La potestà delegata (parte seconda)

La potestà delegata (parte seconda)
Esaminata fin qui la parte generale, potremmo dire, ossia la disciplina comune a tutte le ipotesi di potestà delegata, possiamo passare ai casi particolari e concludere con le cause della cessazione della potestà stessa.
La suddelega (can. 137)
Poiché la delega stessa viene a collocarsi tra le forme di esercizio della potestà, come alternativa all'erezione di un ufficio ulteriore (magari vicario), è comprensibile che la legge da un lato ne apprezzi la flessibilità, ma dall'altro miri ad evitare che essa dia luogo ad un'attenuazione del senso di responsabilità personale per il retto assolvimento dei compiti insiti nei diversi uffici ecclesiastici. Di qui, in particolare, una certa ambivalenza rispetto alla possibilità di suddelega,[1] rispetto a cui il can. 137 prevede varie possibilità: la summa divisio corre tra deleghe disposte dalla Sede Apostolica, dove si può suddelegare salvo che vi sia una proibizione (§2), e deleghe che provengono da qualsiasi altra autorità, rispetto a cui vige una logica assai più restrittiva (§3). in ciò si tiene conto, naturalmente, del fatto che la delega è lo strumento normale di esercizio della potestà esecutiva da parte dei Dicasteri romani, almeno quando non decidono ricorsi, e che essi generalmente designano qualche Ordinario dotato di un titolo di competenza sul caso, il quale sarà perciò troppo occupato per poterlo gestire direttamente. Ciò spiega sia perché la suddelega sia ammessa anche laddove il mandato riguardi un caso singolo, sia il suo divieto ope legis qualora risulti che la S. Sede abbia scelto il delegato (non in ragione dell'ufficio ma) per qualche sua qualità personale che lo fa reputare particolarmente adatto, c.d. industria personae: se tale è la premessa, evidentemente sarebbe contraddittorio permettergli di suddelegare. Quando però la delega proviene già da un Ordinario del luogo o comunque diverso dal Pontefice - cioè nella totalità o quasi delle ipotesi che ricadono nel §3 – lo scenario muta: se essa predetermina in anticipo il o i casi per cui varrà, si intende esclusa la facoltà di suddelega, a meno che non venga espressamente accordata; è invece prevista dalla legge – senza che il delegante la possa escludere – per la potestà delegata ad universitatem causarum, però solo per casi singoli, così che il delegato possa trarsi d'impaccio alla bisogna, visto che l'incarico conferitogli appare destinato ad estendersi ad una serie indeterminata di situazioni, magari anche piuttosto lontane nel tempo (e talora nello spazio) dall'inizio di efficacia della delega.
Infine, due precisazioni: la potestà suddelegata non è passibile di suddelega ulteriore, salva autorizzazione espressa del delegante iniziale (can. 137 §4), il che è coerente con il quadro delineato fin qui; inoltre, “Va notato che le deleghe a iure non possono essere suddelegate, anche se concesse dal diritto universale. Così, per es., la facoltà di rimettere la pena a norma del can. 1357, o del can. 566 §2, non può essere ulteriormente suddelegata. Non sono considerate facoltà concesse dalla Santa Sede a mente del §2 del can. 137.”.[2] Ciò sembra vero a prescindere dalla querelle intorno all'appropriatezza dell'impiego, oggi, della categoria dottrinale di “delega a iure”: sia nei due casi appena menzionati sia negli altri solitamente ad essi accomunati (cann. 976 e 1079), l'accento cade su una speciale relazione tra il chierico e il destinatario finale dell'esercizio del potere, oltreché su una particolare urgenza connessa al caso, e tali elementi, tanto più se congiunti, non appaiono compatibili con l'idea della suddelega (che sarebbe addirittura improponibile, almeno in termini pratici, nel caso della Confessione sacramentale).
Le varie ipotesi di pluralità di delegati (cann. 140-1)
Implicitamente, il Codice assume come ordinario e normale il caso in cui la delega è disposta in favore di una singola persona fisica; tratta, però, anche tre ipotesi distinte di pluralità di delegati, secondo che essi siano incaricati in solido (can. 140 §1), collegialmente (ivi, §2) o successivamente (can. 141).[3] E innanzitutto precisa che, in presenza di una pluralità di delegati contestualmente investiti della potestà, essi si presumono incaricati in solido (can. 140 §3).
