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Uguccione da Pisa: cosa significa il primato papale

La Summa di Uguccione come tappa essenziale per l’elaborazione della potestas directa Ecclesiae in temporalibus
diritto canonico
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Abstract

L’articolo si propone di evidenziare il cruciale apporto di Uguccione da Pisa in riferimento alla dottrina pubblicistica della potestas directa Ecclesiae in temporalibus redatta dalla scienza del diritto canonico. A partire dalla sua Summa, attraverso l’esame di autorevoli voci della storiografia, vengono vagliate la potestà legislativa papale come concepita dal giurista e la posizione di supremazia attribuita al Pontefice rispetto alle altre figure dell’ordinamento ecclesiale. Su tali presupposti, si concretizza la teocrazia pontificia dei secoli XIII e XIV.

The article aims to highlight the crucial contribution of Uguccione da Pisa in reference to the publicist doctrine of the potestas directa Ecclesiae in temporalibus drafted by the science of canon law. Starting from his Summa, through the analysis of authoritative voices of historiography, are examined the papal legislative power as conceived by the jurist and the position of supremacy attributed to the Pope in comparison with the other figures of the ecclesial order. On this basis, the papal theocracy of the 13th and 14th centuries took shape.

 

Sommario

1. Uguccione da Pisa e il suo fecondo apporto alla scienza canonistica

2. La Summa Decretorum di Uguccione da Pisa

3. L’auctoritas sacrata pontificum nel pensiero dell’autore

4. Le interpretazioni della storiografia; 4.1. Francesco Calasso

4.2. Sergio Mochi Onory e Gaetano Catalano

5. Riflessioni conclusive

 

1. Uguccione da Pisa and his fruitful contribution to canon science

2. The Summa Decretorum of Uguccione da Pisa

3. The auctoritas sacrata pontificum in the author's thought; 4. The interpretations of historiography

4.1. Francesco Calasso

4.2. Sergio Mochi Onory and Gaetano Catalano

5. Concluding reflections

 

Uguccione da Pisa e il suo fecondo apporto alla scienza canonistica

Sono anni di particolare rilievo, vedono il tramonto della politica federiciana e l’avvento delle nuove individualità nazionali sull’universalismo imperiale: da questa realtà Uguccione da Pisa[1], maestro di Innocenzo III, ne resta influenzato e cerca di interpretarla con profonda libertà di pensiero; coglie pienamente i bisogni politici e le aspirazioni di vita religiosa in quel contesto di radicale rinnovamento, echeggia infatti  nella sua speculazione dottrinale tutto il fervore che scruta e decifra attorno a lui.

Mosso ed incoraggiato da questo favorevole senso della realtà, egli si riallaccia direttamente alle conquiste raggiunte finora dalla scienza canonistica e ne continua il percorso: presupposto iniziale è senza dubbio il fondamento della iurisdictio divisa, da cui traspare subito il suo forte spirito polemico ed innovatore. Concepisce i due poteri, spirituale e temporale, da un punto di vista essenzialmente dualista, trattandoli come entità indipendenti, autonomi e ambedue divinamente istituiti.

Seguendo un approccio che richiama quello di Simone da Bisignano, Uguccione stabilisce l’esistenza di due diverse potestates incaricate di reggere il mondo e la cui peculiare istituzione è da ricondurre a Cristo stesso; tuttavia, la distinzione fra le due non può essere intesa come un’equiparazione, poiché il potere spirituale mantiene una posizione di preminenza rispetto a quello temporale, come dimostra il fatto che mentre l’imperatore può essere sottoposto al giudizio dell’autorità ecclesiastica qualora abusi del proprio potere, l’inverso non può accadere dal momento che il Pontefice non è giudicabile dall’imperatore[2].

Collocandosi sulla scia di quell’orientamento giuridico che assume il dualismo gelasiano come orizzonte dottrinale di riferimento, egli arriva a chiedersi se la reciproca indipendenza del potere papale e di quello imperiale faccia sì che il primo sia superiore nelle questioni spirituali e il secondo lo sia in quelle temporali: pur non affermando mai una totale soggezione dell’imperatore rispetto al Papa in maniera diretta, egli giunge a precisare la preminenza del Pontefice non soltanto nelle questioni spirituali, bensì anche in quelle temporali.

