Approfondimento: la rescindibilità d'ufficio (can. 125 §2)

Approfondimento: la rescindibilità d'ufficio (can. 125 §2)
Abbiamo visto che, sebbene gli stessi canonisti divergano tra loro nell'impiego della terminologia e anche nella teorizzazione del sistema delle invalidità, il Codice conosce soltanto la bipartizione tra l'atto invalidus, cioè nullo, e quello rescindibilis, che è viziato ma conserva il proprio valore giuridico fino a nuovo ordine; se e quanto abbia senso parlare di atti inesistenti[1] dipende dallo spazio che potrebbe esistere, nella disciplina del singolo atto in questione, per sanatorie o convalide in caso di nullità, ma questi istituti sono sprovvisti di una disciplina generale, salva forse quella che si può desumere dalla trattazione tradizionale dei vizi della volontà.
Nondimeno, la disamina fin qui compiuta ha lasciato in ombra un aspetto in verità poco curato dalla dottrina: che differenza corre, in concreto, tra l'atto invalidus e quello rescindibilis, se entrambi i vizi possono essere rilevati d'ufficio?[2]
Notiamo subito che la questione non è affatto meramente teorica né solo terminologica, perché in materia di ricorsi amministrativi il superiore gerarchico si vede espressamente attribuire la potestà di rescissio dell'atto impugnato (cfr. can. 1739), che appunto in forza del can. 125 §2 si intende operante anche per vizi non denunciati nel ricorso; e nella Chiesa il contenzioso amministrativo è di gran lunga il più importante, non solo in termini quantitativi. Inoltre, la Segnatura Apostolica ha espressamente escluso che in tale ambito si dia una potestà di sanatoria,[3] cosicché anche sotto questo profilo si dovrebbe pensare che la rescissio sia doverosa e che il mancato rilievo del vizio costituirebbe una sanatoria surrettizia. Certo, molto dipende dal tipo di vizio e dalla linea di azione prescelta: svariati difetti di procedura, come il mancato ascolto di interessati e controinteressati ex can. 50, almeno fino ad un certo punto si possono superare perfino in sede di ricorso. Resta però la questione più generale: quali limiti esistono, se ne esistono, al rilievo d'ufficio del vizio che rende l'atto rescindibile?[4] E supposto che non ve ne siano, dove sta la differenza concreta tra l'atto invalidus e l'atto rescindibilis, visto che il Codice non specifica se e fino a che punto gli effetti della rescissio siano retroattivi, ma gli antecedenti storici (trattandosi della rescissione per lesione) suggeriscono che risalgano fino all'emanazione dell'atto?[5] Ci si può forse chiedere se, sul piano terminologico, abbia ancora senso chiamare rescissio un rimedio comprensivo dell'annullamento d'ufficio,[6] ma ciò non muta i termini del problema.
La soluzione è probabilmente offerta dal can. 1452, che riguarda in generale i poteri di iniziativa del giudice e gli fa divieto di procedere ex officio nelle cause dove sia in gioco soltanto il bene privato (§1), pur consentendogli anche in esse di supplire alla negligenza delle parti nel sollevare eccezioni e proporre prove se lo ritiene necessario per evitare una sentenza gravemente ingiusta (§2): questo tipo di intervento, essendo sempre consentito, verosimilmente deve ritenersi paradigmatico di quella che, per il legislatore, è la “buona” iniziativa del giudice.[7] Nella Chiesa, però, le cause di gran lunga più frequenti sono quelle di bene pubblico, concernenti dunque in modo diretto la salus animarum, e in esse il potere di rilievo d'ufficio non è circoscritto al caso paradigmatico; argomentando a fortiori dai casi in cui è concessa perfino la restitutio in integrum contro le sentenze passate in giudicato (cfr. can. 1645), si può sostenere che detto rilievo sia particolarmente consigliabile quanto l'atto de quo è frutto del dolo di una parte nei riguardi dell'altra oppure se è stato evidentemente trascurata una norma di legge che non sia semplicemente procedurale (e che non sia di per sé invalidante). Si può comunque affermare che l'iniziativa d'ufficio:
- non è possibile se il vizio è stato sanato o convalidato (ovviamente laddove ciò sia ipotizzabile);
- se un processo è già in corso, deve essere sempre e comunque sottoposta al vaglio del contraddittorio tra le parti, prima che si decida se esercitarla o meno;
