento alla giustizia del caso concreto, oppure dobbiamo pensare al riconoscimento di questo pur limitato potere di deroga all'urgenza immediata dell'imperativo, sostanzialmente iuris divini, di eseguire le pie volontà nella misura massima possibile.

 

Can. 1346

Indubbio esempio di equità correttiva, perché attribuisce al prudente apprezzamento del giudice il compito di ricondurre intra aequos terminos l'entità delle pene da infliggersi, qualora sembri eccessivo l'esito cui porterebbe il cumulo materiale. Qui si può vedere sia un riferimento alla giustizia del caso concreto, sia un richiamo all'aequitas come dulcor misericordiae che tempera la giustizia rigorosa: l'esito è il medesimo, perché porta a contenere la pena entro i limiti ritenuti “adeguati” ai fini che le prefigge l'ordinamento, applicazion fatta del principio in dubio pro reo (dove il dubbio non attiene però alla responsabilità, ma appunto all'adeguatezza della sanzione).

 

Can. 1446 §2

Il canone enuncia il dovere generale del giudice di aiutare le parti a trovare una aequa solutio della controversia:[71] qui si può pensare sia ad un contemperamento degli interessi, sia alla ricerca del ius come ipsa res iusta o, meglio, soluzione giuridica adeguata alle effettive esigenze, che viene trovata più facilmente dalle parti communi consilio che non dal terzo giudicante. Va notato che le transazioni propriamente dette non sono ammesse nelle cause in cui viene in questione il bene pubblico, come ad es. quelle matrimoniali o, per altro verso, le amministrative, ma il dovere del giudice sussiste anche in esse: rispetto al matrimonio si tratterà, allora, di indurre i coniugi a riconciliarsi o a convalidare il consenso – in ipotesi – difettoso; per l'ambito amministrativo, la Segnatura Apostolica, che è l'unico organo giudicante cui tale contenzioso possa approdare, approva in Congresso la soluzione pacifica trovata dalle parti (art. 78 §2 della Lex Propria), non però la semplice revoca dell'atto impugnato, che fa cessare di per sé la materia del contendere. Non vige più, insomma, il brocardo di diritto comune In litis contestatione quasi contrahitur, che rendeva necessaria l'approvazione del giudice per le soluzioni transattive in generale,[72] e del resto le parti avrebbero modo di aggirare un simile obbligo con relativa facilità, in quanto l'inattività protratta per sei mesi comporta perenzione (cfr. can. 1520).

 

Can. 1571

Il teste ha diritto al rimborso delle spese e del lucro cessante occasionato dalla testimonianza, ma secondo la aequa taxatio del giudice. In pratica, la predisposizione del rimborso forfettario, per essere aequa, deve assicurare il ristoro integrale delle spese, ma non così per il lucro cessante, di difficile accertamento e stima, rispetto a cui l'aequitas impone di far salva la possibilità di dimostrare che si è effettivamente perso un affare di valore notevolmente superiore a quanto spetterebbe a forfait per tale titolo: di qui la previsione, apparentemente contraddittoria, di una procedura per le contestazioni su un aspetto che non dovrebbe proprio darvi luogo, se si trattasse semplicemente di applicare in modo meccanico i criteri prestabiliti.

 

Can. 1733

Redatto indubbiamente, soprattutto al §1, sulla falsariga del can. 1446, quest'articolato disposto normativo si occupa della ricerca di una aequa solutio del contenzioso amministrativo appena esso è insorto, dunque prima ancora del ricorso gerarchico o in pendenza di questo.

Si tratta di una via complementare e non alternativa al rimedio giustiziale, sia perché i termini perentori, assai ristretti, per esperire il ricorso non vengono né interrotti né sospesi, sia perché il Superiore che di esso sia investito gode di pieni poteri di riesame e decisione (cfr. can. 1739) e viene esortato a tentare a sua volta di procurare la conciliazione tra le parti (can. 1733 §3). Bisogna perciò concludere che, almeno in astratto, lo scopo perseguito è identico e consiste in una soluzione “equa” nel senso forte, il miglior provvedimento possibile nel caso concreto.[73]

  

[1]    In tal senso, cfr. spec. M.S. Zaki, Définir l'équité, in Archives de Philosophie du Droit 35 (1990), pagg. 87-118, qui 88.