In tale tipo di incarico, vige il criterio della prevenzione, che è più stringente del can. 139 perché esclude gli altri dalla trattazione dell'affare (Prior in tempore potior in iure), ma non estingue il loro mandato,[4] che resta vivo con un ruolo per così dire sussidiario,[5] casomai in seguito il primo, er qualunque ragione, sia impedito o desista dal condurre a termine l'attività delegata.
Quando invece ci si trovi davanti ad una delega simultanea collegiale – di solito nei casi più complessi, o che richiedono l'apporto di doti personali distinte – il can. 140 §2 prescrive che, nel silenzio del mandato, si segua il can. 119 (per analogia, dato che l'insieme dei delegati non costituisce, per ciò solo, una persona giuridica) e precisamente il suo §1 n. 2°, procedendo dunque a maggioranza;[6] il delegante potrebbe però, ad es., costituire un c.d. collegio perfetto, richiedendo la contemporanea partecipazione di tutti i componenti. Si capisce dunque perché la legge presuma che le deleghe simultanee siano conferite in solido, visto che “più semplice e facile è la procedura. La procedura collegiale è piuttosto una rarità che deve essere provata.”.[7]
Infine, “La delega successiva è fatta a più persone in momenti diversi, ma la potestà deve essere esercitata da un solo soggetto (come nella delega in solido) e non da tutti (come in quella collegiale)”.[8] Non ci troviamo, si badi, in presenza di una revoca della delega inizialmente accordata: il can. 141 lo dice espressamente, giacché “Il caso contemplato [da esso] è quello della delega a più persone in modo successivo a trattare la stessa cosa”;[9] se si trattasse di segmenti doversi della stessa questione, avremmo una pluralità di deleghe indipendenti, ipotesi non ritenuta bisognosa di disciplina ad hoc. Il potenziale conflitto di competenza, nelle deleghe successive, è regolato in modo diverso dal can. 140 §1, perché si fa riferimento al dato formale dell'anteriorità del mandato; anche in questo caso però, almeno secondo Arrieta, la potestà dei delegati successivi si conserva e assume il ruolo sussidiario visto poc'anzi, “giacché il c. 141 non contiene un'eccezione alla regola generale del c. 140 §1, ma un ordine impartito al soggetto per primo delegato perché si attivi, ordine al quale quest'ultimo potrebbe non ottemperare.”.[10] Per il Labandeira, invece, in tale situazione di negligenza o impedimento del primo delegato, gli altri esercitano validamente e lecitamente il proprio potere, ma i cann. 140 §1 e 141 vanno coordinati nel senso che il primo prevale se il delegante ha voluto che la delega si eserciti in solido, pur essendo successiva, mentre se essa “è stata fatta in momenti successivi e non risultano altri elementi, il suo esercizio deve svolgersi secondo l'ordine stabilito dalle deleghe successive.”.[11]
La cessazione della potestà delegata (can. 142)
Il can. 142, infine, prevede un insieme piuttosto articolato di cause di estinzione della potestà delegata: mi sembra che si possano classificare nel modo seguente.[12]
- Estinzione per venir meno dell'oggetto
- compimento del mandato,
- esaurimento del numero di casi delegati;
- Estinzione per cadenza del termine;
- Estinzione perché è cessata la causa finale;
- Estinzione per attività dei soggetti della delega
- revoca da parte del delegante
- rinuncia del delegato accettata dal delegante
- venir meno de diritto del delegante, nelle deleghe concesse con clausola ad beneplacitum nostrum o equivalente.
