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La legge canonica. Preamboli

Lecce
Ph. Antonio Capodieci / Lecce

Indice:

1. “Avete inteso che fu detto agli antichi... ma io vi dico...”: Legge antica e Legge nuova

2. Tra lex aeterna e ipsa res iusta: la teologia del diritto di S. Tommaso d'Aquino

2.1 Considerazioni introduttive

2.2 Analisi della definizione di lex. In particolare: fine ultimo e bene comune

2.3 Comunità “non statali” con un loro bonum commune

2.4 La lex come atto della prudenza, tra promulgatio, generalità ed equità

2.5 La lex aeterna; 2.6 La lex naturalis

2.7 La lex humana

2.7.1 Caratteristiche

2.7.2 Mutamento e cessazione

2.7.3 Il problema della “derivazione” dal diritto naturale

2.8 La lex divina

2.8.1 Premessa

2.8.2 La Legge antica

2.8.3 Legge nuova, Vangelo e grazia

2.9 Ipsa res iusta. La collocazione del ius nel pensiero di Tommaso

 

Dopo aver trattato della tradizione e della consuetudine, adesso la rubrica arriva all'altro pilastro del sistema delle fonti: la legge canonica.

In un certo senso, però, non esiste “la” legge canonica.

Piuttosto, vi è una nozione molto ampia di “legge”, che quasi corrisponde al fenomeno giuridico in sé e si adatta a diversi tipi di fonte, incluso il diritto divino; come pure ve n'è una più circoscritta, che individua la legge canonica umana distinguendola da altre fonti di diritto umano. In più, anche questa seconda accezione non può essere omologata alla realtà a noi più familiare, per diverse ragioni.

In effetti, a mio parere non si possono comprendere appieno accezioni, echi e virtualità del termine lex, o degli omologhi moderni, in ambito canonico se non si considerano almeno:

  1. le origini del Cristianesimo e il problema del rapporto con l'Antico Testamento;
  2. la riflessione di S. Tommaso d'Aquino su lex e ius;
  3. la teoria giuridica di Suárez e i successivi interscambi con la scienza giuridica secolare.

In questa sede, però, saranno trattati soltanto i primi due di tali preamboli: il terzo, per la sua stretta contiguità con il CIC17, farà corpo unico con la disamina dei pertinenti canoni di quest'ultimo.

 

1. “Avete inteso che fu detto agli antichi... ma io vi dico...”: Legge antica e Legge nuova

Non rientra nelle mie possibilità, prima ancora che nelle mie ambizioni, trattare della storia dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo, tema forse tra i più controversi in assoluto; mi limito a registrare e riferire le conclusioni che, dopo un periodo più o meno lungo di incertezze e dibattiti, sono state fissate negli scritti del Nuovo Testamento, così diventando un ubi consistam tanto per il teologo quanto per il canonista.

Al tempo di Gesù, il popolo di Israele, se prescindiamo dalla sua soggezione ai Romani, vedeva la coesistenza di almeno tre fonti normative: la Torah o Pentateuco, ossia i primi cinque libri della Bibbia, in particolare Esodo, Levitico e Deuteronomio; la tradizione sviluppata dalle scuole rabbiniche; le norme promulgate da questo o quel monarca della tetrarchia in cui era divisa la Terra Santa, o dai loro predecessori. L'istituzione monarchica stessa, per la verità, se da un lato è prefigurata in Dt 17,14-20, dall'altro non è vista di buon occhio nel momento della sua concreta istituzione (1Sm 8): l'Antico Testamento delinea almeno due alternative, la consultazione diretta di Dio tramite il Sommo Sacerdote, che gettava la sorte con i due misteriosi strumenti noti come Urim e Tummim, ottenendo così una risposta positiva o negativa alla domanda posta (Es 28,30; Lv 8,8; Nm 27,21; 1Sm 14,41), oppure la designazione diretta, sempre da parte di Dio, di un capo chiamato a guidare il popolo in un momento di grande necessità (cfr. tutto il libro dei Giudici; ma tali si possono considerare anche Mosè e Giosuè). E sempre da Dio vengono i Profeti, che per tutta la storia veterotestamentaria appaiono regolarmente a richiamare il popolo e i potenti, siano re o sacerdoti, all'osservanza della Legge, ossia della Torah. Tutta la storia del popolo ebraico, com'è descritta nella Bibbia, è una storia di fedeltà o  infedeltà alla Legge, di perdono e di castigo; questo dovere di fedeltà è la stessa ragion d'essere del Popolo Eletto in quanto tale, venirvi meno comporta la rovina politica ed economica, lo sfacelo della società, la discordia generale; non si tratta semplicemente di diritto divino inderogabile, ma dell'unico fondamento possibile per una convivenza tra gli uomini che sia giusta perché rispettosa dell'ordine stabilito da Dio.

Rispetto a questo stato di cose – ulteriormente complicato dall'esistenza di svariate sette ebraiche contrapposte, con opinioni anche molto diverse su quanto fosse legittimo l'ordinamento in vigore – la predicazione di Gesù, quale emerge dai Vangeli, in sostanza si disinteressa della monarchia ebraica e, pur rivendicando la regalità che viene da Davide (Mt 22,41-44; Mc 12,35-37; Lc 20,41-44), nel famoso “Date a Cesare...” vuole la sottomissione all'autorità romana. Molto netta, invece, è la polemica contro la tradizione rabbinica, accusata a più riprese di alterare o pervertire la Legge; ma Gesù rivendica anche l'autorità di cambiare la Legge stessa, in nome di un suo “compimento” (Mt 5,17-20; Gv 18,33-37). “Avete inteso che fu detto agli antichi... ma io vi dico...” (Mt 5,21-22; 27-28; 33-34; 38-39; 43-44): l'impersonale, c.d. “passivo teologico”, cela in realtà l'impronunciabile Nome di Dio; contrapporgli un “io vi dico” significa, nientemeno, rivendicare la stessa autorità di Dio e anche contrapporre a quell'ineffabilità un Nome che invece può essere pronunciato (cfr. At 4,12). Invero, il Discorso della Montagna si può intendere con facilità nel senso di un completamento della Legge, un'aggiunta che porta verso una giustizia più alta; e Gesù, considerato dalla folla che lo segue come un profeta, ne assume anche il ruolo di richiamo ad un'osservanza della Legge che sia anzitutto interiore (Mt 23,13-32; Mc 12,28-34; Lc 6,6-11; 11,37-43). Tuttavia, affermazioni come “il Figlio dell'Uomo è padrone anche del sabato” (Mt 12,8; Mc 2,28; Lc 6,5), o la svalutazione della purità legale, sub specie del divieto di mangiare cibi proibiti (Mt 15,10-20; Mc 7,14-23), per non parlare della vera e propria sconfessione della legittimità del ripudio, sancita da Mosè (Mt 19,3-8; Mc 10,1-12; Lc 16,18), implicano o compiono un aperto mutamento della Legge. Come dire del rapporto con Dio, visto che innanzitutto ad esso è ordinata la Torah; e l'accusa di “farsi Dio” che viene rivolta a Gesù (Gv 10,33; cfr. anche 5,18; 8,57-9; 19,7) riguarda, ancor più che il cambiamento della Legge, la pretesa di mettere al centro di tutto il rapporto dell'uomo con Lui stesso (cfr. Mt 10,32-41; 23,8-10; Lc 6,46-49; 9,23-7; 12,8-12; Gv 4,13-24; 5,30-47; 6,32-40; 7,37-8; 10,6-18; 12,23-26, 44-50; 14,9-11; 15,1-17).

La prima generazione cristiana si è trovata, perciò, dinanzi al compito non facile di definire il proprio rapporto rispetto a tutto ciò che era venuto “prima”, specialmente in ragione dell'apertura ai convertiti provenienti dal paganesimo (At 10,1-11,18).

Il Nuovo Testamento ha fissato, in proposito, alcuni punti fermi:

  • ebrei e pagani sono chiamati a formare un solo popolo, che però è nuovo, né ebreo né pagano (Gal 3,23-29; 1Pt 2,4-10);
  • le varie autorità politiche sono legittime e detengono il potere per volontà di Dio (Rm 13,1-7); non è da attendersi la restaurazione del regno di Israele (At 1,6), né il Regno di Dio deve assumere la forma di uno Stato concreto, foss'anche chiamato al dominio universale (Mt 13,31-34, 37-49; Lc 18,20-37);
  • se il Regno ha natura innanzitutto interiore (Lc 18,20; Mc 9,49-50; 12,28-34; Lc 6,43-45), esclude la logica del dominio (Mt 18,1-4; Mc 9,33-36; Lc 9,46-48, 51-56; Gv 18,36-37) e comporta un forte distacco da cure e beni terreni, tutta una sfera secolare tende a rendersi autonoma almeno nel senso di non essenziale e poco rilevante (Mt 6,25-34; 13,18-23; 19,16-26; 25,31-46; Mc 12,41-44; Lc 12,13-21; etc.);
  • potere politico e potere sacerdotale trovano entrambi un modello nella persona di Gesù Cristo, Re e Pontefice eterno (Eb 5,1-9), ma ciò consente la loro separazione, del resto già presente nell'AT con le due distinte dinastie di Davide e di Aronne; l'unificazione, verificatasi sotto gli Asmonei, non è rinnegata né esclusa a priori, ma neppure ritenuta strettamente necessaria;
  • i sacrifici di animali della Legge antica sono stati sostituiti dal Sacrificio della Croce, offerto una volta per tutte, e hanno perso valore, insieme con tutte le norme correlate sulla purità legale (Eb 7-10); non vi è più un sacerdozio ereditario, né un unico tempio visibile;
  • per il resto, all'interno della Torah si individua un nucleo di “cose necessarie” (At 15,28). che progressivamente, in sostanza, finisce per ridursi al Decalogo;
  • ciò comporta l'emersione e l'autoaffermazione di un'autorità capace di discernere, all'interno della Rivelazione, ciò che Dio ha voluto fissare per sempre e ciò che era destinato a valere solo per un tempo determinato, autorità che si legittima in tanta pretesa per il fatto di derivare da Cristo attraverso gli Apostoli (At 15);
  • a questa stessa autorità compete anche il potere di emanare norme ulteriori, che tuttavia non hanno la stessa forza delle divine (1Cor 7,10-16) e tengono conto anche della varietà delle condizioni soggettive, specialmente quanto al progresso nella fede (1Cor 8; 10; Gal 6,3); tuttavia, i giudizi concreti dell'autorità sul da farsi possono essere sbagliati e in tal caso va richiamata all'ordine (Gal 2,11-21);
  • anche per questo motivo, gli strali di Gesù contro la tradizione rabbinica rimangono sempre presenti come moniti contro il potenziale cattivo esercizio dell'autorità; in questo senso, si conserva anche il profeta, ora piuttosto il santo, come figura suscitata da Dio in un tempo di decadenza dei costumi per richiamare gli uomini alla retta via, anche e forse specialmente in reazione alle colpe delle autorità sacre o profane;
  • inoltre, nel NT vi è una decisa rivendicazione dell'esistenza di una pluralità di modi, condotte e stati di vita in cui è possibile servire il Signore, nonché della conseguente legittima libertà (1Cor 7; 12);
  • in pari tempo e con pari decisione, però, si proclama l'insufficienza della Legge a liberare l'uomo dal peccato (Rm 7), anzi l'impossibilità di osservarla integralmente (Gv 7,19; At 13,38-41; 15,10), tanto che la sua conoscenza diventa ragione di condanna più severa (Gal 3,10-13; Gc 2,10); viceversa, “'la lettera di Cristo', affidata alle cure degli Apostoli, è 'scritta con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei […] cuori' (2Cor 3,3)” (CCC 700), realizza le promesse dei profeti (Ger 31,33; Eb 8,8-10) e porta con sé la possibilità concreta di liberarsi del peccato, di diventare santi, mediante il dono di Dio chiamato “grazia” e la risposta collaborativa dell'uomo, che nelle epistole paoline prende il nome di “fede”.[1]

Così la nozione di “legge”, nella Chiesa, vive da sempre di una tensione dinamica tra interiorità ed esteriorità, perché il carattere obiettivo del precetto rimanda ad un “dover essere” che da solo esso non è in grado di assicurare, ma cui si può sperare di giungere; l'importanza degli atti interni e delle intenzioni, come pure il rilievo delle circostanze contingenti e delle condizioni personali, si compongono in un equilibrio delicato con il carattere generale delle norme umane e l'obbligatorietà semper et pro semper di quelle divine; le esigenze di riforma, quando sono vere, partono sempre dalla riforma di sé stessi, dal rinnovamento interiore, e solo dopo raggiungono la sfera esterna o l'ambito della normazione umana; e l'esercizio dell'autorità legislativa, se non può certo prescindere da un confronto continuo con la tradizione anteriore e la sua autorevolezza, in definitiva deve misurarsi con le peculiarità del caso concreto da un lato, dall'altro con la propria strumentalità a scopi soprannaturali che vincolano molto anche nella scelta dei mezzi e che, soprattutto, obbligano a confessare costantemente sia la necessità dell'ordinamento giuridico sia, e forse più ancora, la sua radicale insufficienza a conseguirli.

 

2. Tra lex aeterna e ipsa res iusta: la teologia del diritto di S. Tommaso d'Aquino

2.1 Considerazioni introduttive

Le definizioni di “legge” oggi usate dai canonisti si riducono sostanzialmente a due: quella di S. Tommaso e quella di Suárez. Ma se quest'ultimo, come vedremo, pensa proprio alla lex in senso tecnico-giuridico, il primo avverte l'esigenza di ridurre a sistema tutte le diverse accezioni che il termine conosce nelle fonti teologiche, in particolare nella Vulgata, e perciò non scrive una teoria generale, bensì una teologia[2] della legge e del diritto come realtà che muovono da Dio e a Lui (ri)conducono.[3]

Non è questa la sede per discutere in dettaglio la nota tesi di Michel Villey, secondo cui la teoria tommasiana della lex divergerebbe profondamente da quella dedicata allo jus, perché la prima riprenderebbe la concezione di “legge” propria della Torah mentre la seconda deriverebbe da Aristotele, con la sua ricerca della giustizia del caso concreto (dikaion).[4] Sta di fatto, comunque, che esse compaiono addirittura in due parti diverse della Summa Theologiae, perché il c.d. Tractatus de lege rientra nello studio degli atti umani (I-II, qq. 90-108) e si trova incastonato, per così dire, tra quello sul peccato e quello sulla grazia, mentre la Quaestio de iure (II-II, qu. 57) corrisponde all'oggetto di una specifica virtù cardinale, la giustizia, la cui trattazione si estende fino alla qu. 122. Mi sembra dunque opportuno mantenere questa separazione e procedere secondo l'ordine voluto dall'autore.

Anche il lettore più distratto è costretto ad accorgersi che il Tractatus de lege ha un andamento discendente: da Dio verso le creature, dal generale universale eterno al particolare mutevole contingente. E tuttavia, Tommaso in realtà comincia dal basso, dall'uomo, ai cui atti morali si sta dedicando: “A questo punto, bisogna soffermarsi sui princìpi degli atti che sono esterni all'uomo. Ora, il principio esterno che inclina al male è il diavolo, della cui tentazione si è parlato nella Prima Parte. Invece, il principio esterno che muove al bene è Dio, il quale e ci istruisce mediante la legge, e ci aiuta mediante la grazia. Pertanto bisogna parlare prima della legge, poi della grazia.”.[5] La qu. 90 presenta dapprima (a. 1) una nozione provvisoria di lex come “quaedam regula et mensura actuum, secundum quam inducitur aliquis ad agendum, vel ab agendo retrahitur”,[6] di cui si serve per affermare che essa rientra nell'ambito della ragione, non della volontà, perché questa le conferisce bensì la capacità di muovere al bene, ma deve essere prima istruita dalla ragione circa il fine e i mezzi: si tratta di un'applicazione particolare della teoria di Tommaso sui rapporti tra intelletto e volontà, da cui già capiamo che la sua concezione di lex mette in primo piano l'ordine entro cui l'atto del legislatore si inserisce. Dopodiché, il seguito della quaestio enuclea le altre caratteristiche essenziali e mette capo alla definizione formale: “rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo, qui curam communitatis habet, promulgata” (a. 4, in c.).

 

2.2 Analisi della definizione di lex. In particolare: fine ultimo e bene comune

La lex è quindi, innanzitutto, una ordinatio, ossia non tanto un “ordine” nel senso imperativo – che chiamerebbe piuttosto in causa la volontà – quanto un “assetto” rivolto ad un determinato fine.[7] Questo fine, a sua volta costitutivo e necessario, è il bonum commune, ma il rapporto di strumentalità viene subito definito in termini che trascendono commune e communitas: “Come la ragione è il principio degli atti umani, così perfino all'interno della ragione stessa si trova un qualcosa che è il principio di tutti gli altri. Pertanto, bisogna che la lex riguardi principalmente e in sommo grado quest'elemento. - Ma nell'ambito operativo, in cui rientra la ragion pratica, il principio primo è il fine ultimo. Ora, il fine ultimo della vita umana è la felicità o beatitudine, come si è concluso sopra. Pertanto, bisogna che la lex riguardi in sommo grado l'ordine che è rivolto a conseguire la beatitudine. - Ancora, dal momento che qualsiasi parte è ordinata al tutto come l'imperfetto al perfetto; ora, il singolo uomo è parte di una communitas perfecta; è necessario che la lex riguardi propriamente l'ordine alla felicità comune.”.[8] 

Qui occorre forse chiarire che, per Tommaso, ogni azione, oltre ad un fine immediato, implica sempre anche un riferimento al fine ultimo di ciascun ente, che per tutti è Dio, ma che solo l'uomo può conseguire nella forma della beatitudine eterna in Paradiso.[9] Quindi, egli ci sta dicendo che la lex risponde, in definitiva e in sommo grado (maxime) allo scopo trascendente dell'uomo stesso, la visione di Dio nell'altra vita. Tuttavia, in questa vita, sebbene non sia possibile arrivare alla visione beatifica, si può godere di una qualche beatitudo imperfecta: e qui egli recupera le conclusioni di Aristotele sulla felicità dell'uomo, in sé evidentemente prive di questo riferimento soprannaturale, giustificando la maggior dignità della vita contemplativa sull'attiva proprio perché consente di moltiplicare vieppiù gli atti di aspirazione e di unione con Dio, unica possibile fonte di beatitudo imperfecta;[10]  tutto il resto ha valore in quanto consenta di dedicarsi più agevolmente a tale vita, elevi la mente a Dio o comunque aiuti a conseguire il fine ultimo.

In tutto ciò, ci si potrebbe legittimamente chiedere dove stiano gli altri uomini, quale sia il nesso tra il fine ultimo e l'esistenza dell'umano consorzio, per non parlare poi della necessità di una legge nel senso corrente del termine.

La risposta viene, a mio avviso, da un'indicazione molto precisa: alla beatitudo imperfecta è necessaria, tra le altre cose, la compagnia degli amici, non per una ricerca di vantaggio o diletto che sarebbero incompatibili con la condizione raggiunta dall'anima in parola, ma perché possa far loro del bene, essere da loro aiutata a compierne e gioire vedendo che anch'essi ne fanno (I-II, qu. 4, a. 8, in c.).[11] Questo è, in definitiva, ciò che dovrebbe essere ogni societas terrena, un insieme di persone impegnate a fare del bene e ad aiutarsi in tal senso.

La connessione non è resa esplicita nel testo in commento, che, come abbiamo visto, salta un po' bruscamente dal fine ultimo al singolo uomo visto quale “parte” di un “tutto”; compare però nella Summa contra Gentiles, che spiega come la Legge divina, oltreché al fine ultimo, ordini l'uomo all'amore del prossimo. Infatti, “Bisogna che vi sia comunione d'affetto tra coloro che hanno un unico fine comune. Ma gli uomini comunicano nell'unico fine ultimo della beatitudine, cui sono divinamente ordinati. Perciò bisogna che gli uomini siano uniti gli uni agli altri da un affetto reciproco.

Ancora. Chiunque ama qualcuno, viene per conseguenza che ami anche coloro che da lui sono amati e coloro che sono a lui uniti. Ma gli uomini sono amati da Dio, che a predisposto per loro come fine ultimo il godimento di Sé stesso. Bisogna pertanto che, come qualcuno sviluppa amore per Dio, così sviluppi amore per il prossimo.

Più ampiamente. L'uomo, essendo per natura un essere socievole, ha bisogno di essere aiutato dagli altri uomini a conseguire il proprio fine. Il che avviene nel modo più conveniente grazie all'amore reciproca che esiste tra gli uomini. Pertanto la legge di Dio, che ordina gli uomini al fine ultimo, ci prescrive l'amore reciproco.

Parimenti. Per dedicarsi alle cose di Dio, l'uomo ha bisogno di tranquillità e pace. Ma quanto può turbare la tranquillità e la pace si toglie di mezzo soprattutto mediante l'amore reciproco. Pertanto, dal momento che la legge divina ordina l'uomo proprio a dedicarsi alle cose di Dio, è necessario che dalla legge divina proceda l'amore reciproco tra gli uomini.

Inoltre. La legge divina è offerta all'uomo in aiuto alla legge naturale. Ma a tutti gli uomini è naturale amarsi reciprocamente. Ne è segno il fatto che, per un qualche istinto naturale, l'uomo soccorre qualsiasi uomo, anche sconosciuto, in caso di bisogno, per esempio correggendolo se sta sbagliando strada, rialzandolo dopo una caduta, e con altre azioni simili: proprio come se ogni uomo fosse per natura amico e familiare di ogni uomo. Pertanto, l'amore reciproco è comandato agli uomini dalla legge divina. ”.[12]

Qui S. Tommaso assume e fa propria tutta la teoria della socialità umana sviluppata da Aristotele nella Politica, in particolare la tesi secondo cui la vita in comunità non si deve soltanto alla necessità, o meglio all'impossibilità materiale, per l'individuo isolato, di procurarsi da solo tutto ciò che gli occorre per sopravvivere, a maggior ragione per vivere bene; si deve anche, e principalmente, al fatto che l'uomo trova piacere nella compagnia dei suoi simili, e non soltanto utilità; questo è il senso più profondo del suo essere animal sociale. La Rivelazione cristiana mette in luce le implicazioni di quest'istinto per il fine ultimo ed eterno; una volta chiarito il nesso, si comprende in automatico anche la necessità di una legge divina e di una divina autorità che facciano convergere tutti verso quell'unico e medesimo fine.