[2]    Attribuito a Martino Gosia, uno dei “quattro dottori”, famoso proprio per la sensibilità all'aequitas, da H. Kantorowicz, Studies in the glossators of the Roman law: Newly discovered writings of the 12th century, Cambridge 1938, pag. 53.

[3]    Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Contra impugnantes Dei cultum et religionem, c. 1.

[4]    Per la precisione, secondo l'Aquinate essa è una delle “parti potenziali” della giustizia; CCC 1807 si limita a dire che «la giustizia verso Dio è chiamata 'virtù di religione'.»

[5]    Cfr. amplius in argomento, sia per un'analisi storica sia per altre prospettive di lettura, G.P. Montini, L’invocazione del nome di Dio nella sentenza. L’esercizio della giurisdizione matrimoniale nella Chiesa, in Periodica de re canonica 92 (2003), pagg. 653-706. La forma precisa dell'intitolazione non è prescritta dal Codice, ma si è affermata via via presso la Rota e la Segnatura come elemento di stylus Curiae nel più schietto senso suareziano dell'espressione.

[6]    Cfr. CCC 1062: “In ebraico, Amen si ricongiunge alla stessa radice della parola 'credere'. Tale radice esprime la solidità, l'affidabilità, la fedeltà. Si capisce allora perché l''Amen' può esprimere tanto la fedeltà di Dio verso di noi quanto la nostra fiducia in lui.”.

[7]    Prescindo qui volutamente dal problema dei rapporti tra aequitas dei giuristi romani ed aequitas dei canonisti, tanto più viste le sconfortanti e forse sconsolate considerazioni di A. Guarino, s.v. Equità (diritto romano), in Nss. Dig. It., vol. VI, Torino 1960, pagg. 619-24: “la nozione dell’aequitas è tra le più essenziali per la comprensione del diritto romano nel suo sviluppo storico, ma è nel contempo tra le più evanescenti e incerte e contraddittorie che le fonti romane ci offrano”.

[8]    P. Fedele, s.v. Equità canonica, in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano 1966, pagg. 147-60.

[9]    Cfr. Aristotele, Eth. Nic. V, 1136a-1138a, e Rhet. I, 1374a-b [“Viene talvolta ricordato dai commentatori anche l'accenno che si trova nei Magna Moralia, lb. II, cap. I; ma quest'opera è una compilazione delle dottrine aristoteliche, composta nel III o II secolo a. C.”. V. Frosini, Equità (nozione), in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano 1966, pagg. in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano 1966, pagg. 69-83, qui 69, nt. 3; l'Autore nota come sia improprio e riduttivo il luogo comune di scuola che descrive la concezione aristotelica come “giustizia del caso concreto”; concorda M.S. Zaki, op. loc. cit.]. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 96, a. 1; II-II, qu. 51, a. 4; qu. 60, a. 5; qu. 120; In Eth. Nic. V, lec. 16.

[10]  Cfr. P. Fedele, op. cit., per i riferimenti al Decretum, tutti di analogo tenore.

[11]  F. Calasso, s.v. Equità (storia), in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano 1966, pagg. 65-9, qui 67.

[12]  F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, 1.2.7.

[13]  Questa la sua lettura di D.50.17.91: “In omnibus, maxime tamen in iure, aequitas spectanda est”.

[14]  Va qui notato che gli autori del diritto comune dovevano, tra l'altro, riuscire a conciliare auctoritates in apparenza contraddittorie, specialmente C.1.14.1, “Inter aequitatem iusque interpositam interpretationem nobis solis et oportet et licet inspicere”, e C.3.1.8, “Placuit in omnibus rebus praecipuam esse iustitiae aequitatisque quam stricti iuris rationem.”. Il risultato è un sistema, legittimato dalla communis opinio, che mira ad enucleare e valorizzare la parte di verità che si rispecchia in ciascuna di esse.

[15]  F. Suárez, op. cit., 6.7.

[16]  Cfr. R. Ferrante, Codificazione e cultura giuridica, Torino 2008 (2.a ed.), pagg. 221-8, anche per riferimenti bibliografici di diritto romano e comune.

