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La legge canonica da Suárez ai due Codici latini

Perù
Ph. Simona Balestra / Perù

1. La metamorfosi del fine ultimo

Se S. Tommaso d'Aquino è un teologo che inserisce il diritto nel proprio sistema e lo comprende alla luce di una visione fortemente unitaria della realtà, Francisco Suárez ha ricevuto una formazione giuridica prima di darsi agli studi di filosofia e teologia, quindi, sebbene sia diventato un metafisico di prima grandezza e uno dei massimi teologi della Controriforma, tanto da guadagnarsi l'appellativo di Doctor Eximius, per quanto riguarda il nostro tema dobbiamo considerarlo un giurista che sviluppa un'articolata riflessione filosofico-teologica de legibus.

Inoltre, mentre il Dottore Angelico è figlio di una Cristianità al culmine delle proprie certezze e del proprio fulgore (anzi, attraversa l'esatto momento in cui la nascita dell'averroismo latino getta i primi semi della crisi futura), Suárez, membro di spicco della Compagnia di Gesù, vive tutto il dramma di un mondo ancora profondamente cristiano ma, proprio per questo, altrettanto profondamente lacerato dalle guerre di religione; un mondo in cui si tenta faticosamente sia di preservare o restaurare l'ordine sacrale di prima, sia di districare in qualche modo la realtà politica e sociale dalla crisi di legittimità che l'attanaglia. Siamo ben lontani dal giusnaturalismo razionalista del sec. XVII, risolutamente avviato a costruire un ordine nuovo, capace di prescindere dall'appartenenza confessionale; e non è questa la sede per discutere fino a che punto esso sia in qualche modo figlio di Suárez, legittimo o più probabilmente spurio.[1] Tuttavia, va tenuto presente che l'uomo del Dottore Esimio è intimamente diviso: egli mantiene bensì fermi i capisaldi senza cui nessun filosofo del diritto potrebbe mai dirsi cattolico, cioè che Dio è Autore tanto del mondo quanto della Giustizia e che tutti gli uomini hanno, verso di Lui, il dovere di amarLo e onorarLo in questa vita per poter così conoscerLo e goderLo appieno nell'altra, faccia a faccia; però il suo sistema antropologico comprende una distinzione netta tra quest'ordine soprannaturale e una “natura pura” dell'uomo, che ne prescinde senza con questo essere caduta nel peccato.

Non si tratta di una concezione spuntata dal nulla, anzi sarebbe lungo tracciare il percorso della sua precedente evoluzione:[2] in breve, i teologi hanno cominciato a parlare di un uomo costituito in puris naturalibus trattando degli effetti del peccato originale, per distinguere tra i doni soprannaturali o preternaturali, che sono andati perduti, dalle doti naturali, che invece restano benché menomate; individuavano quindi le caratteristiche di quella che oggi si chiama “natura integra”, cioè non ferita dal peccato originale stesso. Ma poi senso e uso dell'espressione hanno cominciato a mutare, per influsso di un testo allora molto autorevole, il De caelo et mundo di Aristotele, secondo cui ogni natura, in quanto tale, è ordinata ad un fine proporzionato, cioè che può essere conseguito con le sue sole forze: di qui la conseguenza che “Naturale desiderium non se extendit ultra naturae facultatem” – così già il Gaetano – perché, in termini aristotelici, il desiderio naturale esprime la tendenza al fine connaturato al desiderante. Dunque, o la beatitudine eterna è raggiungibile con le sole forze umane, oppure il suo desiderio non può dirsi naturale; e siccome la prima ipotesi non è altro che l'eresia pelagiana, condannata fin dal V sec., non restava che affermare che la natura umana come poteva considerarla un filosofo aveva in sé un fine proporzionato, diverso dalla beatitudine eterna, al quale Dio ne aveva per così dire aggiunto un altro, soprannaturale, di cui poteva parlare solo il teologo, e che il desiderio della visione beatifica era solo una conseguenza della grazia (desiderium elicitum).[3]

A questo punto, l'espressione “natura pura” venne ad assumere un altro significato: non più la natura integra, realmente esistita in Adamo ed Eva, ma una condizione ipotetica in cui Dio avrebbe potuto creare l'uomo se avesse deciso di non destinarlo al Paradiso...[4] condizione subito trasformata, però, in strumento di analisi dell'uomo che esiste in concreto, come se questo fine puramente naturale potesse e dovesse in qualche modo coesistere con quello soprannaturale; anzi, lo stesso uso corrente dei due aggettivi risale proprio a questo peculiare contesto.[5] Insomma, il fine dell'uomo era sempre Dio, però finiva per esser diviso in due: il naturale si limitava a quella conoscenza e contemplazione di Lui che sono accessibili già mediante la ragione, come dire alla “vita teoretica” dello Stagirita, rispetto a cui la verità cristiana si presenta come un altro ordine, un quid superadditum; e in tal senso si interpretavano anche i testi di S. Tommaso, introducendovi una distinzione da lui mai posta espressamente e facendolo parlare ora come filosofo, ora piuttosto quale teologo.[6] Insomma, un'ermeneutica piuttosto che un'interpretazione: una volta che cui si convinca della necessità di leggere i testi alla luce di quella distinzione, gli esiti appariranno addirittura autoevidenti; ma codesta persuasione iniziale non deriva né dalla loro lettura, né dalla logica interna.

Tutto ciò, in apparenza, è di scarso rilievo per il giurista. O meglio: lo sarebbe, se non fosse la premessa su cui Suárez articola la propria teoria generale del diritto, il cui impianto e le cui conclusioni almeno principali sono poi divenute patrimonio comune dei canonisti, pressoché indiscusso almeno fino al Codice del 1917 e oltre.

Questo non significa che la tesi del duplice fine dell'uomo sia diventata patrimonio comune dei canonisti in quanto tali, sebbene sia stata recepita per secoli come dottrina comune dei teologi;[7] tuttavia, si è affermato un modo di ragionare sulla Chiesa che deriva in ultima analisi da qui e che tende a distinguere ciò che Essa ha in comune con la generalità delle organizzazioni umane, come dire la “base”, dalle caratteristiche propriamente soprannaturali, che certo non sono un'aggiunta in senso storico, trattandosi di un'organizzazione creata ex novo, ma tendono a diventarlo sul piano concettuale. Da ciò è derivata anche una notevole propensione a trasporre in ambito ecclesiastico schemi e concetti via via elaborati dai giuristi secolari, sebbene non senza distinzioni e accorgimenti. E non da ultimo, sebbene esuli dal nostro tema, la riflessione sui rapporti tra Chiesa e Stato si è imperniata sull'assunto che esistano due “società perfette” e soltanto due, perché nella o grazie all'una l'uomo trova tutto ciò che gli serve per raggiungere il proprio fine naturale, mentre solo mediante l'Altra può conseguire quello soprannaturale.[8] Tanto mi sembra che basti a dimostrare la necessità di una conoscenza almeno sistematica di tale antropologia.

