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La consuetudine: premesse generali

Trapani, Sicilia
Ph. Enrico Gusella / Trapani, Sicilia

In diritto italiano, la consuetudine è, per così dire, la Cenerentola delle fonti. Tralatiziamente definita come comportamento generale caratterizzato da spontaneità, lunga osservanza e obbligatorietà derivante dalla opinio iuris ac necessitatis, resta però ai margini di tutte le trattazioni,[1] a parte l’indubbia rilevanza che possiede per gli internazionalisti e fors’anche in ambito costituzionale – ove però l’efficacia vincolante della prassi è sempre problematica e peraltro non legata alla lunga osservanza – acquista un certo peso soltanto in materia contrattuale.

Anche qui, tuttavia, l’esistenza di figure molteplici di usi, da quelli commerciali propriamente normativi agli usi negoziali ex art. 1340, interpretativi ex art. 1368, integrativi ex art. 1374, comporta la sostanziale irrilevanza pratica dei requisiti dottrinali della consuetudine, perché “ciò che abitualmente si pratica” finisce per diventare, sempre e comunque, un naturale contractus, ascritto per presunzione alla volontà delle parti, laddove non venga espressa una chiara intenzione difforme. E se - eccezionalmente - la differenza tra usi normativi propriamente detti e semplici usi negoziali viene in rilievo, com’è avvenuto per il noto caso dell’anatocismo in deroga all’art. 1283, si scatenano terremoti e sconquassi, anche proprio per la mancanza di abitudine a ragionare su questa fonte del diritto.

Riesce difficile, in effetti, non pensare che la “legge non scritta” sia stata in qualche modo esorcizzata dalla cultura giuridica. Tanto più che, paradossalmente, questa sua eclissi coincide con il tramonto dell’assolutismo in nome della sovranità popolare, il che avrebbe ben potuto accrescere, semmai, la stima per una simile forma di esercizio diretto e diffuso del potere, così come il contrattualismo filosofico e il liberalismo classico avrebbero potuto trovare assai congeniale questa tacita civium conventio (tale la definizione di Ermogeniano, D.1.3.35). Invece, nella formazione dei giuristi se non in filosofia, ha prevalso il paradigma della riduzione del diritto a legge formale e scritta, tant’è vero che i momenti di rivalutazione del fenomeno consuetudinario (dalla Scuola storica in poi) hanno sempre coinciso con accese polemiche avverso il paradigma dominante. Il che ha sempre più disabituato l’interprete all’uso di fonti non scritte, anche solo per il fatto che l’attenzione e la sensibilità al dato sociale sono state, generalmente, rivendicate come valori soprattutto da chi mirava ad una trasformazione dell’ordinamento, spesso improvvisa e radicale: siamo dunque agli antipodi del fenomeno consuetudinario, inteso come osservanza spontanea di qualcosa che già esiste; non, invece, se lo si vede come formazione di una consuetudine contra legem... che tuttavia non viene propugnata come tale, perché, anche al di là dei divieti fulminati dal legislatore, manca l’abitudine (...appunto...) a considerarla legittima.

Insomma, l’ordinamento italiano, che è improntato al principio della sovranità popolare, non riesce a riprendere la domanda retorica di Salvio Giuliano, “Che differenza fa che il popolo dichiari la propria volontà mediante votazioni o mediante fatti concreti e azioni?”,[2] e si comporta piuttosto come se il popolo avesse, di fatto, trasferito tutto il potere al Parlamento con una novella lex regia (cfr. Ulp. D.1.4.1).

Tutto al contrario, invece, fa l’ordinamento canonico, per quanto ciò possa sembrare incredibile.

Per esso, la sovranità popolare è letteralmente un’eresia (perché Omnis potestas a Deo, Rm 13,1 Vulg.), tanto più inconcepibile nell’ambito di una societas che nasce dotata di una “gerarchia” proprio nel senso etimologico di “potere sacrale”. Eppure, riesce ad ammettere sia in teoria sia in pratica la consuetudine contra legem, è dotato di un’elaborazione teorica approfondita su questa fonte e la applica quotidianamente.[3] Per un motivo sopra a tutti gli altri: in ambito canonico, la nozione di legge è sostanziale.

Così sostanziale, in effetti, che non si trova formalizzata in alcun documento.