Uguccione riprende i grandi temi del diritto canonico e civile, argomenti di vivace riflessione, convogliandoli in un’opera densa di significato, unisce la profondità dell’analisi giuridica ad una vastissima cultura teologica, filosofica e letteraria: nel suo commento alle Distinctiones del Decretum di Graziano si trovano infatti citazioni di Terenzio, Cicerone, Seneca, Virgilio; costante è il riferimento alla Sacra Scrittura e sempre aperto è il dibattito con gli altri decretisti contemporanei con sui si confronta e si misura.

Ostinato difensore della libertas Ecclesiae, si impegna a delineare una vera e propria teoria sul governo della Chiesa basata sull’estensione del potere relativo all’autorità ecclesiastica anche nel campo della giurisdizione civile; su queste premesse, si fa portatore del principio della potestas directa Ecclesiae in temporalibus e dunque, la sua Summa, grazie alla documentazione fornita e al lavoro di ricerca, commento ed interpretazione realizzato, costituisce una tappa essenziale per il potenziamento di tale formulazione.

A tal punto, appare doveroso esaminare più nel dettaglio l’opera di riferimento in quanto a contenuti e spunti riflessivi che offre, con particolare riguardo al concetto di auctoritas sacrata pontificum, materiale di discussione fra i più illustri storici e storiografi, al fine di comprendere le linee teoriche e le coordinate temporali sulle quali il principio della potestas directa Ecclesiae in temporalibus si è concretizzato come realtà.

 

La Summa Decretorum di Uguccione da Pisa

La Summa di Uguccione composta probabilmente fra il 1188 e il 1190, ha conosciuto diversi stati di elaborazione, di cui resta testimonianza nei quarantadue manoscritti a noi pervenuti[3]. L’opera è rimasta incompiuta e vi sono indizi convergenti dai quali si ipotizza che, come sostengono Franz Gillmann[4] e Wolfgang Müller[5], Uguccione completò il lavoro in fasi intermittenti, rinviando il commento alla C. 1, alle C. 23-26, al De consecratione e al De penitentia.

Essa presenta complessivamente la dottrina di Uguccione a partire dal modo in cui il pisano interpreta la relazione fra Cristo e Pietro: il suo ragionamento inizia proprio dall’affermazione del primato petrino, desumibile in Mt 16, 18-19. Egli ribadisce che Cristo ha fondato la sua Chiesa ponendone a capo Pietro e il motivo della sua scelta è insito nella solidità della sua fede: Pietro sta a significare la pietra su cui poggia l’intera costruzione ecclesiale, pertanto l’etimologia Petrus – petra risalente alla decretistica precedente comporta un’identità anche dal punto di vista nominale.

Se Cristo è il pilastro principale, allora Pietro è quello secondario, che accoglie un insieme di poteri e funzioni relativi al governo di tutta la Chiesa: tale facoltà è propria anche dei successori del prescelto, infatti coloro che occupano la Sede Apostolica ricevono in ragione dell’ufficio tanta potestà sulla Chiesa quanta ne ebbe Pietro in virtù del medesimo ufficio[6]. La dignità ed il primato di Pietro si trasmettono al nuovo Papa nel momento in cui l’eletto accetta l’elezione canonica da parte dei cardinali: sotto questo punto di vista, Uguccione sostiene che dal momento dell’accettazione il Pontefice ha la plena potestas administrandi res ecclesiasticas[7], prerogativa unica dell’ufficio papale, in quanto il nuovo Papa viene eletto e confermato dalle medesime persone, dunque ha da subito la pienezza dei propri poteri[8].

In tal senso, dal primato di Pietro si giunge al primato del Papa e la Chiesa romana diviene la Chiesa capo di tutte le altre chiese, dato che è la Chiesa di Pietro, al quale il Pontefice succede; Uguccione, riprendendo le idee dei suoi predecessori e contemporanei decretisti, ma anche influenzato dai contributi di Bernardo di Chiaravalle, si occupa del rapporto fra primato petrino ed auctoritas pontificia, arrivando ad inquadrare in quanto esperto giurista la plenitudo potestatis secondo i parametri della potestas iurisdictionis.