L'argomento della necessità della vita in comune, tuttavia, lungi dall'essere scartato, è il presupposto di un altro elemento della lex, ossia il soggetto passivo tipico, la communitas perfecta.[13] Occorre guardarsi dalla tentazione di tradurre “Stato”, perché in Aristotele, da cui l'Aquinate non si discosta, si tratta di una città e del contado circostante: questa realtà (la civitas, ovvero la città come unione di persone) basta all'uomo per avere “in misura sufficiente qualunque cosa gli sia necessaria per vivere” e perciò è detta communitas perfecta. Ma, sebbene nata in vista della sussistenza materiale, essa finisce per assicurare un'esistenza buona, nel senso che dalle sue leggi gli uomini sono resi virtuosi.[14]

Difficile sopravvalutare l'importanza di quest'ultima considerazione: tutto quel che si è detto finora circa il carattere strumentale della lex rispetto a fini che hanno un'indubbia dimensione morale e lo stesso suo inquadramento come “principio estrinseco” degli atti consapevoli e volontari confermano che questo è, per S. Tommaso, un punto fondamentale. Si tratta, in effetti, proprio del suo concetto di bonum commune: la vita virtuosa dei cittadini, o almeno la possibilità concreta di condurla per la maggior parte di loro.[15] Uomini particolarmente virtuosi possono bastare a sé stessi e vivere da eremiti; inversamente, vi sono malvagi che verranno espulsi da ogni umano consorzio;[16] ma in generale “l'uomo è ricondotto alla [virtù della] giustizia mediante l'ordine della civitas”;[17] invero, “Se gli uomini si riunissero in comunità soltanto per vivere, farebbero parte integrante della comunità della civitas anche gli animali e gli schiavi. Se per accumulare ricchezze, tutti i mercanti apparterrebbero contemporaneamente ad una sola città […] ma poiché l'uomo, vivendo secondo virtù, è ordinato ad un fine ulteriore, che consiste nel godimento di Dio (come abbiamo detto sopra), occorre che il fine della moltitudine umana sia lo stesso dell'uomo singolo. Quindi il fine ultimo della moltitudine riunita non è vivere secondo virtù, bensì pervenire al godimento di Dio mediante una vita virtuosa”. Ma il fine ultimo può essere raggiunto solo grazie a mezzi soprannaturali, quindi i re terreni sono strutturalmente inadatti a dirigere l'uomo verso di esso:[18] questo compito spetta ad un Re che è anche Dio; “quindi il servizio di questo regno, affinché le cose spirituali fossero distinte dalle terrene, non è stato affidato ai re terreni, ma ai sacerdoti, e specialmente al Sommo Sacerdote”, il Papa, “cui tutti i re del popolo cristiano[19] devono stare sottomessi come allo stesso Signore Gesù Cristo. Così, infatti, coloro ai quali spetta la cura dei fini antecedenti debbono sottomettersi a colui al quale spetta la cura del fine ultimo ed essere diretti dal suo comando”.[20]  

A questo punto, si capisce bene come mai manchi, in S. Tommaso, una trattazione specifica sul diritto canonico, sebbene le sue singole particolarità vengano notate all'occasione: uomo vissuto all'apogeo della Respublica Christiana, egli ha sempre presente la realtà – oggettiva e indubbia anche in termini politici – di un popolo che, al di là dei confini “statali” e delle differenze “nazionali”, ha coscienza di essere unito dalla comune volontà di essere innanzitutto cristiano. La sua trattazione di lex e ius è sostanzialmente unitaria e improntata al conseguimento del fine ultimo perché questa era la convinzione generale degli uomini del suo tempo; quindi il fattore unificante, almeno per il popolo cristiano, non può essere che la lex divina, come egli scrive – non per caso – nel commento alla Lettera agli Ebrei, specificando la definizione ciceroniano-agostiana di populus: infatti “'il popolo è l'aggregato di una moltitudine, fondato sul consenso circa il diritto e sulla comunanza di interessi'. Dunque, quando consentono nel riconoscere l'autorità della legge divina, in modo tale da essere utili gli uni agli altri e tendere verso Dio, allora si ha il popolo di Dio”.[21]

 

2.3 Comunità “non statali” con un loro bonum commune

La realtà politica del tempo di S. Tommaso era caratterizzata sia dalla tensione escatologica e salvifica connessa all'individuazione del Paradiso come fine ultimo anche dell'uomo associato ad altri, sia dalla coesistenza, a tratti rissosa, di una pluralità indeterminata di aggregazioni umane, dalle due entità universali – il Papato e l'Impero – giù fino ai liberi Comuni o al feudo microscopico, per non parlare delle corporazioni dei mercanti e delle giurisdizioni personali in genere. Sebbene si avvertisse la tensione tra questo stato di cose e l'ideale della monarchia cristiana universale, non vi era ancora quel giudizio di disvalore che consentirebbe di parlare di “particolarismo giuridico”:[22] soddisfatta l'esigenza di una legittimazione formale mediante il ricorso a interpretazioni “attualizzanti” di vari testi normativi di provenienza imperiale – dalla lexOmnes populi” (D.1.1.9) alla pace di Costanza[23] – i teorici del diritto, per non parlare dei pratici, si muovevano con tranquillità in una prospettiva che oggi definiremmo di “pluralità degli ordinamenti giuridici”.

In S. Tommaso non troviamo una teoria compiutamente elaborata al riguardo, ma piuttosto una serie di spunti che conferma la sua accettazione della realtà normale del tempo: innanzitutto, nell'ambito ecclesiale come in quello dei regni, egli sa bene che esistono comunità locali incluse in altre più ampie, ma applica comunque ad entrambe il nome di communitas, che implica pur sempre una qualche autonomia per le prime;[24] dall'elaborazione di Aristotele recepisce l'idea di una differenza essenziale tra la communitas del padre con il figlio, o del padrone con il servo, e la civitas, perché le prime due a rigore non tendono al bene comune e non fanno leggi,[25] pur essendo dotate di una certa potestà coercitiva;[26] la civitas, inoltre, è indispensabile all'esistenza delle altre comunità e viene prima nell'ordine delle cause, sebbene nella sua formazione concreta venga in essere come aggregato di famiglie e villaggi; ma questo processo aggregativo non dissolve l'identità dei componenti, piuttosto si inscrive in una gerarchia di beni perseguiti e in un progressivo allargamento del fine, in direzione del fine ultimo.[27]

Tutto questo ci dice, innanzitutto, che anche nei rapporti di diseguaglianza, come quelli tra servi e padroni, la nota caratteristica è la communitas, ciò che essi hanno in comune,[28] non già un rapporto di dominio o sfruttamento, tanto più che entrambe le parti vi trovano – e vi debbono trovare – un proprio vantaggio; non si può, tuttavia, parlare di un bene comune, ma piuttosto di due vantaggi correlativi. Quid, però, se si supera l'ambito domestico e si guarda a comunità più ampie, che però non rientrano nel concetto corrente di civitas, ad es. le stesse Università medioevali, o le corporazioni dei mercanti? Dato che civitas, in latino, è l'unione di persone, elemento predominante sull'aspetto territoriale, e che nella realtà contemporanea a Tommaso il termine non costituiva un sinonimo di “Regno” o di “Stato”,[29] realtà simili possono essere assimilate alla civitas nel senso della filosofia politica?

Non sembra che egli abbia mai affrontato ex professo il problema,[30] che d'altronde non gli veniva posto né dalle fonti né dalla realtà coeva, in cui la soluzione sostanzialmente affermativa era pacifica; i suoi commentatori odierni, invece, tendono a dare per scontata l'equivalenza “civitas = Stato”, quindi si può dire che non percepiscano nemmeno la possibilità di una diversa opzione interpretativa. Ma in realtà Tommaso, nella misura in cui mette in gioco il fine ultimo, chiama in causa una “comunanza” tra tutti gli uomini[31] e, quale communitas concreta strumentale a detto fine, la Chiesa sotto la guida del Papa: come dire che, nel passaggio dalle forme di aggregazione più ristrette ad altre più ampie, il termine ultimo per lui non è nulla di simile a ciò che oggi chiameremmo “Stato”, ma la Respublica Christiana. In definitiva, i rapporti tra le varie comunità, per lui, contano molto meno della convergenza di tutte verso il fine ultimo, che è anche il criterio regolatore della loro rispettiva autonomia o subordinazione;[32] perciò, se si desiderano indicazioni più concrete dagli scritti di Tommaso sul tema in esame, occorre cercarle in quelli dedicati a problemi pratici. 

Personalmente – anche se non escludo che altri possano essere più fortunati di me nella ricerca[33] – ho trovato uno spunto solo, nell'opuscolo De emptione et venditione ad tempus.

Ivi, Tommaso ha espresso il proprio parere professionale di teologo sulla liceità di alcune prassi mercantili di vendita con dilazione di pagamento che prevedevano un aumento di prezzo, come tale sospetto di usurarietà; ivi, infatti, ha introdotto la discussione (che non ci interessa) scrivendo: “supposto che la consuetudine di differire il pagamento fino a tre mesi, come viene esposto, sia stata introdotta in vista del bene comune dei mercanti, ossia per rendere più rapido il commercio, e non in frode al divieto dell'usura... ”.[34] Così, con tanto stringata naturalezza, ci vengono dette almeno tre cose: 1) i mercanti in questione fanno parte di una communitas, non sappiamo quanto ampia; 2) le prassi negoziali tra loro invalse vengono definite consuetudines, dunque si considerano dotate di valore normativo; 3) si ammette altresì l'esistenza di un bonum commune proprio dei mercanti in quanto tali, la facilitazione degli atti di commercio. Tutto questo non ci dice se i mercatores formino una communitas perfecta, ma il carattere limitato del bene comune perseguito mi farebbe propendere per il no;[35] tuttavia, questa communitas presenta, perlomeno, un'analogia tale con la civitas che i termini propri della nomopoiesi vengono impiegati senza nessun segno di un impiego metaforico o traslato.[36] Infine, ma non da ultimo, la distinzione tra commune bonum mercatorum e fraus usurarum ci dice che, quand'anche la sottintesa comunità dei mercanti dovesse reputarsi estesa a tutto il mondo (e magari governata da una fonte tanto discussa oggigiorno come la c.d. lex mercatoria), essa non corrisponderebbe comunque a quella civitas che esiste solo per accumulare ricchezze, evocata in termini negativi nel De regimine principum: innanzitutto, anch'essa è soggetta al divieto dell'usura, rispetto a cui potrebbe tentare solo una frode, non una sovversione aperta, ed è quanto dire che questo bene comune particolare, per esser tale veramente, deve mantenersi entro i limiti della liceità morale;[37] inoltre, lo scopo enunciato, ossia l'agevolazione degli atti di commercio, ha carattere meramente strumentale e non guarda al risultato economico dell'operazione per i partecipanti.[38] Ma, pur con queste opportune precisazioni, si deve concludere che esista una forma di socialità caratteristica dei mercatores, capace di dar luogo ad una comunità propria e anche a capacità di normazione, almeno almeno in senso lato: siamo lontani sia dalla diffidenza verso l'attività economica come tale, sia da ogni rivendicazione di statualità necessaria del diritto. Piuttosto, si delinea una visione in cui gli uomini formano, spontaneamente o per accordo volontario, tutta una serie di comunità rivolte a scopi particolari o più generali; e tutti questi scopi sono buoni, hanno una loro ragion d'essere, comportano anche una relativa “autonomia” in senso etimologico.[39]

Sicuramente debbono esistere un'autorità visibile suprema e una potestà coercitiva legittima capaci di assicurare la convergenza di tutte le varie comunità al fine ultimo; nell'ordine temporale, ogni communitas deve fare in qualche modo riferimento ad una communitas perfecta; e probabilmente un'organizzazione fondata su base personale, come gli Ordini religiosi del suo tempo, non può ambire alla perfectio per l'impossibilità di assicurare ai membri il tranquillo godimento della casa, o comunque di un luogo determinato, senza la collaborazione di un potere esterno... ma si può agevolmente eccettuare la realtà degli Ordini militari, che di fatto possedevano una capacità di difesa e di offesa paragonabile ad un regnum e, in più, avevano ottenuto in vari modi il controllo di porzioni di territorio non disprezzabili. Verosimilmente quindi, se S. Tommaso si fosse posto il problema, avrebbe concluso che una communitas personale, crescendo il numero dei suoi membri, tende a darsi una base territoriale in modo non troppo diverso rispetto al processo descritto da Aristotele per lo sviluppo della civitas, divenendo così in qualche modo equiparabile a quest'ultima; ma la natura precisa dei suoi rapporti con altre realtà pre- e coesistenti non poteva che restare un problema contingente, oltretutto non riducibile a categorie moderne, sol che si pensi all'intrico di legami feudali, privilegi, impegni di protezione... in cui si risolveva e con cui si legittimava, allora, ogni concreta realtà politica.

 

2.4 La lex come atto della prudenza, tra promulgatio, generalità ed equità

Dopo questa digressione, forse troppo estesa, torniamo alla definizione di lex per esaminarne l'ultimo membro: “ab eo, qui curam communitatis habet, promulgata”.

Promulgatio, per il lettore italiano è un false friend: la nostra “promulgazione” è la firma del Presidente della Repubblica, che qui prenderebbe il nome di sanctio se rientrasse tra i requisiti essenziali;[40] promulgatio, invece, nel lessico giuridico del tempo e tuttora in diritto canonico, è la nostra “pubblicazione”, o comunque la diffusione ufficiale del contenuto della lex, che costituisce un dovere attinente alla cura communitatis.[41]

Il carattere essenziale della conoscibilità della legge, in sé, non richiederebbe certo spiegazioni particolari; ma in S. Tommaso essa trova una ragione più profonda del consueto. Legiferare, egli scrive più avanti, è un atto della ragion pratica che appartiene alla virtù della prudenza, precisamente a quel suo aspetto o “parte principale” noto come “prudenza regnativa”, quella propria dei governanti; ma essa conosce un correlativo nei governati, la “prudenza politica”, che riconosce e segue la guida di altri.[42] In altre parole: la virtù morale connessa al governo viene esercitata proprio perché i sudditi possano a loro volta esercitare la propria, in termini logici è il primo degli effetti con cui la legge li rende buoni; e questa, più della pretesa di obbedienza, è la ragione ultima per cui la lex dev'essere resa conoscibile. Non a caso pure la lex naturalis è stata in qualche modo promulgata, perché Dio l'ha resa conoscibile alla ragione umana,[43] in modo tale che almeno i suoi primi princìpi sono iscritti nei cuori in modo indelebile.[44] Per le leggi umane, però, sorge anche un dovere del suddito di procurarsene la conoscenza, proprio perché la prudenza politica è una virtù: l'inosservanza di una legge che si ignora ma che si sarebbe potuta conoscere è colpevole e non scusa.[45] Anche sotto questo profilo, insomma, vi deve essere cooperazione tra governanti e governati, che in definitiva tendono tutti al medesimo fine; e la prudenza è appunto la virtù che ordina i mezzi rispetto al fine.[46]

Questa cooperazione, peraltro, si può manifestare anche in un modo che riguarda più da vicino il lavoro del giurista: sulla scorta di Aristotele, S. Tommaso ritiene che la legge vada formulata in termini generali, piuttosto che per il caso concreto,[47] e infatti assegna alla prudenza, inter cetera, due virtù concomitanti distinte, la synesis, che giudica dell'id quod plerumque accidit per formulare le regole generali, e la gnome, che riconosce quei casi particolari che fanno eccezione e in cui bisogna regolarsi secondo princìpi più alti: ad es., generalmente i beni lasciati in deposito vanno restituiti a chi li richiede; ma quest'obbligo non opera se si tratta di una spada richiesta da un pazzo furioso, o da qualcuno che sta combattendo contro la Patria.[48] Ora, il giudizio sui casi in cui ciò che è stato disposto per il bene comune può risolversi in comune danno non è interamente riservato all'autore della legge: lo è nelle situazioni dubbie, ma se il danno è manifesto o se l'urgenza non permette di ricorrere all'autorità, al suddito è lecito agire in modo contrario alle parole della legge. Nella giustificazione, Tommaso – premessa l'impossibilità di prevedere espressamente tutti i casi - oscilla tra due tesi distinte: l'intenzione del legislatore, che si presume sempre rivolta al bene comune, oppure una sua dispensa dall'osservanza della legge in quel caso, che può essere esplicita oppure implicita perché necessitas non subditur legi.[49] E similmente avremo un esercizio della gnome anche nel giudizio secondo equità, che per lui si verifica quando l'interpretazione letterale di una legge giusta condurrebbe, nel caso particolare, ad un risultato contrario al diritto naturale;[50] l'esito di questo giudizio va comunque ricondotto alla virtù della giustizia, ma come un suo aspetto particolare, la epieikeia.[51] Curiosamente, però, sebbene applichi questi princìpi anche ad una legge ecclesiastica come l'obbligo del digiuno,[52] Tommaso non tratta dell'equità nei termini più familiari al canonista, come imperativo supremo della salus animarum:[53] non vi è dubbio che i princìpi testé enunciati valgano anche nel caso di violazione del diritto divino positivo da parte di leggi umane, tuttavia – salvo mio errore nell'indagine – in sede teorica egli non ha enunciato espressamente l'ipotesi, sicché la sua nozione di aequitas resta riferita all'equità naturale.

 

2.5 La lex aeterna

Ogni lex, essendo anzitutto manifestazione della prudenza del suo autore nonché atto della ragione prima che della volontà, esiste in primo luogo nella mente del Legislatore; per questo si può parlare di una lex aeterna sebbene non sia eterno il mondo,[54] anche se nessuna creatura è eterna e quindi c'è stato un tempo in cui non esisteva nessuno per cui promulgare alcunché: da prima che il mondo fosse, infatti, nella mente di Dio esiste, inalterabile, il piano provvidenziale (“ipsa ratio gubernationis rerum in Deo sicut in principe universitatis existens”) con cui Egli ha già regolato, ab aeterno, l'intero corso del Creato fino alla consumazione dei secoli, in tutte le vicende particolari, dalla nascita di ciascun uomo alla caduta dell'ultimissima foglia.[55] Ciascuna creatura, per il solo fatto di esistere, partecipa in qualche modo di questo piano;[56] ma solo a quelle dotate di ragione è possibile conoscerlo; e Dio ha voluto che ne venissero a sapere quanto è loro necessario per regolare la propria condotta. Ne segue che tutti gli altri tipi di lex derivano da una conoscenza vera, sebbene parziale, del piano di Dio[57] e, nel caso delle leggi umane giuste, costituiscono una forma di cooperazione ad esso, imperfetta quanto si voglia, ma inserita fin dall'inizio nel piano stesso come sua parte integrante. “Come, sul piano della ragione speculativa, per naturale partecipazione alla sapienza divina è insita in noi la conoscenza di alcuni princìpi comuni, non però la conoscenza specifica di qualsiasi verità, come è contenuta nella sapienza divina; parimenti anche sul piano della ragion pratica l'uomo partecipa della lex aeterna secondo alcuni princìpi comuni, non però secondo le direttive particolari per i singoli [enti], che nella lex aeterna sono tuttavia contenute. E perciò è altresì necessario che la ragione umana proceda a stabilire alcune leggi particolari.”.[58]

Se si concepisce la lex come fonte di precetti concreti, la lex aeterna appare assolutamente inutile, o perfino estranea al concetto, visto che questa funzione viene assolta da lex naturalis, lex divina o perfino lex humana: proprio questa, infatti, è la critica di Suárez.

Ma nel sistema di Tommaso il suo ruolo è centrale come ragion d'essere di ogni possibile lex, che,  più di ogni altro aspetto, qualifica il sistema stesso come teologia del diritto: “il fine del governo divino è Dio stesso e la Sua Legge non è un'altra cosa rispetto a Lui stesso”;[59] ogni creatura partecipa in qualche modo alla lex aeterna perché riceve da Dio, per partecipazione, il proprio essere e le proprie inclinazioni ad un fine naturale ordinato al fine ultimo, cioè sempre a Dio stesso, “Ma rispetto alle altre la creatura dotata di ragione è soggetta alla divina provvidenza in un modo che si può definire più eccellente, in quanto essa stessa diventa partecipe della provvidenza, provvedendo a sé stessa e agli altri. Perciò anche ad essa è accordata la partecipazione al piano eterno, mediante il quale possiede l'inclinazione naturale all'atto dovuto e al fine”.[60] Sempre Dio, poi, le accorda un'altra forma di partecipazione, la grazia, per conseguire il suo fine, che supera le possibilità naturali; e in questo modo compie quel medesimo piano eterno.[61] La natura teleologica del diritto qui diventa un'escatologia, attesa anticipatrice del riposo oltre la fine del mondo, quando Dio sarà “tutto in tutti”; la lex aeterna conduce l'intero Universo all'ordine perfetto in vista del quale tutta la Creazione è stata progettata... ma, appunto per questo, già adesso ogni vero ordine reca in sé una traccia e una prefigurazione di ciò che sarà. Qui, molto più che nelle singole tesi (non necessariamente originali, ancor meno esclusive), sta la cifra caratteristica e inconfondibile della riflessione di S. Tommaso d'Aquino sul diritto, sull'ordine giuridico.[62]

 

2.6 La lex naturalis

S. Tommaso comincia[63] a trattar della lex naturalis in un modo molto interessante per il canonista: in sostanza, corregge Graziano. La prima Distinctio del Decretum, infatti, reca due definizioni diverse, ma entrambe inadeguate nell'ottica tommasiana:[64] proprio in esordio di tutta l'opera, il Maestro scrive che “Il ius naturale è ciò che è contenuto nella Legge” (qui, l'Antico Testamento) “e nel Vangelo”; ma di lì a poco accoglie un testo di Isidoro secondo cui “Il ius naturale è comune a tutte le nazioni, per il fatto che dappertutto si mantiene in forza di un istinto della natura, non di una qualche norma espressa, come l'unione dell'uomo e della donna, la generazione e l'educazione dei figli, il possesso comune di tutte le cose e l'unica libertà di tutti, l'acquisizione di quanto si raccoglie o cattura in cielo, in terra o in mare; parimenti la restituzione dei beni in deposito o del denaro affidato[ci]; o che si respinga una violenza con la forza.”.[65] Sia in termini definitori sia nell'esemplificazione, i profili di contrasto tra i due passi non mancano davvero.