Invero, l’iter dell’ultima codificazione latina (1965-1983) comprendeva anche il progetto di dotare la Chiesa di una Lex Ecclesiae fundamentalis (LEF); e tuttavia, perfino quel testo,[4] per giunta alla fine non promulgato, conteneva bensì una rivendicazione di potestas legifera in capo alla Chiesa (can. 75) e indicazioni sulla titolarità della stessa (can. 76), però non una definizione di “legge” e nemmeno una disciplina del procedimento legislativo.

La ragione è duplice.

In primo luogo, la massima Quod principi placuit legis habet vigorem è stata recepita dal diritto canonico nel senso che, fin quando l’autorità rispetta i limiti della propria competenza, il suo volere ha forza obbligante in qualunque forma venga esternato. Certo, esiste tutta una classificazione degli atti del Romano Pontefice; ma si fonda su criteri esterni da diplomatisti, come la presenza di un sigillo di piombo piuttosto che dell’impronta di un anello,[5] e ha un altro scopo: inventariare i signa authenticitatis, ossia proprio quei dati formali - non dell’atto come manifestazione di volontà, ma del documento che lo attesta – grazie ai quali si può esser certi della sua provenienza dall’autorità competente. Però questo è solo un problema di prova; la volontà in sé vale a prescindere dal modo in cui si può essere formata, di qui l’inesistenza di un vero e proprio procedimento legislativo.[6]

L’altra ragione di ciò è che la legge canonica, come si è già accennato, per esser tale deve rispondere a requisiti sostanziali. Una volta che li abbia, tutto il resto è irrilevante, incluso l’iter della sua formazione.

La definizione corrente di lex è tuttora quella formulata da S. Tommaso d’Aquino al termine di un ampia disamina dei singoli elementi: “una qualche disposizione della ragione, rivolta al bene comune, resa di pubblico dominio da colui al quale spetta la cura della comunità” (“quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata”, Summa Theologiae II-II, qu. 90, a. 4, in c.).

Non è questa, evidentemente, la sede giusta per commentarla in dettaglio; basti dire che:

  • quaedam esprime la già ricordata irrilevanza del dato formale;
  • la consuetudine è di pubblico dominio per definizione (almeno nell’ambito in cui vige);
  • is qui curam communitatis habet, ossia il principe,[7] fa le veci di tutti i singoli membri della comunità stessa, ma questo non esclude che essa provveda direttamente, agendo come un tutto unitario, a darsi disposizioni rivolte al bene comune.[8]

Insomma, secondo il Dottore Angelico e secondo la generalità dei canonisti, che su questo punto lo seguono anche quando non ne abbraccino tutto il sistema filosofico-teologico, la consuetudine è un caso particolare della legge. O meglio, della lex, stante questo punto di differenza rispetto all’omologo italiano.[9]

Si pongono, peraltro, due problemi: la sussistenza del requisito essenziale, quella ordinatio ad bonum commune che la consuetudine, per quanto sopra, viene a condividere con la legge scritta; ma prima ancora l’ammissibilità stessa di una simile fonte nell’ambito proprio della Chiesa, dove i pastori hanno bensì cura delle pecore, ma non da esse derivano la propria autorità.

In effetti, i primi secoli vedono piuttosto un proliferar di voci contrarie alla consuetudine, da Tertulliano a Basilio di Cesarea, però in nome della superiorità della Legge divina: si tratta di abbandonare le usanze antiche – quelle ebraiche da un lato, quelle pagane dall’altro – per seguire Colui che ha detto “Io sono la Verità” e non “Io sono la consuetudine”.[10] Il principio, tramite S. Isidoro di Siviglia, entra nel Decretum di Graziano[11] ed è ampiamente invocato dai fautori della riforma gregoriana.

Cionondimeno, se vi è un punto fermo nella storia del Cristianesimo antico, sta proprio nel fatto che la vita dei fedeli era regolata da precetti consuetudinari. Solo che la loro legittimazione avveniva in un altro modo: il ricorso al paradigma della tradizione, ossia all’autorevolezza di un supposto iniziatore e alla costante osservanza e conferma da parte di una serie di soggetti a loro volta aitorevoli (santi, Vescovi, Concili).[12] I primi secoli trasmettono, dunque, al Medioevo anche la convinzione che la semplice “abitudine” di fare le cose in un certo modo non si giustifichi di per sé stessa, ma debba fare appello ad un’auctoritas riconosciuta.[13]

Ma che fare quando una prassi non poteva vantare, per così dire, un pedigree del genere?