- non è necessaria, e dunque non dovrebbe neppure avvenire, se l'eliminazione dell'atto per altri motivi, che invece sono stati addotti dalle parti, supera del tutto anche la situazione viziante, in modo tale che non possa influire sul prosieguo;
- è funzionale all'interesse pubblico ecclesiastico, il che può far pensare che non si giustifichi nei casi in cui, per sopravvenuti mutamenti del quadro fattuale o per altre ragioni, rilievo del vizio e caducazione dell'atto verrebbero a compromettere questo stesso interesse.[8]
A quest'ultimo riguardo, tuttavia, bisogna considerare che quasi mai si può veramente dare una simile compromissione: poniamo il caso forse più grave in assoluto, quello di un soggetto sicuramente colpevole di gravi crimini, il cui decreto penale sia stato impugnato per motivi destituiti di fondamento, cosicché tuttavia il superiore adito o il Supremo Tribunale si avvedono di un vizio rescindente. Ebbene, anche al di là del fatto che il ricorso in materia penale ha sempre effetto sospensivo, perfino in quest'ipotesi volutamente estrema è sempre possibile adottare le misure cautelari ex can. 1722. E ciò può dirsi vero in generale: il principio Lite pendente nihil innovetur non impedisce l'adozione di nuovi provvedimenti amministrativi in pendenza di ricorso. Quindi, specialmente se il superiore o il giudice hanno l'accortezza di far precedere il proprio intervento dal debito contraddittorio, nulla vieta all'autorità competente (chiunque sia dei due) di adottare i provvedimenti interinali ritenuti più opportuni.
Venendo infine alla questione della differenza concreta tra atto invalidus e rescindibilis, si deve probabilmente rispondere che essa è abbastanza netta solo nelle cause relative al bene privato, mentre in quelle di bene pubblico diventa molto sfumata e si riduce ad una duplice esigenza, verificare con cura la sua necessità, avvalendosi del contraddittorio tra le parti, ed evitare anche solo l'apparenza di un ingiustificato favoritismo verso la parte che è stata – o che si presume sia stata – negligente; si può anche aggiungere, se del caso, che per non essere controproducente deve essere accompagnata da misure provvisorie volte ad evitare che la caducazione dell'atto comporti un vuoto di disciplina. Potrà forse essere più opportuno che il giudice solleciti, anche informalmente, il promotore di giustizia a sollevare la questione; ciò tuttavia non è possibile ai superiori gerarchici investiti di ricorso, almeno nella Chiesa latina, il cui diritto (a differenza dell'orientale) non coinvolge tale ufficio in questo contenzioso prima che le cause approdino alla Segnatura Apostolica.
Non va comunque dimenticato che la differenza resta notevole da un altro punto di vista: l'atto invalidus non produce mai effetti giuridici, mentre quello rescindibilis sì, fino al momento in cui sopravvenga la rescissio. Anche se si ammette la retroattività di quest'ultima – che a me pare l'effetto più consono al nome e alla traditio canonica, nonché alla necessità di distinguerla concretamente dai poteri di revoca e sostituzione (revocare, subrogare), enunciati come distinti al can. 1739[9] – non è detto che con ciò restino travolti anche tutti gli atti che dipendono da quello rescisso e che considerazioni ulteriori, p.es. l'affidamento dei terzi, potrebbero fare salvi.[10]
Infine ma non da ultimo, una differenza molto netta riguarda la sfera dei presupposti, perlomeno nel campo del diritto amministrativo: le ipotesi di nullità sono tassative, invece, “benché le norme applicabili al caso non dicano nulla, in base al c. 1739 l'autorità competente può sempre rescindere l'atto che presenta qualche irregolarità. Ciò significa che, come norma generale, ogni atto irregolare è rescindibile, ancorché non sia espressamente stabilita questa sanzione.”.[11] Il che, oltre a marcare una differenza netta anche rispetto all'impiego del termine “irregolarità” in diritto italiano, implica che il principio di conservazione degli atti giuridici operi, in ambito canonico, nel senso della presunzione di legittimità ex can. 124 §2, ma non più una volta che tale presunzione sia stata vinta.