 

2. Il De legibus di Suárez

2.1 Proemio ed impianto sistematico

Il Tractatus de legibus ac de Deo Legislatore, in dieci libri, è stato scritto dal Dottore Esimio a fine carriera, in veste di professore di teologia all'Università di Coimbra... ed egli si sente obbligato a scrivere un proemio breve, ma molto denso, per giustificare quella che può apparire un'invasione di campo. All'uopo, articola una serie di considerazioni:

  1. sarebbe impossibile al teologo esaurire la trattazione della propria disciplina, se non vi inserisse quella de legibus, poiché
    1. Dio va da lui considerato anche come “ultimo fine, a cui tendono le creature partecipi della ragione, e nel quale consiste l'unica loro felicità”,
    2. occorre dunque che il teologo indaghi anche le vie mediante cui Lo si consegue, tanto più che Egli stesso è, in molti modi, la causa del conseguimento stesso;
    3. siccome la via della salvezza consiste negli atti liberi e onesti, la cui rettitudine dipende per lo più dalla legge, l'esame delle leggi ha gran parte in teologia e, con ciò, essa non fa altro che studiare Dio Stesso come Legislatore.
  2. All'uopo non può bastare una discussione circoscritta alla Legge divina, poiché
    1. come ogni paternità, così pure ogni legislatore deriva da Dio e l'autorità di tutte le leggi deve, in ultima analisi, risalire a Lui”,
    2. e in ogni caso il teologo, avendo il compito di guidare le coscienze, deve conoscere le leggi, secondo cui le azioni vanno regolate;
    3. in più, la Fede cattolica conferma anche la Legge naturale e detta quell'ordine gerarchico che permette, in caso di contrasto, di comprendere a quale delle autorità si debba obbedire, e in che termini, con un discernimento che non può spettare ad altri che al teologo.
  3. In ciò, anzi, questi può ben dire di superare gli antichi, sia filosofi sia giuristi, la cui riflessione è circoscritta entro l'ambito del “fine naturale” dell'uomo,
    1. e la prospettiva più alta è necessaria al diritto canonico, che è ordinato invece al “fine soprannaturale”, sebbene anche lì si possa distinguere ciò che riguarda il foro esterno e lo stabilimento di un “ordine politico ecclesiastico” dal culto divino, dalla salvezza delle anime e dalla purezza della dottrina;
    2. la teologia, quindi, abbraccia tutte le leggi, comprendendole da un punto di vista più alto, e le riporta a Dio come loro Origine e Scopo.[9]

Questa serrata concatenazione di pensieri, oltre a confermarci l'importanza della teoria del duplice fine dell'uomo, ci rivela anche che, per Suárez, la lex è soprattutto la regola degli atti morali: il suo scopo è permettere di comprendere se un'azione vada compiuta, in quanto buona, o evitata come cattiva. Lo sviluppo della teologia morale e della casistica, caratteristico dell'epoca post-tridentina, spiegano l'attenzione riservata al teologo come direttore delle coscienze; eppure accanto alla dottrina cattolica comune, che riferisce sempre tutto a Dio come Alfa e Omega (Ap ), vediamo qui insinuato un certo dualismo all'interno dello stesso diritto canonico, dove alcuni ambiti normativi vengono riferiti in maniera più immediata alla santificazione delle anime, mentre altri canoni assicurerebbero soltanto una tranquillitas ordinis non poi così diversa da quella che, nel suo ambito, assicura quello che, senza grosse improprietà, ormai possiamo chiamare “Stato”.

La sua divisione sistematica dei vari tipi di lex, che detta anche l'ordine dell'opera, rispecchia fedelmente sia la teleologia adottata sia la scelta di procedere dal generale al particolare: il Libro I tratta della lex in generale, enucleando le caratteristiche comuni all'intera categoria e quindi tratteggiando anche le differenze dei vari tipi; la lex naturalis segue al Libro II, inglobando anche la lex aeterna e il ius gentium. A questo punto, la sistematica rivela un'altra grande novità: tutti gli altri tipi sono considerati lex positiva, che dunque un autore determinato ha aggiunto a quella naturale. Se per S. Tommaso la summa divisio era lex divina / lex humana, qui è lex naturalis / lex positiva, dove quest'ultima categoria comprende sia il diritto positivo umano sia quello divino. Il che ha senso solo in un'ottica in cui il Vangelo “si aggiunge” alla legge naturale in maniera analoga a come fa la legge umana, sebbene ovviamente con l'infallibilità e la certezza che gli derivano dall'Autore divino.

In effetti, la lex humana viene proprio assunta a caso paradigmatico.[10]

Lo confermano l'ordine dell'esposizione e lo stesso titolo del Libro III, “La legge positiva umana in sé stessa e come può essere considerata nella natura pura dell'uomo, che è detta anche lex civilis”; per un verso, infatti, essa viene anteposta alla divina sia perché meglio nota sia perché corrisponde alla natura, che preesiste alla grazia; per altro, nell'esposizione si tiene conto che questa lex può presentarsi pura o, invece, unita alla Fede, con le differenze evidenziate di volta in volta (cfr. 3.1.1). Non abbiamo più, quindi, l'univoca tendenza verso un fine ultimo ultraterreno, ma soltanto un nesso estrinseco affidato alla volontà di qualcuno e, tra le due condizioni predette, la differenza è definita accidentalis.

Il Libro IV è dedicato a “La legge positiva canonica”, di cui mette in luce soprattutto le specificità rispetto a quella secolare, la cui natura di modello comune esce quindi ulteriormente confermata.[11] Seguono quattro libri dedicati a problemi comuni all'utrumque ius, con le differenze di disciplina notate caso per caso: “Le diverse categorie di lex humana e specialmente la lex odiosa” (V); interpretazione, modifica e cessazione delle leggi umane (VI); consuetudine (VII); privilegio (VIII). Completano l'opera gli ultimi due, deputati rispettivamente a “La legge divina positiva antica” (IX) e “La legge divina positiva nuova” (X).

Se si considera che soltanto il Libro VIII conta quaranta capitoli, contro i ventidue del IX e gli otto del X, e che anche in numero di pagine è più lungo di questi due insieme,[12] appare chiaro che parliamo di un trattato De legibus in senso stretto, destinato ad inserirsi in un'esposizione più ampia della teologia, ma in sé interessata a problemi molto specifici: basti dire che le otto questioni discusse in merito alla lex nova sono 1) se essa sia propriamente una legge e Cristo legislatore perfettissimo, in difesa della definizione tridentina contro i protestanti;[13] 2) quale sia la sua materia, quali i suoi precetti; 3) se sia scritta o soltanto infusa interiormente, formulazione che già di per sé accentua l'importanza della redazione per iscritto; 4) quando abbia cominciato ad obbligare; 5) se giustifichi, o produca altri effetti; 6) se alcuno possa dispensarne; 7) se sia perfetta e immutabile; 8) se superi in perfezione l'antica. Insomma, i temi di S. Tommaso ritornano, ma non si ha l'impressione di percorrere una scala ascendente di cui il Vangelo è il culmine e trapassa quasi insensibilmente nella trattazione de Gratia; piuttosto, quella di esser giunti al termine dell'esposizione e dover sbrigare poche questioni specifiche perché su tutto il resto basterà quanto già detto.

