Quaresima: penitenza e vita spirituale
Dai fioretti alla croce
Ogni volta che l’anno liturgico si volge alla Quaresima non posso fare a meno di ricordare mia nonna, Maria Pia, e le parole che rivolgeva a me ed a mio fratello. Desiderosa di trasmetterci anche solo un pizzico di spirito penitenziale, ci suggeriva di scegliere un fioretto, ossia una rinuncia tanto piccola quanto tuttavia ben inserita nella nostra quotidianità.
Di solito la reazione era abbastanza entusiastica, resa vitale dal desiderio d’imitazione tipico dei bambini; tuttavia la costanza, come comprensibile, spesso veniva a mancare. Crescendo maturai una bonaria comprensione per i limiti di quella prima età, ma al contempo finì frettolosamente per associare l’effettiva efficacia della pratica penitenziale ai risibili benefici allora ottenuti.
Mi rendo conto che si tratta di una valutazione estremamente superficiale, tuttavia non posso negare che per molti anni, magari inconsapevolmente, basai proprio sull’infantile esperienza di quei fioretti l’effettiva utilità delle pratiche penitenziali.
Naturalmente questa piccola esperienza è qualcosa di molto personale che, ne sono sicuro, non riguarda in nessuno dei suoi elementi moltissimi di voi. Tuttavia mi è parso di scorgere in essa un elemento che ha messo radici, magari per altre vie, anche in un non piccolo numero dei credenti di oggi: sto parlando della percepita inutilità delle pratiche penitenziali. Non credo che tale considerazione debba essere letta come una negazione del valore meritorio che è loro proprio, quanto come una difficoltà a concepirle come qualcosa di necessario alla sana crescita spirituale del discepolo di Cristo.
Un simile pensiero non dovrebbe mai essere acriticamente accolto dal cristiano, poiché considerare accidentali, facoltative, le pratiche penitenziali conduce subdolamente ad ignorare una parte importantissima di quell’imitazione di Cristo da cui dipende la nostra salvezza.
Nella Lettera agli Ebrei in proposito leggiamo: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato»[1] e nel Vangelo di san Luca troviamo scritto: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua»[2].
Ambedue questi testi mostrano come Gesù comprese tanto l’Incarnazione quanto lo svolgimento della Sua missione su questa Terra come la docile ricezione d’un invito alla spoliazione di sé che veniva direttamente dal Padre.
Lo colse benissimo san Paolo che, nella Lettera ai Filippesi, scrisse: «[…] egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini»[3]. Ecco che quindi proprio come per Gesù la croce, culmine dell’Incarnazione e premessa alla Risurrezione, è parte integrante di quella rinuncia a se stesso cui il Padre l’ha chiamato per amore, così anche per noi vivere nella carità le nostre croci quotidiane è il mezzo attraverso il quale ci spogliamo di noi stessi e ci facciamo rivestire da Cristo.
I colori del dolore
So bene quanto possano apparire sublimi ed al contempo distanti queste parole, quanto la loro applicazione paia lontana dalla banalità della nostra esistenza. Eppure, non v’è nulla di più attuale e personale di questo. La prima e forse primaria forma di penitenza sta proprio nell’acquisire, attraverso la Grazia di Dio, la capacità non di subire o sopportare le difficoltà, ma di abbracciarle. Noi che siamo chiamati ad imitare Cristo in ogni aspetto che sia a portata della nostra umanità non possiamo ignorare il fatto che Lui, Vero Dio quanto il Padre, non ne accolse la Volontà per passività o impotenza, ma l’abbracciò fino all’ultimo. Emblematico in tal senso è un versetto del Vangelo di san Matteo: «O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?»[4]; queste parole di Gesù ci permettono d’intuire come l’accettazione sia stata un libero atto della Sua Volontà tanto che, ad un semplice cenno, il Padre sarebbe stato pronto a muovere l’intero cosmo per salvarlo.
Noi naturalmente non possiamo sempre rifiutare la strada che il Signore ci pone di fronte: a volte, e non di rado, le sue svolte più difficili ed accidentate ci vengono imposte, tanto che con facilità eleviamo superba la nostra voce chiedendo dove sia finita quella libertà di cui Dio ci fece dono. Eppure abbiamo sempre una scelta, la scelta dei ladroni che, pur ambedue appesi alla croce, potevano ancora accettare o rifiutare la bontà di Dio che comunque si celava in quell’orrendo tormento[5]. Si tratta cioè di decidere sotto che luce vogliamo vedere il mondo, quale colore vogliamo riconoscere nel tempo che qui ci viene concesso.
Non pensiate che stia parlando di tristi forme di auto convincimento, come se si trattasse di decidere arbitrariamente quale nome dare ai chiodi che ci violano; al contrario, la sfida che Gesù ci lancia è quella di tenere gli occhi aperti alla realtà, anche quando la luce ci abbaglia e preferiremmo delle opache tonalità di grigio. Il coraggio del buon ladrone, lo stesso cui siamo chiamati ogni giorno, consistette proprio nel saper vedere nella sua croce un frammento della Divina Volontà, una scintilla che senza perdere la sua luce consentì quelle tenebre.