Si può anche aggiungere che “Il tema dello Ius divinum [...] non risulta sufficientemente chiaro al maestro bolognese che nella explicatio terminorum con cui apre il Decretum (le prime XXII Distinctiones) non si cura affatto di darne né una definizione, né una illustrazione e neppure di elencarlo tra le formule e concetti ritenuti importanti per introdurre una tale opera”;[66] per contro, Stefano di Tournai, forse allievo di Graziano stesso, era arrivato ad applicare l'aggettivo divinum all'intero diritto canonico, giacché legato in vario modo alla volontà di Dio. Sotto questo profilo, la trattazione della Summa Theologiae costituisce un apporto originale,[67] destinato a fare testo in avvenire proprio per la precisione rigorosa con cui distingue lex naturalis, lex divina e diritto canonico come lex humana.

Infine, ma non certo da ultimo vista l'autorità quasi sacrale del diritto romano, occorreva dar conto anche della notissima definizione di Ulpiano secondo cui il ius naturale è qualcosa di comune a tutti gli esseri viventi e concerne in particolare la riproduzione e l'allevamento della prole.[68]Alcuni Glossatori, tuttavia, quando parlano di legge naturale non si accontentano di questa definizione ulpianea, ma tendono [a] restringere il campo della legge naturale all'uomo. Allora la legge naturale è concepita come legge razionale: siccome l'uomo si distingue dagli esseri animati, perché unico essere dotato di ragione, la legge naturale diventa lex rationalis”.[69]

S. Tommaso, che almeno in questo caso tratta lex naturalis e ius naturale come sinonimi perfetti,[70] comincia con l'osservare che la ragione speculativa sta all'ente come quella pratica al bene: il primo concetto che l'intelligenza umana scopre in sé stessa, e grazie al quale – anzi, virtualmente nel quale – conosce tutte le cose, è il concetto di ens, l'affermazione autoevidente “Qualche cosa esiste”, subito unita alla consapevolezza dell'impossibilità che la stessa cosa esista e contemporaneamente non esista, sicché il principio primo nell'ordine speculativo è quello di non contraddizione. Analogamente. Il primo precetto della ragion pratica, e dunque del diritto naturale, e che bisogna fare il bene ed evitare il male; esso, però, si specifica in precetti ulteriori secondo l'ordine delle inclinazioni naturali dell'uomo da un lato, le caratteristiche dei mali da evitarsi dall'altro.

In particolare, Tommaso individua, nella natura umana, tre inclinazioni distinte: “In un primo modo, infatti, è insita nell'uomo l'inclinazione al bene secondo la natura in quanto la condivide con tutte le sostanze: cioè come qualsivoglia sostanza desidera la conservazione della propria esistenza secondo la propria natura. E secondo quest'inclinazione, rientrano nella lex naturalis quelle azioni mediante le quali la vita dell'uomo è preservata e viene impedito il contrario – In un secondo modo è insita nell'uomo l'inclinazione ad alcuni [beni] più particolari, secondo la natura in quanto l'ha in comune con gli altri animali. E in questo senso si dice che sono di diritto naturale le cose che la natura ha insegnato a tutti gli animali, come l'unione del maschio e della femmina, l'educazione dei figli, e simili. - Nel terzo modo è insita nell'uomo l'inclinazione al bene secondo la natura della ragione, che gli è propria: così egli possiede un'inclinazione naturale alla conoscenza della berità su Dio e a vivere in società. E in questo senso, rientrano nella lex naturalis le azioni che riguardano un'inclinazione siffatta: cioè che l'uomo eviti l'ignoranza, che non offenda coloro con cui deve intrattenere rapporti, e altre del genere.”.[71] Quindi, per un verso esistono tanti precetti della lex naturalis quante parti della natura umana, per altro essi si risolvono tutti nell'unico fondamentale: fare il bene ed evitare il male.[72] Per questo rientrano nell'ambito della lex naturalis tutte le virtù, sebbene i loro singoli atti, presi a sé, spesso riguardino azioni escogitate dall'uomo per vivere bene (non adduce esempi, ma è facile pensare alla prudenza nella gestione dei propri affari).[73]

Egli passa quindi a domandarsi se la lex naturalis sia una sola presso tutti gli uomini e affronta qui il problema dell'antinomia all'interno del Decretum, contrapponendo il dictum di Graziano – che depone per la negativa, in quanto “non tutti obbediscono al Vangelo” (Rm 10,16) – e l'auctoritas di Isidoro.

La soluzione del problema passa di nuovo attraverso il parallelo tra ragione speculativa e pratica, stavolta però sottolineando gli aspetti di differenza: oggetto tipico della prima sono le verità necessarie, i cui princìpi primi sono noti a tutti e, sebbene non lo siano anche le conclusioni, queste restano vere sempre e comunque, si tratta solo di apprenderle. La ragion pratica, invece, tratta di cose mutevoli e contingenti, sicché si rivela necessario distinguere: i princìpi primi, anche in questo caso, sono universalmente validi e noti a tutti;[74] ma rispetto alle conclusioni si deve dire che sono giuste nella maggior parte dei casi, mentre a volte potrebbero non esserlo per influsso di qualche particolare fattore contingente (ad es., restituire i beni restituiti in deposito è una conclusio propria del vivere secondo ragione; ma può rivelarsi dannoso, come se qualcuno ne chieda la restituzione per usarne nella lotta contro la Patria);[75] questo grado di incertezza, per forza di cose, aumenta via via che si passa dal generale al particolare o si aggiungono dettagli all'obbligo (come, sempre nel caso del deposito, cauzioni o condizioni).[76] Inoltre, anche quando restano giuste, le conclusioni possono essere veramente ignote ai più, almeno presso una determinata popolazione; “e ciò per questo motivo, che alcuni hanno una ragione depravata dalla passione, o dalla cattiva abitudine, o da una cattiva disposizione della natura; così, un tempo presso i Germani non si reputava ingiusto il furto, sebbene sia espressamente contro la legge della natura, come riferisce Giulio Cesare nel De bello Gallico [VI 23]”.[77] Ciononostante, egli poco dopo afferma che esse formano il ius gentium, che secondo le fonti romanistiche è comune a tutti i popoli, perché non si allontanano molto dai primi princìpi della lex naturalis e quindi facilmente i popoli si trovano d'accordo;[78] se il ius naturale è proprio della natura dell'uomo in quanto animale, infatti, il ius gentium corrisponde alla sua differenza specifica, l'esser dotato di ragione, quindi comprende ritrovati di ragione “come le giuste compravendite, e altri simili, senza cui l'uomo non potrebbe vivere in società, il che è prescritto dalla lex naturae”. Dal che, tuttavia, comprendiamo che, in un certo senso, la lex naturae è distinta e sta a monte del ius gentium, che infatti è detto ius positivum: qui lex naturae indica i princìpi primi, mentre è ius positivum tutto ciò a cui l'uomo perviene mediante un ragionamento.[79] Ma siccome il ius gentium non è del tutto inderogabile o indelebile, come si è detto poc'anzi, gli interpreti successivi non hanno mancato di discutere se esso debba ricondursi propriamente al diritto naturale o al diritto positivo, quando hanno cominciato ad opporre i due concetti nel modo a noi consueto.[80]

Quanto poi al dictum di Graziano da cui abbiamo preso le mosse, esso non va inteso nel senso che tutto ciò che si legge nell'Antico e nel Nuovo Testamento sia lex naturalis, ma che, inversamente, in quelle pagine si trova tutto ciò che in tale legge è contenuto; per questo, precisa Tommaso, lo stesso Graziano ha subito aggiunto, a mo' di esempio, la regola d'oro “Fa' agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”.[81]

Questa risposta può sembrare del tutto slegata dalle considerazioni svolte subito prima, eppure non lo è: S. Tommaso ha già spiegato in precedenza che, tra le ragioni per cui era necessaria una qualche lex divina e non sarebbe bastata la sola naturalis, figurava anche l'incertezza del giudizio umano circa le cose contingenti, da cui derivano anche diversità e contrarietà delle leggi. “Perciò, affinché l'uomo possa sapere senz'alcun dubbio cosa debba fare e cosa evitare, era necessario che nei suoi atti fosse guidato mediante una legge divinamente data, della quale consta che non può errare.”.[82]  Nel caso dell'Antico Testamento, si trattava di una lex esaustiva, in cui Dio aveva svolto anche l'opera che sarebbe spettata ad legislatore umano, dando così al suo popolo un ordinamento che, senza essere affatto immutabile né sempre adatto alle circostanze, conserva però valore esemplare per la sicura conformità alle norme morali. L'economia neotestamentaria, invece, lascia ampio spazio alla legge umana, però rinsalda sia la conoscenza sia l'osservanza di quella naturale. (In effetti, sia detto a mo' d'inciso, la trattazione della lex naturalis contiene così tanti “rinvii in avanti” che si comprende come il centro dell'interesse, per Tommaso, siano i rapporti tra Legge antica e Legge nuova;[83] ma questo è ovvio, se si pensa che solo la lex divina permette all'uomo di conseguire il fine ultimo)

Tutte queste considerazioni rilevano anche rispetto ad altri due problemi: se la lex naturalis possa cambiare o, addirittura, essere cancellata dal cuore degli uomini.

Quanto al cambiamento, nessuna difficoltà laddove avvenga come un'aggiunta, perché molte innovazioni utili alla vita dell'uomo sono state introdotte sia dalla legge divina sia da quelle umane,[84] non ultima la suddivisione dei beni, che è frutto dell'umana ragione rispetto allo stato di comunanza originaria;[85] anzi tutti questi “ritrovati” possono essere detti di diritto naturale in senso lato, cio+ in quanto esso non vi contrasta.[86] Se però si intende che smetta di essere di diritto naturale qualcosa che prima lo era, allora questo è impossibile quanto ai princìpi primi, mentre i secondi precetti, che sono come conclusioni proprie, vicine ai princìpi primi, possono conoscere mutamento in quei casi particolari e più rari in cui non sarebbero giusti.[87] Similmente, se i princìpi sono indelebili, non così le conclusioni, che anzi possono essere soffocate dalle convinzioni errate, dalle cattive usanze e dalle abitudini corrotte.[88]

Nell'insieme, la trattazione non si articola in un elenco di precetti, sia perché l'inclusione degli atti di tutte le virtù implica un rinvio alle rispettive disamine, sia perché a S. Tommaso interessa di più arrivare ad occuparsi della grazia, che dopotutto è per l'uomo il solo mezzo con cui arrivare a conseguire il fine ultimo. Nondimeno, le questioni affrontate corrispondono alle principali obiezioni tuttora mosse contro il giusnaturalismo e, già solo per questo, le distinzioni da lui tratteggiate meriterebbero tuttora di essere approfondite e discusse.

 

2.7 La lex humana

2.7.1 Caratteristiche

S. Tommaso ha molte cose da dire anche sul conto della lex humana e alcune considerazioni ulteriori, formalmente svolte sulla lex in generale, sono state chiaramente formulate rispetto all'idea di un'esperienza giuridica concreta. Ma in primo luogo egli ha ritenuto di dover giustificare la stessa necessità delle leggi umane, come dire l'insufficienza di quella naturale a regolare tutto.

Giova forse premettere che per lui, come per Aristotele, anche la ragion pratica impiega una sorta di sillogismo; le premesse maggiori, ossia le proposizioni pratiche universali, hanno natura di leggi.[89]  E il procedimento è simile: “così anche dai precetti della lex naturalis, come da alcuni princìpi comuni e indimostrabili, è necessario che la ragione umana prosegua per disporre alcune cose in modo più particolare. E codeste disposizioni particolari, escogitate secondo la ragione umana, sono dette leggi umane, osservate le altre condizioni che rientrano nella definizione di lex”.[90] Ma se la ragione speculativa giunge ad una conoscenza certa quando ha ricondotto il caso ai princìpi primi indimostrabili, per quella pratica una certezza analoga può scaturire solo dal riferimento al fine ultimo, che è il bonum commune.[91] La nostra partecipazione alla lex aeterna, infatti, abbraccia i princìpi comuni, non le sue specifiche disposizioni su ogni singola cosa: per questo è necessario che la ragione umana escogiti leggi umane,[92] affinché quei princìpi che in essa sono insiti possano fungere da regola e misura di tutte le azioni umane; e non importi che non si tratti di una misura infallibile, perché questa è necessaria solo quand'è possibile nel suo genere, ma la ragione umana non può essere infallibile nelle decisioni pratiche sui singolari contingenti.[93]

La legge umana deve essere formulata ex ante in termini generali e non ex post dal giudice o dal sapiens, caso per caso, stante il rischio che il suo giudizio venga obnubilato dalle passioni o dalle peculiari circostanze della fattispecie in esame;[94] tuttavia, il requisito della generalità non significa che tutte le leggi debbano essere universali, ma ammette disposizioni specifiche rispetto all'ordinatio ad bonum commune di beni particolari e fini altrettanto specifici; avremo quindi, ad esempio, una lex dei militari e una dei mercanti (oggi diremmo “lo statuto dell'imprenditore”),[95] o anche privilegi nel senso classico del termine.[96]

Appunto perché lo scopo della lex è il bonum commune, che riguarda la communitas nel suo insieme, il potere di legiferare – e, per quanto sopra, di punire - spetta necessariamente o ad essa nel suo insieme oppure a chi ne fa le veci:[97] già qui si vede una sostanziale equiparazione tra lex e consuetudo, tanto più che alla forma scritta Tommaso assegna semplicemente il fine di “estendere”, per così dire, la promulgatio legis a tempi e soggetti futuri, non presenti nel momento in cui essa viene esternata per la prima volta.[98] Il che si spiega assai bene con il fatto che anche i principi del tempo, tipicamente, esercitavano la potestà legislativa in sedi assembleari di vario genere e natura; in più, spesso la lex si presentava come riaffermazione solenne di antiche usanze o tradizioni.

Sebbene abbia carattere imperativo, non si deve credere che la legge consista unicamente in comandi: le è proprio, invece, tanto comandare gli atti virtuosi quanto proibire quelli malvagi e permettere gli indifferenti; “E possono anche esser detti indifferenti tutti gli atti che sono o poco buoni o poco cattivi. Invece, il mezzo mediante cui la legge induce ad obbedirle è il timore della pena”, ragion per cui si aggiunge come quarto dei suoi contenuti (effectus)[99] il punire.[100] Dare consigli e premiare non sono facoltà proprie o esclusive del legislatore in quanto tale, perché spettano anche ai privati;[101] ma la vis coactiva è propria della lex perché necessaria al suo scopo, indurre gli uomini alla virtù.[102] Essi infatti, a volte, pur cominciando per paura a fare il bene ed evitare il male, poi arrivano a farlo spontaneamente e con gusto.[103] Tommaso respinge espressamente la tesi secondo cui, per indurre alla virtù, sarebbero più efficaci semplici ammonimenti, che invece bastano solo per chi già è buono:[104] l'uomo è bensì naturalmente disposto alla virtù, ma non vi arriva senza un allenamento (disciplina), un po' come avviene per la capacità di provvedere a sé stesso, di cui la natura gli fornisce solo le basi, ossia la ragione e l'abilità manuale; ma affinché la virtù giunga al suo perfezionamento è necessario soprattutto trattenere gli uomini dai piaceri indebiti, cui invece sono assai inclini, i giovani specialmente. E dunque, per alcuni meglio disposti basterà la disciplina paterna, a base di consigli e ammonimenti, ma per gli altri occorre il timore della pena.[105]

Questa distinzione suggerisce un altro tema ricorrente, che suggerisce che per S. Tommaso la lex debba essere una regola generale quanto all'oggetto, dettata cioè per una generalità di casi simili (e a tempo indeterminato), non però quanto ai soggetti, perché egli afferma a più riprese che non si può imporre una regola unica e identica per i virtuosi e i non virtuosi,[106] né ai più e ai meno avanzati nel cammino della virtù, tanto che perfino Dio ha dettato due Leggi divine differenti in successione.[107] In altre parole: lo scopo assegnato alla lex implica necessariamente una negazione del soggetto unico di diritto; e inversamente questo può sorgere solo con l'Illuminismo giuridico, che esclude dall'orizzonte politico il bene comune come perfezionamento personale lasciando, semmai, gli obiettivi non trascendenti individuati, volta per volta, da un legislatore collettivo, expression de la volonté générale.

Invero, commentando l'enumerazione delle caratteristiche della lex compiuta da Isidoro, Tommaso le riconduce a tre appunto secondo una teleologia rigorosa, rispondente alla natura della lex come “regula vel mensura regulata vel mensurata” da una misura superiore e duplice, la lex naturae e la lex divina. Prima di tutto, dunque, dovrà essere consona a quest'ultima, quindi alla religione;  quindi alla lex naturae, qui da prendersi in senso più ampio, perché impone di aver riguardo alle concrete possibilità di coloro la cui azione si va a regolare, sia quanto alle possibilità di natura (“non si impongono ai bambini le stesse cose che si impongono agli uomini fatti”), sia all'esigenza di vivere in società e non isolati. Infine, ma non da ultimo, la lex deve rispondere anche alla humana utilitas, cioè appropriata, secondo le circostanze di tempo e di luogo etc., ad eliminare i mali e procurare i beni, che è poi il suo scopo generale.[108]

Sorge però anche il problema di come possano concorrere al raggiungimento delle virtù le leges iniustae o le tyrannicae.

Premesso che la volontà, per obbligare, dev'essere regolata dalla ragione, anche e forse soprattutto quando si tratta della volontà del princeps,[109] perché al bene comune della civitas è indispensabile che siano virtuosi almeno coloro cui spetta comandare, mentre per gli altri è sufficiente che obbediscano, e tuttavia non si dà una vera virtù che sia meramente individuale, cioè che non includa l'uomo come pars rispetto al totum costituto dalla comunità politica,[110] S. Tommaso distingue: le leggi rendono buono, per definizione, il suddito in quanto suddito, gli fanno cioè esercitare la virtù che consiste nel ben obbedire; quindi, se l'intenzione del legislatore tende al vero bene, “quod est bonum commune secundum iustitiam divinam regulatum”, obbedendogli  i sudditi diverranno buoni simpliciter, se ha di mira il proprio personale piacere o vantaggio (il che, nell'analisi aristotelica qui presupposta, è caratteristica delle forme di governo corrotte), lo diventeranno secundum quid, ossia nel modo proprio di quel regime politico e semplicemente quanto alla virtù di obbedire; ma qui l'accento non cade affatto su quella relatività della virtù politica che si può scorgere in certe pagine dello Stagirita, perché subito l'Aquinate specifica che si tratta di diventare buoni nel senso in cui si dice “un buon ladro” di qualcuno che è abile nel furto.[111]  

Sorge quindi naturalmente il dubbio se una tale obbedienza sia sempre obbligatoria; e, in un mondo in cui ogni virtù è tale solo nella misura in cui conduca concretamente verso Dio, la risposta negativa è in re ipsa, discende dal concetto stesso di virtù ben prima che da un criterio “gerarchico” in cui l'autorità di Dio Legislatore è più alta e quindi prevale.[112] Pur non lesinando affermazioni molto nette sul carattere intrinsecamente iniquo di una lex humana sprovvista di conformità a ragione, egli non ritiene che il fatto di averla approvata privi il suo autore di ogni titolo per essere obbedito[113] (e molto meno dell'ufficio che ricopre): le varie forme di governo possono essere più o meno distanti dall'ottimale regimen mixtum, ma solo della tirannide si dice che è totalmente corrotta, al punto che in essa non si può parlare di lex;[114] analogamente, il Dottore Angelico distingue tre possibili difetti che rendono iniusta la lex, in termini cioè di ordinazione al fine, di potestà o competenza nell'autore, di proporzionalità nel ripartire gli oneri richiesti dal bene comune (aspetto fondamentale della giustizia distributiva e anche delle varie costituzioni politiche), ma sebbene nessuna legge ingiusta obblighi in coscienza di per sé, tuttavia quelle che contrastano con un bene anche importante ma umano - come può esser proprio l'equo riparto degli oneri tra i cittadini, o la destinazione delle tasse al vantaggio comune e non a profitto dei governanti – possono ricevere tale forza obbligante dalle circostanze, in particolare dalla necessità di evitare lo scandalo o il tumulto o un danno più grave, necessità che può obbligare anche a rinunciare al proprio ius. Invece, le leggi contrarie al bene divino, com'erano quelle degli imperatori che volevano indurre all'idolatria, e comunque tutte quelle che indurrebbero a comportamenti contrari alla lex divina, non possono mai essere osservate.[115] I problemi relativi al diritto di resistenza non sono trattati, però non si può dubitare della forza dell'imperativo, d'altronde scritturistico, “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29); e risulta chiaro anche l'ambito di applicazione, perché se è pur vero che furto e rapina sono condannati dalla Legge di Dio, può essere necessario assoggettarsi alla violenza di una tassazione ingiusta, almeno affinché non succeda di peggio, e questo è vero in quell'ambito in cui ciascuno può disporredel proprio diritto, come tipicamente avviene nell'ambito patrimoniale; non così quando si tratta del rapporto tra l'uomo e Dio, quindi o della pratica stessa della religione, o di atti che il singolo non potrebbe compiere senza commettere peccato mortale.