Ma proprio per quest'attenzione particolare alla lex humana, per l'abilità con cui unisce scienza teologica e giuridica, per l'indubbia originalità che mostra nell'affrontare difficili questioni di teoria generale (ne abbiamo già visto un esempio a proposito della consuetudine), Suárez è diventato “il” punto di riferimento per i canonisti, che saranno forse stati edificati un po' meno, però hanno potuto attendere con sicurezza alle mille questioni particolari perché quelle più generali e difficili potevano già dirsi risolte da una teoria solida. La cui solidità deve molto alle caratteristiche salienti del metodo di lavoro di Suárez, tutto sommato ben individuate da Michel Villey, pur in termini non positivi: dogmatismo, nel senso che il ragionamento procede soprattutto per via deduttiva da princìpi generali; pedantismo ossia ambizione prettamente universitaria di considerare tutti gli autori, prima ancora che tutte le opinioni, inserendo lunghi elenchi di citazioni a suffragio di questa o quella; eclettismo, perché l'esito della disamina è una sorta di via di mezzo tra S. Tommaso e i nominalisti, di cui ha forse poco senso discutere se pencoli più da una parte o dall'altra.[14]

La teoria risultante, anzi, è solida e pratica, perché imperniata su una nozione di lex che – diversamente da S. Tommaso, che perseguiva altri scopi – può dirsi adeguata al diritto umano, cioè studiata apposta per individuare le note che distinguono la lex humana da altre fonti, con la possibilità di applicarla alla lex divina mercé gli adattamenti del caso.

 

2.2 La lex: elementi essenziali e ruolo di guida morale

Anche per Suárez, come già per S. Tommaso, la lex deve esser conforme alla retta ragione, anzi in lui si manifesta una vera ripugnanza ad attribuire il termine a qualcosa di ingiusto; ha come soggetto una communitas (di che genere, già si è visto per la consuetudine) ed è funzionale al bene comune di essa; richiede nel proprio autore una potestà specifica, distinta sia da quella di dare consigli sia dall'autorità del padre o del padrone; ed è necessario che sia promulgata. Per lui tuttavia – sebbene la questione gli sembri più nominale che sostanziale – essa è un atto della volontà, non della ragione, perché ritiene che ordinare i mezzi rispetto al fine non sia opera di una virtù intellettuale, bensì del volere, “che mira al fine e sceglie i mezzi in vista di esso e dispone che così si faccia” (1.5.6). L'accentuazione della volontà ricorre costantemente nel suo sistema e non manca di produrre conseguenze di rilievo: per esempio, egli rivaluta l'etimologia di ius da iussum, presentandola come una prosopopea in cui l'ordine si autoqualifica diritto (“ius sum”: 1.2.1), sebbene poi si soffermi ben di più sulla nozione ulpianea di ius come oggetto della virtù della giustizia, in potenza più che in atto, (1.2.2) e dunque con l'idea, d'altronde insita nella relazione con la virtù, che il ius sia sempre qualcosa cui la volontà deve tendere, tanto che in definitiva l'oggetto proprio della giustizia è per lui quello che possiamo già chiamare il diritto soggettivo.[15] L'accezione di diritto positivo, sinonima di lex, si lega invece alla prima delle due etimologie (1.2.5) e può coesistere con quella di diritto soggettivo senza troppi problemi perché entrambe fanno ancora riferimento ad un più ampio ordine precostituito, tale per cui la facultas agendi è veramente moralis solo se moralmente giusta e a sua volta la lex, se ingiusta, non può nemmeno fregiarsi di tal nome (e anche nei casi particolari, all'occorrenza, viene corretta dall'equità: 1.2.7). In quest'ordine, la stessa creazione di una creatura dotata di ragione rende necessaria l'esistenza di una lex che la governi nelle scelte morali (1.3.2);[16] e va da sé che si tratta della lex naturalis (1.3.8),[17] ma più in generale l'effetto obbligante è caratteristico di ogni lex proprio in quanto si tratta del mezzo con cui essa concorre a rendere gli uomini buoni (1.14.1).[18]

Per ragioni di spazio, mi sono limitato ad indicare le travi portanti, per così dire, del sistema suareziano; credo però di essere riuscito ad illustrare come, pur all'interno di coordinate generali che restano quelle di S. Tommaso, egli si contraddistingua per la costante preoccupazione per la rettitudine degli atti morali. Qui dobbiamo vedere sullo sfondo il teologo della Controriforma, così preoccupato della correttezza delle decisioni concrete in un modo che cambiava e si complicava; ma forse non è azzardato ravvisare anche un influsso della spiritualità propria dei Gesuiti e, in particolare, degli Esercizi spirituali, tutta improntata su una verifica costante della conformità della volontà del soggetto a Quella di Dio e nella conseguente rettifica degli affetti, oltreché delle intenzioni. Non è un caso, credo, che l'esame di coscienza negli Esercizi sia essenzialmente un chiedere a Dio di illuminare l'anima in modo che veda il peccato nella sua realtà soprannaturale, di offesa alla Maestà divina; e che Suárez insista molto su una proprietà analoga della lex, la vis illuminativa, che indica ala ragione la via da seguirsi.[19] In effetti, si potrebbe dire che negli Esercizi ci troviamo di fronte alla mozione interiore della Grazia; nelle leggi divine positive e canoniche a fari che gettano luce ad ampio raggio, ma rispetto alle azioni soprattutto esterne e al fine ultimo; nelle leggi naturali e umane, una vis illuminativa circoscritta in sostanza alla condotta esteriore e al fine naturale.

