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La consuetudine canonica: le riflessioni teoriche e il sistema di Suárez

Monte Terminillo, Rieti
Ph. Federico Radi / Monte Terminillo, Rieti

Indice:

1. Questioni risolte e disputate fino a Suárez

2. L'edificio teorico di Francisco Suárez (1548 – 1617)

2.1 Premessa e definizioni introduttive

2.2 Della consuetudine in generale

2.2.1 Enunciazione dei requisiti e rapporti con la lex

2.2.2 Ritus e stylus

2.3 I singoli requisiti

2.3.1 La rationabilitas

2.3.1.1 Abrogazione, proibizione pro futuro e irrationabilitas: differenze

2.3.2 Il tempo necessario per la praescriptio consuetudinis

2.3.3 I soggetti che possono introdurre la consuetudine

2.3.4 Gli atti che introducono la consuetudine

2.3.5 Il consenso del popolo

2.3.6 Il consenso del legislatore

2.3.7 Gli effetti della consuetudine e la volontà necessaria a produrli

2.4 La consuetudine secundum legem

2.5 La consuetudine contra legem

2.6 La cessazione della consuetudine

3. Sintesi conclusiva

 

1. Questioni risolte e disputate fino a Suárez

Come preannunciato nel precedente articolo, dopo aver inquadrato il tema, dobbiamo ora soffermarci sugli sviluppi posteriori alla costituzione di Gregorio IX, che consistono sostanzialmente in riflessioni dottrinali, almeno fino alla codificazione del 1917; e va subito detto che né il Codice pio-benedettino né quello del 1983 hanno apportato grandi novità rispetto all'opinio communis faticosamente consolidatasi in precedenza.[1]

In questa sede, sia per economia di trattazione sia perché lo scopo ultimo è pur sempre l'illustrazione del diritto vigente, possiamo dispensarci dall'esaminare in dettaglio i dibattiti dottrinali seguiti alla Quum tanto e darne conto solo indirettamente, esponendo invece con ampiezza notevole la costruzione teorico-sistematica di Suárez, che è poi diventata appunto l'opinione comune, come tale presupposta dal Codice del 1917 e anzi da esso assunta a canone interpretativo.

Basti dunque dire che, rispetto ai vari problemi aperti o lasciati aperti da Gregorio IX, i giuristi anteriori al Doctor Eximius - i più importanti dei quali, in subiecta materia, sono Giovanni d'Andrea e il Panormitano – anzitutto si sono trovati concordi nel distinguere tra il consenso generale del legislatore alla consuetudine, prestato una volta per tutte nella Quum tanto, e il consenso speciale da lui eventualmente espresso in casi singoli,[2] il quale però, a ben vedere, trasforma la consuetudine in una legge, o almeno la munisce di un'approvazione espressa che ne attesta la rationabilitas, rende superfluo il computo del tempo e irrilevanti, ai fini pratici, tutti gli altri problemi caratteristici della fonte consuetudinaria canonica.

Ammesso comunemente che bastasse il consenso generale, non vi sono stati particolari problemi a ritenere che la Quum tanto, prestandolo espressamente per la consuetudine contra legem, lo implicasse a fortiori per quelle praeter o secundum legem. Riguardo alle prime, il discorso si spostava senz'altro sui requisiti sostanziali, in particolare sulla rationabilitas; e anche le seconde sono sempre state viste con notevole favore, perché l'idea che la legge dipenda dall'accettazione del popolo, o almeno che questa le conferisca una stabilità maggiore e particolare, resta molto forte per tutto il Medioevo e oltre.[3]

Rispetto alle consuetudini contra legem, tuttavia, si è manifestata ben presto l'esigenza di distinguere e qualificare meglio il silenzio del legislatore: sa egli che la tale usanza si è di fatto introdotta? Ed è libero di intervenire, oppure codesto suo silenzio non può valere come approvazione perché dovuto a prudenza davanti a possibili ostacoli?[4] La risposta, anche per la gran varietà di casi e situazioni possibili, lasciava gli interpreti incerti e divisi, tanto che più di uno riteneva necessario l'accertamento in via giudiziale dell'esistenza della consuetudine e della sua legittimità.

Ma ancor più importante era il dubbio su chi fosse il vero autore di una consuetudine: se per Giovanni d'Andrea il suo fondamento doveva considerarsi sempre e solo la tacita civium conventio, senza che occorra il consenso del legislatore (posizione normale per un romanista, ma a stretto rigore non esclusa nemmeno dalla Quum tanto), nel secolo seguente il Panormitano ha ribaltato l'affermazione e, pur continuando a vedere nel popolo la causa efficiente della consuetudine, riteneva che essa ripetesse la propria autorità soltanto dal legislatore. Tesi che si è presto imposta come prevalente ed è poi stata recepita da Suárez.

Riguardo alla rationabilitas, sul cui contenuto la legge taceva affatto, si sono ben presto formate due tendenze contrapposte, che anzi si affrontano tuttora: una per così dire “negativa”, secondo cui è rationabilis ogni consuetudine non contraria al diritto divino, e l'altra “positiva”, che richiede non un nulla osta ma un giudizio favorevole nel merito, variamente articolato e argomentato.

Infine, ma non da ultimo, la tendenza medioevale a concepire in termini “privatistici” un po' tutte le situazioni giuridiche e diverse oggettive ambiguità di linguaggio nelle fonti rendevano spesso difficile distinguere la consuetudine da un altro istituto in cui da un fatto continuato nasce un diritto, l'usucapione (praescriptio, e “prescrizione acquisitiva” ancora nel Codice Pisanelli). Il che complicava non poco il problema della liceità morale degli atti che costituiscono una consuetudo contra legem, e quindi della stessa possibilità di approvarla, dato che il diritto canonico ritiene che la buona fede sia necessaria iure divino nel possesso necessario ad usucapire,[5] epperò se il popolo è in buona fede ossia ignora l'esistenza della legge contraria, quest'ignoranza non inficia forse il suo consenso alla consuetudine in questione?

 

2. L'edificio teorico di Francisco Suárez (1548 – 1617)

2.1 Premessa e definizioni introduttive

Il Doctor Eximius dedica alla “legge non scritta, chiamata consuetudine”, il Libro VII del suo Tractatus de legibus ac Deo legislatore, elaborando una teorica che, in seguito, è riuscita a imporsi come opinione comune fino al punto di essere sostanzialmente recepita dal Codice del 1917. Per questo motivo mi sembra opportuno offrirne una disamina molto dettagliata, quasi una parafrasi; il che, a sua volta, rende necessario qualche chiarimento preliminare sulle caratteristiche del testo.

Qui come nelle Metaphysicae Disputationes, Suárez abbandona la forma del commento ad un testo per redigere una trattazione organica e sistematica, che in questo caso spazia dalla teologia del diritto fino alle peculiarità giuridiche dei regni spagnoli; va in particolare notato che l'esposizione non procede esattamente in linea retta, ma anticipa spesso i termini generali dei temi successivi, approfondendoli gradatamente (caratteristica in larga misura da me mantenuta nell'esposizione).

Comunque, il metodo seguito rimane, in sostanza, ancora quello medioevale, in cui si parte da una serie più o meno ampia di auctoritates riconosciute e si costruisce una teoria capace di armonizzarle tutte; lo sforzo può anche comportare qualche forzatura dei testi, ma la persuasività del sistema in termini di armonia raggiunta è il banco di prova del lavoro scientifico; soprattutto, l'alternativa – scartare questa o quell'auctoritas come errata – è inammissibile.

Ciò spiega perché, invece di proporre una definizione propria di consuetudo, egli muova dalle due recepite nel Corpus Iuris Canonici e provenienti dalle Etymologiae di S. Isidoro di Siviglia, sebbene in apparenza contrastanti e addirittura scorrette sul piano formale:[6] grazie ad una serie di accurate distinzioni lessicali, Suárez non solo ne risolve i difetti, ma in pari tempo getta le basi di una rigorosa teoria sistematica del fenomeno consuetudinario, che vuol essere generale e quindi valida per ogni diritto umano, ma è stata pensata e costruita con una particolare attenzione per il diritto canonico e i suoi problemi specifici.[7]

Egli viene dunque a muovere da una tricotomia tra usus, mos e consuetudo. In teologia, specifica per prima cosa, usus è l'atto della volontà che dà libera esecuzione alla propria scelta, in filosofia è qualunque applicazione di una facoltà all'utilizzo di un mezzo rispetto a un fine; ma nell'uso corrente è la “similium actuum frequentia”, o anche ciò che da tale frequenza nasce.[8] Mos si predica anche degli animali, ma solo per analogia, perché – come indica l'aggettivo moralis – la sua sfera propria sono gli atti degli esseri dotati di ragione e libera volontà; lo definisce come un caso particolare di usus, ossia “frequentia, seu continuatio, similium actuum moralium et humanorum per aliquod tempus”; e questa è anche la definizione di consuetudo, se la si considera quale dato di fatto, come fa ad es. la costituzione di Gregorio IX. Ma, oltre a questa consuetudo formalis (e all'abitudine indotta dalla ripetizione degli atti), il termine indica anche la consuetudo moralis ossia gli effetti giuridici che il fenomeno consuetudinario può produrre.[9]

 

2.2 Della consuetudine in generale

2.2.1 Enunciazione dei requisiti e rapporti con la lex

A questo punto, egli si porta subito sui requisiti necessari perché tali effetti si producano: li esclude anzitutto per la vitiosa consuetudo e per gli atti, ancorché diuturni e continuati, di semplice osservanza della legge, in quanto recepisce la tesi di Bartolo secondo cui la consuetudine opera in caso di consenso tacito del legislatore, mentre quello espresso dà luogo ad una legge;[10] in positivo, inoltre, esige che l'usanza di fatto sia alicui iuri consentanea e tanto comune da potersi riferire a tutta una comunità, sia nel suo complesso sia nelle diverse parti; elemento in seguito meglio specificato nel senso che la condotta di una singola persona, fosse pure il principe, o di una famiglia non può dar luogo ad una consuetudine, ma occorre che si tratti di una communitas perfecta, dotata almeno della capacità astratta di legiferare, che in concreto eserciterà o come Stato indipendente, o per consenso tacito del principe a cui è soggetta.[11] Quanto infine al decorso del tempo, Suárez non lo pone nella definizione, ma, distinguendo la consuetudo dalla praescriptio, anticipa che “illud sufficit, quod ad iudicandum consensum principis, vel populi sufficiens est, ut postea exponemus”.[12]