Un ultimo gruppo di articoli, infine, si occupa non dei mali che la legge può causare od ordinare, ma di quelli che non può punire, o di quanto in là possa spingersi nel comandare la pratica delle virtù. In primo luogo, per la lex humana è impossibile disporre o proibire alcunché rispetto agli atti meramente interni; dico impossibile, perché la legge, in quanto atto della ragione, postula che si possa conoscere la realtà da regolare:[116] il problema non sta, quindi, principalmente nell'impossibilità di accertare e reprimere eventuali trasgressioni. E infatti, il pur correlato dubbio sulla possibilità di punire tutti i mali morali è sciolto bensì in senso negativo, ma in un'altra maniera, potremmo dire di “costi-benefici”, però in senso morale anziché economico: perfino rispetto agli atti esterni, dove questa strategia sarebbe praticabile almeno in astratto, in concreto il tentativo priverebbe gli uomini anche di molti beni, tanto da far venire meno lo stesso vantaggio del bene comune:[117] bisogna, infatti, considerare che la maggior parte degli uomini non è virtuosa, quindi divieti e sanzioni si concentreranno su quei peccati che la massa è in grado di evitare, specialmente quelli che arrecano danno al prossimo, come furti e omicidi, senza la cui repressione non potrebbe conservarsi l'umano consorzio.[118] Nondimeno, la lex humana può riguardare gli atti di tutte le virtù, come la naturalis, però non li comanda tutti, bensì solo quelli riferibili al bonum commune almeno in via mediata, cioè in quanto occorre per conservare la giustizia e la pace;[119] anche in tal caso, però, non ne esige il compimento immediato da parte di tutti[120] e, anche se il fine inteso dal legislatore è che i cittadini arrivino a compiere gli atti prescritti in modo virtuoso, tuttavia sotto il precetto legale cade soltanto la condotta esteriore.[121]

 

2.7.2 Mutamento e cessazione

Soltanto a proposito della lex humana si può parlare di mutamenti e cessazione in senso pieno, per le ragioni già dette; ma riguardo alla cessazione è forse bene specificare subito che non si restringe alla sola abrogazione, perché si tratta di un concetto assai più lato, comprensivo anche dei casi in cui il precetto e l'obbligo cessano relativamente ad un soggetto (è la dispensa, allora considerata atto del potere legislativo per il principio dell'actus contrarius),[122] oppure di quelli in cui non si è soggetti al timore della pena (i buoni) o alla potestà coercitiva (il principe, che si sottomette spontaneamente alla lex per la sua conformità a ragione, non perché vi sia propriamente costretto; ma è soggetto al giudizio di Dio se non sottostà alla vis directiva di essa).[123]

Il mutamento della legge umana, comunque, è oggetto di un vaglio preliminare di ammissibilità, perché la stabilità è una delle sue note caratteristiche e, oltretutto, la derivazione dalla lex naturalis porterebbe ad imitarla anche sotto quest'aspetto, perché la giustizia non muta. Invece, spiega S. Tommaso, si possono dare due cause legittime di mutamento: da parte della ragione umana, che procede gradatamente dall'imperfetto al perfetto e quindi può trovar modi migliori di giovare al bene comune; da parte dei sudditi, per il mutamento delle loro condizioni, che può rendere necessaria una disciplina diversa (qui egli adduce un esempio di Agostino: se il popolo è di buoni costumi, è giusta la legge che gli permette di eleggere i titolari delle cariche pubbliche; ma se si corrompe, se vede il voto come una merce di scambio e manda al potere i peggiori, è giusto privarlo di una facoltà così importante e circoscrivere l'elettorato attivo a pochi buoni). Quindi, se è vero che la giustizia non cambia nel senso che il giudizio morale su una data azione è espresso secondo una legge eterna, possono però mutare le esigenze concrete della utilitas communis.[124]

E tuttavia, non si deve nemmeno pensar di cambiare la legge tutte le volte che sembri di aver trovato di meglio, neppure se fosse vero: la mutatio legum, infatti, in sé stessa è un male, perché l'abitudine giova moltissimo al rispetto delle leggi e ne rafforza l'autorità: occorre, quindi, che il vantaggio previsto all'esito del cambiamento comensi il sicuro svantaggio che ne deriva, e questo o in termini di “maxima et evidentissima utilitas”, vuoi di “maxima necessitas”, vuoi di una legge preesistente che contiene una manifesta ingiustizia o è dannosa per molti:[125] almeno quando si tratti di una disciplina inveterata, quindi, la tendenza è marcatamente conservatrice.

In compenso, come abbiamo già visto, Tommaso ammette senza difficoltà che la consuetudine abroghi la legge, perché il moltiplicarsi degli atti di inosservanza può attestare che essa non è più utile vuoi in sé, vuoi rispetto ai costumi del popolo:[126] nel primo caso – secondo la terminologia dei canonisti posteriori – abbiamo una cessazione ab intrinseco perché è venuta meno la ratio legis, il complesso di circostanze che ne assicurava l'effettiva rispondenza al bene comune. S. Tommaso non vi si sofferma particolarmente, forse proprio perché vede la formazione di una consuetudine contraria come il modo normale in cui questo mutamento si manifesta e incontra insieme il proprio rimedio; ma il problema, com'è facilmente comprensibile, ha formato oggetto di notevoli incertezze e discussioni (qui mi limito ad accennarvi en passant, perché evidentemente non si tratta di diverse esegesi del testo tommasiano; riprenderemo il tema trattando di Suárez).

 

2.7.3 Il problema della “derivazione” dal diritto naturale

Particolarmente dibattuto tra gli interpreti dell'Angelico, almeno di recente, è il modo in cui le leggi umane vengano spiegate e legittimate in termini di derivazione dalla lex naturalis. Accanto al procedimento di elaborazione del ius gentium, infatti, i cui risultati (conclusiones) sono da ricondursi all'ambito di ciò che è proprio della natura razionale dell'uomo, ma non senza margini di derogabilitù, ad es. rispetto alla proprietà privata dei beni, vi è secondo lui un altro procedimento, la determinatio, descritto come tipico dell'elaborazione della lex humana; il che, però, a ben vedere non ci dice ancora nulla sull'ambito cui dovremmo ricondurre i suoi esiti... e comunque non lo spiega.   [127]

Pertanto, «Si discute se questi precetti ulteriori siano di legge naturale, o se appartengano alla ragione umana. Se ammettessimo che tutte le determinazioni ricavabili con la ragione dalla lex naturalis restano di legge naturale, vuol dire che S. Tommaso ha prefigurato il modo di pensare tipico del moderno giusnaturalismo razionalistico.».[128] Ma mentre questo è senz'altro vero per le conclusioni necessarie, assai più problematico è lo statuto di quelle raggiunte dalla ragion pratica per modum determinationis.

Sul punto si confrontano almeno tre interpretazioni diverse: quella della neoscolastica, che sostanzialmente, fa del diritto naturale un corpus di regole ricavate o per deduzione a priori o mediante una sorta di “sillogismo giudiziale” che assume certe premesse generali di fatto e applica ad esse la norma universale;[129] la c.d. “nuova scuola” del diritto naturale, che, in aperta polemica con la precedente, insiste sul momento della determinatio come scelta sostanzialmente discrezionale del legislatore positivo;[130] e la linea di Michel Villey, seguita in Italia specialmente da Elvio Ancona,[131] secondo cui si tratta di conclusioni probabili che non appartengono al dominio della logica dimostrativa, bensì della dialettica.

A mio personale avviso, almeno fino ad un certo punto, questi tre approcci possono essere integrati, poiché colgono il fenomeno sotto punti di vista diversi: la ragione è comunque chiamata ad un'attività conoscitiva e ad un rigore logico che il tempo di S. Tommaso riconduceva certo allo schema del sillogismo, però qui è chiamata ad avvalersi di tutte le proprie potenzialità conoscitive, incluse l'induzione e anche l'abduzione,[132] giacché si tratta né più né meno che di esplorare la totalità del reale; e tuttavia, proprio come nella dialettica, qui abbiamo un misto di rigore logico e di premesse solo probabili, che possono essere fattuali o anche generali, almeno se di fatto si legifera seguendo non la conoscenza del diritto naturale, ma un endoxon, opinione corrente su cosa sia bene; sicché in definitiva il carattere specifico di quest'attività della ragione appare proprio la discrezionalità che rimane anche dopo l'impiego più diligente dei mezzi di indagine... e che non è affatto detto che costituisca un difetto:[133] Tommaso stesso ci dice che, se dalla lex naturalis si possono derivare conclusioni in maniera analoga alle scienze dimostrative (p.es., dal principio “Non si deve fare il male”, la conclusione “Non si deve uccidere”), la determinatio è simile, piuttosto, al modo di operare di un costruttore che, dal concetto generale di casa, passa al progetto di questa o quella casa concreta. Allo stesso modo, il diritto naturale impone di punire i peccati, ma che siano puniti con la tale o talaltra pena è una determinatio della legge umana; le conclusioni, invece, quando si trovano nella lex humana, ripetono il loro valore anche dalla naturalis.[134]

Sarebbe agevole desumere, da questo passaggio, che la determinatio dia luogo, in sostanza, a un diritto positivo puro e semplice, tanto più che Tommaso stesso precisa subito che essa è la fonte del “giusto legale”, quello cioè che è reso tale dalla legge, perché di suo sarebbe indifferente.[135] Ma si correrebbe il rischio di dimenticare, per un verso, che le stesse conclusiones ripetono comunque parte del loro valore anche dalla legge umana e, per altro, che le determinationes sono pur sempre un modo in cui quest'ultima deriva dalla lex naturalis. Probabilmente, la lettura migliore è insita nella metafora del costruttore o dell'artifex in generale: esistono scelte che vanno condotte secondo la regola d'arte, sul cui rispetto si deve essere rigorosi, e altre che dipendono da vari fattori inclusi i gusti dei committenti, ma in tutto bisogna cercar di operare le scelte migliori. Altrimenti detto: la discrezionalità del legislatore tommasiano, se così vogliamo definirla, non è una scelta tra un ventaglio di opzioni possibili che sia guidata solo da criteri vaghi, come potrebbero ad es. essere per noi l' “interesse pubblico” o “generale”, o anche lo stesso “bene comune”; vi è uno scopo ben preciso cui tendere, svariati mezzi sono prescritti o preclusi da regole universalmente valide, per il resto il criterio teleologico consentirà sempre valutazioni anche molto stringenti. Quindi senz'altro la conclusio appartiene più al dominio del diritto naturale, la determinatio all'umano; però tutto nel quadro di un processo sostanzialmente unitario, dove il passaggio da una sfera all'altra è graduale, come graduale, all'inverso, è il perfezionamento dell'uomo, cui tutto mira.  

 

2.8 La lex divina

2.8.1 Premessa

Anche in questo caso, Tommaso d'Aquino comincia interrogandosi sulla necessità stessa della lex in questione e sul perché non sia sufficiente la naturalis oppure, quasi all'opposto, l'autonomia della ragione;[136] conclude, però, giustificando l'esistenza di una lex divina sulla scorta di quattro argomenti: 1) la lex guida l'uomo agli atti appropriati in relazione al fine ultimo, quindi la naturalis basterebbe se esso rientrasse nell'ambito delle facoltà umane naturali, ma siccome ne esorbita[137] occorre all'uomo anche una lex divinitus data; 2) le incertezze del giudizio della ragione, soprattutto sulle realtà particolari e contingenti, danno luogo a valutazioni diverse in merito alla moralità degli atti umani, da cui scaturiscono anche leggi diverse e tra loro incompatibili,[138] quindi è chiaro che solo dall'Alto poteva giungere all'uomo una regola di giudizio immune da errore e tale, perciò, da eliminare ogni dubbio; 3) d'altronde, l'uomo può dettar leggi solo su quel che è in grado di conoscere e valutare, dunque solo sugli atti esterni e non sui moti dell'animo in quanto tali, ma la perfezione della virtù richiede che anche questi siano ben ordinati, al che può provvedere soltanto la lex divina; 4) la legge umana non potrebbe punire tutto senza mettere a repentaglio il bene comune, necessario ad un'esistenza davvero umana, quindi occorreva una lex divina capace di proibire e anche di punire tutti i peccati, affinché non ne restasse alcuno senza castigo.[139]

A questo punto, però, egli esclude che la Legge divina sia una sola, anche se tutto quanto precede lo farebbe supporre: ne esistono invece due, l'antica e la nuova, come dire non due realtà totalmente diverse, ma il bambino rispetto all'adulto, perché la prima è stata data ad uomini ancora imperfetti, la nuova quando essi erano stati condotti, appunto dalla precedente, ad una maggior capacità di comprendere e praticare le cose di Dio;[140] più in dettaglio, l'antica era ordinata ad un bene comune sensibile e terreno, il governo della Terra Promessa, la nuova ad un bene intellettuale e celeste; ordina e dirige anche gli atti e i moti intimi dell'animo; non si affida semplicemente al timore delle pene, ma motiva con l'amore. Sicché resta giustificata la superiorità della lex nova e, insieme, delineate le sue principali differenze rispetto alla vetus, che tornano nel prosieguo della trattazione come tanti Leitmotiv.

 

2.8.2 La Legge antica

S. Tommaso comincia con un'energica difesa della bontà della Legge veterotestamentaria, la cui necessità si comprende solo se si tiene conto della complessità del dato teologico e scritturistico, qui non a caso descritta in esordio. Non era perfettamente buona, nel senso che non bastava di per sé a far raggiungere il fine ultimo, però rispetto ad esso godeva della bontà imperfetta propria della legge umana, che persegue la temporalis tranquillitas civitatis sanzionando quegli atti esteriori malvagi che potrebbero turbarla.[141] La mancanza della grazia, però, rendeva impossibile all'uomo adempiervi pienamente, il che la rendeva di fatto anche un'occasione di peccato, sia perché è più grave la trasgressione di un divieto espresso,[142] sia perché spesso si desidera di più ciò che è proibito, proprio in quanto proibito.[143] Nondimeno, i precetti della Legge erano perfetti rispetto al tempo[144] e alle circostanze per cui erano stati dati, né il fatto che fosse destinata a mutare vale a negare la sua origine divina:[145] egli ha voluto dare gli uomini una Legge che non fossero capaci di adempiere con le loro sole forze affinché si piegassero all'umiltà ed imparassero ad invocare l'aiuto della Grazia, al cui avvento proprio quella Legge doveva prepararli.[146]

Assolutamente parlando, non sarebbe stato necessario alcun Popolo eletto, ma siccome Cristo doveva nascere come Uomo a tutti gli effetti, dunque anche all'interno di un popolo, era conveniente che questo popolo fosse preparato in modo speciale a ricevere per primo l'annuncio della salvezza, che pur è universale per sua natura; in questo non c'è alcun merito precedente all'essere stati scelti, neppure da parte dei Patriarchi, e nemmeno un'ingiusta preferenza di persone, perché i doni gratuiti si danno a chi si vuole.[147] Ne segue che la Legge antica obbligava tutti i popoli in quanto riproduceva precetti della lex naturae, ma soltanto Israele in ciò che vi aggiungeva in vista della santificazione particolare di quel popolo.[148]

L'analisi che Tommaso svolge dei diversi precetti della Legge antica, per dimostrarne la convenienza, deve molto a teologi anteriori, in particolare ad Alessandro di Hales,[149] ma presenta per noi un interesse alquanto limitato. Egli li distingue in morali, cerimoniali e giudiziali;[150] i primi sono volti a rendere gli uomini buoni, nella misura consentita dalla mancanza della Grazia, e perciò riguardano gli atti di tutte le virtù e rientrano tutti nella lex naturalis, ma non prescrivevano il modo virtuoso o caritatevole dell'adempimento; in sostanza, si riducono al Decalogo e – tuttora – non ammettono alcuna dispensa.[151] Dal canto loro, i precetti cerimoniali, ossia l'ordinamento del culto, dovevano essere osservati alla lettera ma avevano carattere figurale, ossia prefiguravano tanto la beatitudine eterna      quanto Cristo come mezzo per conseguirla, e sono quindi cessati dopo la promulgazione del Vangelo, tanto che non potrebbero più essere osservati senza peccato mortale, perché la loro funzione si è esaurita e conservarle implicherebbe professare – per facta concludentia, si potrebbe dire - che Cristo debba, invece, ancora venire.[152] Ma le cose stanno diversamente per i precetti giudiziali, cioè l'ordinamento delle realtà temporali del popolo di Israele, perché essi, se sono stati abrogati, non sono tuttavia divenuti mortiferi e potrebbero, quindi, anche essere rimessi in vigore;[153] S. Tommaso, anzi, ne tratta in termini che implicano un loro perenne valore esemplare, come modello per i legislatori umani trasmesso loro dal Legislatore perfetto. Potremmo dire che, se la determinatio loro spettante è il passaggio dall'idea di casa al progetto concreto di questa casa qui, avere a disposizione il progetto completo realizzato dal migliore nel campo dell'architettura non implica un'imitazione servile, ancor meno una vigenza universale e perenne, ma può costituire un punto di riferimento utile, specialmente se si colgono la ratio legis e i valori sottesi alle varie previsioni: è un modello di ordinamento umano (quanto alla materia, non all'Autore) indiscutibilmente giusto.

Bastino qui due esempi, uno per il diritto pubblico, l'altro per il privato.

L'assetto costituzionale del tempo dei Giudici costituisce per l'Aquinate un esempio del regime politico ottimale, il regimen mixtum, in cui tutti debbono essere coinvolti in qualche modo, affinché tutti lo amino e concorrano a conservarlo, ma in modo tale che il comando venga assegnato secondo la virtù e spetti ad uno solo, sotto il quale comandino anche altri scelti con il medesimo criterio, e la scelta avvenga però da parte di tutti e tra tutti, perché l'eccellenza della virtù non conosce vincoli di casta o classe: rispetto a questo modello aristotelico, l'unica differenza è che Dio aveva riservato a Sé la scelta del summus princeps, da Mosè in avanti, ma poi ha accordato il regime monarchico al popolo che lo richiedeva, non senza mettere in guardia contro il pericolo della sua degenerazione per carenza di virtù.[154]

Similmente, l'assetto dei diritti di proprietà era ottimale rispetto al parametro definito da Aristotele, secondo cui la proprietà dev'essere comune, ma l'uso in parte comune, in parte da comunicarsi mediante scambi volontari. Non solo, infatti, la divisione della terra era stata eseguita mediante estrazione a sorte, ma si era evitata la concentrazione eccessiva delle ricchezze, tanto pericolosa per la stabilità del regime, prevedendo un riparto eguale all'inizio, con successivo periodico ritorno dei fondi alienati agli assegnatari originari, nonché una disciplina dei diritti successori che preservasse questa distinzione di stirpi, anche se ciò richiedeva che si ammettessero a succedere pure le donne. Tutti dovevano poi aver cura dei beni altrui, ad es. riconducendo gli animali smarriti, ed era consentito l'ingresso nella vigna altrui per mangiare un po' d'uva, purché non se ne asportasse; i poveri, anzi, oggetto di speciale sollecitudine, si vedevano destinare i rimasugli dei vari raccolti, che ai proprietari era prescritto di lasciare sul terreno e non tornare a cercare. Infine, oltre ad una disciplina ben definita dei contratti onerosi, la Legge prevedeva, ogni tre anni, una decima dei prodotti alimentari a vantaggio di Leviti (che non avevano terra propria, perché “la loro parte di eredità è il Signore”), stranieri, vedove e orfani.[155]

 

2.8.3 Legge nuova, Vangelo e grazia

I problemi che il Dottore Angelico affronta nelle questioni dedicate al Vangelo sono, per molti versi, gli stessi visti nella prima parte di quest'articolo, colti però alla luce di un'elaborazione teologica millenaria, ormai matura per una sintesi superiore.

Egli comincia, non a caso, col chiedersi se si tratti di una legge scritta oppure introdotta da Dio nei cuori: si può ben dire che qui si affrontino due concezioni diverse dello stesso Vangelo, destinate a scontrarsi periodicamente nel corso della Storia,[156] eppure la Summa non fa percepire il calore di una lotta, bensì il nitore dell'armonia.

La caratteristica principalissima della Legge nuova, ciò in cui consiste tutto il suo valore e potenziale (virtus), è la grazia dello Spirito Santo, che viene data mediante la fede di Cristo. E perciò principalmente la Legge nuova è la grazia stessa dello Spirito Santo, che è data ai fedeli di Cristo. […] Tuttavia, la Legge nuova contiene alcuni elementi che dispongono alla grazia dello Spirito Santo e riguardano il suo uso, elementi per così dire secondari in Essa. In merito ai quali bisognava che i fedeli di Cristo fossero istruiti a voce e per iscritto, tanto sulle cose da credersi quanto su quelle da farsi. E perciò si deve dire che principalmente la Legge nuova sta nei cuori ma secondariamente è una legge scritta.”.[157] Dispongono a ricevere la grazia le verità di Fede e quelle relative al disprezzo del mondo, mentre le esortazioni a compiere le opere delle virtù, di cui il Vangelo è tanto ricco, riguardano l'uso della divina grazia.[158] Anche la lex naturalis è insita nei cuori, questa però porta con sé la capacità di aiutare a compiere quel che comanda e perfino di produrre la giustificazione, beninteso in quanto coincide con la grazia, perché la “lettera che uccide” può essere anche quella del Vangelo con le sue verità e i suoi precetti, se dentro manca la grazia della Fede che guarisce dal peccato.[159]

Insistiamo su questo concetto di perfezione nuova, di realtà divina partecipata e infusa nello spirito. La vita cristiana non è solo un complesso di attività naturali che dal di fuori siano proiettate verso una meta divina, soprannaturale. Non è soltanto in gioco la causalità finale. Si tratta invece di un principio qualitativo ('abito entitativo'), che, presupponendo la 'natura', la risana e la eleva; si innesta in essa come principio radicale di operazioni, nelle quali rifulge il duplice splendore dell''uomo onesto' (legge naturale) e del 'figlio di Dio' (legge nuova della grazia).”.[160]

Prendendo una netta posizione contro le tesi gioachimite e la letteratura da esse derivata, Tommaso esclude che ci si debba aspettare un'età dello Spirito, in cui vigerà una Legge più alta dello stesso Vangelo e governeranno gli uomini spirituali: il massimo di miglioramento che si può sperare è una maggior corrispondenza degli uomini alla grazia già ricevuta e già sufficiente a condurli al fine ultimo. Quindi, in un certo senso la Legge nuova è destinata a durare fino alla fine del mondo, in un altro è precaria, sempre esposta al rischio di essere cancellata dai cuori; ma soltanto in Paradiso, nello stato di gloria, l'uomo non potrà più cadere nel peccato.[161] Come già sotto l'Antico Testamento vi era qualcuno che aveva la carità e la grazia dello Spirito Santo, e in questo senso si può considerare appartenente al Nuovo, così oggi non mancano uomini carnali che fanno il bene o evitano il male solo perché spinti dal timore delle pene:[162] il mondo non era ieri tanto buio da esser tutto privo di luce e non sarà, né oggi né domani, tanto luminoso da restar privo di ombre.