[17]  P. Fedele, op. cit., pag. 152; cfr. ivi anche la nt. 17, che richiama l'opposta lettura del pensiero di Giovanni d'Andrea erroneamente offerta in O. Giacchi, Precedenti canonistici del principio “Nullum crimen sine praevia lege poenali”, in Studi in onore di Francesco Scaduto, vol. I, Firenze 1936, pagg. 435 sgg.

[18]  F.X. Wernz – P. Vidal, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, Vol. I, Roma 1928, pag. 213, adducono gli esempi della proibizione di leggere determinati libri e dell'obbligo delle pubblicazioni in vista del Matrimonio. In entrambi i casi, aggiungerei, era bensì possibile che l'obbligo cessasse, ma occorreva un provvedimento espresso.

[19]  F. Suárez, op. cit., 5.24.5, a proposito della legge che, appunto per ragioni precauzionali, vieta atti che di per sé non sono simoniaci e li assimila a questi ultimi: “illa lex non fundatur in praesumptione facti sed in certa scientia periculi et in generali ratione vitandi pericula”.

[20]  Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal, op. loc. cit.: “Nam periculum commune non arceretur nisi lex omnes afficeret, cum unusquisque facile sibi persuadere posset pro se periculum non exsistere. Quod si in casu particulari finis legis cessaret contrarie, pro non habente periculum lex non urgeret, atque ita homo doctus et probus carens debita licentia legendi librum prohibitum nec facile habens recursum ad Ordinarium pro illa licentia obtinenda, posset illum legere ad confutandum prompte et utiliter haereticum in paroecia gravia mala inducentem sua perversa doctrina”. Lo stesso esempio ritorna a pag. 250, nt. 235, a proposito della cessazione della legge.

[21]  Cfr. F. Suárez, op. cit., 3.23.2: “Et ratio est clara, quia nemo potest obligari ad peccatum committendum, sed illud potius vitare tenetur, non obstante quocumque praecepto, et praesumptione humana, quia potentior est lex veritatis naturalis, aut divina, quae tunc obligat ad vitandum talem actum, ut in simili Augustinus tradit, et habetur in cap. Veritate, dist. 8” (= S. Agostino, De Baprismo contra Donatistas, III 6, accolto nel Decretum come Dist. VIII, c. 4, Veritate). Nel prosieguo, peraltro, il Dottore Esimio critica in particolare il Panormitano e Felino Sandeo, perché ritengono che la legge cessi nel caso particolare anche quando si potrebbe osservare senza peccato; e qui sta parlando di tutte le leggi, ma estende il ragionamento a quelle dettate a tutela da un pericolo generale nei successivi §§3 e 4, ricorrendo all'argumentum a pari: “quia leges humanae attendunt ea, quae frequentius accidunt, et id satis est, ut generaliter obligent.”.

[22]  Cfr. Paolo VI, Allocuzione alla Rota Romana, 8 febbraio 1973: “Il codice attuale ha fatto proprie le esigenze di misericordia e di umanità in vista di una giustizia più dolce, più comprensiva. Parla di aequitas naturalis, di aequitas canonica, richiamandosi al principio ultimo, a cui si farà appello, il diritto naturale o il diritto canonico. Precisa poi la portata dell’aequitas e la funzione che le spetta: questa consiste in una giustizia superiore in vista di un fine spirituale; addolcisce il rigore del diritto, e talvolta aggrava anche certe pene; in ogni caso si distingue dal puro diritto positivo, allorché questo non può tener conto delle circostanze. […] Il giudice terrà conto, grazie all’aequitas canonica, di tutto ciò che la carità suggerisce e consente per evitare il rigore del diritto, la rigidità della sua espressione tecnica; eviterà che la lettera uccida per animare i suoi interventi con la carità che è dono dello Spirito che libera e che vivifica; terrà conto della persona umana, delle esigenze della situazione che, se impongono talvolta al giudice il dovere di applicare la legge più severamente, ordinariamente portano ad esercitare il diritto in maniera più umana, più comprensiva

[23]  Esso è scomparso dallo Schema del 1980 e, alla richiesta di reintrodurlo, la Commissione ha risposto: “Canon Schematis praecedentis suppressus fuit quia superfluus: continet principium potius ordinis moralis. Iuridice, lex obligat dum viget, nisi legitima dispensano obtineatur. Substantia canonis suppressi semper valet, sed non necessario in lege exprimenda. Cetero, contrarium nullibi in Schemate dicitur.”. Cfr. Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, Relatio complectens synthesim animadversionum ab Em.mis atque Exc.mis Patribus Commissionis ad novissimum Schema Codicis Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a Secretaria et consultoribus datis, Roma 1981, pag. 25.