La trattazione passa quindi alle consuetudini diverse dalla praeter legem, l'unica esplicitamente ammessa da S. Isidoro: ribadito anzitutto che l'introduzione di una legge non può, in sé, dar vita a una consuetudine, egli trascorre in un certo senso al caso inverso. Un problema ricorrente, infatti, e di notevole rilievo anche pratico era la natura giuridica delle compilazioni di consuetudini, in particolare se avessero l'effetto di trasformarle in legge e assoggettarle, quindi, al relativo regime di più agevole modificabilità.[13] Graziano lo affermava[14] e così pure Bartolo, almeno se la compilazione sia promulgata dal legislatore per verba obligantia; ma Suárez – ed è il primo elemento di forte novità rispetto alla communis opinio – sostiene che, in questo caso, la medesima norma viene ad aver vigore sia come legge sia come consuetudine, quindi l'intervento legislativo è volto a conferirle “novum robur” e a trasformarla, da speciale che era, in parte del ius commune del regno; però, nei luoghi dove essa vigeva già prima come consuetudine, conserva quest'autorità ulteriore, che non è inutile, poiché implica che lì non si applichi un eventuale successivo privilegio che deroghi alla legge ma non menzioni la consuetudine.[15] Naturalmente, nella misura in cui la compilazione apporti modifiche alle norme consuetudinarie che redige e riordina, queste varranno solo in forza dell'autorità legislativa e non daranno mai luogo – per la ragione già vista – a consuetudini propriamente dette.[16]

Rispetto, invece, alla consuetudine contra legem, Suárez la ritiene ammissibile per consenso tacito generale del legislatore, civile o canonico secondo i casi, e in prima battuta si limita ad indicare che essa può introdurre sia un obbligo sia un permesso, aggiungendo cioè un'alternativa altrettanto legittima alla condotta prevista dalla legge e impedendo di sanzionare chi la preferisca.[17]

Il tema è, comunque, tosto approfondito, perché la consuetudo come dato di fatto viene distinta in secundum, praeter o contra ciascuno dei possibili tipi di lex, ossia naturale, divina positiva e umana. Per quanto già detto, la consuetudine secundum legem non può consistere nella semplice osservanza di una qualunque lex, ma deve aggiungere qualcosa a mo' di completamento o di interpretazione; e dunque in concreto opera solo rispetto alle leggi umane,[18] di cui anzi va considerata la miglior interprete, perché quanto al diritto divino tutto ciò che non è contemplato è praeter legem,[19] né vi è spazio alcuno per una legittima consuetudo contra legem, giacché il legislatore divino non vi consente. Lo spazio di intervento della fonte consuetudinaria – ma anche di quella legislativa – è quindi individuato negli atti di per sé onesti, ma il cui compimento non è comandato dalla legge naturale o divina positiva, o anche in quelli moralmente indifferenti se in essi “spectetur aliqua utilitas de se honesta”.[20] (Qui va forse specificato che l'atto onesto è quello in sé moralmente buono, mentre l'indifferenza morale comporta che esso non sia né buono né cattivo: nel giusnaturalismo suareziano, in altre parole, ciò che è irrilevante per la morale lo è anche per il diritto, almeno in linea di principio).[21]

 

2.2.2 Ritus e stylus

Prima di passare a trattare in dettaglio i diversi requisiti della consuetudine, già enumerati, il Doctor Eximius affronta un ultimo problema di delimitazione dei suoi confini: i rapporti con i riti sacri da un lato (ritus), dall'altro con quella che in termini moderni chiameremmo prassi amministrativa o giudiziaria (stylus).[22] Mentre per quanto riguarda l'ambito liturgico egli non ha difficoltà ad ammettere che la consuetudine operi come fonte e che, anzi, il termine ritus possa designare le consuetudini liturgiche in genere, nega però che esse siano in qualche modo sui generis e le assoggetta senz'altro alle regole generali del fenomeno consuetudinario.[23] Più articolato il discorso rispetto allo stylus, che come al solito prende le mosse da un'analisi linguistica: il vocabolo designa innanzitutto il modo di esprimersi, specialmente per iscritto, e questo può includere anche l'impiego di formule usuali; esse, tuttavia, non hanno mai un'importanza tale da poter assurgere a obbligo giuridico,[24] eccezion fatta per l'ambito delle procedure, siano esse giudiziarie oppure volte ad ottenere rescritti (accostabili grosso modo ai procedimenti amministrativi):[25] a questo riguardo, infatti, Cino da Pistoia ha potuto definire lo stylus come “practica alicuius curiae” e Bartolo “consuetudo quae respicit ordinem loquendi et procedendi”,[26] perché sia il contenuto degli atti sia la loro successione secondo un dato ordine possono assumere, rispetto al bene pubblico, una rilevanza tale da farne oggetto di legge o di consuetudine. A questo proposito, Suárez si limita a riferire le opinioni di altri autori, in particolare Pietro d'Ancarano, sulla capacità dello stylus di fare testo nel silenzio o nell'ambiguità della legge,[27] s'intende della norma di procedura, perché rispetto a quelle sostanziali il discorso si fa più complesso (v. infra, §2.4).

Manca purtroppo, e sarebbe senz'altro interessante, un'analisi più specifica che chiarisca, in particolare, da quale “comunità” vada introdotta la prassi, perché, pur esprimendosi in termini volti a ricondurre senz'altro lo stylus nell'alveo delle regole generali sulla consuetudine, egli parrebbe piuttosto concepirlo soprattutto come prodotto dai giudici mediante provvedimenti giurisdizionali.[28] In particolare, contesta la tesi[29] secondo cui basterebbero due soli atti simili a fondare uno stylus, richiedendo invece atti frequenti come per la consuetudine in generale, tranne quando si tratti di decisioni assunte dal principe, o da altro legislatore, oppure in quel regno vigano leggi che rendono più rapidamente vincolanti le decisioni di qualche tribunale; fuori di queste ipotesi, tuttavia, l'autorità dei giudici è soltanto dottorale. Nondimeno, egli conclude, lo stylus divenuto usuale “per aliquos actus” va seguito “secundum prudentiam”, a meno che non urgano in contrario o una ragione molto forte o una gravissima necessità.[30]

 

2.3 I singoli requisiti

2.3.1 La rationabilitas

La rationabilitas della consuetudine è una delle questioni più importanti sul piano della teoria del diritto e Suárez mostra di esserne ben consapevole, anzitutto proprio per il fatto che, sebbene formalmente sia richiesta dalla sola legge canonica, per lui è un requisito generale. E infatti egli comincia negando ogni valore giuridico alla consuetudo mala ossia moralmente illecita, giacché, nel suo giusnaturalismo, ciò implicherebbe una contraddizione con il concetto stesso di ius, quindi ben a monte della distinzione tra civile e canonico. All'interno della consuetudo bona, poi, distingue quella che è tale solo rispetto al contenuto, dunque secundum quid, da quella che lo è simpliciter cioè anche negli altri elementi che rilevano, il soggetto agente e le circostanze degli atti onesti mediante cui viene introdotta: quanto a tali requisiti ulteriori, infatti, la prima viene ad essere mala secundum quid; ma se il difetto non finisce per rendere illecito l'oggetto stesso,[31] è comunque possibile anche per essa conservare o acquistare valore giuridico, In particolare, quella contraria al diritto umano, “licet 'in fieri' sit mala” perché implica necessariamente una trasgressione, “potest 'in facto esse' carere malitia”.[32]

Solo a questo punto egli introduce la distinzione cruciale, “rationabilis” vs. “irrationabilis”, notando peraltro come essa sia oscura e, secondo diversi autori, coincida in realtà con la precedente, perché una consuetudine moralmente lecita sarebbe in automatico rationabilis; altri addirittura reputano irrationabilis qualunque consuetudine contra legem, invocando sia l'autorità della Glossa ordinaria, sia il fatto che la rationabilitas è requisito comune di consuetudine e legge, quindi se lo si riconosce alla seconda (che altrimenti non sarebbe una legge) occorre negarlo alla prima, che le è contraria. Suárez, tuttavia, contesta con vigore entrambe le posizioni e, tra i fautori della prima, in particolare Navarro,[33] secondo cui la contrarietà al diritto divino si darebbe “directe vel indirecte”: anzitutto possono darsi leggi e consuetudini irrationabiles, in un certo senso, per eccesso di onestà, perché ad es. mancano contro la prudenza, come farebbe il popolo se volesse obbligarsi a sentir Messa tutti i giorni; inoltre, il diritto – e qui intende la legislazione canonica – dichiara tali a più riprese anche usanze che al massimo sono indecorose, come p.es. i laici che siedono in coro con i chierici, o questi che vanno a caccia per divertimento. Navarro forse direbbe che queste ultime sono “indirettamente” contrarie al diritto divino, ma non considera tale la consuetudine contra legem, benché Iddio prescriva l'obbedienza verso i superiori.[34] Più in generale, la legge non può comandare tutti gli atti non vietati dal diritto divino: gli esempi addotti mostrano casi in cui essa, così facendo, sarebbe irrationabilis sebbene non prava. D'altro canto – e qui refuta l'altra opinione – ben può essere rationabilis anche la consuetudine contra legem, punto su cui si richiama al Panormitano e a Bartolo. In conclusione, sarà dunque irrationabilis ogni usanza che, pur non contraria al diritto divino, sia però indecorosa o foriera di pericoli,[35] o contrastante con la libertas Ecclesiae; risulterà invece rationabilis quella immune da tali inconvenienti. Visto il carattere generale di questo criterio, che richiede l'apprezzamento di molte circostanze, in concreto il giudice, il giurista o il confessore (nei loro rispettivi ruoli) dovranno regolarsi caso per caso;[36] tuttavia, è sempre vincolante il giudizio del legislatore, quando dichiara espressamente irrationabilis una data consuetudine.