Quanto all'oggetto, la Legge nuova imprime soprattutto un ordine agli atti interni e ai moti dell'animo, come descritto nel Discorso della Montagna: dapprima si conforma appieno la volontà, in modo che non si astenga solo dagli atti esterni cattivi, ma anche dagli interni e dalle occasioni di peccato; quindi tocca alle intenzioni, affinché l'uomo apprenda a compiere il bene senza cercare né la gloria del mondo né la ricchezza terrena; e infine vengono i moti dell'animo verso il prossimo, che vengono ricondotti a giustizia evitando sia il giudizio temerario sia la faciloneria; e a coronamento del tutto sta la costante invocazione dell'aiuto divino.[163]

Con tutto ciò, la lex nova riguarda anche le azioni esterne, mediante cui manifestiamo la grazia oppure la riceviamo;[164] si limita però, essendo legge di libertà,[165] a comandare quel che ci permette di conseguire la grazia, di alimentarla e di non perderla, lasciando per il resto ampi margini, sia nel culto divino sia nei rapporti con il prossimo, alle scelte dei singoli o di chi abbia cura di una qualunque comunità di fedeli, secondo che le decisioni riguardino il singolo oppure tutti quanti (questo è uno dei pochi accenni a un potere normativo che sembra specificamente canonico).[166] Chi poi volesse giungere ad una perfezione maggiore già in questa vita ha a disposizione lo strumento dei consigli evangelici.[167] Può sembrare ancor più gravosa dell'antica, a chi consideri che la giustizia deve ora essere anzitutto interiore, o che oltre a non uccidere occorre pure non adirarsi, e così via; però – qui forse, più che in ogni altra parte del testo, si coglie il nesso intimo tra contenuto imperativo e principio vivificante - “questo è molto difficile per chi non ha la virtù, ma mediante la virtù lo si rende facile”,[168] e Dio non chiede all'uomo di raggiungere una giustizia superiore a quella di scribi e farisei senza donargli, nello stesso tempo, il mezzo per conseguirlo: la grazia, come dire – in ultima analisi - Sé stesso.

 

2.9 Ipsa res iusta. La collocazione del ius nel pensiero di Tommaso

A parte la comparsa del ius gentium, forse inopinata, fin qui il termine ius ha brillato per la sua assenza; già solo questo basterebbe, a mio avviso, a rendere problematica la definizione con cui il p. Mondin, pretendendo di prestarla a Tommaso, apre la voce Diritto del suo pur benemerito Dizionario: “È l'insieme di prescrizioni che regolano i rapporti tra gli uomini”.[169] E prosegue parlando di lex aeterna, lex naturalis e teoria dello Stato.

Cominciamo, allora, dai pochi dati pacifici: quantunque sia discusso se l'Aquinate conosce un'accezione di ius corrispondente al nostro “diritto soggettivo”, è certo e risulta per tabulas che non l'ha riportata nel momento in cui ha voluto elencare i significati del termine. Ma se questo orienta, senza dubbio, l'interprete del suo pensiero a ricercare un ius oggettivo, altrettanto espressa è la negazione di un'identità tra ius e lex: come nelle abilità artigiane – egli dice - esiste una regola alla base di ciò che viene fatto, e la si chiama “regola d'arte”, così anche nella mente di chi agisce vi è, e preesiste all'azione che compie l'opera giusta, un criterio che funge, per così dire, da regola della prudenza; se viene messo per iscritto, prende il nome di lex. E dunque, propriamente parlando, la lex non è il ius, ma “aliqualis ratio iuris”.[170]

Senza soffermarmi subito su questo passaggio, pur così affascinante e denso, aggiungo l'ultimo dato pacifico: Tommaso riprende l'impianto ulpianeo, recepito dal Digesto, per cui il ius è l'oggetto specifico della giustizia e quest'ultima, a sua volta, è la volontà ferma e costante di dare a ciascuno il suo ius.[171] Il rischio di una definizione circolare è, quindi, dietro l'angolo, ma egli lo sventa anteponendo alla stessa definizione della giustizia (II-II, qu. 58) l'indagine sul suo oggetto (ivi, qu. 57), mettendo a frutto anche la definizione celsina del ius come ars boni et aequi. Il risultato è una fine analisi lessicale, di quelle che tanto spesso impreziosiscono la sua opera: ius, egli dice, significa innanzitutto “ipsa res iusta”, la cosa giusta considerata in sé stessa; poi il termine è stato applicato all'ars mediante cui si conosce ciò che è giusto,[172] al luogo in cui si rende giustizia e, da ultimo, alla pronuncia giudiziale, anche quando ciò che il giudice dichiara è iniquum.[173]

A questo punto, però, per quanto possiamo sentirci interessati, continuiamo a chiederci in che rapporto stia tutto questo con la trattazione sulla lex.

Senza la minima pretesa di esaurire il tema o di rendere risposte definitive in discussioni che probabilmente saranno eterne, mi limito qui a suggerire che la risposta – al di là di quel che si può ricavare partendo dai dati appena esposti – giaccia, per così dire, nella sistematica della Summa e in particolare nelle differenze che intercorrono tra la giustizia e la prudenza, che sono le virtù chiamate in causa, rispettivamente, da ius e lex.

Ora, la giustizia è una virtù morale e non intellettuale (come invece la prudenza), riguarda principalmente la volontà e l'azione, recando altresì insito in sé, al pari di tutte le virtù morali, un aspetto politico, cioè un riferimento alla natura sociale dell'uomo.[174]La g. è la virtù che ordina l'uomo all'altro e che fa sì che debba sempre rispettare tale alterità perché ogni uomo è un altro, una persona. L'altro (ciascuno) abbraccia anche la comunità. Quindi l'indicazione 'dare a ciascuno il suo' contempla sia il dovere del singolo a contribuire al bene comune, che il dovere della comunità di dare il suo ai singoli cittadini. […] Nel linguaggio di S.T. non figura mai un'espressione molto cara ai moderni, quella di 'g. sociale'. Ma si tratta di una carenza meramente lessicale, perché di fatto tutti e tre i tipi di g. studiati da S.T. appartengono alla g. sociale: si tratta sempre del dovere verso gli altri (singoli o comunità), salvaguardando una certa uguaglianza di rapporti, perché 'l'atto specifico della giustizia non consiste in altro che nel rendere a ciascuno il suo' (II-II, q. 58, a. 11)”.[175]

Questo ci dice, sostanzialmente, due cose:

  • il Tractatus de lege ci ha presentato un quadro universale e grandioso a capo del quale sta la lex aeterna, il piano divino da cui ogni altra lex ripete verità e validità; lì il ruolo della ragione era soprattutto conoscitivo e comportava l'elaborazione o la scoperta di regole generali, sebbene talvolta da adattarsi al caso concreto; ma il Tractatus de iustitia si occupa soprattutto di scelte individuali, anche se viste sempre nei rapporti dell'uomo con gli altri, quindi ci troviamo all'estremo opposto della scala e del livello di generalità, siamo alle decisioni concrete.
  • L'identificazione tra ius e iustum è esplicita,[176] il che significa che l'ars che scopre questo ius comprende certo la scienza giuridica, ma è ben più ampia, perché la giustizia si distingue in tre parti, la legale che riguarda il dovere di osservanza delle leggi, la commutativa sull'eguaglianza di valore negli scambi di beni, la distributiva circa la loro retta distribuzione all'interno della comunità in rapporto al parallelo riparto dei compiti e oneri richiesti dal bene comune.[177] Tuttavia, la giustizia legale è, per Tommaso come già per Aristotele, la più alta delle tre e ordina tutte le virtù al bene comune.[178]

Tutto ciò porta a concludere che la lex sia la premessa maggiore del sillogismo decisionale, il ius la conclusione giusta; o, se si preferisce, che il problema dell'indeterminabilità a priori del singolare, costantemente evocato sullo sfondo del primo Tractatus, dove comunque si difendeva la possibilità di regole generali pur predicandone una certa adattabilità (maggiore o minore), adesso balza in primo piano. E ce lo conferma il fatto che l'atto con cui si determina il ius è il giudizio,[179] chiaramente collocato in un contesto giudiziario, anche se applicato a qualsiasi decisione della coscienza: a questo proposito ritornano temi come la necessità di attenersi alla legge scritta,[180] o la distinzione tra ius naturale e ius positivum, dove però quest'ultimo include ora anche i contratti;[181] ma si aggiungono dati nuovi, legati appunto alle esigenze della decisione concreta, come il dovere di preferire, nel dubbio, l'interpretazione in bonam partem.[182] Considerato, infine, che la giustizia legale deve ordinare tutte le altre virtù al bene comune, si spiega anche l'ampiezza abnorme della trattazione che la riguarda.

Non è mia intenzione, qui, rintracciare tutti gli spunti di carattere o interesse giuridico presenti in tanta mole di pagine;[183] vorrei limitarmi a qualche rilievo generale.

Innanzitutto, il fatto che il problema dell'equa distribuzione delle ricchezze sia considerato inscindibile dall'assetto costituzionale e dal concreto riparto degli oneri richiesti dalla cura della cosa pubblica non significa solo una ripresa di Aristotele, ma comporta anche che l'ars boni et aequi, cui spetta la difficilissima determinazione del ius, necessariamente abbracci tutto ciò che noi oggi chiamiamo, distinguendo, diritto, morale, politica e politica economica: non per nulla, è l'ottica in cui è stato scritto il De regimine principum. Rispetto all'impossibilità di prescindere dal momento distributivo, tra i contemporanei non marxisti forse si è mosso su questa strada soltanto il Carl Schmitt de Il nomos della terra; e un raffronto potrebbe riservare sorprese.

Ancora, la determinazione del ius è l'esatto contrario di una precisione matematica, da calcolo universale comunque inteso: ce lo ricorda proprio la quaestio de iure, quando ci dice che il nome di giustizia contiene un riferimento all'eguaglianza, perché volgarmente, se due cose vengono rese uguali, suol dirsi che vengono “aggiustate”.[184] Ma aggiustare è sempre un'operazione approssimativa – il che non significa senza criterio – e ciò spiega perché qui non si parli più di un'attività strettamente logica o conoscitiva e neppure della prudenza, bensì di un'ars.

La differenza tra lex e ius potrebbe, dunque, essere paragonabile a quella che corre tra i libri di testo di un ingegnere e l'ingegnere stesso intento a dirigere un lavoro: ovviamente il manuale è un condensato di esperienza ed è redatto, magari più o meno bene, in vista della pratica, ma non sostituisce l'acquisizione di esperienza personale, non può contenere tutte le risposte, non esime dal decidere e, per eccellente che sia, ad un certo punto lascerà il tecnico o privo di riferimenti – perché in concreto le variabili da considerare sono troppe, troppo mutevoli o troppo poco conoscibili – oppure libero, perché in astratto le scelte possibili sono più o meno indifferenti.

Naturalmente, questo non significa che lo siano anche in concreto o nella storia. Per esempio, applicare la giustizia distributiva comporta definire, nello stesso tempo, un assetto costituzionale e un riparto di beni che dev'essere ben proporzionato ad esso; l'eguaglianza da seguirsi è di tipo morale e va in proporzione geometrica, ossia è escluso a priori che tutti debbano avere la stessa quantità di beni, ma chi dà alla civitas 2 può avere 4, chi dà 3 può avere 6, e così via. Però sia la scala di proporzione sia i valori non si possono stimare semplicemente tenendo conto del valore economico, sia per gli uffici sia per gli stessi beni occorrono anche considerare le ricadute in termini di prestigio etc. Valutazioni del genere scontano senza dubbio un grado notevole di arbitrarietà, perfino astrazion fatta dall'interesse personale o di parte; e tuttavia, un errore notevole compromette la stabilità del regime, come pure la scarsa vigilanza nel mantenere l'equilibrio raggiunto. S. Tommaso, questo lettore entusiasta e “cristianizzatore” di Aristotele, ha ben presente la lezione di lui sui mutamenti della costituzione politica, anzi necessariamente politico-economica; se avesse portato a termine il De regimine o il commento alla Politica, sapremmo forse qualcosa in più sul suo pensiero in proposito, ma in linea generale non può esservi dubbio circa la sua preferenza per la stabilità. 

Un ultimo rilievo, annidato sempre nel concetto di giustizia distributiva: il ius di S. Tommaso è convintamente aristocratico, nel senso che postula l'esistenza di dignità personali differenziate che, almeno nel regime migliore, dovrebbero essere assegnate secondo virtù; il reciproco è che esso muta, in malam partem è il caso di dire, quando muta in peggio l'indole del soggetto, tanto che un giusnaturalista indiscusso come Tommaso arriva a scrivere “natura hominis est mutabilis”, intendendo proprio questa possibilità di deflettere dalla virtù; e riprende l'esempio della restituzione del deposito per spiegare che sarebbe un obbligo intangibile se la volontà dell'uomo sarebbe sempre retta, ma che si danno casi che è doveroso eccettuare a misura che tale volontà si deprava.[185]

Il cammino di Tommaso, cominciato letteralmente nell'Empireo, termina dunque nella caliginosa incertezza della vita di uomini che, quaggiù, contemplano Iddio soltanto per speculum et in aenigmate. Ma il lettore non nutre l'impressione che gli spiaccia aver abbandonato l'altezza celeste: egli ricorda perfettamente che proprio nella complessità, e per altri versi anche nella banalità, delle scelte quotidiane ciascun uomo si gioca costantemente la salvezza eterna; in definitiva, questa è la ragione per cui il caso concreto non può essere per lui lo scarto che resiste imperterrito al più massiccio sforzo di astrazione e concettualizzazione, ma viene ad assolvere un ruolo centrale nel reditus, il ritorno dell'uomo a Dio, come la lex lo ha nell'azione di Dio verso l'uomo. In questo senso, il tramite tra i due momenti è la grazia, che illumina l'uomo, lo sostiene e lo conduce ad un premio eterno che può dirsi meritato proprio se e in quanto egli ha corrisposto così all'iniziativa divina. Esiste allora, però, anche una certa sacralità del diritto, da Tommaso adombrata chiaramente nella discussione sulla lex nova: la vera lex, e in generale il vero dato giuridico, sono sacri perché predispongono l'uomo alla grazia, o lo mettono in condizione di esercitarla, o gli insegnano il suo posto in un ordine delle cose che lo mette, con tutto il resto del mondo, in marcia verso Dio ma sempre con il pericolo dell'esito opposto. Questa è, senza il minimo dubbio e nel senso più forte, una teologia del diritto.

 

[1]    Ovviamente, definendola una risposta “collaborativa”, sto prendendo una posizione netta, e nettamente non luterana, sul problema della giustificazione. Ai nostri fini, però, è sufficiente ammettere che la fede personale agisca e debba agire anche come movente che induce a compiere opere buone, senza che dobbiamo interessarci anche allo specifico valore da accordarsi a queste ultime rispetto alla salvezza eterna.  

[2]    Del resto, “In realtà le sue opere sistematiche sono di teologia, e anche la sua filosofia ci viene offerta secondo l'ordine e nel quadro di una trattazione teologica.”. R. Spiazzi, Il pensiero di San Tommaso d'Aquino, Bologna 1997, pag. 81.

[3]    Anzi, nella Summa Theologiae, “la trattazione del problema della legge costituisce il punto cruciale dell'incontro dell'exitus [da Dio alle creature] e del reditus [viceversa]. Ciò significa che il concetto di legge è un concetto centrale, perché è attraverso la riscoperta del valore della legge che l'esistenza umana non solo prende coscienza della propria creaturalità, ma imbocca il cammino del suo ritorno verso Dio.”. F. Todescan, Compendio di storia della filosofia del diritto, Padova 2013, pag. 94.

[4]    Sarei comunque più propenso ad affermare che si tratta del medesimo fenomeno, colto però da due punti di vista molto differenti; tuttavia, proprio questa differenza è tale da legittimar l'interrogativo se essa non stia anche nelle cose stesse.

[5]    “Consequenter considerandum est de principiis exterioribus actuum. Principium autem exterius ad malum inclinans est diabolus, de cuius tentatione in Primo dictum est. Principium autem exterius movens ad bonum est Deus, qui et nos instruit per legem, et iuvat per gratiam. Unde primo, de lege; secundo, de gratia dicendum est.”. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 90, pr.

[6]    La presenza di quaedam basta ad assicurarci che non ci troviamo in presenza di una definizione formale, in più Tommaso dichiara espressamente che una qualunque inclinazione può esser detta lex, se proviene ex aliqua lege (ad 1); siamo dunque nell'ambito dei chiarimenti preliminari che partono dalla nozione indistinta di lex che può avere anche l'uomo della strada.

[7]    Diversamente B. Mondin, s.v. Legge (naturale e positiva), in Id., Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso d'Aquino, Bologna 2000, pag. 388, traduce “comando della ragione”, certo per il fatto che, per Tommaso, imperare est actus rationis; si tratta però di un comando che è antecedente a quando la volontà si muove per eseguirlo, dunque a rigore l'atto esterno che impartisce l'ordine concreto è un'altra cosa, sta a valle e mi sembra preferibile evitare il pericolo di confusione.

[8]    “Sicut autem ratio est principium humanorum actuum, ita eriam in ipsa ratione est aliquid quod est principium omnium aliorum. Unde ad hoc oportet quod principaliter et maxime pertineat lex. - Primum autem principium in operativis, quorum est ratio practica, est finis ultimus. Est autem ultimus finis humanae vitae felicitas vel beatitudo, ut supra habitum est. Unde oportet quod lex maxime respiciat ordinem qui est in beatitudinem. - Rursus, cum omnis pars ordinetur ad totum sicut imperfectum ad perfectum; unus autem homo est pars communitatis perfectae: necesse est quod lex proprie respiciat ordinem ad felicitatem communem.”. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 90, a. 2, in c.

[9]    Tralascio l'annosa disputa di scuola, se egli non teorizzi in realtà un duplice fine dell'uomo, ammettendo la felicità terrena come fine subordinato e secondario sì, ma legittimo e a sé stante; propendo per la negativa (in tal senso, cfr. E. Nardi, Ateismo e desiderio di Dio nell'opera di Henri de Lubac, Lucca 2006) e anche il Magistero mi sembra orientato a riaffermare che il fine ultimo è uno solo (cfr. GS 41), ma ai nostri fini basta il dato pacifico che S. Tommaso ammette una beatitudo imperfecta in questo mondo, senza che occorra chiedersi se essa costituisca in qualche modo un possibile scopo “autonomo” dell'esistenza, giacché, come scrive  J.A. Weisheipl, Tommaso d'Aquino. Vita, pensiero, opere, Milano 2016, pag. 261, “Per Tommaso esiste una sola scienza teologica, che comprende tanto l'aspetto speculativo quanto quello pratico, la parte 'dogmatica' come quella 'morale'. […] L'insegnamento della teologia richiede, d'altra parte, un'analisi piuttosto minuziosa delle azioni morali con cui l'uomo raggiunge la vera felicità, che è data dalla contemplazione di Dio mediante la grazia in questa vita e mediante la gloria nella futura.

[10]  La trattazione del fine ultimo, non per caso, è messa in testa a tutta l'analisi degli atti umani: cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qq. 1-5; sulla beatitudo imperfecta, cfr. in particolare qu. 3, a. 2, in c. e a. 6; qu. 4 a. 7; qu 5, aa. 3 e 5.

[11]  Invero, a proposito di questo passo, É. Gilson, Il tomismo. Introduzione alla filosofia di san Tommaso d'Aquino, Milano 2011, pag. 590, commenta: “Ma forse non ci è proibito credere che la gioia celeste non sia una gioia solitaria, ma che la beatitudine celeste realizzata dalla visione che i beati hanno della loro gioia reciproca si abbellisca anche di una eterna amicizia.”.

[12]  “Oportet enim esse unionem affectus inter eos quibus est unus finis communis. Communicant autem homines in uno ultimo fine beatitudinis, ad quem divinitus ordinantur. Oportet igitur quod uniantur homines ad invicem mutua dilectione.

      Adhuc. Quicumque diligit aliquem, consequens est ut etiam diligat dilectos ab eo, et eos qui coniuncti sunt ei. Homines autem dilecti sunt a Deo, quibus sui ipsius fruitionem quasi ultimum finem praedisposuit. Oportet igitur ut, sicut aliquis fit dilector Dei, ita etiam fiat dilector proximi.

      Amplius. Cum homo sit naturaliter animal sociale, indiget ab aliis hominibus adiuvari ad consequendum proprium finem. Quod convenientissime fit dilectione mutua inter homines existente. Ex lege igitur Dei, quae homines in ultimum finem dirigit, praecipitur in nobis mutua dilectio.

      Item. Ad hoc quod homo divinis vacet, indiget tranquillitate et pace. Ea vero quae pacem perturbare possunt, praecipue per dilectionem mutuam tolluntur. Cum igitur lex divina ad hoc ordinet homines ut divinis vacent, necessarium est quod ex lege divina in hominibus mutua dilectio procedat.

      Praeterea. Lex divina profertur homini in auxilium legis naturalis. Est autem omnibus hominibus naturale ut se invicem diligant. Cuius signum est quod quodam naturali instinctu homo cuilibet homini, etiam ignoto, subvenit in necessitate, puta revocando ab errore viae, erigendo a casu, et aliis huiusmodi: ac si omnis homo omni homini esset naturaliter familiaris et amicus. Igitur ex divina lege mutua dilectio hominibus praecipitur.”. Id., Summa contra Gentiles, III, cap. 117 – Quod divina lege ordinamur ad dilectionem proximi.  nn. 2-6.