[24]  Curiosamente non discussa da P. Fedele, op. cit., pagg. 151-2, che ragiona invece come se restassero senz'altro valide le conclusioni della canonistica classica in tema di analogia in malam partem ed interpretazione estensiva della norma incriminatrice.

[25]  Mantenuto nonostante le obiezioni di almeno due membri della Commissione: cfr. Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, op. cit., pag. 305 (nello Schema del 1980, si trattava del can. 1351).

[26]  Si aggiunga che, per effetto del combinato disposto con il can. 1321, si richiede il dolo: cfr. Tribunale della Rota Romana, Decreto definitivo 16 febbraio 1993, c. Ragni, in Ius Ecclesiae 6 (1994), pagg. 217-34, punto 13.

[27]  Queste caratteristiche si riscontrano appieno nell'unico caso di effettiva applicazione che mi sia noto, Tribunale della Rota Romana, Sentenza definitiva 6 luglio 2004, c. Huber, in Rotae Romanae Decisiones seu sententiae selectae, vol. XCI, pagg. 475-4, e in Ius Canonicum 54 (2014), pagg. 726-40, con nota: in un contesto in cui i delitti tipici erano tutti prescritti o non pienamente provati, si è punita la condotta di frequentazione di locali gay in cerca di sesso anonimo, e ciò sebbene l'anonimato fosse in effetti stato mantenuto, con la privazione di ogni potestà, ufficio o facoltà, tranne la celebrazione privata della Messa se consentita dal Vescovo. Va peraltro notato che la predetta decisione recepisce altresì la conclusione dottrinale secondo cui, per questa via, non si possono irrogare le pene più gravi, come la dimissione dallo stato clericale (cfr. ivi, punto 7), e che, malgrado lo scopo perseguito dalla norma, l'azione criminale ex can. 1399 soggiace comunque alla normale prescrizione di tre anni: cfr., da ultimo e anche per riferimenti ulteriori, Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, ricorso prot. n. 52545/17 CA, Decreto del Segretario 18 marzo 2017, in Ius Ecclesiae 31 (2019), pagg. 614-6, e Decreto del Congresso 15 settembre 2017, Ibid., pagg. 617-9. Anche per questo, non è possibile usare il can. 1399 per punire delitti tipici ormai prescritti, tanto più che, se lo scandalo permane, si possono adottare provvedimenti amministrativi e anche precetti penali: cfr.  Tribunale della Rota Romana, Decreto definitivo 16 febbraio 1993, c. Ragni, loc. cit.

[28]  Sulla differenza tra l'approccio canonico al problema e quello degli ordinamenti secolari, cfr. G.M. Colombo, Sapiens aequitas. L'equità nella riflessione canonistica tra i due Codici, Roma 2003, pag. 379.

[29]  “Non vi è alcuna vera ragione per la quale un atto socialmente dannoso non espressamente previsto dalla legge penale non possa essere punito. […] L'idea semplice e decisiva è che se ci si fida del giudice per formare il comando penale quanto alla sanzione, ”. F. Carnelutti, L'equità nel diritto penale, in Riv. Dir. Proc. Civ. 1935, I, pagg. 105-21, qui 116.

[30]  Sul tema, in termini tuttavia un po' diversi, cfr. V. Frosini, Equità (nozione), cit., pagg. 76-8, che nota anche l'esistenza di circostanze aggravanti generiche in numerose leggi speciali.

[31]  Nella mia esperienza non ho mai visto traccia di un uso delle misure di sicurezza o di prevenzione per colmare le lacune del sistema sanzionatorio, ma in un certo senso la loro stessa esistenza testimonia che quelle lacune esistono.

[32]  Così P. Fedele, Equità canonica, cit., pagg. 150-1.