 

2.3.1.1 Abrogazione, proibizione pro futuro e irrationabilitas: differenze   

Proseguendo senz'altro il discorso, Suárez - notando come gli interpreti parlino in modo promiscuo di consuetudo reprobata - per chiarire gli effetti delle diverse previsioni e formule legali impiegate nel Corpus Iuris Canonici, distingue anzitutto l'abrogazione della consuetudine dalla proibizione di quella futura, nonché dal giudizio espresso di irrationabilitas, notando come solo in quest'ultimo caso sia appropriato parlare di consuetudo reprobata e di un giudizio vincolante per l'interprete (punto su cui si trova d'accordo con Navarro e Covarrubias). L'abrogazione, infatti, si limita a eliminare la consuetudine preesistente, la clausola Non obstante quacumque consuetudine va riferita solo al passato e non anche al futuro:[37] il legislatore non ha fatto altro che ritener più conveniente, hic et nunc, un'altra disciplina, ma una consuetudine può risultar meno conveniente senza che ciò la renda irrationabilis,[38] in questo senso depone la dottrina comune. Invece, il divieto di introdurre consuetudini future è, in sé e per sé considerato, un effetto normale della legge, che vieta le trasgressioni: non implica un giudizio di irrationabilitas, ma solo la presunzione che le circostanze che al momento rendono più conveniente la disciplina introdotta dal legislatore dureranno anche in avvenire. Quando però l'abrogazione o il divieto sono motivati bollando la consuetudine come corruptela, prava, o anche solo minus rationabilis, oppure formulati mediante verbi come improbare o reprobare, allora abbiamo appunto un giudizio di tal fatta. E precisamente un giudizio dichiarativo, se la contrarietà al diritto divino o il carattere nocivo dell'usanza sono evidenti; oppure costitutivo di una irrationabilitas che non era in re ipsa, ma da quel momento in poi vincola l'interprete allo stesso modo.[39]

 

2.3.2 Il tempo necessario per la praescriptio consuetudinis     

Ex natura rei, alla consuetudine è necessario solo un lasso di tempo che basti a far ragionevolmente presumere conoscenza e consenso tacito da parte del legislatore; e siccome il suo fondamento sta appunto in questo consenso tacito, i termini previsti dalle norme civili o canoniche perché si compia la praescriptio non sono di per sé pertinenti. Tuttavia, poiché l'opinione comune dei giuristi – per entrambi i diritti – e l'impiego dell'espressione consuetudo praescripta da parte del legislatore canonico richiedono, per condivisibili esigenze di certezza giuridica, il compimento di un tempo ben determinato, quegli stessi termini saranno applicabili per analogia.[40] E il richiamo riguarda anche gli effetti, nel senso che, compiuto quel dato lasso di tempo, l'usanza acquisterà valore giuridico di consuetudine anche se non vi sia alcuna certezza circa la sussistenza del consenso personale del principe, almeno tacito.

Quanto poi alla durata del termine in ambito, Suárez nota che la Glossa e l'Hostiensis richiederebbero sempre il compimento di quarant'anni, ma – ancora sulla scorta dell'analogia istituita dal legislatore canonico – come regola generale considera sufficiente il decennio della longi temporis praescriptio, riservando il quarantennio alle sole consuetudini contra legem.[41]

Deve comunque trattarsi di tempo continuo, ossia senza atti interruttivi: anche un solo atto del popolo che manifesta di non voler introdurre la consuetudine, ad es. osservando la legge contraria, basta a far ripartire il computo da zero e lo stesso deve dirsi per gli interventi dell'autorità che urgono l'osservanza del diritto scritto, ad es punendo i trasgressori, e quindi negano la sussistenza del consenso tacito.

Tuttavia, il consenso legale e il compimento del termine, per Suárez, restano mezzi di supplenza all'incertezza sul consenso personale tacito del legislatore; quindi, se vi è certezza che la tale usanza, sebbene in corso da un numero di anni minore, “fit cum scientia et patientia principis”, avrà egualmente valore di consuetudine; detta certezza dovrà, però, poggiare su mezzi di prova sicuri,[42] tanto più che la natura stessa del problema impedisce di ancorarla ad un lasso di tempo preciso, sia pur inferiore al decennio: a parte la sentenza da lui personalmente resa o confermata in favore della consuetudine, che vale consenso espresso, in via generale si presume che egli conosca gli usi che si introducono o praticano nel luogo in cui si trova e ignori gli altri, ma un buon indizio di approvazione è la tolleranza, da parte sua, della sentenza di un giudice inferiore, a lui nota e favorevole alla consuetudine in gioco; la certezza morale può poi anche derivare dal moltiplicarsi di pronunce od opinioni favorevoli senza che il principe reagisca.[43]

 

2.3.3 I soggetti che possono introdurre la consuetudine

Dal punto di vista della causa efficiente – perché la finale, a giudizio di Suárez, è la stessa della legge ossia il bene comune – si distinguono la prossima, i soggetti che con i loro atti danno vita all'usanza, e la primaria, la potestà superiore al cui consenso vanno ascritti gli effetti giuridici. Riguardo alla prima, egli richiama quanto già detto circa la sufficienza di una civitas in quanto communitas perfecta, affermando trattarsi dell'opinione comune, ma rigetta l'altrettanto comune deduzione che soltanto un popolo dotato in atto di potestà legislativa possa introdurre una consuetudine: appoggiandosi a S. Tommaso contro Giovanni d'Andrea, Bartolo, il Panormitano e Navarro, obietta che anche una comunità che ne sia priva può beneficiare del consenso tacito del proprio sovrano.[44]

Risolve quindi obiezioni particolari, precisando che anche una comunità composta di soli laici può introdurre una consuetudine ecclesiastica, sia perché gode di un'astratta capacità naturale a legiferare anche in materia religiosa e liturgica, sia in quanto, pur dopo la fondazione della Chiesa, conserva almeno quella di ricevere leggi simili, che a suo avviso implica una perfectio sufficiente. Per essa, come per i monasteri femminili o, in ambito civile, per le comunità dei mercanti, basta dunque il consenso tacito del principe o del prelato.[45]

In concreto, è necessario che gli atti vengano compiuti dalla maggior parte dei membri, perché solo così possono moralmente imputarsi al tutto; non occorre che tutti ne siano al corrente, però devono essere pubblici ossia notori: le azioni clandestine non fanno nascere diritto. La maggioranza si computa rispetto ai soggetti abili al consenso, esclusi dunque i bambini e i pazzi; secondo alcuni, anche le donne e i minorenni, ma per Suárez occorre distinguere secondo i casi.[46]

 

2.3.4 Gli atti che introducono la consuetudine

Oltreché pubblici, gli atti in parola debbono essere volontari; i membri del popolo possono agire singolarmente, purché in maggioranza, oppure tramite soggetti che operano in nome della comunità; lo stesso dicasi per le omissioni. Non basta, però, un singolo atto – come potrebbe bastare ad es. per la praescriptio, in caso di impossessamento permanente – ma occorre che la persistenza dell'animus sia desumibile dalla ripetizione e dalla frequenza.[47] In proposito non può fissarsi una regola generale sul numero di atti necessario; semmai dovrà dirsi che il comportamento de quo andrà tenuto in ogni singola occasione rilevante,[48] che per una festa potrebbe anche essere una sola volta all'anno; la frequenza però, anche se ridotta, dev'essere tale da far percepire la volontà del popolo e quindi anche il consenso tacito del principe.

La Glossa, il Digesto,[49] le leggi spagnole e l'esigenza di rendere sicuri in coscienza coloro che debbono scegliere se conformarsi o meno ad una consuetudine sembrano convergere nel senso che, per la produzione degli effetti giuridici di una consuetudine, sarebbe necessario l'accertamento giudiziario, in contraddittorio e con “doppia conforme”, dei requisiti, in particolare della actuum frequentia;   tuttavia, l'opinione comune dei giuristi è contraria, tanto in diritto civile quianto in canonico, perché una tale esigenza non sorge né ex natura rei né dal diritto positivo. Anzi, secondo la optima sententia del Panormitano, una tesi simile implica una contraddizione: o la consuetudine è già perfecta e il giudice si limita a seguirla, oppure, prima della sentenza, gli atti che l'hanno costituita sono illeciti ed egli, nel decidere, non potrà certo considerarli legittimi.[50] Dovrà dunque dirsi, semmai, che l'accertamento in giudizio è molto utile per provare sia il contenuto della consuetudine, sia la sussistenza dei requisiti, e che per questa via si soddisfano anche le esigenze di certezza giuridica e tranquillità di coscienza. Però, anche in termini probatori, si tratta solo di un'agevolazione: dopotutto, se la consuetudine dev'essere dimostrabile in giudizio, allora dev'essere possibile raggiungere la certezza morale su tutti i suoi elementi già prima della sentenza, anche mediante l'opinione non contraddetta di un singolo gravis doctor (così Bartolo). Comunque, l'accertamento in contraddittorio non è mai necessario per la consuetudo iudicialis o stylus, per il quale basta la frequente iterazione secondo le regole generali, anche (e forse soprattutto) quando nessuno contesti la validità del tale atto, posto nel tale modo.[51]

 

2.3.5 Il consenso del popolo

Il requisito della volontarietà degli atti, secondo la sententia communis, è necessario per la stessa validità del consenso del popolo: non valgono, dunque, ad introdurre una consuetudine quelli affetti da errore o ignoranza, in particolare circa l'esistenza o il contenuto di una legge contraria; al massimo si potrà parlare di ius putatum, ma solo finché durino l'ignoranza o l'errore. Questa tesi deve, però, fare i conti con la l. Quod non ratione,[52] che sembrerebbe ammettere proprio una consuetudine di tal fatta e vietarne solamente l'estensione in similibus. Tutti però ammettono che non è questo il caso, se si tratta dell'errore di fatto; quanto poi a quello di diritto, rispetto ad una consuetudine che in realtà è praeter ius esso implica che si ritenga che la condotta sia prescritta o proibita, sicché, in entrambi i casi, mancherà l'animus di creare un obbligo là dove non c'è.[53] La legge andrebbe, quindi, riferita alla praescriptio, oppure letta nel senso che il divieto di estensione in similibus implichi, non già che l'usanza continui a valere per quel caso specifico, ma che vada eliminata del tutto, una volta scoperto l'errore, sia pur con salvezza degli atti pregressi.[54]

Analogamente, non è possibile introdurre una consuetudine mediante atti viziati da violenza o timore grave (diverso il discorso per quello lieve). Se per la violenza non possono certo sorgere obiezioni, riguardo al timore potrebbe osservarsi che esso in realtà non elide del tutto la volontarietà dell'atto, si limita a diventare la ragione determinante per cui lo si pone. Ma appunto per questo – è agevole replicare – elide l'animus che deve caratterizzare la consuetudine in fieri.