Dall’analisi della dottrina di Uguccione è chiaro che al Pontefice, piuttosto che all’imperatore, spetta examinare, consentire, consecrare: dunque se prima dell’intervento del Papa, l’imperatore può ritenersi tale prettamente quod dignitatem, soltanto dopo aver ricevuto la corona direttamente dal Pontefice allora ottiene la pienezza dei suoi poteri. Diversamente da quest’ultimo che consegue immediatamente la pienezza dei poteri, l’imperatore prima ha limitatamente la potestas gladii, ossia una potestas ancora non plena et absoluta.

Relativamente al problema della deposizione dell’imperatore, il giurista considera che la potestas gladii e la dignitas imperialis non provengano ab apostolico, bensì a principibus et populo per electionem, precisando questo: «Quod tunc demum intelligo, si convictus et admonitus non vult cessare et satisfacere, tunc debet excommunicari et omnes ab eius fidelitate debent removeri. Si nec tunc corrigitur, tunc demum sententia iuste percellitur et armata manu certe expellitur et alius legitime eligitur»[9].

Uguccione spiega che il Pontefice non soltanto interviene nella vita dell’impero per confermare e consacrare la persona prescelta dagli elettori, per deporre l’imperatore che accusato ed ammonito si sia rifiutato di conformarsi all’ingiunzione spirituale della Chiesa, ma anche nel generalissimo caso di negligentia del principe, cioè nel correggere chi abbia commesso un delictum o per punire chi in forza di un peccatum abbia violato i principi della Chiesa. Per il pisano, divengono questi i titoli che legittimano l’intervento dell’auctoritas pontificia nell’impero e determinano la soggezione dell’imperatore secondo la celeberrima perifrasi in spiritualibus et quodammodo in temporalibus[10].

Il ragionamento del giurista parte da una duplice premessa, ossia che chiunque essendo preposto ad un pubblico ufficio risulti iniquo o semplicemente incapace deve esser dimesso dalla carica dopo aver subito un regolare processo innanzi al proprio ordinarius iudex et superior, ed ancora che ove si tratti di un’autorità temporale che non riconosca sopra di sé alcuna superioritas, il potere di deposizione spetta ai sudditi; ne perviene che il Papa non ha la competenza a deporre  i minores principes superiorem habentes, poiché quelli devono essere giudicati dal rispettivo dominus et superior, mentre i sudditi possono procedere direttamente alla depositio del proprio principe[11].

Tuttavia, tale ultima affermazione necessita di un chiarimento, giacché Uguccione ritiene anche che non esistano autorità terrene prive di un superior iudex, tanto all’imperatore quanto al re est papa maior, quindi il Pontefice è legittimato a deporre l’imperatore ed i re, mentre i sudditi possono solo promuovere il procedimento di depositio, che si conclude con la sententia depositionis, quale prerogativa papale[12].

La facultas deponendi ha luogo nei confronti del principe che pur non incorrendo in un crimine o in un peccato sia inadatto a reggere il potere, così afferma lo studioso: «Credo, enim, quod quilibet episcopus possit excommunicare principem vel ratione domicilii vel ratione criminis in suo territorio commissi, vel si aliter efficiatur suus parrochianus puta in contrahendo… Nonne per excommunicationem potest eum cogere ut decimas solvat, ut fornicariam quam publice habet dimittat, ut penitentiam de cetero publice agat? Raro fit tamen, vel propter scandalum vel quia timetur de facto, et ita ius non deficit sed factum»[13].

Invece, l’intervento ratione peccati conduce all’irrorazione della scomunica i cui effetti, secondo il parere di Uguccione, sono meno radicali di quelli della sentenza di deposizione. È evidente che la competenza attribuita al Papa nei procedimenti di deposizione verso l’imperatore o verso i re non trova il suo titolo giustificativo in una mera pactio feudale, bensì in un principio di diritto pubblico sintetizzato nella ratio defectus iustitiae; inoltre, il pisano finisce con l’attribuire ad ogni monarca, rex vel imperator, la plenitudo potestatis esclusivamente nell’ambito del proprio stesso stato.

A giudizio di Uguccione, il Pontefice, in quanto iudex antonomastice super imperatorem et reges, è titolare di un imperium, che lo rende guida e garante dell’ordine giuridico dell’impero e dei regni, pertanto il titolo in base al quale interviene quodammodo in temporalibus svincola l’azione del capo della cristianità dalle cose terrene; dato che il suo intervento è ritenuto in difesa degli interessi di Dio, egli è considerato al di fuori ed al di sopra di ogni ordinamento terreno, ragion per cui l’imperium del Papa risulta munito di coazione essenzialmente spirituale[14].

