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Septem Verba: una profezia sull’Occidente

Varsavia
Ph. Alessandro Saggio / Varsavia

L’uscita all’inizio di settembre del romanzo di Romano Ferrari Zumbini Septem Verba ha inaugurato la stagione delle letture autunnali 2021 della casa editrice Liberilibri. Il libro racconta le vicende di alcuni alunni all’interno di un prestigioso collegio gesuitico ubicato sul lato austriaco del lago di Costanza nel corso di un intero anno scolastico, il 1963-64.

Protagonisti principali sono Arno e Aaron, dapprima rivali e poi legati da una sempre più profonda amicizia e stima reciproca, e tutti gli insegnanti che impartiscono loro eccellenti lezioni di Matematica, Logica, Greco, Chronologia e Teologia.

L’autore, che insegna Storia del diritto e Storia costituzionale alla Luiss di Roma, articola la sua originale narrazione in tre parti ben distinte: primo trimestre, secondo trimestre e Venerdì santo. Dal primo al secondo trimestre la vita collegiale procede in un’atmosfera quasi magica, fuori dalla realtà, e nel susseguirsi delle lezioni il lettore vede dipanarsi le tessere del mosaico culturale dell’Occidente, dalla storia alla filosofia, dalla musica all’arte.

Il tranquillo andamento scolastico viene però turbato da un evento drammatico e imprevedibile nel giorno del Venerdì santo: il rettore, entità superiore e quasi metafisica, colpito da improvvisa indisposizione, non può tenere la consueta allocuzione pasquale. A sostituirlo coraggiosamente sarà l’umile e taciturno bibliotecario dom Clemente, unico benedettino della comunità, che farà saltare ogni tradizione con le sue accorate parole, pronunciate dapprima con dolcezza e ironia – poi con sempre maggiore enfasi – in difesa dell’Occidente (che «si adagerà come l’angelo caduto che non potrà rialzarsi»). Il lungo discorso è intervallato dalle Sonate, ora gravi ora lente, dell’Oratorio di Haydn op. 51 Septem Verba Christi in Cruce, eseguite all’organo da dom Silvestro. Così gli ultimi capitoli del racconto, che nel titolo fa esplicito riferimento alle ultime parole pronunciate da Gesù sulla croce, si trasformano inaspettatamente in un apologo critico e profetico della società europea del XXI secolo.

Eccone un estratto in esclusiva, che introduce all’ultima parte del romanzo

«La Pasqua scandiva la fine del secondo trimestre ed era il momento più forte nella vita della comunità scolastica. I ragazzi più dotati in musica tenevano, la Domenica delle Palme, un concerto d’archi nella sala delle arti in biblioteca, davanti a una riproduzione del Cristo risorto di Michelangelo. Quell’anno era stato scelto il Concerto per tre violini in Re maggiore (BWV 1064r) di J. S. Bach, che si prestava a essere integrato, sotto la direzione musicale di Frau Pick, da una pluralità di viole e violoncelli; infatti, quell’anno molti ragazzi ambivano a suonare.

Il Venerdì santo prevedeva in chiesa – in assenza della Messa, essendo il tabernacolo vuoto – l’allocuzione del rettore. La mattina si apriva il sepolcro; la velatio coinvolgeva già da una settimana le croci, quindi non solo quella dell’altare maggiore, e le immagini nelle varie cappelle laterali: erano tutte infatti celate agli sguardi da panni color viola. Le acquasantiere erano state prosciugate. Il contesto, nel silenzio e nella semplicità dei gesti, era solenne. Quel giorno di digiuno sentiva riecheggiare brani di musica sacra, diversi anno per anno, perché scelti di volta in volta dai maturandi: costante negli anni era la Via Crucis, guidata la mattina dal docente più anziano di Teologia, sarebbe seguita quell’anno la lettura del capitolo 6 dell’Osea dal Vangelo di Giovanni («Nel terzo giorno ci solleverà»).

