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Chi non teme la voragine

Beato Angelico, San Tommaso d'Aquino con la summa
Beato Angelico, San Tommaso d'Aquino con la summa

L’intollerabile presenza del lupo

Ricordate la scena conclusiva de “Il medico della mutua”, storico film del 1968 diretto da Luigi Zampa ed interpretato da Alberto Sordi? Il dott. Guido Tersilli, da casa sua, gestisce un numero imprecisato di pazienti visitandoli per telefono e si rifà ad una bizzarra ed amara massima: il mutuato italiano, quando va dal medico, vuole solo uscire con una ricetta che gli consenta di acquistare una buona dose di pillole da tenere in casa.

Questo episodio mi torna alla mente ogni volta che penso alla sofferenza a causa di una frase che una volta mi disse mio fratello, laureato in psicologia: parlando del complesso rapporto fra questi professionisti e gli psichiatri, definì l’uomo moderno come qualcuno che è così spaventato dalla sofferenza da preferire un medicinale che offra immediato sollievo ad una soluzione sul lungo periodo.

Al di là dello specifico contesto, mi ha colpito la semplicità e l’acutezza della verità che accomuna queste due affermazioni, nonché la sua capacità di illuminare alcuni fenomeni tipici dei nostri tempi. A ben vedere infatti il modo di vivere di molti è determinato da questo tacito imperativo, ossia fingere che la sofferenza non esista. Sembra che solo in questo modo riescano a convivere con la tragica conclusione della contemporaneità, ossia che il dolore non verrà mai meno nella nostra esistenza. Come conigli impauriti, costretti a vivere tutta la vita alla terrificante ombra del lupo, anche noi ci siamo convinti che la sola cosa capace di concederci un briciolo di pace sia fingere che quelle fauci non esistano, attendendo ebeti il loro morso.

A livello spirituale questo atteggiamento si traduce nel rifiuto di considerare seriamente la possibilità della dannazione. Razionalmente ogni buon credente è conscio che la triste città dolente rimane sempre una tragica possibilità, tuttavia invece di rileggere noi stessi alla luce di tale fatto preferiamo celarlo nella foschia della pura concettualità, sperando di perderlo per sempre.

 

Il soccorso dell’Angelico

San Tommaso d’Aquino, il Dottore Comune, uno dei più insigni domenicani di tutti i tempi, colse già nel XIII secolo questo pericolo e ne parlò nel suo Commento al Simbolo degli apostoli[1]. Questo breve testo, frutto di una predicazione tenuta dal santo in lingua volgare[2], propone una serie di riflessioni semplici e puntuali sui diversi articoli del Simbolo Apostolico ed affronta la tematica di cui sopra parlando della discesa di Gesù agli inferi dopo la morte[3].

Fra gli insegnamenti che il fedele può ricavare dalla meditazione di tale elemento, Tommaso inserisce anche l’invito a scendere “[…] frequentemente col pensiero all’inferno […][4]”, poiché proprio considerando le sofferenze di quel luogo il cristiano troverà la spinta utile a trasformare la ricerca della virtù in una necessità improrogabile.

A prima vista si potrebbe pensare che l’intento dell’Aquinate sia di muovere gli animi dei più semplici verso una vita santa che abbia però nel timore servile la propria radice. Anche se appare innegabile che la paura dei tormenti, una volta interiorizzati nella loro possibilità reale, ha un ruolo nel muovere il cristiano alla virtù, tuttavia la trattazione di Tommaso va ben più in profondità.

Riconoscere la realtà dell’eterna dannazione non serve solo a far tremare il cuore di noi peccatori, ma anche e soprattutto a stimolare una retta considerazione della speranza. La discesa di Cristo negli inferi infatti, oltre alla pratica meditativa appena evidenziata, permette anche al fedele di evitare due pericoli sempre presenti nella vita spirituale: la disperazione e la presunzione.

 

Alla luce della Croce

Quest’ultimo elemento è oggi sicuramente il più comune: il rifiuto contemporaneo di considerare la sofferenza, specie quella eterna e spirituale, scaturisce dalla convinzione che un simile destino non ci riguardi. A sua volta tale pensiero ci porta da un lato a smettere di considerare gli atti che naturalmente causano il dolore come negativi, dall’altro a concepire queste azioni in una distorta chiave positiva.

Tommaso porta l’esempio del peccato mortale il quale, se staccato dalla possibilità della dannazione, non solo finisce per perdere parte della propria valenza negativa, ma arriva ad essere concepibile come elemento positivo[5]

All’altro estremo, considerare ed accettare la sofferenza è il solo modo per accogliere realmente la necessità della salvezza e quindi sperare nel Salvatore. Meditare sull’inferno, e su ogni grado di dolore proprio della condizione umana, è la sola via per scorgere l’azione salvifica di chi da quel dolore ci solleva. Questo, vero in modo eminente nel caso della Redenzione, vale anche analogicamente per ogni forma di sofferenza che patiamo: solo riuscendo ad accettarla riusciremo ad accettare anche il soccorso nel quale speriamo[6].

Credo appaia chiaro a questo punto che il contemporaneo rifiuto di accogliere e considerare possibili le pene proprie dell’esistenza umana, siano esse fisiche o spirituali, conduce ad un risultato opposto a quello desiderato. Anche se l’uomo di oggi cerca, soffocando questa verità, di conquistare una vita ben più lieta di quella dei suoi antenati, ciò che in realtà ottiene è d’immergersi in una miseria interiore che lo lascia in balia di una solitudine spietata. Nel momento in cui cerchiamo di avvolgerci con la pesante cappa dell’autoinganno e del rifiuto, ciò che otteniamo è una tenebra nella quale l’immagine del predatore svanisce assieme a quella del Salvatore, lasciandoci solo la fredda realtà delle sue zanne.

Alla luce di questo comprendiamo quindi il vero intento di san Tommaso: non tanto quello di far leva su di una paura superstiziosa per ottenere un moto morale, quanto di mostrarci come solo fissando lo sguardo su quelle fiamme che tanto ci spaventano potremo scorgere e sperare in quell’Acqua Viva che tutto vivifica e tutto risana. Il cristiano quindi, lungi dal rinunciare alla propria felicità, è colui che alla luce della Croce scopre la debolezza di quel predatore le cui fauci appaiono inesorabili a chi si chiude nel proprio mondo ovattato.   

 

[1] Tommaso d’Aquino, Credo. Commento al Simbolo degli apostoli (trad. Pietro Lippini OP), ESD, Bologna 2012.

[2] Cf. ivi, Introduzione (a cura di Giorgio Maria Carbone OP), pp. 7-10.

[3] Cf. ivi, pp. 63-69.

[4] Cf. ivi, p. 68.

[5] Cf. ivi, p. 67.

[6] Cf. ibidem.

Testo consigliato:

  • Tommaso d’Aquino, Credo. Commento al Simbolo degli apostoli (trad. Pietro Lippini OP), ESD, Bologna 2012.