Nella concezione del giurista, è attribuita al Pontefice una specifica iurisdictio in temporalibus non soltanto negli interventi super reges et imperatores, ma anche in quelli entro i confini dei territori pertinenti al patrimonio di San Pietro; dunque, nell’ambito delle terrae quae sunt sancti Petri, il Papa possiede l’una e l’altra potestà spirituale e temporale e nessun rimedio è possibile contro i suoi eventuali abusi; occorre precisare però che, pur venendo qualificato come massima autorità terrena, in merito alla giurisdizione spirituale possiede una potestà illimitata ed assoluta, mentre in merito a quella temporale svolge un’attività in subsidium, ossia tale da non turbare l’ordinamento gerarchico secolare e da non intralciare la sfera di competenza delle autorità temporali.

Tale considerazione dell’autorità secolare non è in Uguccione fine a se stessa, ma intrisa anch’essa di un valore strumentale, dal momento che la meta finale a cui egli inequivocabilmente tende è la salvaguardia dell’auctoritas spirituale del Pontefice, auctoritas che in caso contrario risulterebbe compromessa se non tenesse presente quell’unità del mondo cristiano, rappresentativa della più alta costruzione della dottrina politica di tutti i tempi[15] e sorretta dal duplice principio dell’unus imperator e dell’unum caput ecclesiae.

Un ultimo aspetto, degno di particolare menzione, prima di passare allo studio precipuo dell’auctoritas sacrata pontificum nella Summa di Uguccione è costituito dalla nota per cui, se nel commentare la Sacra Scrittura ciò che conta è anzitutto la scienza dell’autore, quando si richiede un pronunciamento su un caso concreto non basta la scienza ma è indispensabile altresì un potere di governo, cioè l’essere titolari dell’autorità opportuna per decidere: colui che ha questa iurisdictio è il Papa, pertanto nella soluzione e nella definizione di casi concreti è l’autorità pontificia a prevalere.

 

L’auctoritas sacrata pontificum nel pensiero dell’autore

L’auctoritas sacrata pontificum descritta da Uguccione è plena, poiché presenta i tre fondamentali caratteri del praeceptum, della generalitas e della observantiae necessitas, contrariamente ad esempio a quella dei prelati di rango inferiore a cui mancano tali connotazioni[16]; inoltre, è plena, dal momento che solo il Pontefice ha la plenitudo potestatis, mentre gli altri hanno solamente una pars sollicitudinis. Come già anticipato, il giurista arriva ad attribuire alla plenitudo potestatis il significato della plenitudo iurisdictionis, relativo al valore di una potestà di governo su tutta la Chiesa che viene esercitata nel decidere e dirimere i casi sottoposti al giudizio papale.

È merito di Uguccione l’aver chiarito la differenziazione fra il potere giurisdizionale e la potestà annessa all’ordine sacro, difatti se Rufino precedentemente aveva elaborato quella distinzione fra auctoritas ed administratio, solo con il pisano si inizia ad utilizzare il termine iurisdictio con una nitida denotazione tecnica, nonché ad avvalersi nel caso opportuno della potestas ordinis e della potestas iurisdictionis, inerentemente al caso del Papa eletto e non ancora vescovo: mentre costui può fare tutto ciò che attiene alla giurisdizione, non può invece fare quel che concerne l’esercizio dell’ordine episcopale[17].

Se in larga misura Uguccione si pone sulla scia della decretistica precedente ampliandone le vedute ed approfondendo alcuni principi, emerge come sviluppi davvero una posizione più radicale rispetto al suo maestro Graziano proprio circa lo ius dispensandi del Pontefice: l’esercizio di tale potere assume tratti di criticità prevedendo la creazione di situazioni giuridiche opposte a quelle stabilite dalla legge, ragion per cui si richiede l’aequitas come mezzo giustificativo della deroga alle norme generali; dunque, la possibilità per il Papa di agire mitigando canones è riprova ancora della sua potestà legislativa sulla Chiesa intera.