 

2.3.6 Il consenso del legislatore

Per diritto comune (D.1.1.9, Omnes populi), tutte le città che hanno il potere di emanare leges ossia statuta municipalia hanno, implicitamente, quello di dar vita a consuetudini; in Spagna però sembra necessaria una conferma ex post da parte del re. Nella Chiesa non esiste una facoltà analoga,[55] perciò molti autori richiedono il consenso bensì tacito, ma a quella consuetudine in particolare, come dire una sua tolleranza continuata. Tuttavia – premesso che il consenso può essere antecedente o successivo, espresso o tacito – non è necessario che esso abbia carattere personale, cioè risalgfa ad una manifestazione di volontà del legislatore-persona fisica in quel dato momento storico, basta anche quella espressa in via generale nella legge e non contraddetta in seguito, che resta efficace perché lex semper loquitur; l'opinione che interpreta in tal senso la costituzione di Gregorio IX si è affermata come comune, ma ad analoghe conclusioni si deve pervenire anche rispetto alla compilazione giustinianea.

Di necessità del consenso personale, almeno tacito, può parlarsi solo quando la consuetudine non duri da un numero di anni sufficiente per la sua praescriptio; nel qual caso, tuttavia, occorre la certezza morale che la tolleranza ossia l'inazione implichi un'approvazione vera e propria; in casi di particolare importanza o per speciale disposizione di legge, potrà anzi esser necessario il consenso espresso.

 

2.3.7 Gli effetti della consuetudine e la volontà necessaria a produrli

Ricapitolati brevemente i diversi requisiti, Suárez torna a soffermarsi sulla volontà del popolo, stavolta dal punto di vista del carattere intenzionale che debbono rivestire gli effetti della singola consuetudine:[56]lo desume in primo luogo dal consenso degli autori, quindi dalla nozione generale di lex, che applica tanto alla scritta quanto alla consuetudinaria, e dall'intenzionalità che nella prima si richiede al principe. Non basta, dunque, la consuetudo come osservanza costante, occorre che sia per se intenta: che tra la cena e la Comunione intercorra il riposo notturno è regolarmente vero,[57] ma consegue semplicemente al normale modo di vivere, non ad una scelta intenzionale del popolo, perciò non vi è alcun obbligo di agire in tal senso.[58]    

Bisogna inoltre distinguere la volontà di introdurre una consuetudo facti da quella di introdurre un obbligo: molte pie usanze nella Chiesa si compiono bensì dalla maggior parte dei fedeli, ma per semplice devozione, come l'uso di segnarsi con l'acqua benedetta entrando e uscendo dal luogo sacro, o svariate offerte volontarie. Né si può pensare che il principe intenda obbligare, tramite il proprio consenso generale, un popolo che non ha la minima intenzione di obbligarsi.

Nondimeno, in termini pratici, deve dirsi che l'elemento materiale della consuetudine, una volta soddisfatti tutti i requisiti di legge e in particolare il decorso del tempo, è il miglior segno esterno dell'intenzione richiesta. Quando però, come negli esempi appena visti, gli atti non la implichino necessariamente, ma possano anche avvenire per semplice devozione, non sarebbe né opportuno né corretto presumere la più gravosa intenzione di obbligarsi ex praecepto e, nel dubbio, si dovrà concludere che sia una condotta “ad melius esse, et non obligationis”. Come prova dell'intenzione, la lunga osservanza vale soprattutto quando si tratti di una materia importante e di una condotta difficile, perché in tal caso difficilmente potrebbe spiegarsi con la pura spontaneità; così pure se gli uomini saggi e timorati non vedono di buon occhio quanti non si conformano all'usanza, o il popolo in generale si scandalizza; se le autorità li rimproverano o li puniscono. Se poi rimanesse ancora il dubbio, la speciale utilità di quella consuetudine per il bene comune può indurre la presunzione che sia stata introdotta appunto al fine di assicurarlo, il che implica l'obbligatorietà.[59]

 

2.4 La consuetudine secundum legem

L'attenzione di Suárez si sposta ora sugli effetti propri dei singoli tipi di consuetudine, cominciando da quello relativo all'interpretazione della legge. In tal caso, infatti, essa può valere come segno della prova dell'intenzione del legislatore storico – che per lui resta il criterio interpretativo principale – ed è un indizio tanto più forte quanto più lunga è la durata e importante la questione. Ma se questo vale per la consuetudine secundum legem propriamente detta, che è posteriore alla legge, ha tuttavia rilevanza interpretativa anche la consuetudine anteriore, che nel dubbio si suppone conservata e che comunque, essendo lo status quo ante, ha fatto necessariamente da punto di partenza per l'intervento legislativo.

Se praescripta, la consuetudine secundum legem ha valore di interpretazione autentica; ma anche le sentenze giudiziali, quando sono concordi e costanti, possono esser segno certo del consenso del popolo. Infine, ma non da ultimo, può interpretarsi in questo modo anche la legge divina, però solo rendendo più chiara la mens legislatoris, e tal fine occorre o una tradizione universale della Chiesa, oppure l'approvazione del Sommo Pontefice.[60]

2.5 La consuetudine contra legem

Un problema di ammissibilità non si pone per il ius civile, ma solo in ambito canonico. Stante il dato positivo, ossia la costituzione di Gregorio IX, lo si può risolvere o supponendo che le leggi vengano introdotte sotto la condizione tacita che il popolo le voglia mantenere,[61] il che però renderebbe superfluo il consenso tacito e renderebbe il popolo arbitro di obbedire o meno a qualunque legge, il che sarebbe assurdo; oppure, e meglio, mediante il concorso della volontà del principe, successiva alla formazione di una consuetudo perfecta.

La ragione per cui non è necessario che la comunità possieda la potestà legislativa, ma basta la capacità di ricevere una legge, sta nel fatto che il rigetto dell'obbligo legale è proprio l'actus contrarius connesso a questa capacità: è il modo, proprio dei sudditi, di esigere e ottenere dal legislatore che quella tal legge venga abrogata. Per questo motivo, in ambito canonico, la facoltà di introdurre una consuetudine abrogatrice va riconosciuta anche ai soli laici e, nei monasteri femminili, alle sole donne. Inoltre, l'intenzione della comunità non crea problemi interpretativi, perché non si tratta di assumere o no un obbligo nuovo, ma di liberarsene, e quindi gli atti di non osservanza sono univoci ex natura rei; e la semplice abrogazione di una legge, diversamente dalla sua introduzione, non richiede alcuna speciale utilità; non si presume il consenso del principe, quando ne possano risultare conseguenze dannose, tuttavia anche la semplice ostinazione prolungata del popolo, sebbene la consuetudine sia irrationabilis, può giungere a un punto tale da render prudente l'abrogazione stessa e, se si danno simili circostanze, la tolleranza vale consenso tacito a tale effetto.[62] 

Rispetto alle leggi ecclesiastiche universali, giova ancora aggiungere che, sebbene si possa astrattamente ipotizzare che vengano abrogate perché la maggior parte della Chiesa tutta intera si determina in senso contrario, in concreto non si attende la formazione di una simile consuetudine altrettanto universale, ma l'abrogazione avviene singolarmente per ciascuna delle comunità la cui maggioranza dà vita ad una consuetudine particolare, capace però di derogare al diritto comune.

Tuttavia, è necessario che gli atti – positivi o di omissione – contrari alla legge siano peccaminosi, almeno all'inizio, perché se nascessero da qualche scusa ragionevole, per esempio lo stato di necessità, non potrebbero esser segno di una volontà contraria alla legge.[63] Potrebbe nascere, nondimeno, una consuetudine interpretativa, che le toglie forza obbligante in certi casi straordinari ma abbastanza frequenti, lasciandola però intatta nel resto: avviene ad es. per le leggi del digiuno e del riposo festivo.

La distinzione rileva anche sul piano del tempo necessario: la consuetudine che deroga alla legge in qualche parte, lasciandola però sussistere nel resto, per Suárez non è contra legem in senso proprio,, dunque le è sufficiente il decennio;[64] se tuttavia il contrasto con la ratio legis comporta necessariamente la caducazione totale, allora occorrono i quarant'anni canonici.

Peraltro, Suárez ammette che, anche in questo caso, il consenso personale tacito del principe, se certo, renda subito produttiva di effetti la consuetudo non praescripta. Il Panormitano oppone che dalla sua conoscenza dell'uso illegittimo può desumersi, al più, la tolleranza; ma almeno in qualche caso – e piuttosto di frequente in ambito canonico – l'importanza della materia e la notorietà del dissenso sono tali da portare ad ammettere che il silenzio del legislatore consapevole vale approvazione. Non si può tuttavia, come fanno alcuni autori, concludere che in questo caso la consuetudine contra legem matura in dieci anni: bisogna formulare un giudizio secondo le circostanze, che prescinde da lassi di tempo predefiniti.

Il problema morale della peccaminosità degli atti contra legem viene a sua volta risolto ricorrendo alla volontà del principe, nel senso che essi non hanno valore di per sé, ma come segno di quella, funzione che possono assolvere anche se siano moralmente cattivi: il risultato finale, infatti, non è cattivo a sua volta, ma consiste piuttosto nella cessazione del peccato, perché quegli stessi atti, cessata la legge, vengono a compiersi lecitamente; e si presume che il principe consenta, non alla trasgressione in sé, ma a questo risultato.

Gli autori discutono se vi siano materie in cui non è ammessa la consuetudine abrogatrice; Suárez tuttavia lo nega, anzi, ammette questa forma di abrogazione perfino per le leggi che stabiliscono un'incapacità di agire o invalidano un atto, perché si tratta pur sempre di leggi umane che non elidono la volontarietà in quanto tale e, in più di un caso, può esser giusto abrogarle. Il discorso è ovviamente diverso per le leggi divine, ad es. il semplice sacerdote privo di giurisdizione non potrà mai ottenere per consuetudine il potere di confessare e assolvere i penitenti.[65] Tuttavia, nel caso della legge che riprova la consuetudine contraria, questa può sorgere e abrogarla solo se il giudizio non è stato espresso per contrarietà al diritto divino e le circostanze siano tanto mutate che è giocoforza concludere che sia ormai diversa la consuetudine stessa.

 

2.6 La cessazione della consuetudine

Come la legge, anche la consuetudine dotata di valore giuridico può cessare ab intrinseco, perché vengono meno le circostanze che ne costituivano la ratio e la rendevano utile o giusta (sotto questo profilo, si può dare una sua cessazione pura e semplice, di fatto come di diritto, o addirittura la genesi dell'obbligo di seguire una consuetudine contraria alla precedente); ma è più importante indagare la cessazione ab extrinseco – totale o parziale - per intervento di una volontà contraria, che può essere manifestata dal principe oppure dal popolo.