 

2.3 Definizione di lex e distinzione dalle figure affini

Per risolvere l'obiezione secondo cui la definizione tommasiana di lex non permetterebbe, a rigore, di escludere il consiglio, Suárez finisce per proporre di sostituirla con un'altra più breve: “Commune praeceptum iustum ac stabile sufficienter promulgatum” (1.12.5).[20]

  1. Intanto, il termine centrale non è più ordinatio ma praeceptum;[21] e ciò risolve senz0'altro il problema della distinzione dal consilium.
  2. Questo praeceptum, poi, è detto commune, “riferito ad una communitas”, per distinguerlo dall'ordine impartito ad un destinatario singolo, il praeceptum singulare, che non forma oggetto di trattazione nel De legibus perché consiste in un ordine personale del superiore all'inferiore; egli chiarisce, tuttavia, che l'efficacia dell'ordine cessa con la morte o comunque la perdita della potestà da parte di chi l'ha impartito (1.10.10);
  3. ma nello stesso tempo la nota della stabilità – non perpetuità, perché le leggi umane sono sempre revocabili – permette di distinguere la lex dall'ordine impartito a tutta una comunità per una singola occasione, il praeceptum generale, e la differenza è importante proprio in diritto canonico, per vari motivi specialmente penali;[22]
  4. Infine, parlare di praeceptum distingue la legge dalla dispensa, che è un atto che fa cessare uno specifico obbligo legale per qualcuno, senza però proibirgli di seguire la legge.
  5. Va ancora notato che il Libro I lascia aperta la questione del privilegio, limitandosi a dire che il bene particolare che così viene concesso deve andare, almeno indirettamente, a vantaggio di tutti; ma all'inizio del Libro VIII lo definisce lex favorabilis e nega la natura di legge solo a quelli temporanei (cfr. 8.1.1-2). Quindi, il privilegium è una sottocategoria della lex che si contraddistingue per i particolari effetti. 

 

2.3 Lex divina, naturalis humana: le sfere di competenza

Il quadro del sistema suareziano non sarebbe completo se non includesse anche una trattazione sui rapporti tra le principali accezioni di lex.

Già si è visto che per lui la lex naturalis è innanzitutto un criterio di giudizio sulla moralità degli atti;[23] lo conferma anche la discussione sulla possibilità di identificarla con la stessa natura razionale, dov'egli conclude che la natura è ciò rispetto a cui deve esser formulato il giudizio di convenienza o sconvenienza dell'azione, ma ciò che propriamente si chiama lex naturalis è un aspetto particolare della natura razionale, ossia la capacità di formulare quel medesimo giudizio (2.5.5).[24] Resta però da dire dell'ambito oggettivo coperto da questa lex come regola di giudizio, cioè quante certezze fornisca il riferimento alla natura; e qui, respinta la tesi secondo cui al ius naturale apparterrebbero solo i princìpi primi, Suárez sposa con decisione la linea che vi fa rientrare tutto ciò che è onesto, e come tale comandato, oppure opposto all'onesto e perciò proibito (2.7.1 e 4), dunque non solo i princìpi di per sé noti, ma anche tutto ciò che ne deriva come conclusione necessaria, sebbene non sempre facile a dimostrarsi né nota a tutti.[25] Quindi, il diritto naturale si presenrta come un corpus di regole deducibili a priori e il ruolo del contingente sta a valle, nella verifica dell'esistenza o meno dell'obbligatorietà in concreto del tale precetto; siffatti giudizi sono variabili di per sé, ma il diritto naturale rimane invariabile (2.8.4), e dovrà semmai dirsi, ad es. nel caso del deposito da non restituirsi, che il precetto, lungi dal mutare, fin dal principio non era stato dettato per quel caso (2.13.4; 2.16.7).[26] Non si deve però pensare che il diritto naturale sia una semplice collezione di precetti: sebbene vi insista meno rispetto a Tommaso, Suárez mantiene un'impronta teleologica spiccata anche in quest'ambito. Invero, sul presupposto che l'uomo possa amare Dio sopra ogni cosa anche con le sole forze della natura, di un amore quindi distinto dalla virtù teologale della carità, infusa mediante la grazia, egli non esita ad affermare che il precetto di amarLo in tal modo, quindi di ordinare rispetto a Lui sé stessi, con ogni propria azione, e di perseguirLo come fine ultimo rientra nella lex naturalis, considerato  l'uomo rispetto alla natura pura; parimenti, l'amore sopranaturale di carità, di gran lunga superiore al precedente, non è di per sé necessario all'adempimento della lex naturalis, neanche tenuto conto dell'elevazione all'ordine soprannaturale (2.11.1 e 5, con esplicito rigetto della tesi opposta di Baio).

Tuttavia, l'autosufficienza di questo corpus normativo non è completa, perché esso comanda e vieta, ma gli restano estranee le altre due azioni tipiche della legge, permettere e punire:[27] punire, perché l'entità e il tipo della pena temporale non sono determinati dalla lex naturalis; permettere, in quanto gli atti indifferenti sono semmai, per definizione, irrilevanti in termini di diritto naturale, quelli buoni non sono permessi ma positivamente approvati, viceversa i malvagi non si intendono mai permessi dalla lex naturalis (2.12.1).

Vediamo qui un esempio della necessità della legge positiva, che è appunto quella che aggiunge qualcosa oltre a ciò che si deduce a titolo di conclusione necessaria dalle caratteristiche della natura. Può trattarsi di diritto positivo umano, tra cui rientra anche il ius gentium (2.19.3), oppure divino, che si aggiunge alla lex naturalis soprattutto perché il fine soprannaturale, aggiungendosi alla stessa natura, le sovrappone una legge propria e più alta. Ma è comunque chiaro che questo sistema, per reggersi, richiede un'antropologia filosofica molto robusta, capace di determinare con precisione – e sia pure al prezzo di lunghe dispute – fin dove si spingano le esigenze della natura, dove cominci la discrezionalità del legislatore, e allo stesso modo di un'antropologia teologica che analizzi la legge divina positiva. In altre parole, molto più che componenti coordinate di un unico grande ordine, ora le varie leggi sono diventate sfere di competenza distinte, in significativo parallelo con la specializzazione accademica che porta ad abbandonare l'unitarietà della Summa Theologiae. Venendo via via meno il consenso sui presupposti antropologici del modello, la realtà verrà ad allontanarsene sempre più; ma questa è un'altra storia.

 

3. La lex e le figure affini nel Codice pio-benedettino

Apparentemente impermeabile, se non fieramente ostile, allo stravolgimento dell'Europa compiuto dalla Rivoluzione francese e da tutto quel che ne è seguito, il Codice del 1917 presuppone l'impianto teorico di Suárez sull'articolazione dei vari tipi di lex, pur astenendosi in genere dal qualificare expressis verbis i propri canoni come di diritto divino, naturale od umano, e sebbene non rechi alcuna definizione formale della legge canonica, di fatto delinea un sistema che corrisponde al quadro delineato dal Tractatus de legibus, però con qualche modifica significativa.

Innanzitutto, esso enuncia espressamente “Lex instituitur cum promulgatur” (can. 8 §1), unico requisito formalizzato dai codificatori; e la ragione si scopre subito, perché viene recepita la recente riforma di S. Pio X che, superando la prassi dell'invio di copie autentiche dei provvedimenti pontifici, ha stabilito quale unica sede della promulgatio la pubblicazione in Acta Apostolicae Sedis, la data del cui fascicolo corrisponde altresì al dies a quo per il computo della vacatio legis. [28]Tutto questo salvo che il legislatore stesso non ordini diversamente in un caso particolare: a lui infatti spetta  provvedere alla promulgatio e disciplinarla, dopotutto fa parte integrante della sua funzione, e lo si vede anche dal can. 9, che dichiara che le leggi dei legislatori inferiori al Papa (tipicamente i Vescovi) si promulgano nel modo stabilito da ciascuno di loro. Non sono trattati i temi della non accettazione della legge da parte del popolo e della remonstratio delle autorità inferiori contro quella del Papa, ben considerati nella traditio canonica; ne tratteremo parlando della cessazione della legge, qui intanto basti dire che, secondo l'opinione prevalente, il silenzio del legislatore ha lasciato immutata la validità della communis opinio antecodiciale.