[1] Ferma comunque l'opportuna cautela di E. Baura, Il sistema delle invalidità (inesistenza e nullità, annullabilità e rescindibilità) dell’atto giuridico, in AA.VV. L’atto giuridico nel diritto canonico, Città del Vaticano 2002, pagg. 121-41, qui 130, applicabile mutatis mutandis anche alla nullità e alla rescissione retroattiva: “Naturalmente, l’inesistenza di cui si tratta è una categoria concettuale della scienza giuridica. L’inefficacia giuridica degli atti inesistenti non significa l’impossibilità di produrre una qualche efficacia fattuale, dalla quale possono a sua volta derivare alcuni effetti giuridici. Innanzitutto occorre chiarire che nel riferirsi all’atto 'inesistente' (espressione che, a rigore, è una contradictio in terminis) si sta parlando di un fenomeno veramente accaduto nella realtà, anzi, di un fenomeno giuridicamente rilevante perché possiede una qualche apparenza di atto giuridico. Resterà poi alla prudenza giuridica dell’interprete decidere quale peso dare a certe apparenze. L’evento avvenuto, comunque, pur essendo qualificato inesistente in quanto alla produzione degli effetti che avrebbe dovuto conseguire stando alla sua apparenza, può causare responsabilità giuridica per danni39 o essere l’origine di nuovi diritti ed obblighi di terzi sulla base della loro buona fede o della prescrizione che si possa eventualmente verificare, non per sanazione dell’atto ma per essersi protratta la situazione di fatto. Non basta, dunque, la qualifica di inesistente per esonerare l’interprete del diritto dall’esame della realtà allo scopo di determinare le esatte conseguenze giuridiche degli atti.”.
[2] Cfr. Ibid., pag. 132: “In questo punto il Codice del 1983 contiene notevoli novità che, per quel che mi risulta, non sono state ancora sufficientemente messe in rilievo dalla dottrina. Nella legislazione vigente, si prevede, al pari della legislazione precedente, la rescindibilità ex metu iniuste incusso ed ex dolo, ma, diversamente dalla disciplina anteriore, essa si può far valere non solo su istanza della parte lesa, ma anche d’ufficio (can. 125 § 2). Inoltre, si riconosce l’azione rescissoria per ignoranza (non menzionata espressamente nel Codice anteriore) e per errore «ad normam iuris» (can. 126), senonché nel vigente Codice non si ha una norma corrispondente al vecchio can. 1684 § 2 che limiti l’azione rescissoria per errore all’ipotesi di lesione ultra dimidium. A tenore del nuovo Codice, quindi, si ha la possibilità della 'rescissione' ex officio (figura sconosciuta in ambito civile) e per il solo vizio della volontà (senza subire alcuna lesione).”.
[3] Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, sentenza definitiva 2 ottobre 2018, c. Daneels, prot. n. 52094716 CA – Suppressionis paroeciae, Ordinario militare X c. Congregazione per il Clero, in Ius Ecclesiae 33 (2021), pagg. 241-51, spec. §6: “Can. 1739 Superiori hierarchico in expendendis recursibus hierarchicis amplam facultatem concedit. Qui Superior potest impugnatam decisionem confirmare, irritam declarare, rescindere, revocare, emendare, subrogare vel ei obrogare. Sed ibi nullo modo fit sermo de eius facultate eam sanandi. Codex Iuris Canonici, ceterum, tantum, servatis condicionibus peculiaribus, cavet de sanatione in quibusdam casibus specificis, scilicet de sanatione in radice matrimonii irriti (cf. cann. 1161-1165), de sanatione actuum in iure processuali (cf. can. 1619) et de sanatione sententiae vitio nullitatis sanabilis affectae (cf. cann. 1622-1623), sed nullibi praevidet sanationem uti institutum generale. Iamvero, Legislator quod voluit dixit, quod noluit tacuit. Quapropter ex silentio de generica facultate sanandi tam in can. 1739 quam in systemate Codicis Iuris Canonici concludendum est Superiorem hierarchicum in expendendo recursu hierarchico haudquaquam facuitate gaudere decisionis impugnatae sanandae. Quod apprime cohaeret cum regula iuris «Lite pendente nihil innovetur» (can. 1512, n. 5), quae regula utpote regula iuris recursum hierarchicum expendendum procul dubio quoque respicit. Leges, ceterum, quibus recursus hierarchicus regitur processuales habendae sunt, cum in Libro VII de processibus iaceant (cann. 1732-1739).”. Il ST al §7 ha cura di precisare che il Superiore può integrare la motivazione dell'atto impugnato e anche procedere d'ufficio rispetto ad un ricorso proposto a termine già scaduto, ma in tali casi il decreto sarà a tutti gli effetti un atto suo e quindi non potrà essere ascritto in alcun modo all'autorità inferiore.