[13]  A rigore, la perfectio della communitas non figura nella definizione; tuttavia non c'è dubbio che la realtà politica e la communitas perfecta siano, perlomeno, il caso paradigmatico di legislazione. Cfr. in particolare ID., Summa Theologiae, I-II, qu. 90, a. 3 ad 3, che esclude che siano “proprie leges” gli statuta o praecepta che possono adottarsi nell'ambito di una famiglia; qu. 91, a. 1, in c., “sicut supra dictum est, nihil est aliud lex quam quoddam dictamen practicae rationis in principe qui gubernat aliquam communitatem perfectam”, non sembra notare l'aggiunta dell'aggettivo, funzionale alla tesi per cui esiste una lex aeterna in quanto Dio governa la communitas di tutto l'Universo. Non si tratta di una nuova definizione, ma di una riformulazione di quella già data che serve ad applicarla meglio al caso particolare, come in qu. 92, a. 1, in c., “sicut supra dictum est, lex nihil aliud est quam dictamen rationis in praesidente, quo subditi gubernantur”. Diversamente, a tacer d'altro, non si spiegherebbe l'assenza del requisito di funzionalità al bonum commune, non menzionato in nessuno di questi due passi.

[14]  “Postquam philosophus determinavit de communitatibus ordinatis ad civitatem, hic determinat de ipsa communitate civitatis. Et dividitur in partes tres. In prima ostendit qualis sit civitatis communitas. Secundo ostendit, quod est naturalis, ibi, propter quod omnis civitas et cetera. Tertio agit de institutione civitatis, ibi natura igitur quidem et cetera. Circa primum ostendit conditionem civitatis quantum ad tria. Primo ostendit ex quibus sit civitas. Quia sicut vicus constituitur ex pluribus domibus, ita et civitas ex pluribus vicis. Secundo dicit, quod civitas est communitas perfecta: quod ex hoc probat, quia cum omnis communicatio omnium hominum ordinetur ad aliquid necessarium vitae, illa erit perfecta communitas, quae ordinatur ad hoc quod homo habeat sufficienter quicquid est necessarium ad vitam: talis autem est communitas civitatis. Est enim de ratione civitatis, quod in ea inveniantur omnia quae sufficiunt ad vitam humanam, sicut contingit esse. Et propter hoc componitur ex pluribus vicis, in quorum uno exercetur ars fabrilis, in alio ars textoria, et sic de aliis. Unde manifestum est, quod civitas est communitas perfecta. Tertio ostendit ad quid est civitas ordinata: est enim primitus facta gratia vivendi, ut scilicet homines sufficienter invenirent unde vivere possent: sed ex eius esse provenit, quod homines non solum vivant, sed quod bene vivant, inquantum per leges civitatis ordinatur vita hominum ad virtutes.”. Id., Sententia Politic., I.1.2

[15]  Qui il discorso si sta concentrando sulla civitas, ma, come osserva É. Gilson, Il tomismo..., cit., pag. 442, “Ciò che è vero per quanto riguarda un popolo risulta vero per ogni comunità di esseri, che siano governati in vista del loro bene comune da un sovrano le cui decisioni sono dettate dalla ragione. Avremo tanti generi di leggi quante saranno le comunità di questo tipo.”.

[16]  “[S]inguli homines comparantur ad totam civitatem, sicut partes hominis ad hominem. Quia sicut manus aut pes non potest esse sine homine, ita nec unus homo est per se sufficiens ad vivendum separatus a civitate. Si autem contingat, quod aliquis non possit communicare societate civitatis propter suam pravitatem, est peior quam homo, et quasi bestia. Si vero nullo indigeat, et (sit) quasi habens per se sufficientiam, et propter hoc non sit pars civitatis, est melior quam homo. Est enim quasi quidam Deus.”. Ibid., n. 31.

[17]  “Sed homo reducitur ad iustitiam per ordinem civilem”. Ibid., n. 33.

[18]  Anche R. Spiazzi, Il pensiero..., cit., pagg. 276-81, secondo cui S. Tommaso riconoscerebbe un bene comune temporale distinto dal fine ultimo, quindi anche un ambito in cui lo Stato è autonomo e sostanzialmente anche sovrano (tesi che mi trovano diffidente quanto all'interpretazione del pensiero del Maestro), arriva poi a dire: “C'è da chiedersi se di fatto il potere politico sia veramente autosufficiente in ordine anche solo alla cura del bene comune temporale.” (pag. 280).

[19]  Curiosamente, B. Mondin, s.v. Papa, in Id., Dizionario enciclopedico..., cit., pag. 484, interpreta il passo come riferito a “i vescovi e i sacerdoti”, che, “dopo il P., in modo limitato partecipano al potere di giurisdizione” . Ma il testo latino è inequivocabile: parla di reges, non di un più generico rectores populi Christiani (e comunque, per indicare il Superiore ecclesiastico Tommaso usa generalmente praelatus). Inoltre, a rigore direi che Vescovi e Sacerdoti non hanno cura di fini intermedi, ma dello stesso fine ultimo affidato al Papa, solo in un ambito più ristretto ed entro limiti stabiliti dall'autorità superiore.

[20]  “Si enim propter solum vivere homines convenirent, animalia et servi essent pars aliqua congregationis civilis. Si vero propter acquirendas divitias, omnes simul negotiantes ad unam civitatem pertinerent [...]. Sed quia homo vivendo secundum virtutem ad ulteriorem finem ordinatur, qui consistit in fruitione divina, ut supra iam diximus, oportet eumdem finem esse multitudinis humanae qui est hominis unius. Non est ergo ultimus finis multitudinis congregatae vivere secundum virtutem, sed per virtuosam vitam pervenire ad fruitionem divinam. Siquidem autem ad hunc finem perveniri posset virtute humanae naturae, necesse esset ut ad officium regis pertineret dirigere homines in hunc finem. [...] Sed quia finem fruitionis divinae non consequitur homo per virtutem humanam, sed virtute divina, iuxta illud apostoli: gratia Dei, vita aeterna, perducere ad illum finem non humani erit, sed divini regiminis. Ad illum igitur regem huiusmodi regimen pertinet, qui non est solum homo sed etiam Deus, scilicet ad dominum nostrum Iesum Christum, qui homines filios Dei faciens in caelestem gloriam introduxit. Hoc igitur est regimen ei traditum quod non corrumpetur, propter quod non solum sacerdos, sed rex in Scripturis sacris nominatur, dicente Ieremia: regnabit rex, et sapiens erit; unde ab eo regale sacerdotium derivatur. Et quod est amplius, omnes Christi fideles, in quantum sunt membra eius, reges et sacerdotes dicuntur. Huius ergo regni ministerium, ut a terrenis essent spiritualia distincta, non terrenis regibus sed sacerdotibus est commissum, et praecipue summo sacerdoti, successori Petri, Christi vicario, Romano pontifici, cui omnes reges populi Christiani oportet esse subditos, sicut ipsi domino Iesu Christo. Sic enim ei, ad quem finis ultimi cura pertinet, subdi debent illi, ad quos pertinet cura antecedentium finium, et eius imperio dirigi.”. S. Tommaso d'Aquino, De regimine principum, I 15. Va qui notato almeno per completezza che, proprio perché è l'unico testo in cui S. Tommaso si sia espresso sui rapporti tra Chiesa e Stato, il De regimine principum (o De regno) ha alimentato una ricca bibliografia, nonché accuse di apocrifia motivate, in particolare perché contraddirebbe il Commento alle Sentenze: in tema, cfr. J.A. Weisheipl, op. cit,, pagg. 193-8.

[21]  “Sicut enim dicit Augustinus, 2 de Civ. Dei, c. 21, populus est coetus multitudinis, iuris consensu et utilitate communionis sociatus. Quando ergo consentiunt in ius divinae legis, ut sint adinvicem utiles et tendant in Deum, tunc est populus Dei”. Id., Super epistolam ad Hebraeos, c. 8, l. 3, n. 406 (commenta Eb 8,10b: “E io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” istituendo un rapporto di causa ad effetto tra le due parti).

[22]  Mi rifaccio qui a G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna 1976, pag. 29: “Per 'particolarismo giuridico' si intende la mancanza di unitarietà e di coerenza dell'insieme delle leggi vigenti in una data sfera spazio-temporale, individuata in seguito ad un giudizio di valore secondo il quale in quella stessa sfera vi 'dovrebbe' essere, o 'ci si aspetterebbe' vi fosse, unità e coerenza di leggi.”. Non è un caso che siffatte esigenze di unitarietà e coerenza siano emerse in un contesto ben diverso, quello degli Stati nazionali ormai affermatisi al punto di poter tendere al monopolio sulla creazione del diritto e sull'uso della forza, che secondo Max Weber è la duplice caratteristica dello Stato moderno.

[23]  Cfr., tra i molti riferimenti possibili, B. Paradisi, Il pensiero politico dei giuristi medievali, in L. Firpo (cur.), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, vol. II.2 – Il Medioevo, Torino 1983, pagg. 211-366, con ampia bibliografia, tuttora valida nelle linee generali.

[24]  “Bonum autem commune divinius est quam bonum speciale; et ideo super potestatem regitivam quae conjectat bonum speciale, oportet esse potestatem regitivam universalem respectu boni communis, alias non posset esse colligatio ad unum; et ideo cum tota Ecclesia sit unum corpus, oportet, si ista unitas debet conservari, quod sit aliqua potestas regitiva respectu totius Ecclesiae supra potestatem episcopalem, qua unaquaeque specialis Ecclesia regitur; et haec est potestas Papae; et ideo qui hanc potestatem negant, schismatici dicuntur, quasi divisores ecclesiasticae unitatis. Et inter episcopum simplicem et Papam sunt alii gradus dignitatum correspondentes gradibus unionis; secundum quos una congregatio vel communitas includit aliam; sicut communitas unius provinciae includit communitatem civitatis; et communitas regni communitatem unius provinciae; et communitas totius mundi communitatem unius regni.”. S. Tommaso d'Aquino, Super Sententias IV, d. 24 qu. 3 a. 2 qc. 3 in c.

[25]  Cfr. in particolare ID., Summa Theologiae, I-II, qu. 90, a. 3 ad 3: “Ad tertium dicendum quod, sicut homo est pars domus, ita domus est pars civitatis, civitas autem est communitas perfecta, ut dicitur in I Politic. Et ideo sicut bonum unius hominis non est ultimus finis, sed ordinatur ad commune bonum; ita etiam et bonum unius domus ordinatur ad bonum unius civitatis, quae est communitas perfecta. Unde ille qui gubernat aliquam familiam, potest quidem facere aliqua praecepta vel statuta; non tamen quae proprie habeant rationem legis.”. Ibid., II-II, qu. 69, a. 3 ad 1: “Ad primum ergo dicendum quod potestati inferiori intantum aliquis subiici debet inquantum ordinem superioris servat, a quo si exorbitaverit, ei subiici non oportet, puta si aliud iusserit proconsul, et aliud imperator, ut patet per Glossam Rom. XIII.

[26]  Ibid., II-II, q. 65 a. 2 ad 2.: “Ad secundum dicendum quod maior potestas maiorem debet habere coactionem. Sicut autem civitas est perfecta communitas, ita princeps civitatis habet perfectam potestatem coercendi, et ideo potest infligere poenas irreparabiles, scilicet occisionis vel mutilationis. Pater autem et dominus, qui praesunt familiae domesticae, quae est imperfecta communitas, habent imperfectam potestatem coercendi secundum leviores poenas, quae non inferunt irreparabile nocumentum.” .

[27]  Cfr. Id., Sententia Politicorum, I lec. 1 n. 3: “Deinde cum dicit maxime autem etc. ostendit quod illud bonum ad quod ordinatur civitas, est principalissimum inter bona humana, tali ratione. Si omnis communitas ordinatur ad bonum, necesse est quod illa communitas quae est maxime principalis, maxime sit coniectatrix boni quod est inter omnia humana bona principalissimum. Oportet enim quod proportio eorum quae sunt ad finem, sit secundum proportionem finium. Quae autem communitas sit maxime principalis, manifestat per hoc quod addit. Et omnes alias circumplectens.  Est enim communitas quoddam totum: in omnibus autem totis, talis ordo invenitur quod illud totum quod in se includit aliud totum principalius est: sicut paries est quoddam totum: et quia includitur in hoc toto quod est domus, manifestum est quod domus est principalius totum: et similiter communitas quae includit alias communitates est principalior. Manifestum est autem quod civitas includit omnes alias communitates. Nam et domus et vici sub civitate comprehenduntur; et sic ipsa communitas politica est communitas principalissima. Est ergo coniectatrix principalissimi boni inter omnia bona humana: intendit enim bonum commune quod est melius et divinius quam bonum unius, ut dicitur in principio Ethicorum.”. Cfr. anche ibid., nn. 5, 6 e 19.

[28]  Non in termini di diritti: communitas, in S. Tommaso, designa spesso la “comunanza” di aspetti, proprietà etc. tra due cose distinte, o anche tra le Persone divine. Cfr. R. Busa (cur.), Index Thomisticus, ad voc.

[29]  Noi oggi leggiamo Aristotele in termini condizionati dall'abitudine di tradurre polis come “città-Stato” se non direttamente “Stato”; S. Tommaso e i suoi contemporanei erano avvezzi a chiamare imperium o regnum le realtà “statali” a loro coeve, mentre sentendo civitas in contesto politico pensavano automaticamente “libero Comune”, oppure alla teoria agostiniana delle “due Città”. Che per lui civitas non sia sinonimo di regnum risulta chiaramente da S. Tommaso d'Aquino, Super Matthaeum (rep. Leodegarii Bissuntini), cap. 12 l. 2: “Primum expressissime ponitur: omne regnum contra se divisum desolabitur. Primo ponit maiorem, cum dicit omne regnum et cetera. Triplex est communitas: domus, sive familiae, civitatis, et regni. Domus est communitas consistens ex his, per quos fiunt communes actus; ideo consistit ex triplici coniugatione, ex patre et filio, ex marito et uxore, ex domino et servo. Communitas civitatis omnia continet quae ad vitam hominis sunt necessaria: unde est perfecta communitas quantum ad mere necessaria. Tertia communitas est regni, quae est communitas consummationis. Ubi enim esset timor hostium, non posset per se una civitas subsistere; ideo propter timorem hostium necessaria est communitas civitatum plurium, quae faciunt unum regnum. Unde sicut vita in quolibet homine ita pax in regno; et sicut sanitas nihil est nisi temperantia humorum, sic pax est cum unumquodque retinet ordinem suum. Et sicut, recedente sanitate, tendit homo ad interitum; sic de pace; si a regno discedit, tendit ad interitum. Unde ultimum quod attenditur, est pax. Unde philosophus: sicut medicus ad sanitatem, sic defensor reipublicae ad pacem. Ideo dicit omne regnum in se divisum desolabitur. ”. Con tutte le cautele dovute al caso in cui un discorso orale ci si è conservato tramite appunti altrui, qui sembrerebbe che la necessità del regnum sia di carattere estrinseco (il timore dei nemici), forse con un influsso della concezione agostiniana secondo cui esso si è reso necessario dopo il peccato originale; tuttavia è ordinato ad un fine positivo, la pax.

[30]  La consultazione dell'Index Thomisticus alle voci bonum commune, communitas, imperator, respublica e universitas non ha restituito risultati utili. Può essere interessante notare, invece, a conferma di una certa distanza della speculazione tommasiana dalle dispute tra i due poteri, che le occorrenze del termine gladius rivelano l'assenza di qualunque menzione, anche solo cursoria, della teoria delle “due spade”.

[31]  Così come di fatto Cristo è il capo di tutti gli uomini, ancorché pagani, però in modo diversi: cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae III, q. 8, a. 3. Anzi, a rigore il fine ultimo è comune a tutte le creature; ma solo gli uomini possono conseguire la visione beatifica.

[32]  Cfr. Id., Summa contra Gentiles III, cap. 17, n. 6: “Bonum particulare ordinatur in bonum commune sicut in finem: esse enim partis est propter esse totius; unde et bonum gentis est divinius quam bonum unius hominis. Bonum autem summum, quod est Deus, est bonum commune, cum ex eo universorum bonum dependeat: bonum autem quo quaelibet res bona est, est bonum particulare ipsius et aliorum quae ab ipso dependent. Omnes igitur res ordinantur sicut in finem in unum bonum, quod est Deus.”.

[33]  In particolare, potrebbe tornare utile tentar ricerche nell'Index Thomisticus impiegando termini diversi, la cui potenziale significatività mi sia – all'evidenza – sfuggita.

[34]  “...[S]upposito quod illa consuetudo de dilatione solutionis usque ad spatium trium mensium, sicut proponitur, sit ad commune bonum mercatorum, scilicet pro expediendis mercationibus, et non in fraudem usurarum introducta”. S. Tommaso d'Aquino, De emptione et venditione ad tempus, cap. I.

[35]  Cfr. Id., Super Sententias IV, 25 q. 1 a. 1 co.: “Respondeo dicendum, quod potestas episcopalis se habet ad potestatem ordinum inferiorum sicut politica, quae conjectat bonum commune, ad inferiores artes et virtutes, quae conjectant aliquod bonum speciale, ut ex dictis patet. Politica autem, ut dicitur in 1 Ethic. ponit legem inferioribus artibus, scilicet quis quam debeat exercere, et quantum et qualiter; et ideo ad episcopum pertinet in omnibus divinis ministeriis alias collocare.”.

[36]  Indubbiamente, a volte S. Tommaso parla di bonum commune anche rispetto ad una moltitudo di carattere non politico, come ad es. l'esercito: “Nam fines et perfectiones omnium aliarum potentiarum comprehenduntur sub obiecto voluntatis, sicut quaedam particularia bona, semper autem ars vel potentia ad quam pertinet finis universalis, movet ad agendum artem vel potentiam ad quam pertinet finis particularis sub illo universali comprehensus; sicut dux exercitus, qui intendit bonum commune, scilicet ordinem totius exercitus, movet suo imperio aliquem ex tribunis, qui intendit ordinem unius aciei. ”. Id., Summa Theologiae, I-II, qu. 9, a. 1 in c; cfr. anche De virtutibus, qu. 2 a. 4 ad 2. Tuttavia, nel nostro contesto manca il forte elemento di analogia rappresentato dal comandante che impartisce ordini: per il binomio consuetudobonum commune non mi risultano estensioni analoghe.

[37]  Si noti che tutto l'opuscolo si muove sul filo dell'intenzione soggettiva dei mercanti e questo passaggio non fa eccezione: è prima di tutto necessario che fosse buono l'intento con cui è stata introdotta l'usanza, dopodiché si può passare ad esaminare in che termini possa esserlo obiettivamente.

[38]  In altre parole: gli atti di commercio hanno di per sé lo scopo di procurare a ciascuno ciò che gli occorre e la loro necessità è un corollario diretto della necessità della vita sociale sia per la sopravvivenza, sia per il bene vivere; quindi, il commercio in sé è cosa buona. Quanto al lucro, i mercatores, come tutti gli altri, hanno diritto a guadagnarsi di che vivere, per giunta in termini che consentano loro anche di esercitare la virtù della munificenza: dunque il guadagno in sé stesso è moralmente neutro, ma può diventare illecito se diventa fine a sé stesso e tende all'accumulo senza freni, perversione morale che si esprime in modo particolare proprio nell'attività dell'usuraio. Tuttavia, fermo che il mercante è esposto in modo particolare a questa tentazione – si potrebbe quasi definirla il suo rischio professionale – agevolare gli atti di commercio è di per sé un bene e resta tale anche se questa maggior speditezza faccia moltiplicare a qualcuno i peccati di avidità.

[39]  Anzi, non mi sento di escludere che, per Tommaso, all'interno di quest'ambito specifico la comunità interessata sia il soggetto più adatto a trovare la miglior soluzione ai problemi concreti, per esempio, nel caso dei mercanti, il modo migliore di sveltire i traffici con soddisfazione reciproca. Il punto richiederebbe un'indagine specifica che non può essere svolta in questa sede; suggerimenti in tal senso giungono, però, dalle tesi tommasiane in tema di ius, su cui v. infra nel testo.

[40]  Non vi rientra, e perciò non figura nel testo, perché per S. Tommaso la sua definizione di lex si attaglia perfettamente anche alla consuetudine, che non consiste in atti scritti, non richiede la firma di nessuno e, per così dire, si promulga da sola mediante l'osservanza generale e pubblica.

[41]  La cosa può sfuggire facilmente, ma “in realtà, sotto questa formula, sta tutta la concezione della società e della politica di S. Tommaso e di buona parte del pensiero medioevale. Cioè il rapporto legislatore-comunità non è visto in chiave contrattualistica, per cui fra sudditi e governanti si crea fin dall'origine una visione dualistica. Questa è la logica dello Stato moderno, che matura nel Seicento: qui il legislatore non è uno fuori della comunità, ma è uno della comunità, che all'interno della comunità se ne prende cura.”. F. Todescan, Compendio..., cit., pag. 97.

[42]  Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 50, rispettivamente a. 1 e a. 2; questa correlazione con la prudenza è anche il motivo per cui solo gli uomini, e non anche gli animali, sono soggetto passivo della lex humana (Ibid., qu. 93, a. 5). Utili altresì le considerazioni di R. Spiazzi, Il pensiero..., cit., pagg. 111-2.

[43]  Cfr. Ibid., I-II, qu. 90, a. 4, ad 1.

[44]  Ibid., qu. 94, a. 6.

[45]  Cfr. S. Tommaso d'Aquino, De veritate, qu. 17, a. 3; Id., Quodlibet I, qu. 9, a. 2.

[46]  Cfr. la trattazione d'insieme di B. Mondin, s.v. Prudenza, in Id., Dizionario enciclopedico..., cit., pagg. 560-2.

[47]  Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea V, 1134b; S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 96, a. 1 e In Eth. Nic. V, lec. 16.

[48]  Cfr. Id., Summa Theologiae, II-II, qu. 51, a. 4, in c. L'esempio proposto è uno dei classici casi di scuola e si rintraccia pressapoco in ogni trattazione di morale, da Platone almeno fino a Kant incluso; ma non sembra inutile notare che, per quest'ultimo, il deposito andrebbe restituito egualmente. Quando si dice “imperativo categorico”...

[49]  Cfr. Ibid., qu. 96, a. 1: egli adduce l'esempio di una legge che obbliga a tener chiuse le porte della città e di alcuni cittadini “per quos civitas conservatur” che arrivano inseguiti dal nemico.

[50]  Ibid., qu. 60, a. 5.