[33]  E non si può neppure intendere che l'avverbio “semper” implicasse una sistematica rinuncia a punire, perché altrimenti la direttiva sarebbe stata formulata in altri termini, ad es. “Dove ci sono leggi scritte, applicale; dove non ci sono, ammonisci ad evitare anche ciò che gli uomini non puniscono nel secolo presente, ma punisce Iddio in quello futuro, e con fiamma inestinguibile”.

[34]  Cfr. M.S. Zaki, op. cit., pag. 93.

[35]  Si pensi solo all'antinomia, altrimenti irrisolvibile, tra due Regulae Juris in VI consecutive, la n. 43 e la n. 44: “Qui tacet consentire videtur” vs. “Is qui tacet non fatetur, sed nec utique negare videtur”. La prima va riferita a quei casi in cui il risultato dell'operazione che si vuole compiere – e che richiede l'assenso di qualcuno – è favorito dall'ordinamento.

[36]  In tema, cfr. da ultimo A. Pozzobon, Le regulae juris e la ricostruzione del diritto per principi: il paradigma canonistico del Tractatus de regulis juris (1733) di A. Reiffenstuel, Università degli Studi di Padova, tesi di dottorato  (2013), che presenta anche un'edizione del classico Tractatus.

[37]  Considerazioni più ampie, ma in parte diverse, svolge Sal. Romano, Equità (dir. priv.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano 1966, pagg. 83-106.

[38]  Cit. in M.S. Zaki, op. cit., pag. 91 (il testo di Rodotà data al 1975 e risente quindi di una temperie culturale ben precisa, ma non è privo di attualità ove si consideri il tenore delle critiche odierne all'ordine giuridico dell'Unione Europea).

[39]  Cfr., però, la cautela di N. Luisi, Brevi considerazioni sull'origine romanistica della struttura negoziale del trust, in Studi urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche 66 (2015), pagg. 51-131, qui 52, che senza ripudiare affatto la tesi espressa nel testo avverte: “La scarsità e l’incompletezza delle testimonianze non hanno sinora consentito di rintracciare con certezza le radici dell’istituto, per cui attualmente è possibile formulare solo delle mere ipotesi.”.

[40]  Non è dunque per caso, ma per scelta deliberata che gli estensori del can. 20 non hanno precisato da quale ius debbano trarsi i princìpi: cfr. F.X. Wernz – P. Vidal, op. vol. cit., pag. 243, che distinguono perché “analogia iuris ex solis principiis canonicis petenda est, si agatur de materia stricte ecclesiastica; at etiam ex aliis generalibus et communibus iuris principiis peti potest in materiis communibus, praesertim vero ex principiis generalibus iuris Romani, quae hactenus fuerunt quasi commune omnium gentium iuridicum patrimonium, ex quo plurima omni tempore hausit ius ecclesiasticum.”. E in questo senso giungono ad identificare espressamente princìpi generali e regulae iuris, cfr. ibid., nt. 216, e pagg. 244-5. Analogamente A. Blat, Commentarium textus Codicis Iuris Canonici, vol. I, Roma 1921, pagg. 104-5.

[41]  Cfr. M.S. Zaki, op. cit., pag. 97: “En outre, c'est l'équité qui peut trancher un conflit entre deux principes généraux, en faisant par exemple triompher le rebus sic stantibus sur le pacta sunt servanda. Les principes généraux sont de hautes abstractions alors que l'équité- et là réside la différence essentielle entre les deux notions- rayonne dans les décisions les plus concrètes”.

[42]  Contra, P. Fedele, op. cit., pagg. 156-8, che ritiene invece che la Ex parte ne sia fonte a tutti gli effetti; ma in ciò egli appare condizionato dalla sua peculiare lettura (rimasta senza seguito) che fa dei generalia iuris principia un richiamo al ius naturale.

[43]  Lo direi anche delle leges latae in similibus, ma negarne l'applicabilità per ragioni di aequitas significa negare la stessa similitudo, sconfessandola come soltanto apparente. Resta comunque vero che tra i criteri enumerati al can. 19 non esiste né va istituito un ordine gerarchico: “Questi devono, viceversa, armonizzarsi e, in ogni caso, completarsi a vicenda”; “E’,comunque sia, abbastanza pacifica l’opinione che l’influsso proprio dell’equità canonica debba investire tutti gli strumenti del c.d. diritto suppletorio e non solo i princìpi”. S. Berlingò, Suppletio legis, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, n. 9/2009, pag. 7 e pag. 11; cfr. anche Id., Generalia iuris principia (c. 19), in  Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, n. 4/2009.