Non sono certo mancati i tentativi di costruirlo ad hoc mediante falsi documentari: l’esempio più noto sono le Decretali Pseudoisidoriane, che “proiettano all’indietro”, attribuendole a Papi dei primi secoli, regole di vario genere la cui osservanza, nella Francia del IX sec., era oggetto di controversia specialmente con il potere dei re carolingi. Ma questa “soluzione” ci dice soprattutto come non fosse ancora emersa alla percezione generale la potestà legislativa, intesa come potere di creare una regola nuova, non legittimata da un appello al passato e nemmeno da un’ispirazione divina a intraprendere un nuovo genere di vita, come ad esempio si legge nell’agiografia di S. Antonio l’eremita, considerato l’iniziatore di tutto il monachesimo.

Peraltro, se da un lato il legislatore poteva conferire anche ad una prassi abbastanza recente quella legittimità che le mancava, dall’altro esisteva la concreta possibilità che essa nascesse, o comunque si trovasse, in contrasto con un dettato legislativo espresso. Soprattutto quando l’autorità interveniva a sradicare abusi ormai consolidati.

Questo creava tutte le premesse di un contrasto tra legislatore e comunità che, in sede locale e rispetto al Vescovo, poteva ricomporsi in modo relativamente facile, con il raggiungimento di una soluzione consensuale; ma data la progressiva crescita della legislazione pontificia, dall’inizio della riforma gregoriana in avanti, si è reso necessario sollecitare di volta in volta il giudizio dei Papi sulle situazioni più disparate, evenienza non certo nuova[14] epperò più adatta, evidentemente, all’intervento occasionale che ad un problema sistemico. Tanto più che la difformità della prassi ben poteva persistere, o risorgere, anche dopo la risposta pontificia, le circostanze di fatto potevano mutare, e così via.

Solo con Gregorio IX, che non per nulla è l’autore del Liber Extra, la prima “codificazione” ufficiale delle leggi pontificie, il problema è stato affrontato e risolto in termini generali, che meritano di essere tradotti per intero.

Dal momento che i peccati sono tanto più gravi quanto più a lungo tengono incatenata l’anima sciagurata, nessuno di sano intelletto intende che al diritto naturale, la cui trasgressione comporta un pericolo per la salvezza, si possa in alcun modo derogare mediante una qualunque consuetudine, che con maggior verità, in questo ambito, va chiamata corruzione, Anzi, sebbene non sia di poco conto l’autorità di quella di lunga data, tuttavia non varrà fino al punto di dover generare un pregiudizio neanche al diritto positivo, a meno che non sia ragionevole e sorretta da prescrizione a norma di legge.”  (Quum tanto, X 1.4.11).[15]

Abbiamo, quindi, un duplice divieto e un’eccezione: la consuetudine non può mai derogare al diritto naturale (né a quello divino positivo); non lo può fare nemmeno rispetto al diritto positivo umano, e su questo punto si riecheggia da presso una celebre costituzione di Costantino;[16] però, e qui il legislatore canonico innova, viene eccettuato però il caso in cui sia rationabilis[17] e osservata da tanto tempo quanto ne richiede, a termini di legge, la prescrizione acquisitiva, che noi siamo più abituati a chiamare usucapione.

In altre parole, il problema dell’autorità viene risolto nel solo modo che a quel punto risultava possibile: una legge che, in termini generali e senza necessità di un giudizio caso per caso, conferisce alle consuetudini presenti o future forza di legge.

Questo, a ben vedere,

  1. non esclude l’eventualità che un giudizio espresso comunque vi sia,
  2. non esplicita i rapporti tra legislatore e comunità, né i rispettivi ruoli nella formazione di una consuetudine obbligante;
  3. tace, in particolare, sulla stessa esistenza di un elemento intenzionale da ascriversi alla comunità e a fortiori sulla natura di esso;
  4. non parla né della consuetudine secundum legem né di quella praeter legem;
  5. non offre alcun criterio di valutazione per la rationabilitas;
  6. crea, ma non affronta, il problema della consuetudo inchoata, cioè della prassi in via di formazione o anche già stabilita, però non ancora da un numero di anni sufficiente. Problema di notevole rilievo, perché da un lato sussiste il dovere generale del Superiore ecclesiastico di urgere l’osservanza della legge[18] e dall’altro, quanto ai sudditi che la stanno trasgredendo, va osservato che in ambito canonico, per norma qualificata di diritto divino, la prescrizione richiede sempre la buona fede ab origine.