Difatti, il Pontefice può stabilire qualcosa di contrario a quanto fissato dai concili, purché ciò non tocchi lo status ecclesiae; non è vincolato dalla volontà dei fedeli, né da quella dei suoi più stretti collaboratori, né dai canoni conciliari, né dai suoi predecessori: se stabilisce qualcosa che non è contrario alla ragione o alle leggi divine, tutti sono tenuti ad obbedirgli perché ha la plenitudo potestatis.

È adeguato sottolineare che, per Uguccione, la plenitudo potestatis dell’imperatore è simile a quella del Papa solo per quel che riguarda lo ius condendi leges, ossia il potere legislativo di chi è posto a capo, in quanto sovrano, dell’ordinamento ecclesiastico o di quello civile; egli però non giunge mai ad attribuire ai reges una plenitudo potestatis pari a quella imperiale, perché, a suo giudizio, la pienezza del potere si realizza soprattutto nella facoltà di emanare norme con valore universale e questo è un diritto proprio dell’imperatore che nessun re dovrebbe mai usurpare[18].

La potestà legislativa papale, nell’ottica di Uguccione, definita anche plenitudo potestatis condendi leges vel canones, prevede però alcuni confini ben precisi: il Pontefice non può agire contra rationem[19], né contro il diritto divino naturale o positivo, né contro gli articoli di fede, né vincolare il proprio successore con norme o divieti, né contro lo status generalis ecclesiae. Ne discende una figura che, con sole queste limitazioni, risulta il vertice dell’ordinamento ecclesiastico, vincolato solo da quelle leggi che hanno la loro origine in Dio stesso, come le norme della giustizia naturale, i precetti dell’Antico e Nuovo Testamento ed infine le norme che danno l’assetto fondamentale alla Chiesa[20].

Riguardo al primo aspetto, il giurista, comparando il diritto canonico con il diritto divino, specifica che le leggi ecclesiastiche possono dirsi divine quanto all’oggetto, ma al tempo stesso debbono dirsi umane, poiché sono affidate agli uomini e al loro servizio; il Papa dunque può dispensare da tutte le leggi ecclesiastiche ma non da quelle che riguardano la fede o il bene comune. Accanto al diritto naturale e a quello contenuto nella Rivelazione, il limite succitato è rappresentato dallo status generalis ecclesiae: esso è intangibile, è ciò che il Papa non può cambiare e da cui non può dispensare[21]. Altri autori considerano lo status ecclesiae semplicemente come qualcosa che attenga il benessere e la pace ecclesiale, facendo quindi presupporre che il Papa non possa mai porre in essere azioni che vadano ad alterare o nuocere il bene comune[22].

Il Papa può disporre liberamente di ogni fedele e non c’è chi possa opporsi alla sua azione, tuttavia egli è sempre responsabile dinanzi a Dio del proprio agire; a lui ciascun fedele, chierico o laico che sia, può appellarsi direttamente, a lui sono riservate le causae maiores, questo in forza della sua plenitudo potestatis. Mentre tra vescovi e metropoliti vige la regola per cui il superiore non possa intromettersi nelle questioni di stretta competenza dell’inferiore, la potestà papale è caratterizzata invece dall’essere immediata: tanto dall’alto nel senso che il Pontefice può intervenire direttamente per ogni fedele quanto dal basso poiché ogni fedele può ricorrere a lui quolibet medio pretermisso[23].

La potestà papale risulta superiore a tutti nella Chiesa per autorità e dignità, pertanto il Papa non può essere giudicato da nessuno, ciò non deve essere inteso in termini di assolutezza bensì come prerogativa necessaria e funzionale all’ufficio papale; nonostante ciò, è indubbio che con Uguccione il ruolo del Pontefice si connoti di una veste maggiormente autoritaria, sconosciuta alla decretistica precedente, sebbene sia stata anche quest’ultima a porre le fondamenta dottrinali per il raggiungimento di tale traguardo. Con il pisano la plenitudo potestatis papale arriva infatti a coincidere con il primato stesso.

Tale considerazione dell’ufficio primaziale individua il Papa come l’apice dell’ordinamento ecclesiale, superiore ad ogni altra potestà ed autorità ecclesiastica; ciò si evince tanto ad esempio di fronte al problema di un eventuale contrasto fra il concilio ed il Pontefice, per cui Uguccione afferma che quest’ultimo può in ogni caso promulgare nuovi canoni e pronunciare sentenza, senza alcun concilio o contro la volontà di esso. Anche in relazione alla questione pertinente la delega delle prerogative esclusive dell’ufficio papale, il giurista sostiene che il legato pontificio, su delega, può compiere tutti gli atti per cui ha la facoltà, purché sia ordinato, e la sua partecipazione alle prerogative dell’ufficio papale è possibile anche per quel che concerne la potestà giudiziale.