[44]  La controversia tra spirito e lettera della legge, tra interpretazione letterale o secondo l'intenzione (scriptum et voluntas), prese anche il nome di scriptum et aequitas. Cfr., fra i tanti esempi possibili, Cicerone, De oratore I 244: “In hoc genere pueri apud magistros exercentur omnes, cum in eius modi causis alios scriptum alios aequitatem defendere docentur.”.

[45]  V. Frosini, Equità (nozione), cit., pagg. 71-2.

[46]  Questa è la tesi centrale di A. Nasi, Equità (giudizio di), in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano 1966, pagg. 107-47.

[47]  Così M.S. Zaki, op. cit., pagg. 100-1, che confuta espressamente Nasi.

[48]  Cfr. A. Nasi, op. cit., spec. pagg. 124-31.

[49]  Non è un caso che l'etica della situazione sia stata condannata da Suprema S. Congregazione del S. Uffizio, Istruzione Contra doctrinam, 2 febbraio 1956, in AAS 48 (1956) 144-8, e da Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Veritatis splendor circa alcune questioni fondamentali dell'insegnamento morale della Chiesa, 6 agosto 1993, in AAS 85 (1993) 1159-1223, spec. nn. 59-64. Così come non è un caso che documenti del genere siano apparsi negli Acta Apostolicae Sedis, proprio come le leggi.

[50]  V. Del Giudice, Istituzioni di diritto canonico, Milano 1936, pag. 79.

[51]  In precedenza, essa istruiva la pratica e la sottoponeva al Papa per la decisione, come può tuttora avvenire per le grazie riservate a Lui personalmente, tra cui la rimessione in termini per proporre il ricorso contenzioso-amministrativo alla stessa Segnatura.

[52]  La ratio è il favor veritatis, ma sarei propenso a ritenere ammessa anche la prova presuntiva quando, come avviene in diritto italiano, la si considera vietata negli stessi casi in cui lo è quella per testi.

[53]  Esistono anche, soprattutto negli Stati Uniti, prassi diffuse contra legem processus, ma appunto perché diffuse non si possono considerare sintomi di equità, casomai tentativi di modifica della legge in via consuetudinaria.

[54]  Cfr. G.P. Montini, La prassi delle dispense da leggi processuali del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (art. 124. n. 2, 2a parte, Cost. Ap. Pastor Bonus), in Periodica 94 (2005), pagg. 43-117; P. Malecha, Commissioni pontificie e proroghe di competenza nelle cause di nullità del matrimonio alla luce della recente giurisprudenza del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, in Ius Ecclesiae 23 (2011), pagg. 205-28; Id., Le dispense dalle leggi processuali alla luce di recenti documenti della Segnatura Apostolica. Alcune considerazioni pratiche, in Ius Ecclesiae 25/1 (2013) 239-260.

[55]  Che sono di due tipi: cc.dd. “proroghe” di competenza, in favore di Tribunali che altrimenti incorrerebbero in incompetenza relativa; commissioni pontificie, se ci sarebbe quella assoluta (“La risposta, nonostante sembri essere comunemente sconosciuta, non è particolarmente difficile”: P. Malecha, Commissioni pontificie..., pag. 223). “Come ognuno vede, la dispensa ivi è solo un momento di un procedimento più complesso”. G.P. Montini, La prassi..., pag. 54. Almeno degli anni recenti, condizione necessaria per la deroga alla competenza della Rota sembrerebbe che la divergenza tra le due sentenze locali si debba solo a questioni di fatto, non a diverse valutazioni in diritto, giacché compito proprio della Rota è assicurare l'unità della giurisprudenza: cfr. i decreti editi in P. Malecha, Commissioni pontificie...