Infine, il testo legale nulla dice riguardo al computo dei termini: l’avverbio legitime richiamava verosimilmente le leges, ossia la compilazione di Giustiniano, ma si affermò ben presto tra i commentatori l’idea che questi termini andassero, invece, ricercati nel diritto canonico e il Liber Sextus mostrò di approvarla parlando di “consuetudo canonice praescripta”.

Verosimilmente, nella prospettiva di Gregorio IX legislatore – che muoveva da uno status quo ante in cui l’esigenza di interpellare il legislatore sussisteva sempre e comunque - la consuetudo inchoata si sarebbe dovuta reprimere, a meno che in ambito locale, vuoi per una sua tenace diffusione vuoi perché ritenuta migliore della regola scritta, non sembrasse opportuno sottoporla al giudizio di Roma; nel qual caso il problema sarebbe stato risolto in termini di diritto scritto, come dispensa o privilegio.

In caso di disapprovazione, forse egli non riteneva probabile che la resistenza durasse tanto a lungo da porre il problema di una maturata prescrizione, forse pensava che a quel punto i suoi successori avrebbero rivisto il precedente diniego ben prima, soprattutto in un tempo in cui le questioni canoniche avevano una certa tendenza a trasformarsi in questioni belliche... sta di fatto, però, che il suo testo legale si rivela subito lacunoso.

Insomma, la storia delle dottrine canoniche sulla consuetudine comincia con Gregorio IX ed è la storia dei problemi da lui aperti o lasciati aperti.

Naturalmente, l’intricato dibattito teorico è altra cosa rispetto ad una storia, forse impossibile a scriversi, dell’operatività concreta della consuetudine come fonte, dei vari fenomeni di scollamento tra legge scritta e prassi, delle reazioni o anche delle mancate reazioni. Prima di esaminare le riflessioni dei giuristi nel corso dei secoli – esame che ragioni di spazio consigliano di differire, anche perché è bene fissare anzitutto l’attenzione sui problemi – sembra opportuno rammentare che  mai, in nessun campo, le teorie hanno impedito ai fatti di esistere... e che usanze disapprovate da un ordinamento anche ben saldo possono, nondimeno, durare secoli.

 

[1]   Un discorso a parte va fatto, però, per la lucida analisi di N. Bobbio, Consuetudine (teoria gen.), in Enciclopedia del Diritto vol. IX, Milano 1961, pagg. 426-43, che tuttavia si colloca appunto su un piano più alto e metaordinamentale (almeno nelle ambizioni) com'è quello della teoria generale del diritto. Per un taglio più storico-comparatistico, che però porta a non trattare affatto, o quasi, la situazione italiana odierna, è utile anche J. Gilissen, Consuetudine, in Digesto delle Discipline Privatistiche – Sezione Civile, vol. III, Torino 1988, pagg. 489-525.

[2]   “Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. Nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit, tenebunt omnes: nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et factis? Quare rectissime etiam illud receptum est, ut leges non solum suffragio legis latoris, sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem abrogentur.”. Iul. D.1.3.32.1.

[3]   Il paradosso di questi esiti contrapposti e fors'anche stridenti rispetto ai princìpi di partenza, tanto in ambito ecclesiastico quanto secolare, è notato in esordio da E. Baura, La consuetudine, in www.bibliothecacanonica.net

[4]   Curiosamente, il sito del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi pubblica solo le due redazioni iniziali, del 1969 e del 1971, non anche quelle del 1976 e del 1980; per quest'ultima v. Communicationes 12 (1980), pagg. 25-47, peraltro priva di novità significative ai nostri fini. 

[5]   Tutti gli atti giuridici del Romano Pontefice, infatti, o sono bolle (sigillo di piombo) o sono brevi (impronta dell'Anello del Pescatore).

[6]   Anche se in concreto gli atti normativi pontifici vengono predisposti dai Dicasteri della Curia Romana e quindi la loro elaborazione è soggetta alle regole organizzative e procedimentali caratteristiche della loro attività, si tratta sempre di procedimenti istruttori volti a mettere tutti gli elementi rilevanti od opportuni a disposizione del Papa che  deciderà; l'inosservanza di dette regole e/o l'incompletezza dell'informazione non comportano mai un vizio dell'atto normativo in sé e per sé, ma vanno fatte valere con altri mezzi, dal ricorso allo stesso legislatore fino al diritto di resistenza.