Solo il Papa è titolare di una pienezza di poteri che gli consente di avere competenza giudiziale su tutte le cause di tutti i fedeli, mentre gli altri prelati, a seconda del loro grado, godono di una competenza più o meno limitata ma sempre ben circoscritta; l’insieme delle prerogative papali in materia di giurisdizione episcopale è così raccolto da Uguccione nella sua Summa in un sistema ordinato e strutturato che mette in luce la supremazia del Pontefice rispetto alle altre figure dell’ordinamento ecclesiale, pur non privandole mai della dignità che appartiene loro.

 

Le interpretazioni della storiografia

La Summa di Uguccione è stata al centro di numerosi ed affannosi dibattiti fra i maggiori storici del diritto, i quali si sono confrontati e fronteggiati nello studio, nella ricerca e nel commento di essa non soltanto attorno a problematiche relative alla datazione e alle modalità di redazione dell’opera, bensì anche principalmente circa il contenuto del pensiero uguccioniano quivi espresso, sintetizzabile nella prevalente e tormentata questione del rapporto fra le due potestates dell’epoca, Papa ed imperatore, e conseguentemente nel ruolo di preminenza attribuito al Pontefice.

Franz Xaver Wernz, nel suo “Ius Decretalium”, compie un grande elogio ed allo stesso tempo un’aspra critica alla Summa Decretorum in tali termini: «Omnes alias Summas in Decretum Gratiani tum ambitu materiae tum completa et aequali uniuscuiusque partis Decreti expositione et insigni disputandi genere longe superat. Interdum vero Huguccio non obstante sua fide catholica agit doctorem nimis resolutum atque praecisum»[24]. Mentre George Charles Crump e Ernest Fraser Jacob, nel loro famoso scritto “The legacy of the Middle Ages”, rilevano che Uguccione abbia distinto nettamente l’ambito della potestà del Papa da quello della potestà dell’imperatore, influendo così sul pensiero di Dante: «And the great canonist Huguccio had expressly declared: Utraque potestas, scilicet apostolica et imperialis est a Deo, et neutra pendet ex altera. Dante summarizes this theory in certain lines of the Purgatorio, and elaborates it more precisely in the De Monarchia»[25].

Anche l’Ullmann, in “Medieval papalism: the political theories of the medieval canonists”, cita sovente dalla Summa di Uguccione e riporta l’idea dell’autore sull’autorità della Chiesa di Roma, sul potere papale, sullo ius patronatus, sull’incoronazione dell’imperatore e sulla sua deposizione, sulla scomunica dei principi e sulla vacanza del trono papale.

Fra i più illustri nomi, sui quali è adeguato riflettere in maniera più meticolosa, occorre segnalare indubbiamente Francesco Calasso, arguto sostenitore della tesi ierocratica, Sergio Mochi Onory e Gaetano Catalano in aperto contrasto, laddove il primo individua la ratio dell’intervento papale nel motivo spirituale mentre il secondo ritiene che sia erroneo supporre che Uguccione abbia formulato teoricamente un imperio spirituale del Pontefice con ripercussioni nel temporale in funzione esclusiva della ratio peccati.

 

Francesco Calasso

Lo studioso Francesco Calasso, nel suo pregevole testo “I glossatori e la teoria della sovranità”, sostiene apertamente di vedere nell’opera di Uguccione i germi della tesi ierocratica, presentando tuttavia un’interpretazione che quasi non ebbe seguito, mentre è diffusa la convinzione che il pisano si sia battuto per far trionfare l’idea della distinzione fra le due somme autorità.

Egli, opponendosi all’Ercole[26], si ricollega alla grande corrente canonista che tendeva ad affermare la soggezione di tutti gli ordinamenti politico-giuridici al Papa, anche quindi dell’ordinamento universale dell’impero, e corrobora la sua idea servendosi di una glossa di Uguccione nella quale tenta di definire la condizione giuridica dei Franci e degli Anglici: «Item saltem ratione pontificis subsunt romano imperio, omnes enim christiani subsunt apostolico, et ideo omnes tenentur vivere secundum leges romanas, saltem quas approbat ecclesia»[27].