[56]  Innovazione del Codice volta a rimediare ad una scarsa preparazione ritenuta un po' troppo diffusa, ma spesso difficile ad applicarsi per la scarsità di risorse umane disponibili. Qui la prassi – che riguarda anche le Chiese Orientali, nonostante un dubbio originato dalla diversa formulazione del can. 1537 CCEO: cfr. G.P. Montini, La prassi..., pagg. 66-9; P. Malecha, Le dispense..., pagg. 251-2 - prevede una dispensa temporanea, che può arrivare ad quinquennium, se si comprova la difficoltà di completare gli organici con personale in possesso dei requisiti; durante questo frattempo il dispensato dovrebbe intraprendere il percorso di studi e la proroga della dispensa viene subordinata fin dall'inizio alla prova dei progressi in tale percorso. Inoltre, la Segnatura cerca di controllare l'operato successivo dei soggetti richiedendo invii “a campione” dei loro atti e, qualora riscontri irregolarità gravi o ripetute, può anche revocare la dispensa. Ciò in quanto essa non è concessa per il bene personale del destinatario, ma per l'ordinato esercizio del ministero, tant'è vero che egli non può chiedere il provvedimento - “Solo a chi spetta la nomina spetta la richiesta di dispensa” (G.P. Montini, La prassi..., pag. 71) – e il medesimo è legato allo svolgimento del tale ufficio nell'ambito del tal Tribunale (pag. 74), a volte con restrizioni anche pesanti, come l'esclusione, per i giudici, dalle funzioni di preside o di ponente (cfr. P. Malecha, Le dispense..., pagg. 255-6).

[57]  Interessanti, però, due casi (prott. 30956/00 CP e 32363/01 VT) in cui la dispensa è stata accordata a fronte di errori giudiziari nella conduzione del processo che comportavano la nullità delle sentenze già rese: cfr. G.P. Montini, La prassi..., pagg. 104-5 e 108-9. Inoltre, P. Malecha, Le dispense..., pag. 258, annota un caso in cui l'effetto acceleratorio è stato conseguito mediante dispensa dal can. 1614, come dire concessione dell'efficacia esecutiva al solo dispositivo della sentenza, in attesa della pubblicazione del testo integrale (o della sua notifica, che a volte tarda per negligenza del Tribunale).

[58]  G.P. Montini, La prassi..., pag. 80. Analoghe richieste hanno interessato la pubblicazione degli atti, altro adempimento giudicato essenziale per il diritto di difesa.

[59]  Altra cosa è riconoscere l'impossibilità materiale o morale di provvedere all'incombenza, come nel caso delle facoltà straordinarie concesse al Decano della Rota a partire dal Giubileo del 1950, ma non più rinnovate dopo le Norme speciali del 1994, di omettere la citazione se la parte convenuta, già a conoscenza del processo, vive “in un territorio difficilmente accessibile per ragioni politiche”: v. la concessione del 15 febbraio 1952 in X. Ochoa (cur.), Leges Ecclesiae post Codicem Iuris Canonici editae, vol. II, Roma 1969, col. 3092 e la successiva conferma di Paolo VI il 5 luglio 1963 in Id, op. cit., vol. IV, Roma 1974, col. 5558.

[60]  L'ipotesi viene ammessa, però, quando la violenza sia collegata con un'incapacità di intendere e di volere o almeno con un difetto di discrezione di giudizio tale da ledere la stessa capacità di partecipare al processo: cfr. G.P. Montini, La prassi..., pag. 88.

[61]  Si è più larghi rispetto alla richiesta di proroga di competenza, dove si concede la possibilità di non sentire la parte acattolica che viva in Paesi orientali dove l'esercizio della giurisdizione matrimoniale cattolica sui matrimoni contratti in altra confessione dà luogo regolarmente a reazioni ostili: cfr. P. Malecha, Commissioni pontificie..., pagg. 226-7. Tuttavia, la citazione dovrà avvenire egualmente e a quel punto la parte convenuta potrà muovere le proprie eccezioni pure contro la proroga; inoltre, dovrà esserle assicurato un effettivo accesso anche fisico agli atti.

[62]  Cfr., su tutto l'argomento, J. Llobell, Historia de la motivacion de la sentencia canonica, Zaragoza 1985.

[63]  Mi distinguo, quindi, da M.S. Zaki, op. cit., pag. 109, secondo cui “l'équité est une démonstration par la preuve intrinsèque, une solution a posteriori tirée de la nature des choses, solution qui n'est pas susceptible d'être infirmée, falsifiée, renversée par la preuve contraire.”. La prova intrinseca, nel senso di fatti o atti “che parlano da soli”, può indubbiamente fondare un giudizio di aequitas praeter o contra legem anche in ambito canonico, ma la definizione non coprirebbe che un ambito troppo ristretto di casi e, oltretutto, rischierebbe di crear confusione con le leggi ingiuste, da disapplicarsi in via generale, perché contrarie al diritto naturale.