[51]  Ibid., qu. 120. Meriterebbe uno studio a parte il modo in cui S. Tommaso ricombina insegnamenti aristotelici come questo in un sistema suo proprio ed originale.

[52]  Ibid., qu. 147, a. 4.

[53]  Cfr. anzi Ibid., qu. 69, a. 3, ad 3, dove la iuris aequitas va intesa come equo contemperamento degli interessi contrapposti e riconoscimento di tutela giuridica ad entrambe le parti in causa, perché è la ragione per cui da un lato si accorda al soccombente il diritto di impugnare, dall'altro lo si àncora al termine perentorio di dieci giorni e lo si esclude in presenza di doppia conforme.

[54]  E il problema dell'eternità del mondo, va ricordato, era uno dei maggiori ostacoli alla possibilità di “cristianizzare” Aristotele, nonché dei punti di contrasto con l'averroismo latino.

[55]  Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 91, a. 1; qu. 93 a. 1.

[56]  Cfr. Ibid., qu. 93, a. 2. Qui è indispensabile chiarire il concetto di partecipazione, d'altronde centrale nel sistema tommasiano: “P. è il nome che S.T. dà al principio di causalità: il partecipato è la causa, il partecipante è l'effetto. […] Il concetto di p. evidenzia a un tempo la somiglianza tra causa ed effetto, in quanto l'effetto possiede la stessa qualità della causa, e la differenza in quanto della realtà della causa l'effetto può possedere soltanto una parte […] La p. fonda pertanto anche la dottrina dell'analogia, che sottolinea allo stesso tempo la somiglianza e dissomiglianza tra cause ed effetto, tra Dio e le creature […] Tutti gli enti che noi sperimentiamo non sono l'essere per essenza, ma solo p. dell'essere […] come il concreto rispetto all'astratto […] 'Ora, dato che tutte le cose che sono partecipano all'essere e sono enti per partecipazione, occorre che in cima a tutte le cose ci sia qualcosa che sia essere in virtù della sua stessa essenza, ossia che la sua essenza sia l'essere stesso. Questa cosa è Dio, il quale è causa sufficientissima, degnissima e perfettissima di tutte le cose: da lui tutte le cose che esistono partecipano all'essere' (In Ioan. Prol. n. 5)”. B. Mondin, s.v. Partecipazione, in Id., Dizionario enciclopedico... cit., pagg. 487-8

[57]  Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 91, a. 2, in c.; qu. 93, a. 3.

[58]  “[S]icut ex parte rationis speculativae, per naturalem participationem divinae sapientiae, inest nobis cognitio quorundam communium principiorum, non autem cuiuslibet veritatis propria cognitio, sicut in divina sapientia continetur; ita etiam ex parte rationis practicae naturaliter homo participat legem aeternam secundum quaedam communia principia, non autem secundum particulares directiones singulorum, quae tamen in aeterna lege continentur. Et ideo necesse est ulterius quod ratio humana procedat ad particulares quasdam legum sanctiones.”. Ibid., a. 3, ad 1.

[59]  Ibid., qu. 91, a. 1, ad 3.

[60]  “Inter cetera autem rationalis creatura excellentiori quodam modo divinae providentiae subiacet, inquantum et ipsa fit providentiae particeps, sibi ipsi et aliis providens. Unde et in ipsa participatur ratio aeterna, per quam habet naturalem inclinationem ad debitum actum et finem. Et talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur.”. Ibid., a. 2, in c.

[61]  Peraltro, anche la concupiscenza o lex fomitis rientra nel piano divino, non per ciò a cui condurrebbe che è il peccato, ma in quanto ha natura di pena come conseguenza del peccato originale: cfr. Ibid., a. 6, e qu. 93, a. 3, ad 1.

[62]  Sono debitore di questa scoperta della centralità della lex aeterna a C.S. Nino, Introduzione all'analisi del diritto, Torino 1996.

[63]  Eccettuato un articulus preliminare in cui esclude che essa abbia, di per sé, natura di habitus, dubbio interessante ma non pertinente ai nostri fini.

[64]  Cfr. amplius, sul giusnaturalismo di Graziano nel suo rapporto con le fonti e nei profili di possibile incoerenza, G. Garancini, Razionalismo e volontarismo nella concezione del diritto naturale nel “Decretum” di Graziano, in Aevum 47 (1973), pagg. 1-31.

[65]  “Humanum genus duobus regitur, naturali vidilicet iure et moribus. Ius naturale est quod in lege et evangelio continetur, quo quisque iubetur alii facere quod sibi vult fieri” (D. I d. a. c. 1); “Ius naturale est commune omnium nationum, eo quod ubique instictu naturae, non constitutione aliqua habetur, ut viri et feminae coniunctio, liberorum successio et educatio, communis omnium possessio et omnium una libertas, acquisitio eorum quae caelo, terra marique capiuntur; item depositae rei vel commendatae pecuniae restitutio, violentiae per vim repulsio” (D. I c. 7).

[66]  P. Gherri, Ius divinum: inadeguatezza di una formula testuale, in J.I. Arrieta (cur.), Ius Divinum. Atti del XIII Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Venezia 17-21 settembre 2008), Venezia 2010, pagg. 465-88, qui 471-2: “La ricerca testuale offerta dalla sua pubblicazione on-line secondo l’edizione del Friedberg del 1879 –per quanto solo ‘statistica’– evidenzia che le ricorrenze della formula [ius divinum] sono soltanto sette, concentrate in quattro soli capita […] in tutte le sette ricorrenze la materia de qua è di carattere patrimoniale, con espresso rimando alla necessità di gestire tale materia secondo le norme ‘umane’ che regolano la proprietà e gli altri diritti reali; ne deriva con immediatezza la conferma dell’assoluta ‘precarietà’ concettuale della formula in Graziano e la sua totale infruibilità in termini sistematici e ‘dogmatici’.”.

[67]  Nel senso che proprio e solo con S. Tommaso si comincia a distinguere correttamente tra diritto divino positivo e diritto naturale, cfr. Y. Congar, Jus Divinum, in Révue de Droit Canonique 28 (1978), pagg. 108-22.

[68]  “Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.”. D.1.1.1.3, Ulp. libro primo Institutionum.

[69]  F. Todescan, Compendio..., cit., pag. 97.

[70]  Nota peraltro R. Spiazzi, Il pensiero..., cit., pag. 274: “Il termine lex naturae esprime meglio la profondità di questa ordinatio rationis che, nello spirito umano, deriva dal collegamento con le ragioni eterne e assolute del vivere, dell'associarsi, del collaborare per il bene comune.”. K. Pennington, Lex naturalis and ius naturale, in The Jurist 68 (2008), pagg. 569-91, muove a sua volta da Graziano, mostrando come proprio a lui si debba il graduale passaggio dei teologi da lex naturalis a ius naturale, locuzioni che differiscono più che altro per le associazioni (“penumbras”) che evocano; quanto a S. Tommaso, rileva il loro impiego intercambiabile e l'assenza di un qualsiasi utilizzo delle notevoli discussioni tra i giuristi sul significato di ius, perché, a suo avviso, il suo pensiero è stato plasmato da lex naturalis e solo tardi, forse proprio in occasione della stesura del Tractatus de lege, ha scoperto Graziano e l'alternativa ius naturale (pagg. 578-9). 

[71]  “Inest enim primo inclinatio homini ad bonum secundum naturam in qua communicat cum omnibus substantiis: prout scilicet quaelibet substantia appetit conservationem sui esse secundum suam naturam. Et secundum hanc inclinationem, pertinent ad legem naturalem ea per quae vitam hominis conservatur, et contrarium impeditur. - Secundo inest homini inclinatio ad aliqua magis specialia, secundum naturam in qua communicat cum ceteris animalibus. Et secundum hoc, dicuntur ea esse de lege naturali quae natura omnia animalia docuit, ut est coniunctio maris et feminae, et educatio liberorum, et similia. - Tertio modo inest homini inclinatio ad bonum secundum naturam rationis, quae est sibi propria: sicut homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de Deo, et ad hoc quod in societate vivat. Et secundum hoc, ad legem naturalem pertinent ea quae ad huiusmodi inclinationem spectant: utpote quod homo ignorantiam vitet, quod alios non offendat cum quibus debet conversari, et cetera huiusmodi quae ad hoc spectant.”. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 94, a. 2, in c.

[72]  Ibid., responsio ad obiecta. É. Gilson, Il tomismo..., cit., pagg. 443-4, parla semplicemente di tre precetti. Va forse notato, in aggiunta, che S. Tommaso non menziona mai i tre iuris praecepta ulpianei (D.1.1.10.1), che ci si aspetterebbe di vedergli assumere a base del diritto naturale; ma il terzo, suum cuique tribuere, in sostanza per lui coincide con la giuridicità stessa, mentre qui, rispetto alla natura razionale dell'uomo e alla vita sociale, ha articolato qualcosa di simile all'honeste vivere associato con l'alterum non laedere. Va peraltro considerato che, per lui, honestum è il bene desiderato direttamente come traguardo (cfr. I, qu. 5, a. 6), quindi propriamente conviene soltanto a Dio, rispetto a Cui tutte le cose create possono avere per noi, al massimo, natura di bene-mezzo ossia di utile. Insomma, la morale stoica recepita da Ulpiano non si prestava ad un'assimilazione espressa e non poteva apportare granché di utile alla costruzione del sistema di Tommaso.

[73]  Ibid., I-II, qu. 94, a. 3.

[74]  Salvo mio errore, Tommaso non specifica, né qui né altrove, se questi princìpi primi siano o meno quei precetti corrispondenti alle tre inclinazioni naturali dell'uomo, da lui appena enucleati. La questione va lasciata aperta, forse con una preferenza per la tesi di una loro estensione più ampia, giacché egli sembra seguire da vicino, a questo proposito, il proprio maestro S. Alberto Magno, il cui De bono è stato, purtroppo per gli studi tomistici, pubblicato solo nel 1951: cfr. M. Garcia-Salmones Rovira, Natural Rights in Albert the Great. Beyond Objective and Subjective Divides, in M. Koskenniemi – M. Garcia-Salmones Rovira – P. Amorosa (curr.), International Law and Religion. Historical and Contemporary Perspectives, Oxford 2017, pagg. 154-77. Tuttavia, va anche segnalata una sua indubbia differenza dal maestro che potrebbe deporre in senso contrario, giacché per il doctor universalis il ius naturale è un habitus, per Tommaso no e questo potrebbe portare a restringerne il campo, dato che invece è un habitus la sinderesi, la facoltà di giudizio morale, “habitus continens praecepta legis naturalis, quae sunt prima principia operum humanorum”: S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 94, a. 1, ad 2.

[75]  In questi termini trova smentita, ma senza essere citato o discusso, anche l'asserto di Paolo (il giurista) secondo cui il ius naturalesemper aequum ac bonum est” (D.1.1.11). O meglio, lo si dovrà riferire all'accezione ulpianea, di universalità indiscussa.

[76]  L'esempio addotto non è dei più chiari – stiamo sempre parlando di legge naturale, di diritto positivo o di un singolo contratto concreto? - e nemmeno dei più felici, giacché, come osserva K. Pennington, Lex..., pag. 583, “Thomas loses his grip governing the contract of deposit at the end. 'Cautiones' or 'conditiones' could not be attached to the deposit because the contracts of deposit and commodatum would then lose their unilateral and gratuitous nature.”. Forse, egli stava interpretando il testo di Isidoro riportato nel Decretum come se attribuisse tout court al diritto naturale l'intera disciplina romanistica dei contratti di deposito; “However, Gratian certainly and Isidore possibly were thinking of deposit and commodatum as the manifestation of the foundational precept of ius naturale in this area of law: do unto others as others would do unto you.”.

[77]  “[E]t hoc propter hoc quod aliqui habent rationem depravatam ex passione, seu ex mala consuetudine, seu ex mala habitudine naturae; sicut apud Germanos olim latrocinium non reputabatur iniquum, cum tamen sit expresse contra legem naturae, ut refert Iulius Caesar in libro de bello Gallico.”. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 94, a. 4, in c. Consuetudo, a mio avviso, qui assume entrambi i significati di abitudine individuale e usanza collettiva, quest'ultimo presupposto dall'esempio addotto.

[78]  Cfr. Ibid., qu. 95, a. 4, ad 1.

[79]  Cfr. Ibid., in c.

[80]  Cfr. P. Oliveira e Silva, Facing the Ambiguities of Aquinas: The Sixteenth-Century Debate on the Origin of ius gentium, in G. Guldentops – A. Speer (curr.), Das Gesetz – the Law – la Loi,  Berlino 2014, pagg. 489-508

[81]  S. Tommaso d'Aquino. Summa Theologiae, I-II, qu. 94, a. 4, ad 1.

[82]  “Ut ergo homo absque omni dubitatione scire possit quid sit agendum et quid vitandum, necessarium fuit ut in actibus propriis dirigeretur per legem divinitus datam, de qua constat quod errare non potest.”. Ibid., qu. 91, a. 4, in c. La necessità morale della Rivelazione per confermare le verità più alte che la ragione può conoscere, sia nell'ordine speculativo sia in quello pratico, è d'altronde già affermata in apertura dell'intera Summa (I, qu. 1, a. 1).

[83]  In tal senso, cfr. J.A. Weisheipl, op. cit., pag. 265.

[84]  “La legge divina è sì di natura teologica, ma non è un 'totalmente altro' rispetto alla legge naturale, bensì ha valore integrativo” F. Todescan, Compendio..., cit., pag. 102.

[85]  S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 94, a. 5, in c. e ad 3.

[86]  Loc. ult. cit.: “aliquid dicitur esse de iure naturali dupliciter. Uno modo, quia ad hoc natura inclinat, sicut non esse iniuriam alteri faciendam. Alio modo, quia natura non induxit contrarium, sicut possemus dicere quod hominem esse nudum est de iure naturali, quia natura non dedit ei vestitum, sed ars adinvenit. Et hoc modo communis omnium possessio, et omnium una libertas, dicitur esse de iure naturali, quia scilicet distinctio possessionum et servitus non sunt inductae a natura, sed per hominum rationem, ad utilitatem humanae vitae. Et sic in hoc lex naturae non est mutata nisi per additionem.

[87]  Una terza possibilità, trattata solo nell'ad 2 perché relativa ad alcuni atti “immorali” dell'Antico Testamento e dunque non attuale, riguarda l'espresso ordine divino, che esenta qualcuno da un obbligo lege naturali.

[88]  Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 94, a. 6, in c. e ad 3.

[89]  “Et quia ratio etiam practica utitur quodam syllogismo in operabilibus, ut supra habitum est, secundum quod philosophus docet in VII Ethic.; ideo est invenire aliquid in ratione practica quod ita se habeat ad operationes, sicut se habet propositio in ratione speculativa ad conclusiones. Et huiusmodi propositiones universales rationis practicae ordinatae ad actiones, habent rationem legis.”. I-II, qu. 90, a. 1, ad 2.

[90]  “[I]ta etiam ex praeceptis legis naturalis, quasi ex quibusdam principiis communibus et indemonstrabilibus, necesse est quod ratio humana procedat ad aliqua magis particulariter disponenda. Et istae particulares dispositiones adinventae secundum rationem humanam, dicuntur leges humanae, servatis aliis conditionibus quae pertinent ad rationem legis”. I-II, qu. 91, a. 3, in c.

[91]  Cfr. I-II, qu. 90, a. 2, ad 3.

[92]  “Ad primum ergo dicendum quod ratio humana non potest participare ad plenum dictamen rationis divinae, sed suo modo et imperfecte. Et ideo sicut ex parte rationis speculativae, per naturalem participationem divinae sapientiae, inest nobis cognitio quorundam communium principiorum, non autem cuiuslibet veritatis propria cognitio, sicut in divina sapientia continetur; ita etiam ex parte rationis practicae naturaliter homo participat legem aeternam secundum quaedam communia principia, non autem secundum particulares directiones singulorum, quae tamen in aeterna lege continentur. Et ideo necesse est ulterius quod ratio humana procedat ad particulares quasdam legum sanctiones.”. I-II, qu. 91, a. 3, ad 1.

[93]  Cfr. Ibid., ad 2 e ad 3.

[94]  Cfr. Ibid., qu. 95, a. 1, ad 2 e ad 3. Si noti che sapiens, se per un vero corrisponde al nostro “esperto” perché lo si suppone meglio in grado di apprezzare le particolarità della fattispecie singola (cfr. ivi, a. 2, ad 4), per altro è il possessore della sapientia, come dire la sintesi delle doti intellettuali che viene donata, in sostanza, dallo Spirito Santo e implica uno sguardo soprannaturale anche sulle realtà più minute, sguardo che proprio in quanto soprannaturale può scoprire, nelle pieghe dei casi umani, la vera giustizia e quindi fare di chi lo possieda il iustum animatum. L'esigenza di conoscenze tecniche nei singoli campi, quindi, resta sullo sfondo e, semmai, rientra in quei singularia rimessi necessariamente all'apprezzamento del giudice, tra cui rientra appunto il giudizio di fatto; ma, là dov'è possibile, la formulazione della regola generale va preferita perché un numero ristretto di saggi che considerano a mente fredda una gran varietà di situazioni è più facile ad aversi, e produce risultati migliori, di molti saggi dispersi, ciascuno pressato da un caso singolo e dalla concitazione caratteristica dei processi.

[95]  Cfr. Ibid., qu. 91, a. 6, in c., da cui si desume anche che il legislatore – verosimilmente proprio perché il suo fine, e dunque la sua potestà, abbracciano ma trascendono tutti gli assetto e scopi particolari – può anche trasferire un suddito da un ordo ad un altro, “e per così dire ad un'altra legge, per esempio se un militare sia destituito dall'esercito, passerà sotto la legge dei contadini o dei mercanti” (“sequitur quod transeat in alium ordinem et quasi in aliam legem, puta si miles ex militia destituatur, transibit in legem rusticorum vel mercatorum”). Nel latino del tempo, miles è in particolare il cavaliere e la professione bellica è appannaggio della nobiltà; ma qui non mi pare che lo status personale delineato faccia riferimento a caratteristiche diverse dallo scopo insito nella militia, la difesa della Patria, perciò ho tradotto “militare”.

[96]  Cfr. I-II, qu. 90, a. 2, responsio ad obiecta. Ne segue che il privilegium, allora definito correntemente lex privata, ha natura di lex per l'ordinazione al bene comune e in tanto è privatum in quanto considera il bene particolare, ma essenzialmente rientra nella lex: così, sulla scorta di Aristotele, S. Tommaso d'Aquino, Sententia Ethic. V 12, n. 6, “Alia vero differentia iusti legalis est, secundum quod aliquid lege statuitur in aliquo singulari; puta cum civitas vel princeps alicui personae concedit aliquod privilegium, quod dicitur lex privata. Et quantum ad hoc dicit: quod adhuc sunt iusta legalia, non solum illa quae communiter statuuntur, sed quaecumque homines ponunt pro lege in aliquibus singularibus; sicut in quadam civitate statutum est quod sacrificetur cuidam mulieri, nomine Brasidae, quae magnam utilitatem civitati attulerat.”. Meno chiaro Id., Summa Theologiae, I-II, qu. 96, a. 1, ad 1. 

[97]  Cfr. Ibid., qu. 90, a. 3, in c. - “Respondeo dicendum quod lex proprie, primo et principaliter respicit ordinem ad bonum commune. Ordinare autem aliquid in bonum commune est vel totius multitudinis, vel alicuius gerentis vicem totius multitudinis. Et ideo condere legem vel pertinet ad totam multitudinem, vel pertinet ad personam publicam quae totius multitudinis curam habet. Quia et in omnibus aliis ordinare in finem est eius cuius est proprius ille finis.” - e ad 2.

[98]  Ibid., a. 4, ad 3: “promulgatio praesens in futurum extenditur per firmitatem scripturae, quae quodammodo semper eam promulgat. Unde Isidorus dicit, in II Etymol., quod lex a legendo vocata est, quia scripta est.”.

[99]  La qu. 92 è intitolata De effectibus legis, ma mentre rendere i sudditi virtuosi (a. 1) è propriamente un effetto ossia un risultato della lex, comandare, permettere e a maggior ragione punire sono effetti solo nel senso che stanno a valle del momento razionale in cui per Tommaso la lex si sostanzia, rientrano nel campo della volontà, che applica la lex alla realtà regolata (in questo per lui consiste propriamente il praeceptum, inteso in senso lato). Ho quindi preferito tradurre “contenuti”.

[100]         Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 92, a. 2, in c.: “Nam sicut supra dictum est, quidam actus sunt boni ex genere, qui sunt actus virtutum, et respectu horum, ponitur legis actus praecipere vel imperare; praecipit enim lex omnes actus virtutum, ut dicitur in V Ethic. Quidam vero sunt actus mali ex genere, sicut actus vitiosi, et respectu horum, lex habet prohibere. Quidam vero ex genere suo sunt actus indifferentes, et respectu horum, lex habet permittere. Et possunt etiam indifferentes dici omnes illi actus qui sunt vel parum boni vel parum mali. Id autem per quod inducit lex ad hoc quod sibi obediatur, est timor poenae, et quantum ad hoc, ponitur legis effectus punire.

[101]         Cfr. Ibid., ad 2 e ad 3.

[102]         Cfr. Ibid., qu. 90, a. 3, ad 2.

[103]         Cfr. Ibid., qu. 92, a. 2, ad 4.