[4] Appaiono preziose le osservazioni di E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 407: “L'invalidità nei suoi diversi tipi non costituisce qualità intrinseca dell'atto, ma è in linea con gli effetti che l'ordinamento fa dipendere dai vizi che eventualmente si appuntino sull'atto stesso. Ci troviamo, pertanto, nel campo della tecnica giuridica, grazie alla quale si sono potuti elaborare taluni strumenti per il trattamento giuridico – molte volte processuale – dei vizi degli atti.”.
[5] Contra, ma limitandosi ad un'osservazione incidentale secondo cui, “in linea di principio”, la rescissione opererebbe ex nunc, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 219. Non è però del tutto chiaro il pensiero degli AA., visto che a pag. 348 parlano di “possibile retroattività – totale o parziale – degli effetti dell'annullamento”, senza specificare da cosa possa derivare quest'eccezione alla “linea di principio” enunciata in precedenza. Nel senso di cui al testo, invece, E. Labandeira, op.cit., pag. 421: “La sentenza o il decreto [di rescissione] sono provvedimenti costitutivi e godono di effetti retroattivi ex tunc, ma alcuni autori non condividono tale ultima affermazione.”. I riferimenti in nota rimandano, peraltro, a dottrina formatasi sotto il CIC 17, rispetto a cui mi sento di aggiungere che la retroattività appariva scontata per F.X. Wernz – P. Vidal, Ius canonicum ad normam Codicis exactum, vol. VI – De processibus, Roma 1927, pag. 275, nt. 25, e si poteva desumere dal can. 1689, che la prevedeva per la restitutio in integrum, rimedio allora concesso anche a coloro che, pur in presenza di atto rescindibile, non fossero (più) tutelati dalla actio rescissoria (cfr. Ibid., pagg. 276-9). Oggi, nel mutato quadro normativo, la rescindibilità d'ufficio offre, a mio parere, l'argomento più forte nello stesso senso. Di certo, il Codice vigente, omettendo qualunque disciplina dell'actio rescissoria o degli effetti della rescissio, non solo ha perso un'ottima occasione per risolvere una controversia dottrinale di sicuro momento, ma ha lasciato sussistere, casomai aggravandola perfino, una lacuna legis. Tutto il dibattito, in effetti, non verte che sul modo di colmarla.
[6] Cfr. E. Baura, op.cit., pag. 132: “ A mio parere, malgrado il Codice usi il termine 'rescissione' in senso assai lato, le nuove prescrizioni sostantive consentono alla canonistica di assumere la distinzione, presente nell’ambito del diritto civile, tra 'annullamento' e 'rescissione', riservando questa seconda categoria per le ipotesi in cui l’atto, pur ineccepibile nella sua formazione, produce effetti lesivi che l’equità chiede di rimuovere. L’annullabilità riguarderebbe soltanto le ipotesi in cui si dà (in maniera ingiusta o no) qualche vizio degli elementi essenziali dell’atto. La rescindibilità, invece, in questo senso stretto, avrebbe le seguenti note: rilevabile solo su istanza di parte, carattere sussidiario dell’azione rescissoria, necessità di provare la lesione. Ritengo che l’adeguamento alla terminologia usuale nella cultura giuridica contemporanea gioverebbe senz’altro ad una maggiore chiarezza nell’ambito dottrinale e alla possibilità di arricchirsi a vicenda dai progressi compiuti nell’uno e nell’altro foro.”. Personalmente dissento dalla proposta: non esiste una teoria generale delle invalidità che goda di accettazione diffusa in più ordinamenti giuridici, ad un punto tale da essere significativa per la Chiesa (che, ricordiamolo, è diffusa in tutto il mondo, ma canonizza le singole leggi civili solo quanto ai contratti e alle res temporales, mentre in materia di atti giuridici in genere ha e vuole avere una disciplina sua propria); allontanare la dottrina dal linguaggio impiegato dal legislatore, che deve intendersi scelto e meditato sia per le non poche novità rispetto al diritto anteriore sia proprio per l'assenza di consenso dottrinale, non farebbe che incrementare la confusione.