[64]  Un discorso specificamente canonico su questo tema dovrebbe, in effetti, passare attraverso la disamina dell'elaborazione della teologia morale sul concetto di restitutio; ma non si può neppur pensare di svolgerlo in questa sede.

[65]  Cfr. il sito https://www.iuscangreg.it/stsa_contadmin.php, che ad oggi indicizza come riferita al can. 19 una decisione soltanto, quella nel caso prot. n. 20012/88 CA, Iurium (soppressione dell'associazione “L'Armée de Marie”), ove peraltro si trattava di discutere i limiti entro cui l'aequitas impone di motivare le decisioni, assicurare il contraddittorio nel procedimento etc.

[66]  Cann. 53 e 67: “aeque peculiaria aut generalia”; can. 1135: “Utrique coniugi ius et officium est...”; can. 1415: “duo vel plura tribunalia aeque competentia

[67]  Non è, peraltro, inutile osservare che “alcune Norme direttive della Congr. per il Clero del 25.III.1980, AAS 72 (1980) 343-364, hanno stabilito che, affinché detta convenzione abbia valore normativo, deve essere accettata e firmata dal sacerdote interessato.”. T. Rincón, Commenti ai cc. 232-293, qui ad can. 271, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e leggi complementari commentato, Roma 2020, pag. 232.

[68]  Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto del Segretario 18 dicembre 2012 (prot. n. 47312/12 CA - Revocationis facultatum), Rev. N / Congregazione per il Clero, in The Jurist 76 (2016), pagg. 76-9, con testo inglese a fronte. In quel caso, la giusta causa consisteva in una communicatio in sacris vietata (partecipazione attiva, con tanto di imposizione delle mani, al conferimento di un ministero protestante) e avrebbe giustificato anche l'apertura di un processo penale trattandosi di un delitto; il decreto si preoccupa di chiarire che il recesso in tronco – potremmo dire – dalla conventio con revoca immediata delle facoltà accordate dall'Ordinario ospitante, oltre ad essere riconducibile al can. 271 §3, opera su un piano diverso e, senza escludere che un giudizio penale venga aperto, non soggiace alla relativa disciplina. Quanto poi all'aequitas naturalis, nota “quod Rev.dus Recurrens de facto solummodo aliquot menses post decretum Exc.mi Episcopi Auxiliaris salarium amisit”: l'esigenza considerata pare, dunque, la stessa del can. 702 (v. infra nel testo).

[69]  Così, sotto il precedente Codice, Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto del Congresso 6 luglio 1971 (prot. n. 209/70 CA – Pensionis), Sor. X / Congregazione per i Religiosi, in Apollinaris 44 (1971), pagg. 625-7.

[70]  Però, nell'assunzione dei provvedimenti ex can. 702, si deve aver riguardo alle concrete condizioni di salute del religioso malato di Alzheimer e dimesso dall'Istituto ad un certo punto dell'evoluzione della malattia: così l'interessante Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto definitivo 22 novembre 2008 (prot. n. 39225/06 CA – Dimissionis), c. Versaldi, Rev. N. / Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, purtroppo noto soltanto in massima.

[71]  Si tratta di norma antica: il corrispondente can. 1925 CIC 1917 recensisce tra i fontes Onorio III, Ex parte tua (X.1.36.11), da cui la dottrina di diritto comune ha desunto, per altro verso, la funzione suppletiva dell'equità in mancanza di legge scritta (cfr. supra nel testo, §2.3).

[72]  Una disciplina del genere potrebbe essere reintrodotta, in verità, per legge particolare ai sensi del can. 1713; ma è significativo che nulla dispongano le Norme speciali in vigore per i processi davanti alla Rota.

[73]  Non a caso, dunque, ricercarla è opportuno soprattutto quando sia chiesta la revoca dell'atto contestato (verosimilmente sul presupposto di un vizio invalidante che davvero sussista), perché la revoca sarebbe solo una soluzione formalista che lascerebbe intatto il problema