Ecco che quindi la prima e fondamentale forma di penitenza, quella che più ci avvicina alla perfetta imitazione di Cristo, consiste nel saper considerare le nostre sofferenze come parte di una Provvidenza che ci abbraccia e ci supera; ciò consente all’uomo di accoglierle liberamente, senza cercarle e senza respingerle, guardandole per quello che sono, ossia un tratto, per quanto piccolo, del cammino che orienta ogni cosa a Dio.
Nel deserto
Se anche a voi pare disumano lo sforzo necessario per compiere ciò, per contaminare il dolore con l’amore inossidabile verso Colui che l’ha permesso, allora possedete perlomeno l’umiltà necessaria ad abbracciare la vostra umanità. Questa altissima libertà, che ci consente di vedere il male del mondo per ciò che è, ossia l’occasione che Dio coglie e permette per trarre un bene maggiore, diviene applicabile solo in comunione con il Signore. Senza di Lui, non saremo mai in grado di spogliarci davvero di noi stessi, poiché quella nudità non sarebbe occasione di sperimentare il Suo calore, bensì solo di gustare il gelo della morte.
Ora, questa unione con Dio, quest’intima vicinanza che ci consente di sentire il tepore del suo abbraccio non appena il dolore ci chiama a rinunziare a noi stessi, è possibile solo se siamo liberi da ogni catena. Non a caso Gesù, di fronte al manifesto desiderio di seguirlo da vicino, dice: «[…] va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!»[6].
La condizione per camminare in comunione con il Signore che qui viene espressa non è la povertà in se stessa, altrimenti tutti i miserabili sarebbero santi, bensì la libertà dal vicolo che i beni materiali spesso costituiscono. In altri termini, per volere ciò che Dio vuole fino al punto d’amare la sofferenza che la sua Volontà comporta, è necessario essere certi di non amare altro più di Lui.
Stupendamente esprime questo concetto il frate Predicatore Reginald Garrigou-Lagrange, nato in Francia nel 1877 e morto a Roma nel 1964. Egli, grande maestro di vita spirituale, scrisse che la penitenza «[…] lungi dal deprimere la nostra personalità, la esalta a tal punto che ci rende indipendenti dal mondo, dalle sue massime, dalle sue teorie, dalle sue mode, dalla sua fatuità e da tutti i suoi lacci. Essa innalza la nostra anima al di sopra di tutto il creato, ci permette di non dipendere che da noi stessi e da Dio, e, nella misura in cui rende più stretta la nostra dipendenza da Dio, sviluppa la nostra personalità, rendendola più simile alla personalità divina di Cristo»[7].
Proprio in questa breve citazione scopriamo finalmente il senso di quelle pratiche penitenziali, piccole e grandi, che tanto paiono vuote al nostro tempo. Quegli atti, molto concreti e semplici nella loro pregnanza e ripetitività, ci consentono di spogliarci non di tutto, ma solo di ciò che noi abbiamo trasformato in una catena, in un giogo opprimente che ci tiene lontani da Dio. Nel momento in cui ci rendiamo conto, con l’esperienza o la riflessione, che amiamo qualcosa al punto da anteporla al Signore, il distacco da essa, forte abbastanza da raggiungere lo scopo, ci è indispensabile per porla non nel disprezzo, ma alla giusta luce.
Ecco che quindi, per fare un esempio, se mi rendo conto che amo il mio benessere economico al punto che rinunzierei alla fede pur di mantenerlo, allora quella povertà che Gesù chiede al giovane nel brano citato diviene una pratica utilissima per sperimentare, nella miseria, ciò di cui davvero ho bisogno.
In conclusione, possiamo affermare che la Quaresima chiede a noi credenti due cose:
- da un lato di scrutare con attenzione ed onestà il nostro cuore, per scoprire quali beni ci appesantiscono nel lungo esodo che compiamo verso la Terra Promessa;
- dall’altro di immergerci nel deserto, un luogo non di morte ma di sincerità e d’essenzialità, così da scoprire cosa davvero ci serve e cosa invece possiamo lasciare nella sabbia.
Il mio invito, un grido imbarazzato che rivolgo prima di tutto alla pinguedine del mio cuore, è di accostarci alle pratiche penitenziali non focalizzandoci sui beni minuti cui rinunziamo, ma sullo sguardo sul mondo cui danno accesso.
Una volta che saremo liberi infatti, la Luce del Signore potrà illuminare i nostri occhi, mostrandoci la floridezza di colori che anche lo squallido legno della croce cela in sé. A quel punto, scaldati dalla vita di Cristo, potremo anche noi dire che abbiamo avuto «[…] cento volte tanto e […] in eredità la vita eterna»[8].
[1] Eb 10, 5.
[2] Lc 9, 23.
[3] Fil 2, 6-7.
[4] Mt 26, 53.
[5] Lc 23, 39-43.
[6] Mt 19, 21.
[7] Reginald Garrigou-Lagrange, Vita spirituale (a cura di fra Riccardo Barile OP), ESD, Bologna 2022, p.107.
[8] Mt 19, 29.