Parimenti sottaciuto è il problema della giustizia o ragionevolezza della legge; ma, a parte i richiami all'equità, la dottrina afferma compatta che il requisito della rationabilitas, enunciato espressamente per la consuetudine, vale anche per essa.[29]

Il problema della distinzione della lex dal consilium non è trattato, probabilmente perché ritenuto di scarsa rilevanza; in compenso, il primo forte elemento di novità è dato dalla disciplina della dispensa, fino ad allora annoverata tra gli atti che spettano al legislatore, per il principio dell'actus contrarius, ma che la dottrina postcodiciale verrà a riconfigurare come atto amministrativo, in virtù delle espresse concessioni agli Ordinari dei luoghi della facoltà di dispensare, la più importante delle quali riguarda il dubbio di fatto, concretamente il caso più frequente.

Sempre per scarsa rilevanza pratica, probabilmente, il Codice non tratta dei precetti generali; a quelli particolari è dedicato un solo canone, il 24, che chiarisce che essi obbligano chi li riceve anche se si trasferisce fuori del territorio del Superiore, in quanto il loro fondamento è personale, ma per lo stesso motivo cessano con la potestà del concedente; possono essere fatti valere in giudizio solo se intimati davanti a due testimoni oppure in forma scritta, il che praticamente significa che quelli verbali hanno comunque forza obbligante, ma soltanto in foro interno.

Già si è detto della consuetudine e anche delle caratteristiche della communitas capax recipiendi legem; va ora spesa qualche parola sul privilegio, perché il Codice mantiene la categoria dei privilegia generalia, che sono in sostanza leggi speciali che accordano facoltà o diritti particolari a tutta una categoria di soggetti (cfr. ad es. il can. 239 per i Cardinali) e vengono per lo più codificate al pari delle altre, però in senso stretto intende il privilegio come lex privata per una persona fisica o morale concreta. Qui è mantenuta ferma la necessità della concessione da parte del legislatore, siccome si tratta di andare contra o praeter ius; tuttavia, accanto alla sua formazione consuetudinaria,è possibile anche l'acquisto per usucapione (praescriptio), che richiede la buona fede fin dall'inizio e quindi, in sostanza, serve a sanare con il decorso del tempo le concessioni valide solo in apparenza.[30]

Come si vede, il Codice, pur ricco di norme definitorie, dedica un'attenzione piuttosto scarsa alla distinzione tra le varie figure; e può permettersi di farlo perché essa non dava luogo a problemi pratici, in quanto l'elaborazione suareziana era divenuta patrimonio comune. L'evoluzione della dispensa nella dottrina posteriore non rientrava, probabilmente, tra i risultati voluti dai codificatori, inclini semmai a dubitare della stessa ammissibilità astratta di un diritto amministrativo canonico; e nel resto si può dire che torniscano il dettaglio rispetto all'architettura del De legibus.  

 

4. Le novità del Codice del 1983

Il Codice del 1983, se in genere conferma senza modifiche di rilievo i canoni del precedente, di fatto però esprime una nozione di lex alquanto diversa, perché ammette e disciplina in modo esplicito gli atti amministrativi generali. Di conseguenza, il can. 29, che apre la relativa trattazione, enunclea a contrario altri requisiti della legge, oltre alla promulgazione: “Decreta generalia, quibus a legislatore competenti pro communitate legis recipiendae capaci communia feruntur preascripta, proprie sunt leges et reguntur praescriptis canonum de legibus.”.

Dal che si desume quanto segue:

  1. la nozione di lex è sostanziale e non bada al nomen iuris;[31]
  2. non si ha riguardo neppure alla forma rivestita dagli atti pontifici (bolla, breve);
  3. si evita di dire che la lex è un praeceptum, probabilmente per evitare confusioni con il praeceptum singulare,[32] ma la sostanza della definizione suareziana è recepita nella locuzione “communia feruntur praescripta”;[33]
  4. come soggetto passivo della lex, è richiesta una comunità capace di riceverla; quale poi sia, si desume indirettamente dal can. 94 §3;
  5. ma soprattutto è necessaria la potestà legislativa, ordinaria o delegata (cfr. can. 30), di cui adesso si fa esplicita menzione perché da essa si è distinta l'amministrativa.

Gli atti amministrativi sono soggetti alla legge, ma con l'importante caveat che la potestà “esecuitiva” (virgolette d'obbligo) include il potere di dispensa, ai sensi del can. 85: la trasformazione di tale provvedimento in atto amministrativo è dunque compiuta. Che applicare la legge significhi anche decidere se sia il caso di non applicarla può suonar paradossale per più di un verso e pericoloso per molti altri; tuttavia, se si tiene conto del dovere generale di seguire l'equità e ancor più del fatto che, in definitiva, tutte le fonti normative canoniche si riducono ad un imperativo soltanto, la salvezza delle anime (cfr. can. 1752), questa soluzione rivela il proprio significato e, direi, anche l'alto valore, non scontato per lo stesso ordinamento canonico.[34]

Tuttavia, la dispensa viene sempre data in un caso particolare (can. 85); gli atti amministrativi generali debbono sottostare alla legge a pena di nullità (cfr. cann. 33 §1 e 34§2) e – comunque denominati – debbono qualificarsi solo in due modi, decreti generali o istruzioni. I primi vanno promulgati, soggiacciono a vacatio legis e determinano in modo più preciso i modi in cui la legge va applicata oppure ne urgono l'osservanza (can. 31 §1); le seconde “semper legis praescripta declarant”, assolvendo quindi ad una semplice funzione interpretativa, e determinano le procedure da seguirsi nell'applicazione delle leggi, senza necessità di promulgazione o vacatio. In pratica, e salva la cautela sempre necessaria in tali accostamenti, il diritto canonico ha mutuato (sostanzialmente da noi) le figure del regolamento di esecuzione e della circolare; il che significa, in concreto, che tutta una serie di atti, soprattutto dei Dicasteri della Curia Romana, che prima sarebbero stati qualificati come legislativi sono ora soggetti alla legge. E tuttavia – lo specifico per completezza – non autonomamente impugnabili: l'eventuale nullità per violazione di legge deve esser fatta valere in sede di ricorso avverso il provvedimento singolare derivato e concretamente lesivo.