[104]         Cfr. Ibid., qu. 95, a. 1, arg. 1 e ad 1

[105]         Ibid., in c.: “Respondeo dicendum quod, sicut ex supradictis patet, homini naturaliter inest quaedam aptitudo ad virtutem; sed ipsa virtutis perfectio necesse est quod homini adveniat per aliquam disciplinam. Sicut etiam videmus quod per aliquam industriam subvenitur homini in suis necessitatibus, puta in cibo et vestitu, quorum initia quaedam habet a natura, scilicet rationem et manus, non autem ipsum complementum, sicut cetera animalia, quibus natura dedit sufficienter tegumentum et cibum. Ad hanc autem disciplinam non de facili invenitur homo sibi sufficiens. Quia perfectio virtutis praecipue consistit in retrahendo hominem ab indebitis delectationibus, ad quas praecipue homines sunt proni, et maxime iuvenes, circa quos efficacior est disciplina. Et ideo oportet quod huiusmodi disciplinam, per quam ad virtutem perveniatur, homines ab alio sortiantur. Et quidem quantum ad illos iuvenes qui sunt proni ad actus virtutum, ex bona dispositione naturae, vel consuetudine, vel magis divino munere, sufficit disciplina paterna, quae est per monitiones. Sed quia inveniuntur quidam protervi et ad vitia proni, qui verbis de facili moveri non possunt; necessarium fuit ut per vim et metum cohiberentur a malo, ut saltem sic male facere desistentes, et aliis quietam vitam redderent, et ipsi tandem per huiusmodi assuetudinem ad hoc perducerentur quod voluntarie facerent quae prius metu implebant, et sic fierent virtuosi. Huiusmodi autem disciplina cogens metu poenae, est disciplina legum. Unde necessarium fuit ad pacem hominum et virtutem, ut leges ponerentur, quia sicut philosophus dicit, in I Polit., sicut homo, si sit perfectus virtute, est optimum animalium; sic, si sit separatus a lege et iustitia, est pessimum omnium; quia homo habet arma rationis ad explendas concupiscentias et saevitias, quae non habent alia animalia.”.

[106]         In ultima analisi, a mio parere, perché tra loro vi è una diversa misura di partecipazione e soggezione alla lex aeterna: cfr. Ibid., qu. 93, a. 6, in c. Ma vi è anche una differenza di idoneità dei soggetti ad esserne resi virtuosi (e qui è impossibile non pensare ai progetti rieducativi di stampo totalitario, dal giacobinismo in avanti): “propter diversas hominum conditiones, contingit quod aliqui actus sunt aliquibus virtuosi, tanquam eis proportionati et convenientes, qui tamen sunt aliis vitiosi, tanquam eis non proportionati.”. Ibid., qu. 94, a. 3, ad 3.

[107]         Cfr. qu. 91, a. 5, ad 3: “lex naturalis dirigit hominem secundum quaedam praecepta communia, in quibus conveniunt tam perfecti quam imperfecti, et ideo est una omnium. Sed lex divina dirigit hominem etiam in quibusdam particularibus, ad quae non similiter se habent perfecti et imperfecti. Et ideo oportuit legem divinam esse duplicem, sicut iam dictum est.

[108]         Cfr. qu. 95, a. 3, in c.

[109]         Cfr. I-II, qu. 90, a. 1, ad 3: “Ad tertium dicendum quod ratio habet vim movendi a voluntate, ut supra dictum est, ex hoc enim quod aliquis vult finem, ratio imperat de his quae sunt ad finem. Sed voluntas de his quae imperantur, ad hoc quod legis rationem habeat, oportet quod sit aliqua ratione regulata. Et hoc modo intelligitur quod voluntas principis habet vigorem legis, alioquin voluntas principis magis esset iniquitas quam lex.”.

[110]         Cfr. Ibid., qu. 92, a. 1, ad 3: “Cum igitur quilibet homo sit pars civitatis, impossibile est quod aliquis homo sit bonus, nisi sit bene proportionatus bono communi, nec totum potest bene consistere nisi ex partibus sibi proportionatis. Unde impossibile est quod bonum commune civitatis bene se habeat, nisi cives sint virtuosi, ad minus illi quibus convenit principari. Sufficit autem, quantum ad bonum communitatis, quod alii intantum sint virtuosi quod principum mandatis obediant. Et ideo philosophus dicit, in III Polit., quod eadem est virtus principis et boni viri; non autem eadem est virtus cuiuscumque civis et boni viri.”

[111]         Cfr. I-II, qu. 92, a. 1, in c. e ad 4. L'esempio è importante perché richiama la distinzione tra la virtù della prudenza, qui implicata in quanto riguarda i governanti, e l'ars intesa come abilità tecnica: il “buon ladro” sa sicuramente far bene il proprio lavoro, ma con altrettanta certezza non è “buono” in senso morale (Ibid., qu. 57, a. 4).

[112]         Questa prospettiva, che per certi versi è più semplice, non a caso si afferma in Suárez, che vive la tragica epoca della Cristianità divisa, dove solo un atto di imperio sembra in grado di assicurare, o produrre, un ordine stabile.

[113]         Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 93, a. 3, ad 2: “lex humana intantum habet rationem legis, inquantum est secundum rationem rectam, et secundum hoc manifestum est quod a lege aeterna derivatur. Inquantum vero a ratione recedit, sic dicitur lex iniqua, et sic non habet rationem legis, sed magis violentiae cuiusdam. Et tamen in ipsa lege iniqua inquantum servatur aliquid de similitudine legis propter ordinem potestatis eius qui legem fert, secundum hoc etiam derivatur a lege aeterna, omnis enim potestas a domino Deo est, ut dicitur Rom. XIII.”.

[114]         “Tertio est de ratione legis humanae ut instituatur a gubernante communitatem civitatis, sicut supra dictum est. Et secundum hoc distinguuntur leges humanae secundum diversa regimina civitatum. Quorum unum, secundum philosophum, in III Polit., est regnum, quando scilicet civitas gubernatur ab uno, et secundum hoc accipiuntur constitutiones principum. Aliud vero regimen est aristocratia, idest principatus optimorum, vel optimatum, et secundum hoc sumuntur responsa prudentum, et etiam senatusconsulta. Aliud regimen est oligarchia, idest principatus paucorum divitum et potentum, et secundum hoc sumitur ius praetorium, quod etiam honorarium dicitur. Aliud autem regimen est populi, quod nominatur democratia, et secundum hoc sumuntur plebiscita. Aliud autem est tyrannicum, quod est omnino corruptum, unde ex hoc non sumitur aliqua lex. Est etiam aliquod regimen ex istis commixtum, quod est optimum, et secundum hoc sumitur lex, quam maiores natu simul cum plebibus sanxerunt, ut Isidorus dicit.”. Ibid., qu. 95, a.

[115]         Cfr. Ibid., qu. 96, a. 4, in c. e ad 3.

[116]         Cfr. Ibid., qu. 91, a. 4, in c.: “de his potest homo legem ferre, de quibus potest iudicare. Iudicium autem hominis esse non potest de interioribus motibus, qui latent, sed solum de exterioribus actibus, qui apparent. Et tamen ad perfectionem virtutis requiritur quod in utrisque actibus homo rectus existat. Et ideo lex humana non potuit cohibere et ordinare sufficienter interiores actus, sed necessarium fuit quod ad hoc superveniret lex divina.”; da un'altra prospettiva convergente, qu. 93, a. 3, ad 3: “lex humana dicitur aliqua permittere, non quasi ea approbans, sed quasi ea dirigere non potens. Multa autem diriguntur lege divina quae dirigi non possunt lege humana, plura enim subduntur causae superiori quam inferiori. Unde hoc ipsum quod lex humana non se intromittat de his quae dirigere non potest, ex ordine legis aeternae provenit. Secus autem esset si approbaret ea quae lex aeterna reprobat. Unde ex hoc non habetur quod lex humana non derivetur a lege aeterna, sed quod non perfecte eam assequi possit.”.

[117]         Cfr. Ibid., qu. 91, a. 4, in c.: “sicut Augustinus dicit, in I de Lib. Arb., lex humana non potest omnia quae male fiunt, punire vel prohibere, quia dum auferre vellet omnia mala, sequeretur quod etiam multa bona tollerentur, et impediretur utilitas boni communis, quod est necessarium ad conversationem humanam. Ut ergo nullum malum improhibitum et impunitum remaneat, necessarium fuit supervenire legem divinam, per quam omnia peccata prohibentur”.

[118]         Ibid., qu. 96, a. 2, in c.: “Potestas autem sive facultas operandi ex interiori habitu seu dispositione procedit, non enim idem est possibile ei qui non habet habitum virtutis, et virtuoso; sicut etiam non est idem possibile puero et viro perfecto. Et propter hoc non ponitur eadem lex pueris quae ponitur adultis, multa enim pueris permittuntur quae in adultis lege puniuntur, vel etiam vituperantur. Et similiter multa sunt permittenda hominibus non perfectis virtute, quae non essent toleranda in hominibus virtuosis. Lex autem humana ponitur multitudini hominum, in qua maior pars est hominum non perfectorum virtute. Et ideo lege humana non prohibentur omnia vitia, a quibus virtuosi abstinent; sed solum graviora, a quibus possibile est maiorem partem multitudinis abstinere; et praecipue quae sunt in nocumentum aliorum, sine quorum prohibitione societas humana conservari non posset, sicut prohibentur lege humana homicidia et furta et huiusmodi.

[119]         Ibid., a. 3, in c.

[120]         Ibid., a. 2, ad 2: “Ad secundum dicendum quod lex humana intendit homines inducere ad virtutem, non subito, sed gradatim. Et ideo non statim multitudini imperfectorum imponit ea quae sunt iam virtuosorum, ut scilicet ab omnibus malis abstineant. Alioquin imperfecti, huiusmodi praecepta ferre non valentes, in deteriora mala prorumperent, sicut dicitur Prov. XXX, qui nimis emungit, elicit sanguinem; et Matth. IX dicitur quod, si vinum novum, idest praecepta perfectae vitae, mittatur in utres veteres, idest in homines imperfectos, utres rumpuntur, et vinum effunditur, idest, praecepta contemnuntur, et homines ex contemptu ad peiora mala prorumpunt.”.

[121]         Cfr. Ibid., a. 3 ad 2: “aliquis actus dicitur esse virtutis dupliciter. Uno modo, ex eo quod homo operatur virtuosa, sicut actus iustitiae est facere recta, et actus fortitudinis facere fortia. Et sic lex praecipit aliquos actus virtutum. Alio modo dicitur actus virtutis, quia aliquis operatur virtuosa eo modo quo virtuosus operatur. Et talis actus semper procedit a virtute, nec cadit sub praecepto legis, sed est finis ad quem legislator ducere intendit.”.

[122]         Cfr. Ibid., qu. 97, a. 4.

[123]         Cfr. Ibid., qu. 96, a. 5 (tutto).

[124]         Cfr. Ibid., qu. 97, a. 1, in c. e ad 3 .

[125]         Cfr. Ibid., qu. 97, a. 2.

[126]         Cfr. Ibid., a. 3, ad 2.

[127]         Così ad es. B. Mondin, op. cit., s.v. Legge (naturale e positiva), pag. 392, non senza ambiguità parla di “determinazioni particolari della l. naturale, che viene così applicata a situazioni e circostanze particolari.”.

[128]         F. Todescan, Compendio..., cit., 101.

[129]         Sul carattere deduttivo della determinatio, cfr. ad es. É. Gilson, Il tomismo..., cit., pag. 444: “Nel legiferare, i prìncipi e gli Stati non fanno altro che dedurre dai princìpi universali della legge di natura le conseguenze particolari richieste dalla vita in società.”.

[130]         La presentazione di tale scuola più accessibile al lettore italiano mi sembra R.P. George, Il diritto naturale nell'età del pluralismo, Torino 2011.

[131]                                                                                                                          Cfr., in particolare, la raccolta di saggi E. Ancona, Via iudicii. Contributi tomistici alla metodologia del diritto, Padova 2012.

[132]         Tertium quid tra induzione e deduzione, la cui conoscenza debbo alla cortesia del Dott. Riccardo Zenobi.

[133]         Anzi, questo sembra escluso da S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 95, a. 2, ad 3: “principia communia legis naturae non possunt eodem modo applicari omnibus, propter multam varietatem rerum humanarum. Et exinde provenit diversitas legis positivae apud diversos.

[134]         Ibid., in c.: “sciendum est quod a lege naturali dupliciter potest aliquid derivari, uno modo, sicut conclusiones ex principiis; alio modo, sicut determinationes quaedam aliquorum communium. Primus quidem modus est similis ei quo in scientiis ex principiis conclusiones demonstrativae producuntur. Secundo vero modo simile est quod in artibus formae communes determinantur ad aliquid speciale, sicut artifex formam communem domus necesse est quod determinet ad hanc vel illam domus figuram. Derivantur ergo quaedam a principiis communibus legis naturae per modum conclusionum, sicut hoc quod est non esse occidendum, ut conclusio quaedam derivari potest ab eo quod est nulli esse malum faciendum. Quaedam vero per modum determinationis, sicut lex naturae habet quod ille qui peccat, puniatur; sed quod tali poena puniatur, hoc est quaedam determinatio legis naturae. Utraque igitur inveniuntur in lege humana posita. Sed ea quae sunt primi modi, continentur lege humana non tanquam sint solum lege posita, sed habent etiam aliquid vigoris ex lege naturali. Sed ea quae sunt secundi modi, ex sola lege humana vigorem habent.”.

[135]         Cfr. Ibid., arg.1 e ad 1.

[136]         Cfr. Ibid., I-II, qu. 91, a. 4, argg. 1 e 2.

[137]         Cfr. Ibid., ad 1: “per naturalem legem participatur lex aeterna secundum proportionem capacitatis humanae naturae. Sed oportet ut altiori modo dirigatur homo in ultimum finem supernaturalem. Et ideo superadditur lex divinitus data, per quam lex aeterna participatur altiori modo.”. Questo è uno dei testi che danno luogo alla disputa se S. Tommaso ammetta per l'uomo un fine puramente naturale cui se ne aggiunge uno soprannaturale, oppure soltanto quest'ultimo.

[138]         Actus humanus è l'atto cosciente e volontario, come dire l'atto rispetto a cui si danno una responsabilità e un giudizio morali. 

[139]         Cfr. Ibid., in c.

[140]         Cfr. Ibid., qu. 91, a. 5, in c. e ad 1.

[141]         Cfr. Ibid., qu. 98, a. 1, in c.

[142]         In particolare quanto all'idolatria, peccato sommo in cui il popolo ebraico è caduto perfino dopo aver ricevuto il dono della Legge: cfr. Ibid., qu. 98, a. 4, in c.

[143]         Ibid., qu. 98, a. 1, ad 2: “lex dicitur occidisse, non quidem effective, sed occasionaliter, ex sua imperfectione, inquantum scilicet gratiam non conferebat, per quam homines implere possent quod mandabat, vel vitare quod vetabat. Et sic occasio ista non erat data, sed sumpta ab hominibus. Unde et apostolus ibidem dicit, occasione accepta peccatum per mandatum seduxit me, et per illud occidit. Et ex hac etiam ratione dicitur quod lex subintravit ut abundaret delictum, ut ly ut teneatur consecutive, non causaliter, inquantum scilicet homines, accipientes occasionem a lege, abundantius peccaverunt; tum quia gravius fuit peccatum post legis prohibitionem; tum etiam quia concupiscentia crevit, magis enim concupiscimus quod nobis prohibetur.

[144]         Tommaso discute anche se essa dovesse essere data proprio al tempo di Mosé o in varie altre occasioni, notando che Dio, donandola al tempo prescelto, è intervenuto in un contesto di grande diffusione della superbia, quasi che la ragion naturale e le forze umane bastassero per la salvezza, e la lex naturalis cominciava ad offuscarsi per l'eccesso di peccati. Cfr. Ibid., qu. 98, a. 6.

[145]         Anche se spiega perché sia stata promulgata mediante gli Angeli, e non da Dio direttamente, come pur parrebbe suggerire la Scrittura: questione teologica disputata già nel giudaismo del tempo di Gesù, affrontata da S. Tommaso in qu. 98, a. 3.

[146]         Cfr. Ibid., qu. 98, a. 2, ad 1 e ad 3, nonché ad 4: “quamvis lex vetus non sufficeret ad salvandum hominem, tamen aderat aliud auxilium a Deo hominibus simul cum lege, per quod salvari poterant, scilicet fides mediatoris, per quam iustificati sunt antiqui patres, sicut etiam nos iustificamur. Et sic Deus non deficiebat hominibus quin daret eis salutis auxilia.”.

[147]         Cfr. Ibid., qu. 98, a. 4.

[148]         Cfr. Ibid., qu. 98, a. 5.

[149]         “Nella composizione di questo trattato l'Angelico si è ispirato certamente a studi precedenti, in particolare, come ha mostrato D. O. Lottin, ha avuto presente il De legibus et praeceptis di Alessandro di Hales, di cui ripete praticamente la disposizione della materia; ma il vigore speculativo con cui l'Angelico si addentra negli scopi e nel valore della legislazione mosaica è certamente superiore.”. B. Mondin, op. cit., s.v. Legge (antica), pag. 383.

[150]         Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, qu. 99, a. 5.

[151]         Cfr. Ibid., qu. 99, a. 2; qu. 100, aa. 1-3, 8-10.

[152]         Cfr. Ibid., qu. 101, aa. 1 e 2; qu. 102, a. 2; qu 103, aa. 3 e 4. La definizione tradizione del giudaismo posteriore all'avvento di Cristo come superstitio Iudaica è spiegata da S. Tommaso proprio come peccato consistente nel continuare a rendere culto a Dio secondo un modo che ormai non è più quello dovuto: cfr. Ibid., II-II, qu. 93, a. 1.

[153]         Cfr. Ibid., I-II, qu. 104, aa. 1 e 3.

[154]         Cfr. Ibid., qu. 105, a. 1, in c., ad 1 e ad 2.

[155]         Cfr. Ibid., qu. 105, a. 2, in c., ad 1 e ad 2.

[156]         In tal senso, cfr. R. Spiazzi, op. cit., pagg. 239-40, che scorge qui prefigurati gli opposti estremismi del protestantesimo fondamentalista e del modernismo. Cfr. amplius ibid., pagg. 253-8, § “La dissociazione moderna della lettera e dello spirito”.

[157]         “Id autem quod est potissimum in lege novi testamenti, et in quo tota virtus eius consistit, est gratia spiritus sancti, quae datur per fidem Christi. Et ideo principaliter lex nova est ipsa gratia spiritus sancti, quae datur Christi fidelibus. [...] Habet tamen lex nova quaedam sicut dispositiva ad gratiam spiritus sancti, et ad usum huius gratiae pertinentia, quae sunt quasi secundaria in lege nova, de quibus oportuit instrui fideles Christi et verbis et scriptis, tam circa credenda quam circa agenda. Et ideo dicendum est quod principaliter nova lex est lex indita, secundario autem est lex scripta.”. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 106, a. 1, in c.

[158]         Ibid., ad 1. “Sorprendentemente, definendo la l. nuova S.T. pone l'accento sulla novità ontologica piuttosto che su quella etica e giuridica. La novità, per S.T., non è data tanto dalla emanazione di un nuovo codice di leggi (che pure viene ammesso) quanto dalla comunicazione all'uomo di un nuovo genere di vita: la partecipazione alla vita divina mediante la grazia infusa dallo Spirito Santo.”. B. Mondin, op. cit., s.v. Legge (nuova), pag. 303.

[159]         Cfr. Ibid., qu. 106, a. 1, ad 2 e a. 2.

[160]         R. Spiazzi, op. cit., pag. 247; cit.. interna da S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 110, a. 4.

[161]         Cfr. Ibid., qu. 106, a. 4, in c. e ad 1.

[162]         Cfr. qu. 107, a. 1, ad 2.

[163]         Cfr. qu. 108, a. 3.

[164]         Cfr. qu. 108, a. 1.

[165]         L'espressione non va fraintesa: “lex nova dicitur lex libertatis dupliciter. Uno modo, quia non arctat nos ad facienda vel vitanda aliqua, nisi quae de se sunt vel necessaria vel repugnantia saluti, quae cadunt sub praecepto vel prohibitione legis. Secundo, quia huiusmodi etiam praecepta vel prohibitiones facit nos libere implere, inquantum ex interiori instinctu gratiae ea implemus. Et propter haec duo lex nova dicitur lex perfectae libertatis.”. Cfr. Ibid., ad 2.

[166]         Cfr. Ibid., in c.: “Alia vero sunt opera quae non habent necessariam contrarietatem vel convenientiam ad fidem per dilectionem operantem. Et talia opera non sunt in nova lege praecepta vel prohibita ex ipsa prima legis institutione; sed relicta sunt a legislatore, scilicet Christo, unicuique, secundum quod aliquis curam gerere debet. Et sic unicuique liberum est circa talia determinare quid sibi expediat facere vel vitare; et cuicumque praesidenti, circa talia ordinare suis subditis quid sit in talibus faciendum vel vitandum. Unde etiam quantum ad hoc dicitur lex Evangelii lex libertatis, nam lex vetus multa determinabat, et pauca relinquebat hominum libertati determinanda.”. V. anche qu. 108, a. 2, in c.

[167]         Cfr. qu. 108, a. 4.

[168]         Cfr. qu. 107, a. 4, in c.

[169]         B. Mondin, op.cit., s.v. Diritto, pag. 221.

[170]         S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 57, a. 1, ad 2; l'auctoritas indotta in contrario, e qui vistosamente bacchettata, è nientemeno che Isidoro, che definisce peraltro la lex come una species iuris.

[171]         Cfr. D.1.1.1, Iuri operam (Ulp. Libro primo Institutionum).

[172]         Sta parlando della scienza giuridica, ancora per l'influsso di Ulpiano e del suo celebre passo sui giuristi sacerdotes che seguono una vera philosophia.

[173]         Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 57, a. 1, arg. 1 e ad 1.

[174]         Cfr. Ibid., I-II, qu. 55, a. 2; qu. 56, a. 6; qu. 57, aa. 4 e 5; qu. 58, aa. 4 e 5; qu. 61, aa. 1, 2 e 5.

[175]         B. Mondin, op. cit., s.v. Giustizia, pag. 322 e pag. 323.

[176]         Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 57, a. 1, in c.

[177]         Cfr. rispettivamente Ibid., qu. 58, a. 5, e qu. 61, aa. 1-3.

[178]         Cfr. Ibid., qu. 58, a. 12.

[179]         Cfr. Ibid., qu. 60.

[180]         Cfr. Ibid., a. 5

[181]         Cfr. Ibid., qu. 57, a. 2.

[182]         Cfr. Ibid., qu. 60, a. 4.

[183]         Mi pare, d'altronde, che molto meglio di quanto saprei fare io vi abbia già provveduto E. Ancona, op. cit., pagg. 125-79.

[184]         Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 57, a. 1, in c.

[185]         Cfr. Ibid., a. 2, ad 1.