[7]   La nozione di “principe ecclesiastico”, per indicare essenzialmente il Papa o i Vescovi in quanto posti a cura del gregge, non è più presente nel Codice del 1983, ma compariva ancora nell'anteriore e, p.es., era presupposta da uno dei molti uffici della Curia Romana soppressi con la riforma del 1967, la Segreteria dei Brevi ai Principi, che erano appunto sia i principi laici sia quelli ecclesiastici.

[8]   Cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae II-II, qu. 90, a. 3, in c.: “lex proprie, primo et principaliter respicit ordinem ad bonum commune. Ordinare autem aliquid in bonum commune est vel totius multitudinis, vel alicuius gerentis vicem totius multitudinis. Et ideo condere legem vel pertinet ad totam multitudinem, vel pertinet ad personam publicam quae totius multitudinis curam habet. Quia et in omnibus aliis ordinare in finem est eius cuius est proprius ille finis.”.

[9]   Si può anzi aggiungere che, perlomeno fino alla crisi del Trecento, il rapporto tra le due fonti era sostanzialmente invertito e la legge scritta era concepita essenzialmente come dichiarazione della consuetudine: “Cum itaque dicitur: 'non differt, utrum consuetudo scriptura, uel ratione consistat', apparet, quod consuetudo partim est redacta in scriptis, partim moribus tantum utentium est reseruata. Quæ in scriptis redacta est, constitutio siue ius uocatur; quæ uero in scriptis redacta non est, generali nomine, consuetudo uidelicet, appellatur.”. Dict. post Dist. I, c. 5, Consuetudo.

[10] Cfr. Tertulliano, De virginibus velandis, I 1-5.

[11] Cfr. ad es. dict. ante Dist. XI, c. 1, Usus.

[12] Consuetudo, particolarmente nel lessico agostiniano, conosce d'altronde una specifica accezione negativa, l'abitudine al peccato.

[13] Sul tema, cfr. J. Gaudemet, La place de la tradition dans les sources canoniques (iieve siècles), in Id., Formation du droit canonique et gouvernement de l'Église de l'Antiquité à l'Âge classique, Strasburgo 2008, pagg. 55-68, anche per gli opportuni riferimenti alle fonti.

[14] Si consideri che “Sono, le decretali, propriamente le risposte a quesiti posti alla massima autorità del pontefice, che, quindi, assumevano carattere normativo; sono costituzioni (o 'decreta'), decisioni autonome del pontefice, nella sua assoluta discrezionalità giurisdizionale” (O. Capitani, Gregorio IX, in Enciclopedia dei Papi, Roma 2000) e che le decretali più antiche a noi pervenute e di sicura autenticità risalgono a Papa Siricio (384-99), anzi esordiscono con la risposta – oltretutto celebre: v. in P.L. 13 1131-47  – ad una serie di quesiti inviati da Imerio, Vescovo di Tarragona, al precedente Papa Damaso.

[15]Quum tanto sint graviora peccata, quanto diutius infelicem animam detinent alligatam, nemo sanae mentis intelligit, naturali iuri, cuius transgressio periculum salutis inducit, quacumque consuetudine, quae dicenda est verius in hac parte corruptela, posse aliquatenus derogari. Licet etiam longaevae non sit vilis auctoritas, non tamen est usque adeo valitura, ut vel iuri positivo debeat praeiudicium generare, nisi fuerit rationabilis et legitime sit praescripta”.

[16]Consuetudinis ususque longaevi non vilis auctoritas est, verum non usque adeo sui valitura momento, ut aut rationem vincat aut legem”. C.8.52.2. Giustamente N. Bobbio, Consuetudine (teoria gen)., cit., §11, pag. 439, osserva che “il testo di Gregorio IX si presenta come una modificazione o limitazione” della norma imperiale ivi “trascritta e corretta”, che doveva assumersi vigente nella Chiesa quale diritto suppletivo in assenza – fino ad allora – di canoni espressi sul punto.

[17] Evito volutamente la traduzione “ragionevole”, come “ragionevolezza” per rationabilitas, sia per non evocare l'istintivo raffronto con l'art. 3 Cost. (che pur meriterebbe un approfondimento comparatistico serio), sia per non pregiudicare la comprensione nel senso della teoria “positiva” (v. oltre).

[18] In proposito, giova forse ricordare che non esiste la separazione dei poteri, giudicata inammissibile per diritto divino, e il Vescovo nella sua Diocesi, come il Papa per l'universo mondo, sono nello stesso legislatori, esecutori della legge (propria o altrui) e giudici.