Quest'ultimo caso non pone particolari problemi, a parte forse l'esigenza di specificare che la consuetudo praescripta si intende mutata o abrogata solo quando gli atti contrari hanno a loro volta maturato ogni requisito della praescriptio o almeno del consenso personale tacito. Quanto al tempo necessario, il Panormitano considera sufficiente il decennio, dato che non si va contra legem, ma Suárez preferisce distinguere: se la precedente è praeter legem, allora gli atti in parola vanno considerati contra ius e richiedono il quarantennio; lo stesso se una consuetudine universale, che ha già abrogato qualunque norma universale contraria, deve soffrire deroga da parte di una particolare; se invece è essa stessa particolare e contraria al diritto universale, mentre la novità consiste nel tornare a quest'ultimo, è probabile che basti il decennio.[66]

Invece, per quanto riguarda il principe, siccome la stessa obbligatorietà della consuetudine va ricondotta alla sua volontà, non c'è dubbio che abbia il potere di farla cessare con un atto parimenti volontario, specialmente se manifesti quest'intento mediante la clausola “Non obstante...”; anche in mancanza di essa, tuttavia, la vera e propria incompatibilità importa abrogazione, mentre se è possibile salvare la consuetudine, anche a costo di dare al testo legale un'interpretazione restrittiva, sarà doveroso seguire questa strada.[67]

La clausola, però, vale anche come indice di volontà e (indirettamente) di conoscenza;[68] in sua assenza, non basta l'incompatibilità, ma è necessario provare che il principe conoscesse la consuetudine. Se questa è universale, lo si presume; se però è particolare varrà piuttosto il contrario.[69] Non occorre, infatti, che la legge universale sopravveniente faccia menzione dell'anteriore per abrogarla, e qui vale l'argomento a pari rispetto ad una consuetudine di identico ambito applicativo; altrettanto dovrà dirsi per i legislatori particolari, ad es. il Vescovo, riguardo alle consuetudini dell'intera Diocesi o più ampie ancora; né il discorso cambia per quelle immemorabili, che hanno semplicemente forza di legge positiva e quindi possono esser fatte salve solo se, in qualche modo, stanno in rapporto di specialità con le disposizioni sopravvenute.[70] Tuttavia, poiché la conoscenza non si presume, la legge universale non abroga le consuetudini particolari, a meno che vi sia la clausola “Non obstante”; e lo stesso dovrà dirsi per la legge di un regno rispetto alle consuetudini di una provincia, o di una Diocesi riguardo alla singola Parrocchia. Del resto, il principio Lex specialis derogat legi generali vale anche quando la prima sia anteriore.

Suárez ritiene, anzi, probabile che vada sottratta all'effetto abrogativo, nei casi ora indicati, anche la semplice consuetudo inchoata ignota al principe, purché duri da tanto tempo quanto ne basterebbe – secondo un giudizio prudente – a far presumere il suo consenso tacito se la conoscesse: si tratta, infatti, di una circostanza che potrebbe mutare il suo giudizio sul da farsi, se gli fosse nota, e tale da rendere notevolmente più gravoso il mutamento di abitudini del popolo, che ha perciò “quoddam ius” in contrario.[71]

Quando poi il Papa stesso, o altro legislatore universale, pone una legge particolare, ad es. il principe che conferma lo statuto di una città, allora è necessario che egli sia stato informato della consuetudine o che abbia almeno apposto la clausola “Non obstante”: l'esercizio della potestà per un ambito più ristretto non comporta le stesse presunzioni di conoscenza che varrebbero per i legislatori particolari. Tuttavia, la legge obbliga i sudditi a ricorrere al principe, esponendo la situazione, e a disporsi interiormente ad accettare il cambiamento se egli dovesse comunque confermare il volere già espresso.

Infine, rispetto all'abrogazione della consuetudine immemorabile,[72] salvo ovviamente il caso di sua menzione esplicita, i giuristi sono divisi fra tre opinioni sul tenore della clausola necessaria: per alcuni basta “Non obstante consuetudine”, altri richiedono che si specifichi “...quacumque consuetudine” e altri ancora richiedono l'ulteriore aggiunta “...etiam immemorabili”. Suárez ritiene che nella pratica si possa seguire quest'ultima tesi, perché l'oscura origine di tali consuetudini lascia sussistere il dubbio che in realtà siano state introdotte (o confermate) per legge speciale o privilegio, il che conferisce loro una certa nota di specialità rispetto alle altre.   

 

3. Sintesi conclusiva

L'edificio sistematico eretto dal Doctor Eximius spicca, anche nell'ambito del metodo scolastico, sia per coerenza complessiva sia per la capacità di armonizzare le auctoritates; in un panorama che allora restava caratterizzato da un'incertezza dottrinale diffusa, di cui ho cercato di dar conto riferendo buona parte delle questioni controverse affrontate nel De legibus, non fa meraviglia che questa trattazione si sia imposta sulle altre, diventando così la opinio communis.

Per agevolare il raffronto con le successive previsioni del CIC 1917, che poco distano dalle odierne, e anche per più generale utilità del lettore, mi sembra bene ricapitolare di seguito i punti salienti della theorica suareziana:

  • la consuetudine come dato di fatto è opera del popolo, ma ottiene valore giuridico solo mediante il consenso del legislatore;
  • questo consenso può essere personale oppure legale; la seconda ipotesi è stata introdotta per supplire alla mancanza della prima;
  • nel caso del consenso personale, basta che sia decorso un lasso di tempo sufficiente a dare la certezza morale della consapevolezza da parte del legislatore persona fisica e del suo consenso tacito; invece, il consenso legale opera anche in caso di ignoranza da parte sua, purché concorrano gli altri requisiti, in particolare il decorso di dieci anni, che diventano quaranta per la consuetudo contra legem;
  • per essere idonea a divenir consuetudine in senso giuridico, un'usanza di fatto dev'essere stata introdotta dalla maggior parte dei membri di una comunità che sia almeno capace di ricevere una legge (non necessariamente anche di costituirla);
  • a tal fine, occorrono atti volontari, pubblici e moralmente continui per tutto il tempo necessario; in particolare, la mancata conoscenza della legge contraria elide la volontarietà e impedisce, perciò, la maturazione di una consuetudine propriamente detta;
  • occorre infatti che sussista, nel popolo interessato, uno specifico animus di assoggettarsi a quel particolare obbligo o effetto giuridico (non basta cioè la semplice opinio iuris, come nella tesi tralatizia in diritto italiano);
  • quanto al contenuto, poi, l'usanza di fatto deve essere rationabilis, ossia non contraria al diritto divino e positivamente ordinata al bene comune; in concreto, quest'ultimo requisito si risolve, però, nell'assenza di profili di nocività, variamente intesa;
  • la semplice osservanza di una legge non può mai introdurre una consuetudine in senso proprio; la consuetudine secundum legem ha, quindi, sempre carattere almeno interpretativo rispetto a un dubbio e, in questo senso, è la miglior interprete della legge, anzi va equiparata all'interpretazione autentica;
  • la consuetudine contra legem è ammissibile sul piano morale perché, sebbene gli atti che le danno vita siano trasgressioni e dunque peccati, il risultato finale della loro iterazione è il venir meno di quella stessa ratio peccati (a questo, non ad altro, consente il principe);
  • la legge può sempre abrogare una consuetudine, e viceversa;
  • in particolare, la legge universale abroga sempre le consuetudini universali contrarie; le particolari solo in presenza della clausola “Non obstante consuetudine”; se però queste sono ab immemorabili, è almeno preferibile che siano menzionate esplicitamente con l'aggiunta di “...etiam immemorabili”;
  • la legge particolare, a sua volta, abroga sempre la consuetudine di estensione pari o maggiore della giurisdizione del legislatore; se però proviene dal legislatore universale, si richiede o la conoscenza della consuetudine in questione, o la presenza della clausola, nei termini appena detti. 

Vedremo in separata sede fino a che punto tale costruzione sia stata recepita oppure corretta dal legislatore canonico.

 

[1]     Per la storia delle teorie canoniche sulla consuetudine, è tuttora un buon punto di riferimento R. Wehrlé, De la coutume dans le droit canonique. Essai hidstorique s'étendant de les s de l'Église au pontificat de Pie XI, Parigi 1928; una disamina delle opinioni espresse dai commentatori del CIC 1917, con ampi riferimenti anche alla dottrina pregressa, in A. Ravà, Consuetudine (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto vol. IX, Milano 1961, pagg. 443-56; più attento alle novità degli ultimi decenni, ma comunque utile per un quadro generale E. Baura, La consuetudine, in www.bibliothecacanonica.net.

[2]     Ma, sebbene isolate, prese di posizione contro l'ammissibilità del consenso generale si sono registrate ancora in pieno Ottocento: è stato il caso, in particolare, del Card. Gousset (1792-1866), che - in un clima di esasperato ultramontanismo - esigeva sempre quello speciale o almeno una conoscenza specifica da parte del legislatore, seguita dal silenzio (cfr. Th. Gousset, Exposition des principes du droit canonique, Parigi-Lione 1868, pagg. 318-30). Posizioni analoghe, nel corso dei secoli, sono state espresse da autori di rilievo come Diana, Fagnani, Gonzalez Tellez e Schulte (A. Ravà, Consuetudine..., pag. 444, testo e nt. 8), tra cui soprattutto il Fagnani spicca come autorevolissimo commentatore delle Decretali.

[3]     “Leges instituuntur, cum promulgantur, firmantur, cum moribus utentium approbantur. Sicut enim moribus
utentium in contrarium nonnullae leges hodie abrogatae sunt, ita moribus utentium ipsae leges confirmantur. Unde illud Thelesphori Papae (quo decreuit, ut clerici generaliter a quinquagesima a carnibus et deliciis ieiunent) quia moribus utentium approbatum non est, aliter agentes transgressionis reos non arguit.
”. D. IV, dictum ad c. 3.

[4]     Poiché basta il consenso generale, non occorre che il legislatore abbia una conoscenza attuale della tal consuetudine; quando però essa sia stata sottoposta alla sua attenzione – vuoi perché di legittimità dubbia sotto qualche profilo, vuoi anche per ottenerne la conferma espressa – il suo silenzio diventa significativo e, quindi, va interpretato secondo le circostanze. Il problema si è posto soprattutto in momenti in cui la libertà della Chiesa era minacciata dai poteri secolari e si temeva che la mancata protesta contro le loro imposizioni finisse per legittimarle.