Anche la materia dei privilegi ha subito un riordino importante: quelli generali sono oramai considerati leggi a tutti gli effetti, ora il privilegium è solo la concessione di una grazia in favore di determinate persone fisiche o giuridiche, mediante un apposito atto che è formalmente amministrativo, ma richiede la potestà legislativa o una speciale concessione del legislatore al titolare di quella esecutiva (cfr. cann. 75 e 76). Anche se non ha più il carattere della generalità, infatti, il privilegio mantiene quello di deroga permanente al diritto (cfr. can. 81) che non si limita a far cessare un obbligo di legge in un caso particolare, come invece la dispensa, bensì crea nuovi diritti e nuovi obblighi, sia nel titolare sia indirettamente in quanti debbono rispettare il privilegio o anche concorrere a renderne possibile l'utilizzo. Resta invece sullo sfondo, ma lo si vede nella facoltà di revoca prevista al can. 84, il problema dell'armonizzazione del privilegio con il bene comune e non è espressamente affrontata neppure la causa finale dell'istituto; ma, parlando di “grazia”, in definitiva si intende sempre qualcosa che, senza essere dovuto e neppure consueto, può tuttavia aiutare quei particolari soggetti nel cammino di santità.

Ora che è chiaro da cosa debba essere distinta, credo che la fisionomia della legge canonica si sia fatta più concreta e precisa; resta però ancora da trattare della sua interpretazione, dell'integrazione delle lacune, della cessazione ab intrinseco e ab extrinseco.

 

[1]    Cfr., almeno per un primo approccio al problema, F. Todescan, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico. Il problema della secolarizzazione nel pensiero giuridico del sec. XVII, Padova 2014.

[2]    V. al riguardo E. Nardi, Ateismo e desiderio di Dio nell'opera di Henri de Lubac, Lucca 2006, pagg. 229-356.

[3]    Th. de Vio, Commentarius in Primam Summae Theologicae, ad qu. 12, a 1, n. 10, in S. Tommaso d'Aquino, Opera omnia, t. 4 – Pars Prima Summae Theologiae a quaestione I ad quaestionem XLIX, Roma 1888 (Ed. Leonina), pag. 116: “creatura rationalis potest dupliciter considerari: uno modo absolute, alio modo ut ordinata est ad felicitatem. Si primo modo consideretur, sic naturale eius desiderium non se extendit ultra naturae facultatem : et sic concedo quod non naturaliter desiderat visionem Dei in se absolute. Si vero secundo modo consideretur, sic naturaliter desiderat visionem Dei: quia, ut sic, novit quosdam effectus, puta gratiae et gloriae, quorum causa est Deus, ut Deus est in se absolute, non ut universale agens. Notis autem effectibus, naturale est cuilibet intellectuali desiderare notitiam causae. Et propterea desiderium visionis divinae, etsi non sit naturale intellectui creato absolute, est tamen naturale ei, supposita revelatione talium effectuum. Et sic tam ratio hic allegata, quam reliquae rationes ad idem collectae in cap. l Tertii Contra Gentes, concludunt inane fore desiderium intellectualiis naturae creatae, si Deum videre non possit. Non oportuit autem exprimi quod de creatura intellectuali non absolute, sed ut ordinata ad felicitatem, esset sermo: quia commune est cuilibet scientiae, quod semper intelligantur termini formaliter ut subsunt illi scientiae, ut patet de quantitate in physicis. Constat autem ex II Contra Gentes, cap. iv, quod creaturae non sunt de consideratione theologica, nisi ut ordinantur, gubernantur, praedestinantur a Deo in Deum, ut supremum omnium finem: alioquin non in ordine ad altissimam causam et propriam theologo, theologica considerarentur, ut de se patet.”.

[4]    Reagendo forse proprio contro queste tendenze, Michele Baio sostenne, a Lovanio, che Dio non avrebbe potuto creare una creatura dotata di ragione senza ordinarla con ciò stesso alla visione beatifica, da lui evidentemente ritenuta il solo fine ultimo degno della ragione stessa; ma questa tesi è stata condannata dal Magistero, che ha difeso quella che da allora si chiama “gratuità dell'ordine soprannaturale” (cfr. S. Pio V, bolla Ex omnibus afflictionibus, 1 ottobre 1567), e sebbene la condanna tenesse aperta semplicemente la possibilità astratta diede di fatto grande impulso alle teorie del “duplice fine” dell'uomo in concreto esistente. Non va trascurato neppure l'influsso del problema della salvezza dei non battezzati, postosi in termini nuovi dopo la scoperta delle Americhe: di colpo si doveva assumere che la maggior parte dell'umanità (perché tale era o appariva rispetto alla popolazione europea) fosse vissuta e morta per millecinquecento anni senza la benché minima possibilità materiale di conoscere Cristo; quindi, o si ammetteva che in qualche modo la giustizia naturale potesse bastare a far ottenere a questi pagani incolpevoli la salvezza eterna, oppure li si destinava al Limbo, ripensandolo però non come primo girone dell'Inferno dantesco, ma quale stato di vera felicità puramente naturale, corrispondente al fine ultimo dell'uomo in puris naturalibus

[5]    La posizione di Suárez sul complesso problema è nel suo De gratia, proleg. 4, c. 1, n. 2, dove cerca di mediare tra il Gaetano e quanti gli rimproverano infedeltà al testo come al pensiero di S. Tommaso. In definitiva però, siccome profondamente convinto dell'autosufficienza della natura, tanto che per lui, sebbene solo Dio sia l'Essere, dopo la Creazione l'esistenza si trasmette come una sorta di appendice dell'essenza, è implicita nell'operare delle cause seconde (cfr. É. Gilson, L'essere e l'essenza, Milano 1988, pagg. 132-42), egli porta a compimento il sistema del duplice fine come descrizione dell'uomo reale, non di una pura ipotesi com'era ancora per il Bellarmino.

[6]    Così, ancora in pieno Novecento, autori come Garrigou-Lagrange, Gardeil, de Tonquédec, uno scotista come Descoqs e Boyer: cfr., per i relativi riferimenti, E. Nardi, op. cit., pagg. 236-7. Difficile non rilevare una sensibile differenza rispetto al Maestro, anche quando commenta un testo filosofico: cfr. ad es. Tommaso d'Aquino, Commento al “Libro delle cause”, Milano 1986 (cur. e tr. C. D'Ancona Costa, su testo critico Saffrey), Proemio, pag. 168, secondo cui “è necessario che la suprema felicità raggiungibile dall'uomo in questa vita consista nella contemplazione delle cause prime, perché quel poco che di esse si può sapere è più degno d'amore e più nobile di tutto ciò che si può sapere delle cose di quaggiù, come risulta da Aristotele nel primo libro delle Parti degli animali. Quando poi dopo questa vita tale conoscenza diviene in noi completa, l'uomo si trova in uno stato di beatitudine perfetta, secondo il detto del Vangelo: 'Questa è la vita eterna: conoscere te, Dio vero e uno' [Gv 17,3].”.