Seguiva l’allocuzione, che esprimeva un momento di sintesi dell’anno scolastico; era sempre molto attesa: l’aspirazione, non apertamente ammessa, era l’essere citati nel novero degli scolari più meritevoli. Oltretutto, il testo dell’intervento veniva inserito, a memoria futura, negli Annali della scuola, rilegati in pelle verde, e conservati in appositi scaffali in noce, non lontano dalla cattedra del bibliotecario, che sovrastava la principale sala di consultazione.

Il sabato era di riflessione e la Domenica di Pasqua un’esplosione di gioia, accompagnata dal solenne rintocco delle campane. Allegria che permetteva deroghe alla Hausordnung ordinaria, ma dalla sera del Lunedì dell’Angelo i maturandi sparivano agli occhi degli altri scolari. Entravano in clausura.

Ma il mercoledì precedente era piombata una drammatica notizia: il rettore, per un’improvvisa indisposizione renale, era impossibilitato ad alzarsi dal suo letto di dolore a Innsbruck, dove si era recato per l’elevazione a episcopato dell’amministrazione apostolica di Innsbruck-Feldkirch; si sperava potesse riprendersi, e nella peggiore delle ipotesi poteva subentrargli il prefetto, con il quale aveva concordato il testo. Ma costui, si apprese giovedì, era bloccato da giorni di fronte all’Eiger, nell’Oberland bernese, per un’inattesa tempesta di neve, che impediva ogni transito, sia ferroviario, che automobilistico. Giovedì ci si rassegnò all’assenza del prefetto, ma ci si illudeva che il rettore riuscisse in qualche modo a percorrere i 150 chilometri di distanza.

La definitività della brutta notizia circa la sua assenza fu appresa in chiesa, venerdì nel primo pomeriggio, con sgomento, terminata l’Introduzione dall’Oratorio di Haydn (Hob:XX:3) i docenti, già seduti, in ordine di anzianità delle materie (per cui i titolari di Latino, di Greco e di Historia sedevano fra i primi), si guardarono ansiosi. Nessuno si era preparato, né era ipotizzabile improvvisare l’allocuzione. Momenti di silenzio si trasformarono in lunghi minuti d’imbarazzo: l’assenza di un oratore si fece opprimente, persino i ragazzi, abituati com’erano a un’ordinata vita, scandita dal mosaico di regole non scritte, note e rispettate, provavano disagio. Il silenzio era assordante. Qualcuno pensò al decano, il titolare di Fisica, ma era soluzione impraticabile. Ciascuna fila di docenti si volse indietro verso quella posteriore e così, di fila in fila, lo sguardo si fissò sull’ultimo, sull’unico che non poteva volgersi indietro: dom Clemente.

Come chiamato da una voce silenziosa, il monaco, lo schivo e silenzioso bibliotecario, si alzò dalla panca arretrata e si recò al pulpito. Tacque. Aveva obbedito a un richiamo interiore e silenzioso; per i docenti vederlo fu in quell’istante una liberazione: egli non sapeva cosa dire ed essi non sapevano a cosa sarebbero andati incontro.

All’organo era seduto un ospite di passaggio, un monaco, dom Silvestro, amico di vecchia data proprio di dom Clemente, che lo aveva invitato per un breve soggiorno. Gli era stata offerta l’opportunità di suonare, ma anche’egli non poteva immaginare cosa sarebbe successo. Era leggermente indebolito nell’udito e incerto pure nella vista, vide comunque qualcuno salire sul pulpito e inspiegabilmente, senza aderire all’ordine dei brani, eseguì la Sonata 4 dall’Oratorio di Haydn, op. 51.

Deus meus, Deus meus, utquid dereliquisti me?

Ripeté dom Clemente con le mani davanti agli occhi: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Tutti pensarono al significato teologico o alla composizione di Haydn. A nessuno venne in mente la sincera angoscia dell’umile monaco, che si trovava di fronte a qualcosa che reputava più grande di lui».

Romano Ferrari Zumbini, Septem Verba, collana Narrativa, Liberilibri 2021, pagg. 156, euro 16.00, ISBN 979-12-80447-00-5