[5]     Cfr., infatti, gli attuali cann. 197-99 CIC, che, richiamando il can. 1362, eccettuano solo il ben diverso caso della prescrizione penale. Questo, beninteso, non impedisce alla Chiesa di ritenere che i legislatori statali, ad maiora mala vitanda, possano attribuire effetti analoghi anche al possesso di mala fede (sopravvenuta o perfino originaria); osta però al riconoscimento di tali effetti in ambito canonico, dove prevale la ratio peccati vitandi. Altrimenti detto: il legislatore umano non ha il potere di condonare il peccato di chi, almeno da un certo momento in poi, sapeva di essere in possesso di beni altrui; può bensì renderlo comunque proprietario di questi beni, ma non scioglierlo dall'obbligo di restituzione, che in coscienza permane e dovrebbe essere fatto valere anzitutto dal confessore, ma all'occorrenza anche dalla controparte davanti al Tribunale ecclesiastico ex can. 1401 (tanto più che, in concreto, la restitutio può farsi anche in modi diversi dalla restituzione del bene in natura, ad es. un compenso in denaro, o perfino una riparazione non pecuniaria se accettata dall'altra parte). Sarebbe interessante vedere cosa succederebbe se una sentenza canonica di condanna del possessore di mala fede a restituire il bene venisse sottoposta al giudizio di delibazione: non mi risultano precedenti, né in un senso né nell'altro; non trattandosi però di “materie spirituali o disciplinari”, mi sembra sicuramente escluso il riconoscimento automatico di cui all'art. 23 §2 del Trattato del Laterano.

[6]        Nell'ordine in cui egli le presenta, esse sono rispettivamente il c. 5 e il c. 4 della prima distinctio del Decretum: “Consuetudo est ius quoddam moribus institutum, quod pro lege suscipitur cum deficit lex. […] Vocatur autem consuetudo, quia in communi est usu” - “Mos autem est longa consuetudo, de moribus tracta tantumdem” (Etymologiae II 10). Soprattutto quest'ultima sembra porre il termine da definirsi, mos, all'interno della definizione stessa e, in più, invertire il rapporto di derivazione rispetto a consuetudo descritto nell'altra. Si imponeva, dunque, ad ogni interprete un chiarimento terminologico e concettuale, che per forza di cose doveva vertere su mos, consuetudo e usus; ma se il punto di partenza era in qualche modo obbligato, non così il sistema cui Suárez è approdato e che, nel bene e nel male, va considerato di suo conio, per quanto riprenda volentieri opinioni altrui su singoli punti.

[7]     Il ricorso all'auctoritas non è dunque un orpello aggiunto ad un ragionamento già compiuto, ma parte integrante del suo procedere; il confronto critico, anche con chiare rivendicazioni di superiorità delle proprie opinioni, si svolge con altri che, dal Rinascimento giuridico in poi, si sono fatti interpreti di quelle stesse auctoritates. Va peraltro detto che Suárez è protagonista di uno sforzo di conciliazione tra le scuole tradizionali della filosofia e teologia (tomismo, scotismo, nominalismo) cui non è estranea la necessità di concentrare tutte le energie nella lotta antiprotestante, il che spiega certamente come mai la sua discussione delle opinioni diverse, oltre ad essere molto ampia, porti quasi sempre a recepire, se non gli argomenti e le soluzioni, almeno le esigenze ivi espresse.

[8]     F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, Lib. VII, Cap. I, §§1-2 (per l'accezione filosofica, il rimando è alla distinzione agostiniana tra uti, “servirsi come di un mezzo”, e frui, caratteristico invece del fine; per quella teologica, cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 16). I primi due significati non sono affatto superflui o estranei, come di primo acchito potrebbe sembrare: intanto, egli deve confrontarsi con autori abituati, al par di lui, a maneggiare insieme filosofia, teologia e diritto, sicché nei loro scritti tali accezioni ricorrono con una certa frequenza; ma soprattutto, esse gli servono per istituire una correlazione oggettiva con la sfera degli atti morali e, in particolare, per esigere il requisito della libertà degli atti compiuti, affinché possa darsi una consuetudine in senso giuridico.

[9]     Ossia un “quid morale per modum facultatis, vel iuris obligantis ad sic operandum, vel tollentis aliam obligationem; quod potest vocari ius consuetudinis, seu consuetudine introductum” (F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. I, §3). Lascio al lettore il compito, d'altronde piuttosto semplice, di vedere da sé come le distinzioni riferite nel testo risolvano i problemi insiti nelle auctoritates isidoriane; osservo solo che quella tra consuetudine come quid facti e come quid iuris, oltre a tornare utile rispetto a diverse fonti normative od opinioni dottrinali, costituisce uno dei cardini di tutto il sistema di Suárez.

[10]    Formulata in sede di commento alla lex “De quibus”, ossia D.1.3.32 (cfr. in particolare il principium: “De quibus causis scriptis legibus non utimur, id custodiri oportet, quod moribus et consuetudine inductum est: et si qua in re hoc deficeret, tunc quod proximum et consequens ei est: si nec id quidem appareat, tunc ius, quo urbs Roma utitur, servari oportet.”). Suárez reinterpreta in questo senso anche la definizione isidoriana, quanto all'inciso “cum deficit lex”.

[11]    Cfr. F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, Lib. VII, Cap. III, §§7-8. La nozione di communitas perfecta, in Suárez come già in S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiæ I-II, qu. 90 ad 3, è sostanzialmente la ripresa – mediata quanto si vuole – della polis quale emerge dalla Politica di Aristotele e quindi riconosce potenziale autosufficienza politica alle singole città. Non va confusa con la più tarda espressione societas perfecta, di impiego corrente tra Otto e Novecento per indicare la sovranità della Chiesa nelle sue diverse note. Inoltre, nel prosieguo dell'esposizione, la capacità di dar vita ad una consuetudine viene riconosciuta anche alle comunità capaci soltanto di ricevere una legge (cfr. infra nel testo).

[12]    F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. I, §7. Non mi soffermo in dettaglio sui modi in cui distingue i due istituti, perché sono piuttosto intuitivi e perché le ricadute concrete si colgono meglio rispetto a questioni particolari come – in questo caso – il computo del tempo o – più avanti – l'esigenza della buona fede.

[13]    Un caso analogo, oggi, potrebbe benissimo verificarsi nell'ambito del diritto internazionale e sarebbe interessante mettere alla prova in quell'ambito la tesi di Suárez, che dopotutto fa parte di una teoria generale.

[14]    “Cum itaque dicitur: 'non differt, utrum consuetudo scriptura, uel ratione consistat', apparet, quod consuetudo partim est redacta in scriptis, partim moribus tantum utentium est reseruata. Quæ in scriptis redacta est, constitutio siue ius uocatur; quæ uero in scriptis redacta non est, generali nomine, consuetudo uidelicet, appellatur.”. Dict. post Dist. I, c. 5, Consuetudo.

[15]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. II, §2.

[16]    Si parla spesso di un più o meno accentuato volontarismo di Suárez come filosofo del diritto; qui però, a mio avviso, si vede che – se indubbiamente la giuridicità stessa della consuetudine vien fatta dipendere da un consenso del legislatore – la manifestazione di volontà espressa non è considerata sic et simpliciter preferibile. In effetti, qui come rispetto alla materia dei privilegi o dei rescritti, Suárez si inserisce senza difficoltà nella tendenza generale dei canonisti, volta da secoli proprio a limitare, in concreto, gli effetti della plenitudo potestatis (pontificia, ma non solo), ancorandoli ad una generale volontà presunta di rispettare, inter cetera, diritti soggettivi, privilegi e appunto consuetudini, almeno se particolari, come nell'esempio, e dunque presumibilmente ignote al legislatore. Cosicché il consenso tacito e generale alla vigenza della consuetudine qua talis prevale anche su tutte le manifestazioni di volontà espresse (legge, rescritto, privilegio) che però non enuncino esplicitamente il proposito di derogare alle consuetudini locali, se esistenti.

[17]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. II, §3, nonché Cap. V §11 per la distinzione tra consuetudine positiva e negativa, ossia consistente nel non fare e capace di introdurre il diritto corrispondente. Il tema della consuetudine come fonte di permesso anziché di obbligo è, in genere, alquanto trascurato, ma cfr. le interessanti osservazioni generali di S. Zorzetto, Introduzione, in Ead. (cur.), La consuetudine giuridica. Teoria, storia, ambiti disciplinari, Pisa 2008, pag. 24, nt. 30: “Si può osservare che ripetere un tipo di comportamento apertamente senza incontrare disapprovazione o opposizioni (caratteristiche comunemente rilevate nelle consuetudini) indubbiamente suscita la presunzione che il comportamento sia ammissibile agli occhi dei più. Inoltre, il nostro senso comune tende a distinguere le norme in base ai contenuti, valutando alcune norme più importanti di altre(rispettare l’etichetta, per esempio, è valutato meno importante che osservare le norme giuridiche e i precetti morali) ed è piuttosto comune pensare che un dato comportamento non sia del tutto inutile o disfunzionale se è tenuto ripetutamente per lungo tempo da più individui (capiterà mai, verrebbe da domandarsi, che gli individui prendano a recingere i loro spazi verdi lanciando in aria fili d’erba?). Il fatto che un’azione si ripeta insomma potrà, presenti date condizioni, indurre a credere che essa sia importante o perlomeno a ritenerla migliore di quella opposta. Si potrebbe dire che gli individui tendono a generalizzare in maniera non casuale, che vi sono cioè direzioni di induzione, per così dire, privilegia-te o, viceversa, meno congeniali di altre. Da questo punto di vista, rispetto alle norme giuridiche consuetudinarie, il ripetersi di un certo comportamento potrebbe essere inteso dai membri del gruppo sociale come una sorta di indicatore della direzione in cui si può ed è bene agire. Se si guarda al contenuto di tali norme, ci si avvede che esse presentano molto più facilmente un carattere permissivo o facoltizzante, anziché proibitivo e inibitorio.”.

[18]    Con l'ulteriore avvertenza che non può essere considerata secundum legem quella consuetudine che estenda l'ambito di applicazione della norma ad altri soggetti, in essa non considerati (sarà praeter o contra le leggi che riguardino questi ultimi). F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. IV, §11.