[7]    Cfr. ancora P. Parente, De creatione universali, Torino 1946, pagg. 122-3, che, con sicurezza tanto più significativa in un manuale istituzionale per seminaristi, formula le seguenti definizioni: “I – Ordo naturalis est natura creata in sua essentiali constitutione apteque disposita ad proprium finem suis viribus assequendum. II – Ordo supernaturalis est apta alicuius creatae naturae dispositio a Deo donis supernaturalibus actuata ad attingendum finem supernaturalem, qui nempe illius naturae proportionem transcendit”. Tuttavia, l'illustre teologo della Scuola Romana (e futuro Cardinale), in merito allo specifico problema del desiderium naturale videndi Deum, si discosta dall'opinione del Gaetano e dei suoi seguaci, non ultimo il Billot, perché accoglie la tesi del desiderium elicitum nell'accezione di Silvestri di Ferrara: si tratta sempre di un desiderio “elicito” e quindi prodotto da qualcosa, però non dalla grazia, quindi può esser detto naturale; scaturisce dalla conoscenza degli effetti naturali di Dio, quindi della bontà della Creazione (va ricordato che, per il dogma cattolico, l'esistenza di Dio è dimostrabile appunto a posteriori, “come la causa per mezzo dei suoi effetti”), e tende a Lui come Sommo Bene, sul piano esplicito e formale, ma materialmente e implicitamente tende a quella visione beatifica fuori della quale Dio non si può conoscere o amare in modo perfetto. In questi termini, cfr. Ibid., pag. 120, e amplius Id., De Deo Uno et Trino, Torino 1946, pagg. 44-7.   

[8]    Cfr., anche per le tracce di questa posizione nel CIC 1917, M. Nacci, Origini, sviluppi e caratteri del Jus publicum ecclesiasticum, Città del Vaticano 2010.

[9]    F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo Legislatore, voll. I-II, Napoli 1872 (ed. or. Coimbra 1612), qui vol. I, Prooemium, pagg. 1-2. L'opera è divisa in libri, capitoli e numeri; per semplicità, nel prosieguo, tutti i riferimenti al Tractatus saranno formulati senza indicazione di titolo o autore,  in forma numerica “dal più al meno”, ad es. 1.2.3, che significa “Libro I, Capitolo II, n. 3”.

[10]  Cfr. 1.4.1: “Iam sequitur videndum, quid sit lex, quod abstracte et in communi explicabimus, et difficultates insurgentes ex particularibus legibus in propria loca remittemus; semperque loquemur more humano, et iuxta nostrum concipiendi modum; erunt tamen locutiones applicandae ad divinam legem, seu mentem, remotis imperfectionibus.”. Come dire, a mio avviso, che se nell'ordine dell'essere viene per prima l'attività di Dio Legislatore, da cui derivano tutte le altre, nell'ordine della conoscenza noi non possiamo che prendere le mosse da ciò che ci è più familiare, la legge umana, che proprio per questa sua derivazione può introdurci alla Legge divina.

[11]  Come d'altronde egli stesso osserva in 3.1.1: “De communi autem ratione legis humanae positivae simul cum lege civili disseremus; sic enim facilior erit doctrina, facileque poterit ad legem canonicam accommodari, ea tantum addendo, quae ratione supernaturalis potestatis illi conveniunt, quod in libro sequenti praestabimus.”.

[12]  Nell'edizione partenopea, esso occupa le pagg. 342-513, gli altri due seguono rispettivamente a 514-629 e 630-73; quindi l'estensione rispettiva è di 171 e (115 + 43) 158.

[13]  Cfr. Concilio Ecumenico di Trento, Sess. VI, 13 gennaio 1547, Decretum de iustificatione, can. 21 (Denz. 1571): “Si quis dixerit, Christum Iesum a Deo hominibus datum fuisse ut redemptorem, cui fidant, non etiam ut legislatorem, cui obediant: anathema sit.”.

[14]  Cfr. M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, Parigi 2003, pagg. 351-3. Si sarà capito che l'insigne storico francese non nutre un'opinione positiva di Suárez; in più ritiene che, nel mélange del suo pensiero, predomini il nominalismo, che per lui è una bestia nera proprio nell'ambito della filosofia del diritto. Senza dubbio la lettura di Suárez riesce pesante, gli manca quel guizzo inatteso che rischiara e rende spesso sorprendenti le pagine dell'Aquinate; il suo sistema si presenta un po' troppo spesso come una costruzione calata dall'alto; e si può restar perplessi dinanzi al suo modo libero di trattare le auctoritates. Tuttavia, non gli mancano né tratti originali, come l'insistenza sul fatto che illuminare le coscienze è una delle caratteristiche della lex, né soprattutto un equilibrio paragonabile allo stesso Tommaso nel saper estrarre e assimilare un nocciolo di verità anche dalle opinioni che respinge; e per quanto si possa parlare di un suo eclettismo, sarebbe un errore pensare che esso, in lui, sia il prodotto di una mancanza di princìpi saldi, perché egli prende posizioni nette (ad es. ascrivendo la lex alla volontà, non alla ragione) e se sembra che dia ragione a tutti ciò si deve alla sua abilità di scrittore: in realtà, ciascuno riceve proprio e solo quella parte di ragione che egli ritiene di riconoscergli... o a volte di assegnargli ex novo.

[15]  “Atque hoc modo sumi videtur ius in [D.1.1.1] cum dicitur iustitia esse virtus, quae ius suum unicuique tribuit, id est id tribuens unicuique, quod ad illum spectat: illa ergo actio, seu moralis facultas, quam unusquisque habet ad rem suam, vel ad rem ad se aliquo modo pertinentem, vocatur ius, et illud proprie videtur esse obiectum iustitiae.” (1.2.4).

[16]  “[I]ntellectualis creatura eo ipso, quod creatura est, superiorem habet, cuius providentiae et ordini subiaceat, et quia intellectualis est, capax est gubernationis moralis, quae fit per imperium; ergo connaturale est et necessarium tali creaturae, ut subdatur alicui superiori, a quo per imperium seu legem regatur. Item, talis creatura eo ipso, quod ex nihilo facta est, flecti potest ad bonum vel malum, ut ex communi patrum sententia nunc suppono; ergo non solum est capax legis, qua dirigatur ad bonum, et arceatur a malo, sed etiam aliqua talis lex est illi simpliciter necessaria, ut convenienter suae naturae vivere possit. Vel etiam a contrario possumus argumentari: nam qui caret lege, peccare non potest; rationalis autem creatura potestatem habet peccandi; ergo et legi necessario subdita est. Nec refert, quod per gratiam vel gloriam possit haec creatura fieri impeccabilis; tum quia hic de naturali necessitate loquimur, et hoc modo dicimus necessariam esse legem, supposita conditione naturae rationalis; tum etiam, quia per donum, quo talis natura sit impeccabilis, non tollitur, quin sit subdita legi quoad illos actus, quos libere exercere potest, sed sit, ut indefectibiliter pareat legi.”.