Per quelle ipotesi che richiedono un qualche approfondimento, l'analisi del Labandeira appare priva di difetti:
“Si dice che il delegato ha compiuto il mandato quando ha esercitato la potestà ricevuta e ha concluso il negozio affidatogli, ponendo in essere l'atto di governo opportuno (atto amministrativo o sentenza). […] La potestà delegata è inutile 'quando è cessata la causa finale della delega', quando, cioè, […] la situazione di fatto che giustificava la delega si è modificata in modo tale che non ha più senso; ciò si verifica, ad esempio, se muore la persona che avrebbe dovuto beneficiare di una dispensa, o se uno dei delegati in solido ha compiuto quanto richiesto dalla delega, il che fa venir meno l'interesse a delegare altri, o se viene abrogata una legge la cui dispensa era stata delegata.”. Quanto invece alla revoca, che il canone prescrive di intimare direttamente al destinatario, può farsi per iscritto o a voce - ferma però, vorrei osservare, l'esigenza di prova scritta – e “Secondo la dottrina più autorevole, può [porla] non solo il delegante, ma anche il subdelegante, il loro Superiore e la persona che ha ricevuto la facoltà di revoca.”.[13]
[1] “Va notato che la delega, essendo appunto un mandato, a norma del can. 133, a rigore non si potrebbe delegare ulteriormente (sottodelegare), a meno che il diritto o il superiore competente non lo permettano.”. V. de Paolis, Il Libro I del Codice: Norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 445. Diversità di accenti, non però di sostanza, in E. Labandeira, Trattato di Diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pagg. 119-20: “Anche se nell'ordinamento canonico vige la regola per cui una persona può compiere per mezzo di un'altra ciò che potrebbe fare da sé ['Potest quis er alium quod potest facere per seipsum' (Regula Iuris, 68, in VI°)], la concreta applicazione di tale regola al diritto pubblico trova molti limiti”, in particolare quanto alla suddelega.
[2] V. de Paolis, op.cit., pag. 446.
[3] “Si tratta [sempre] di ipotesi di delega per un caso singolo.”. E. Labandeira, op.cit., pag. 121.
[4] E ben a ragione nota V. de Paolis, op.cit., pag. 447, che “tale esclusione non è per la validità, a mente del can. 10.” Molto tuttavia dipende dalle circostanze del caso concreto, perché un conto è se l'atto del delegato che sarebbe colpito dalla prevenzione si integra con quello del primo che ha agito e lo completa (anche fuori delle ipotesi di impedimento o negligenza), un altro è se lo contraddice o, magari per semplice ignoranza, non ne tiene conto alcuno. Va ricordato che la dottrina ammette comunemente, contro gli atti posti dal delegato, il ricorso al delegante, forse particolarmente opportuno in situazioni del genere.
[5] E. Labandeira, op.loc.cit., parla di “competenza sospesa”. Non è chiaro però se reputi validi gli atti posti dal delegato colpito da prevenzione. Similmente J.I. Arrieta, ad cann. 140-1, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pag. 151.
[6] Non mi sembra del tutto corretto, quindi, l'asserto di E. Labandeira, op.loc.cit., secondo cui “la potestà deve essere esercitata da tutti congiuntamente”: ciò è vero solo nel senso che tutti debbono essere messi in condizione di partecipare al suo esercizio. Cfr. infatti J.I. Arrieta, op.loc.cit.: “In queste ipotesi non si è inteso accogliere il principio espresso al c. 207 §3 del CIC 17” - norma dispositiva che prevedeva l'estinzione della delega per tutti, se fosse venuto meno anche uno solo dei delegati - “sicché qualora manchi qualcuno dei soggetti collegialmente delegati, gli altri potranno agire in conformità del c. 119.”.
[7] V. de Paolis, op.cit., pag. 448.
[8] E. Labandeira, op.loc.cit.
[9] V. de Paolis, op.cit., pag. 449. Secondo l'A., “Se si trattasse di cose contrarie, allora vale il can. 67.”; il che tuttavia presuppone che gli atti di concessione della delega siano assimilabili a rescritti; visto che anche il can. 142 §1 parla di “revoca”, con ciò richiamando implicitamente il can. 58 §1, appare preferibile escludere tale soluzione e prevedere la reciproca indipendenza degli atti di delega, salvo che qualcuno di essi ne revochi uno precedente o faccia seguito ad una tale revoca. Si potrebbe semmai ipotizzare un'applicazione analogica della disciplina dei rescritti quanto ai vizi di surrezione od orrezione, se taluna delle deleghe successive venisse ottenuta tacendo l'esistenza di altri delegati e questa, magari per avvicendamenti nell'ufficio capitale, non fosse né potesse presumersi nota al (secondo) delegante. Tuttavia è difficile vedere profili di concreta lesività.
[10] J.I. Arrieta, op.loc.cit.
[11] E. Labandeira, op.cit., pag. 122.
[12] Le proposte alternative non mancano, ma l'importanza delle differenze mi sembra limitata.
[13] E. Labandeira, op.cit., pagg. 122-3. A mio avviso, però, il delegato in solidum che compi il mandato libera tutti gli altri, come nelle obbligazioni solidali civilistiche, perché fa venir meno l'oggetto stesso della delega, non la sua causa finale, che anzi è stata (si suppone) pienamente soddisfatta e attuata.