[19]    Merita di essere segnalata la tendenza di Suárez a considerare il diritto naturale, come anche il divino positivo, alla stregua di un corpus di regole a sé stante: essa discende direttamente dalla sua scelta di rigettare come troppo ampia la definizione tomista di lex e di concentrarsi piuttosto su quella (presente nello stesso S. Tommaso) di “regula et mensura actuum humanorum”. Mentre nell'Aquinate tutte le forme di lex sono, in qualche modo, una partecipazione più o meno mediata alla lex aeterna, il piano provvidenziale di Dio riguardo a tutte le creature, e il diritto naturale in particolare ha bisogno di essere integrato dal legislatore umano mediante determinatio (ad es. considera il furto un male e quindi esige che venga punito, ma non stabilisce come né in che misura), qui il termine determinatio non compare e il ragionamento viene svolto più in termini di spazi d'azione lasciati al legislatore umano che di armonica integrazione, necessaria alla miglior effettività dello stesso diritto divino. Considerato il forte influsso esercitato da Suárez sui posteri, almeno in ambito ecclesiastico, non mi sembra casuale che proprio queste divergenze rispetto alla pensiero autentico di Tommaso formino oggetto della critica che la c.d. “nuova scuola del diritto naturale” (Finnis, George...) rivolge alla giusfilosofia neoscolastica (cfr. amplius R. George, Il diritto naturale nell'età del pluralismo, Torino 2011). Anche in metafisica, d'altronde, Suárez tende a ragionare più in termini di piani distinti che di un esse che coincide con Dio ed è comunicato per partecipazione alle creature: una volta che Dio ha dato vita all'ordine del Creato esistente, le relative cause seconde operano in tendenziale autonomia (cfr., su tutto il problema, E. Gilson, L'essere e l'essenza, Milano 1988, utilmente integrabile in re con S. Andreucci, Dissertazione critica di Etienne Gilson sull’ontologia dell’essenza di Francesco Suarez, post del 3 settembre 2020, e F. Renzi, La metafisica di Francisco Suárez rispetto alla proposta teoretica di Antonio Livi, estr.. da Sensus Communis 20, con ampia bibliografia).

[20]    F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. IV, §2. Non ha particolare importanza ai nostri fini il ius gentium, che per lui – diversamente da S. Tommaso - rientra nel diritto umano e risalirebbe ad una tacita conventio degli albori dell'umanità (ma in concreto lo ritiene passibile di deroga da parte delle norme interne solo per punti particolari, non in toto: cfr. ibid., §4). Suárez dedica poi ampio spazio al tema delle tradizioni ecclesiastiche, di cui però abbiamo già parlato, distinguendo in particolare tra quelle che possono considerarsi consuetudini in senso proprio dall'osservanza di pratiche introdotte direttamente da Cristo o dagli Apostoli, sostanzialmente nell'esercizio di una potestà legislativa, sia essa umana o divina (§§5-7).

[21]    Comunemente, gli atti si distinguono in onesti ossia buoni in sé, utili ossia visti come mezzi rispetto a un fine, dilettevoli ossia buoni in quanto arrecano piacere. Legge e morale si occupano del dilettevole solo in quanto possa portare a scelte in contrasto con l'utile e l'honestum (honeste vivere è, d'altronde, il primo dei tre iuris praecepta ulpianei); ma mentre gli atti onesti sono sempre moralmente rilevanti, appunto perché buoni, ma non sempre comandati, quelli utili acquistano importanza solo se in concreto si deve compiere la scelta rispetto a cui sono un mezzo. E dunque il senso del ragionamento di Suárez è: la legge divina, naturale o positiva, ci indica quali siano gli atti onesti, ma spesso non ci ordina di compierli o non specifica come, quando ecc.; il diritto umano può intervenire a ordinarci di compierli, cioè di conseguire il bene che essi contengono, e dunque anche di compiere gli atti utili, id est necessari come mezzo, quand'anche siano di per sé moralmente indifferenti.

[22]    Egli menziona anche il termine forum, chiarendo però che, se non è un semplice sinonimo di stylus, designa un più ampio complesso di consuetudini particolari dei vari diritti dei regni che compongono la Spagna, dette appunto fueros; nell'uno come nell'altro caso, il vocabolo risulta quindi privo di autonoma rilevanza sul piano generale.

[23]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. V, §§6-7.

[24]    In altri termini, per quanto detto al paragrafo precedente, sono sempre moralmente indifferenti e quasi mai costituiscono mezzo necessario al conseguimento di un fine onesto.

[25]    Si tratta, per certi versi, di una semplificazione ai limiti dell'accettabile, se non altro perché la riflessione giuridica di Ancien Régime non conosce la moderna tripartizione dei poteri, ma semmai la bipartizione tra gubernaculum e iurisdictio, e per giunta il rescritto poteva, secondo i casi, sia applicare la legge sia modificarla o derogarvi; tuttavia, proprio per questo, i provvedimenti che oggi chiameremmo amministrativi erano certamente inclusi.

[26]    Va notato che – almeno qui – Suárez parla semplicemente di stylus e non impiega mai l'espressione stylus Curiae; nota però il suo presupposto, cioè l'uso di riferire il termine per antonomasia alla Curia Romana.

[27]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. V, §§3-4. La sua analisi, va detto, è condotta con un'attenzione particolare alla realtà spagnola, che conosceva vere e proprie leges styli ossia prescrizioni legislative sul modo di esprimersi, le formule, l'ordine degli atti etc., quindi il problema dell'ammissibilità di una consuetudine in materia o del consenso del legislatore doveva intendersi risolto in partenza dal sotteso giudizio di rilevanza per il bene pubblico; egli però non tratta il caso dello stylus contra legem, né chiarisce se debba pensarsi ad un comportamento spontaneo della generalità dei “pratici” che assume forza obbligante secondo le regole generali (come verrebbe da pensare, visto appunto il suo silenzio) oppure se quest'obbligatorietà si acquisti solo in certi casi, quelli di maggior importanza (ma a giudizio di chi e con quali conseguenze?). 

[28]    Ma, mutatis mutandis, varrà lo stesso per i rescritti, di cui egli qui si interessa meno perché ne ha già parlato a proposito di un loro contenuto tipico, la dispensa.

[29]    Molto diffusa e sostenuta, tra gli altri, anche da Giovanni d'Andrea e da Bartolo.

[30]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XI, §§7-10. Il pensiero del Doctor Eximius si comprende meglio considerando che il titolo dottorale comportava, secondo la concezione del tempo, una presunzione di attendibilità delle opinioni espresse e dei pareri resi, a meno che non ci fossero gravi argomenti in contrario, e nel caso non infrequente di contrasto tra giuristi tendeva a prevalere la opinio communis, quasi sempre quella di Bartolo. Quindi, sia per l'autorevolezza che spetta ai giudici in quanto dottori, sia perché proprio Bartolo sostiene che bastino due soli atti giudiziali posti nello stesso modo per dare luogo allo stylus, sarebbe assai imprudente andare in senso contrario, a meno di ragioni ancor più forti e cogenti di quelle che giustificherebbero il semplice dissenso da un dottore.

[31]    Questo può accadere, in particolare, per le circostanze concomitanti, che, sebbene accessorie in astratto, in concreto potrebbero essere state essenziali al consenso del popolo: nell'esempio di Suárez, “Non ci saremmo obbligati ad osservare la tal festa se, dopo, non ci fossero stati gli spettacoli indecenti o le corride”. Supposto e dimostrato tale nesso, l'elemento illecito diventa determinante per il consenso e quindi lo priva della capacità di produrre ius. (Va forse osservato che la partecipazione alle corride, discussa non per ragioni di benessere degli animali ma per la generale atmosfera di sfrenatezza e perché si rischiava seriamente la vita, era stata vietata da S. Pio V, sotto pena di scomunica latae sententiae, il 1 novembre 1567 con la bolla De salute gregis, n. LXXIII in Magnum Bullarium Romanum t. VII, Torino 1862, pagg. 650-1; ma la formulazione stessa dell'esempio dimostra l'inefficacia dei divieti)

[32]    F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. VI, §4 (e amplius ibid., §§2-4). Per lui, infatti, è necessario che il popolo sia consapevole della contrarietà a legge del proprio comportamento, affinché possa darsi un valido consenso capace di far sorgere, concorrendovi gli altri requisiti, una consuetudine dotata di valore giuridico.

[33]    Martín de Azpilcueta (1492 - 1586), detto Doctor Navarrus perché navarrino d'origine, zio materno di S. Francesco Saverio, professore tra l'altro a Coimbra, come lo stesso Suárez, ma soprattutto uno dei canonisti più eminenti del XVI sec. (funse tra l'altro da avvocato nel processo per eresia intentato contro l'Arcivescovo di Toledo, Bartolomé Carranza, e ne ottenne l'assoluzione); di recente, però, è stato riscoperto soprattutto per gli scritti dedicati a questioni economiche, in particolare all'impatto sui prezzi provocato dall'afflusso di metalli preziosi dall'America, il cui studio gli è valsa l'attribuzione di precursore della teoria quantitativa della moneta.

[34]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. VI, §§5-7. in effetti, almeno secondo la critica che ne fa Suárez, il requisito della contrarietà indiretta rimarrebbe, nel pensiero del Navarro, singolarmente indeterminato. Non ho, tuttavia, avuto modo di condurre verifiche dirette e la bibliografia recente per lo più non è disponibile in Rete; non offre indicazioni specifiche il pur ancora classico M. Arigita y Lasa, El doctor Navarro Don Martin de Azpilcueta y sus obras: Estudio histórico-crítico, Barcellona 1895.

[35]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. VI, §10. Gli esempi di consuetudini pericolose sono la vendita delle cariche giudiziarie, l'accettazione di regali da parte dei giudici, i prelati che non visitano o non correggono i sudditi: il periculum ha dunque, contemporaneamente, un'accezione morale perché il singolo soggetto agente (o, nel caso del prelato, omittente) rischia seriamente di commettere peccato mortale almeno dando scandalo, e un'accezione potremmo dire giuridica perché relativa al bene pubblico, che sarebbe gravemente compromesso laddove atti simili divenissero uso generale e perfino normativo. Non è, peraltro, inutile aggiungere che si tratta di esempi che dovevano corrispondere alla realtà sociale del tempo, ben nota d'altronde ai Gesuiti anche proprio in quanto confessori.  

[36]    Merita di essere segnalato che, secondo Suárez, il giudizio da compiersi è del tutto analogo a quello relativo alla giustizia di una legge, oppure della sua modifica. Del resto, se l'effetto di obbligatorietà giuridica è analogo e se anche la consuetudine, come la legge, obbliga pure in coscienza, questa conclusione è quasi necessaria.