[17]  “Lex ergo naturalis propria, quae ad moralem doctrinam et theologiam pertinet, est illa, quae humanae menti insidet ad duiscernendum honestum a turpi”.

[18]  “Praecipua efficacia legis ad faciendos homines bonos est eius obligatio, quae videtur esse maxime intrinsecus effectus eius, et ideo de illa consequenter tractamus”.

[19]  Cfr. 2.5.11, dove il giudizio morale proprio della coscienza è presentato come equivalente, sempre e comunque, all'applicazione di una lex, vera o erroneamente supposta.

[20]  L'esigenza della conformità a giustizia, che per Tommaso era implicita nel concetto stesso di rationis ordinatio, deve essere espressamente notata nel momento in cui l'attenzione si sposta sulla volontà, che può benissimo non esser retta e, anzi, la cui rettitudine è proprio ciò che si vuole assicurare in ultima analisi.

[21]  Anche per Tommaso la legge appartiene alla categoria del praeceptum, che però è l'atto con cui la ragione comanda alla volontà; invece, per Suárez – a prescindere dalla discussione, potenzialmente infinita, sull'an e il quantum del suo “volontarismo” - si tratta di un atto della volontà

[22]  “[P]raeceptum generale datum pro tota communitate, et ad bonum commune, eius non est lex, et in nullo alio differt a lege, nisi in perpetuitate […] differentiae, seu diversi effectus, quos soent auctores tribuere censurae latae per statutum, vel per sententiam generalem, fundantur solum in differentia praecepti et statuti, quia excommunicatio per sententiam ab homine est, et per solum praeceptum fertur, per statutum autem est a iure […] statutum ligat non subditos in territorio exsistentes, aut delinquentes; non autem praeceptum” (1.10.5).

[23]  Va notato che egli parla anche della possibilità di configurare una lex naturalis aggiuntiva, propria cioè della natura unita alla grazia, o se si vuole della sola grazia, che ha anch'essa una propria natura; ma in concreto circoscrive regolarmente il discorso alla lex naturalis della natura pura (2.8.1) e semmai chiama l'altra lex divina per antonomasia (2.11.1).

[24]  “Est ergo secunda sententia, quae in natura rationali duo distinguit: unum est natura ipsa, quatenus est veluti fundamentum convenientiae vel disconvenientiae actionum humanarum ad ipsam; aliud est vis quaedam illius naturae, quam rationem naturalem appellamus. Priori modo dicitur haec natura esse fundamentum honestatis naturalis; posteriori autem modo dicitur lex ipsa naturalis, quae humanae voluntati praecipit, vel prohibet, quod agendum est ex naturali iure.”.

[25]  “[E]a, quae naturali ratione cognoscuntur, in triplici genere distingui possunt; quaedam sunt prima principia generalia morum, ut sunt illa: honestum est faciendum; pravum vitandum [...] alia sunt principa magis determinata et particularia, tamen etiam per se nota ex terminis, ut iustitia est servanda; Deus est colendus […]. In tertio ordine  ponimus conclusiones, quae per evidentem illationem ex principiis naturalibus inferuntur, et non nisi per discursum cognosci possunt; inter quas quaedam facilius et a pluribus cognoscuntur, ut adulterium, furtum et similia prava esse; aliae maiori indigent discursu, et non facile omnibus notae, ut fornicationem esse intrinsece malam, usuram esse iniustam, mendacium numquam posse honestari, et similia. De his ergo omnibus intelligitur assertio posita, nam omnia haec ad legem naturalem pertinent” (2.7.4). E ancora: “Complectitur hoc jus principia morum per se nota, et omnes, ac solas conclusiones, quae ex illis necessaria illatione inferuntur sive proxime, sive per plures illationes; judicium quod necessario colligitur ex principiis per se notis, numquam potest esse falsum; ergo nec potest esse irrationabile, vel imprudens; sed omne judicium legis naturalis tale est, ut vel sit de principiis per se notis, vel ex illis necessario inferatur; ergo quantumvis res varientur, judicium legis naturalis variari non potest.” (2.13.3).

[26]  Cfr. anche 2.16.4, per la correlata necessità di una interpretatio del diritto naturale, non però di dispense né di epikeia.

[27]  Può tuttavia render nulli gli atti contrari, come ad es. nei vizi della volontà: il resto della quaestio è dedicato a enucleare i criteri per distinguere quando un atto contro il diritto naturale sia irrito o meno.

[28]  Ordinariamente tre mesi, da computarsi includendo il dies a quo e secondo il calendario comune, quindi p.es. dal 5 giugno si va al 5 ottobre, non al 6: cfr. M. da Casola, Compendio di Diritto Canonico, Genova 1967, pag. 65.

[29]  Cfr. per tutti E. Graziani, s.v. Legge (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto, Vol. XXIII, Milano 1973, pagg. 1102-11, qui 1102-3.

[30]  Il problema si spiega meglio considerando che in genere il privilegio è concesso su richiesta ed esiste tutta una disciplina delle cause di invalidità della concessione legata agli elementi taciuti che però si sarebbero dovuti esprimere: l'esposizione del falso esclude in radice la buona fede, ma il silenzio serbato sul vero può, secondo le circostanze, spiegarsi anche come mancata percezione della rilevanza di quell'elemento.

[31]  Soprattutto i Dicasteri romani erano e a volte tuttora sono soliti innovare il diritto vigente mediante atti denominati decreti generali, che ad es. sono la forma tipica in cui vengono approvate le nuove edizioni dei libri liturgici.

[32]  Il fatto che il can. 49 parli appunto di “praeceptum singulare” lascia aperto il problema del praecepttum generale, tuttavia mi sembra che oggi esso sia quasi soltanto teorico. In buona sostanza, avremo una legge o un decreto generale esecutivi, nei quali casi sarà necessaria la promulgatio; le disposizioni su come applicare la legge, che solo indirettamente si rivolgono a tutti, rientrano nelle istruzioni; un ipotetico ordine indirizzato alla generalità dei soggetti da parte di chi ha solo la potestà esecutiva non è un praeceptum singulare, perché non si rivolge a persone determinate, ma a questo punto dovrebbe essere retto dai principi generali della disciplina, in particolare la necessità di forma scritta o intimazione davanti a due testimoni per esser fatto valere in giudizio (cann. 36 e 37) e naturalmente la soggezione alla legge.

[33]  Inoltre, praescriptum può essere inteso in senso più generale e meno strettamente imperativo, il che sembra consono allo stile di un Codice che suona spesso esortativo.

[34]  Che continua peraltro a mantenere casi di dispensa riservata alla Sede Apostolica (cfr. can. 87), specialmente quella dal celibato ecclesiastico.