[7] Cfr. G.P. Montini, Commento al can. 1452, in Coodice di diritto canonico commentato on-line: “Non è immediatamente chiaro a quali cause si riferisca il § 2, se cioè solo alle cause di bene privato, correggendo o meglio integrando in tal modo il disposto del § 1 (prima parte), oppure si riferisca anche alle cause di bene pubblico, aggiungendo quanto qui disposto al prescritto del § 1 (seconda parte). Convince a questo riguardo la soluzione suggerita dall’art. 71 DC, ossia: – il § 2 indica una possibilità («potest») per il giudice nelle cause di bene privato; – il § 2 costituisce un’esemplificazione efficace di ciò che il giudice può e deve fare esercitando il suo potere d’ufficio (cf § 1 seconda parte) nelle cause di bene pubblico.”. In parte contra, però, C. Papale, I processi. Commento ai canoni 1400-1670 del Codice di Diritto Canonico, Città del Vaticano 2017, pag. 96, secondo cui si tratta di facoltà discrezionale che nel corso dei lavori preparatori si è scelto di non trasformare in potere-dovere; egli nota altresì la novità rispetto al CIC 17, il cui can. 1619 restringeva questo potere di supplenza alle cause di bene pubblico.
[8] Cfr. anche G.P. Montini, op.cit.: “dovrà considerare con cautela la sua azione per non favorire una parte nella distinzione, spesso difficile, tra negligenza o imperizia (del patrocinio o della parte) e rinuncia a un proprio diritto istruttorio. La discrezione nell’usare queste facoltà da parte del giudice è fondata anche sul fatto che il giudice ha a disposizione altri mezzi per favorire la parità processuale o impedire ingiustizie nel processo (cf, per esempio, nomina e rimozione dell’avvocato: cann. 1484 e 1487). Per queste ragioni furono respinte due proposte che intendevano abrogare il canone e eliminare ogni restrizione per il giudice, al quale sarebbe stato consentito di agire liberamente nella costruzione del processo (cf Communicationes 38 [2006] 68 nota 1); nel respingere la proposta è stata anche addotta la ragione che una simile estensione del potere del giudice gli avrebbe procurato un «gravamen valde onerosum […] quod anxietates magnas in animo iudicis inferret» (ibid., 10 [1978] 253).”.
[9] Per J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op.cit., pag. 349, la differenza con la revoca starebbe in ciò, che “L'atto revocato non ha vizi di nullità, né altre irregolarità che lo rendano annullabile: se così fosse, il mezzo adeguato sarebbe, rispettivamente, la dichiarazione di nullità oppure la rescissione. Si tratta, dunque, di un atto che potrebbe sostenersi, ma che il superiore revoca per motivi di opportunità”. Non appare, invece, particolarmente interessato al problema E. Baura, op.cit., pag. 134, secondo cui “Insomma, in materia di atti amministrativi, il più delle volte il concetto decisivo sotto il profilo giuridico non è tanto quello dell’invalidità ma quello della legittimità, al punto che non importerebbe tanto l’efficacia retroattiva o meno dell’intervento rivolto ad azzerarlo quanto la responsabilità per eventuali danni (can. 128).”.
[10] Che gli effetti della nullità si estendano agli atti dipendenti si desume, a contrario, dal can. 1680 §2 CIC 17: “nullitas alicuius actus non importat nullitatem actorum qui praecedunt aut subsequuntur et ab actu non dependent”.
[11] J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op.cit., pag. 220.