[37]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. VI, §2. Qui va notato che la clausola – tuttora di impiego corrente – è formulata come un “non ostare” perché, in diritto canonico, la successione delle leggi nel tempo prevede che, in prima battuta, si cerchi di armonizzare la nuova con la vecchia (cfr., del resto, D.1.3.26-8) e che quest'ultima ceda il passo solo nella misura in cui sia incompatibile, cioè appunto “osti” all'operatività della nuova. Sia per questo motivo sia perché in genere il tempo presente, nei testi legislativi, vale anche per l'avvenire (Lex semper loquitur), non era assurdo intenderla anche come negazione anticipata del consenso del legislatore all'efficacia abrogante di una qualunque altra consuetudine futura. Lo stesso Suárez, infatti, al §4 interpreta come riferita tanto al passato quanto al futuro la clausola Nolumus contra hanc legem aliquam consuetudinem valere.

[38]    In altre parole, affinché una consuetudine possa essere abrogata, non è necessario che presenti quegli specifici difetti che la renderebbero irrationabilis, anche solo in quelle date circostanze; esiste insomma un margine di discrezionalità legislativa che consente di intervenire anche su norme non ingiuste e di scegliere tra un ventaglio di soluzioni più o meno adeguate, opportune o, appunto, convenienti.

[39]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. VII, §§6-7. Suárez non parla della possibilità che una consuetudine sia dichiarata irrationabilis perché derogherebbe alle linee fondamentali di un istituto giuridico, che nel diritto canonico attuale sono espressamente sottratte alla possibilità di dispensa (cfr. can. 86); tuttavia l'ipotesi deve intendersi inclusa nei termini ampi di cui si serve.

[40]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. VIII, §§4-6. Sempre in riferimento a tali norme, dunque, si distinguerà tra consuetudo longa o diuturna (ultradecennale) e longissima (ultraventennale); alcuni hanno ipotizzato che quest'ultima sia necessaria almeno quando il principe sia assente, perché questo è il termine previsto dal diritto romano per la praescriptio inter absentes; tuttavia Suárez nega rilevanza alla distinzione, richiamandosi sia all'opinione comune, sia alla sufficienza del consenso legale, che non richiede una conoscibilità più o meno agevole della consuetudine da parte del legislatore, ma semmai è stato introdotto proprio per supplire alle difficoltà (Cap. XV, §§3-6)

[41]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XV, §2,

[42]    Non è quindi un caso che, in ambito canonico e particolarmente liturgico, si sia continuato a portare all'attenzione del legislatore – negli ultimi secoli, soprattutto dei Dicasteri della Curia Romana – ogni sorta di usanze locali o anche di proposte innovative che potevano sembrare in contrasto con qualche legge universale: il consenso personale espresso, dopotutto, toglie ogni dubbio. 

[43]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XV, §§7-8.

[44]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. IX, §5; S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, qu. 97, a. 3, ad 3. Qui si vede all'opera, nella sua concreta utilità, la distinzione introdotta in esordio tra la consuetudine come quid facti e quid iuris, senza la quale diventerebbe necessaria una delega espressa.

[45]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. IX, §§8-9. Viene, quindi, introdotta una specificazione ulteriore sul piano dei soggetti, dove a quelli astrattamente capaci di legiferare si aggiungono altri, capaci almeno di ricevere leggi.

[46]    La minore età era fissata a venticinque anni dal diritto romano, il che implicava l'esclusione di un buon numero di soggetti. Purtroppo, l'autore non spiega secondo quali criteri si dovrebbe distinguere quando includere o escludere donne e/o minori, tanto più che in generale non seleziona la “platea” degòi aventi diritto al consenso secondo un loro interesse concreto alla decisione in gioco, ma secondo l'appartenenza alla comunità.

[47]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. X, §2.

[48]    Anche per quanto si è già detto sul fatto che un singolo atto di osservanza della legge basterebbe di per sé a interrompere la praescriptio della consuetudo contra legem.

[49]    L. Cum de consuetudine, D.1.3.34 (Ulp. IV de off. proc.): “Cum de consuetudine civitatis vel provinciae confidere quis videtur, primum quidem illud explorandum arbitror, an etiam contradicto aliquando iudicio consuetudo firmata sit.”.

[50]    Inoltre, per Suárez la sentenza che accertasse erroneamente l'esistenza o la legittimità di una consuetudine non verrebbe a crearla per effetto del giudicato e dovrebbe considerarsi piuttosto tollerata che accettata dal popolo.

[51]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XI, §§1-6.

[52]    D.1.3.39 (Cels. XXIII dig.): “Quod non ratione introductum, sed errore primum, deinde consuetudine optentum est, in aliis similibus non optinet.”.

[53]    Non vengono trattate né la secundum né la contra legem, ma nella prima l'errore può darsi solo sulla necessità di interpretazione, nell'altra sull'esistenza o il tenore della legge, sicché entrambi i casi portano a esiti analoghi in punto animus.

[54]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XII, §§1-7. Questa dottrina è diametralmente opposta, dunque, a quella della semplice opinio iuris ac necessitatis, che d'altronde - nota giustamente N. Bobbio, Consuetudine (teoria gen.), in Enciclopedia del Diritto vol. IX, Milano 1961, §5, pagg. 431-2 – pone l'accento sul consenso e, se si vuole, sull'autorevolezza degli utenti, non già del legislatore. É. Lambert, La fonction du droit civile comparé, pagg. 111-34, sembra farne risalire l'origine alla Scuola storica, ma non dedica troppa attenzione al punto.

[55]    “Quia ad leges canonicas ferendas nulla est potestas in populo, nec in ipso clero sine suo capite, et influxu eius”.  F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XIII, §3.

[56]    Implicito già nella negazione della natura consuetudinaria a quello che chiama ius putatum.

[57]    Giova forse precisare che, al tempo e ancora fino al Pontificato di Pio XII, le Messe si celebravano soltanto di mattina.

[58]    F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XIV, §4.

[59]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XV, §§9-10.

[60]    Cfr. F.  Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XVII.

[61]    Ipotesi assai meno peregrina di quanto potrebbe sembrare a prima vista, perché è comunemente ammessa in diritto canonico – allora come oggi, e anche da parte di Suárez – la figura della “legge non accettata dal popolo”, che perde la capacità di obbligare in coscienza quando il rifiuto si protragga per un certo numero di anni (dieci, per la maggior parte degli autori) e finisce poi per essere abrogata quando la condotta contraria matura la praescriptio contra legem, sempreché nel frattempo non sopravvenga invece l'accettazione, o una disciplina “di compromesso”. La giustificazione è che si presume che il principe non intenda obbligare con un rigore straordinario, come quello che sarebbe necessario dinanzi ad un'opposizione diffusa; la somiglianza con la consuetudine contra legem è chiara, sebbene questa intervenga ad abrogare una legge preesistente, mentre per “legge non accettata” si intende sempre una legge nuova.

[62]    Suárez ammette che la consuetudine contra legem possa contemporaneamente abrogare una legge e introdurre un obbligo diverso, del tutto incompatibile con il precedente, ma dedica la maggior parte della trattazione a quella puramente abrogatrice.

[63]    Viene però introdotta mediante atti buoni, quando non sarebbe possibile, in quelle circostanze particolari, osservare la legge senza commettere peccato; tuttavia, se si moltiplicano sia le occasioni sia gli atti conseguenti, ciò è piuttosto segno del fatto che la legge è in sé stessa inutile e abrogata per cessazione della ratio, quindi la consuetudine che si va formando non sarà contra legem.

[64]    “Non video cur consuetudo contra solam rationem legis censeri debeat contra ius, aut tantum tempus postulare”.  F.  Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XVIII, §13.

[65]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XIX, §§13-7.

[66]    Se la condotta del popolo mutasse per effetto di una legge sopravvenuta, avremmo ovviamente un caso diverso, cioè l'accettazione della stessa. A patto, però, che fosse dettata per quei casi, luoghi o soggetti: l'estensione analogica da parte di soggetti non inclusi, infatti, corrisponde all'introduzione di una consuetudine praeter legem, che in questo caso si scontra con un'altra contraria, che ha già maturato il diritto all'obbedienza. Nella realtà di Ancien Régime, in questi casi era senz'altro più semplice e frequente il ricorso al principe, con una supplica che lo pregava di estendere la nuova legge anche a quei tali sudditi non compresi; ma non saranno certo mancati i casi in cui ciò non era avvenuto o non si era ottenuta risposta.

[67]    “[Lex] ita interpretanda est, quia iuris correctio vitanda est, et multo magis consuetudinis quoad fieri possit. Tum quia est veluti in naturam versa, ideoque difficile mutatur, tum quia leges debent esse moribus utentium accommodatae.”. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XX, §5.

[68]    Di per sé, la formula “Non obstante quacumque consuetudine” esprime molto bene l'intento di rendere operante la legge a prescindere da qualunque dato consuetudinario possa ostarvi, e tanto basta; ma la sua apposizione fa presupporre almeno una generica consapevolezza della possibilità che problemi di questo genere si presentino.

[69]    Cfr. infatti il testo legale di riferimento, la costituzione di Bonifacio VIII in VI.1.2.1: “Licet Romanus Pontifex, qui iura omnia in scrinio pectoris sui censetur habere, constitutionem condendo posteriorem, priorem, quamvis de ipsa mentionem non faciat, revocare noscatur; quia tamen locorum specialibus et personarum singularium consuetudines et statuta (cum sint facti et in facto consistant) potest probabiliter ignorare; ipsis, dum tamen sint rationabilia, per constitutionem a se noviter editam (nisi expresse caveatur in ipsa) non intelligitur in aliquo derogare”. Bartolo ritiene che la recta ratio imponga di seguire le medesime conclusioni anche nel ius civile, pur in assenza di indicazioni normative espresse, e naturalmente Suárez non ha difficoltà a concordare.

[70]    Salvo, però, quanto si dirà infra nel testo circa il tenore della clausola abrogativa.

[71]    Cfr. F. Suárez, Tractatus..., Lib. VII, Cap. XX, §§10-3.

[72]    A rigore, l'espressione si riferisce a quella il cui inizio non sia ricordato da uomo vivente; quindi in sostanza coincide con l'ultracentenaria, cui infatti viene quasi sempre equiparata. Qui tuttavia è impiegata nel senso più usuale e indica la consuetudine il cui momento iniziale non sia comunque ricostruibile.