Emerge nitidamente come la ratio pontificis, invocata dal grande maestro d’Innocenzo III quale titolo giuridico della subiectio all’impero, vada a contrastare con la ratio imperii, che sarà difesa a lungo, sic et simpliciter, dalla scienza civilistica sulla base del famoso insegnamento della glossa accursiana riguardante precisamente i Francigenae et alii Ultramontani che si dichiaravano sciolti da ogni vincolo verso l’impero e quindi da ogni obbligo di obbedienza al diritto romano, in quanto non legati dal giuramento di fedeltà[28].

Il Calasso e il Mochi Onory conducono le loro ricerche partendo da un’identica esigenza metodologica, tuttavia, pur percorrendo la stessa strada, conseguono risultati diametralmente opposti: il Mochi Onory crede di poter giungere ad una sintetica conclusione e manifesta che il pensiero pubblicistico dei canonisti, superato rapidamente lo stato embrionale, avanza compatto ed innovatore, coerente ed organico, avendo come meta ultima la negazione del principio unus imperator in orbe[29]; per contro, il Calasso sottolinea come il principio d’ordine universale mantenga sempre nella dialettica della Chiesa la sua integrità originaria e ammette che canonisti e glossatori civilisti abbiano tra di loro in comune la difesa del dogma dell’impero[30].

Fra la tesi estrema del Calasso, che vede i canonisti schierati con i civilisti a tutela dell’impero, e quella altrettanto radicale del Mochi Onory che ravvisa una costante tendenza antimperiale nel pensiero canonistico, si è inserito il tentativo di alcuni studiosi di conciliare le opposte tesi. Il parere di questi ultimi si potrebbe sostanzialmente sintetizzare nell’affermazione che i canonisti legati alla tradizione dell’impero universale abbiano rappresentato una minoranza già del tutto isolata e sconfitta attorno alla metà del secolo XIII[31].

 

Sergio Mochi Onory e Gaetano Catalano

Lo storiografo Sergio Mochi Onory, nel suo lodevole testo “Fonti canonistiche dell’idea moderna dello Stato”, dedica nella parte terza un ampio spazio alla personalità di Uguccione, mettendone in luce il suo carattere critico e costruttivo, alla sua Summa nel contesto politico europeo, alla fortuna delle sue idee e allo sviluppo della concezione canonistica dell’imperium spirituale del Pontefice super imperatorem et super reges; individua ancora il titolo in forza del quale il Papa interviene nella vita dell’impero e dei regni, sottolinea i limiti e la rilevanza giuridica attribuita ai motivi di ordine spirituale e religioso, riconosce la supernazionalità dell’imperium papale ed evidenzia la differenziazione fra potestà di governo e potere supremo.

Sintetizzando in pochi nuclei fondamentali l’articolato discorso attorno al pisano e alla sua opera, il Mochi Onory, sulla base del pensiero uguccioniano, coglie la ratio dell’intervento papale nel mondo dello spirito, concepisce che la via dell’intervento indiretto del Pontefice quodammodo in temporalibus faccia agire la superiorità pontificia su tutti gli ordinamenti statali e riconosce la suprema sanzione ecclesiastica come espressione coattiva dell’alto diritto papale tanto sulla potestà imperiale quanto su quelle secolari[32]. Valuta, inoltre, che l’imperialismo religioso indagato da Uguccione non vada in alcun modo a menomare l’autonomia di vita degli ordinamenti statali; sebbene perori ardentemente la superiorità dell’auctoritas pontificia, non postula una esplicita soggezione di essi al Papa, bensì una precisa spiritualizzazione dei poteri pontifici super imperatorem et super reges[33].

Difatti, la meta posta dal canonista pisano, secondo lo storiografo, è quella di identificare il Pontefice come guida ed arbitro internazionale: Uguccione desidera che la voce spirituale, ma giuridicamente rilevante, del titolare di questo imperium arrivi utilmente non soltanto all’impero, ma anche a tutti quei regni che negavano all’imperatore la tradizionale subiectio[34]. Di pari passo, egli punta anche all’affermazione del principio di equiparazione fra i poteri regi e quelli imperiali, come si profila in maniera scheletrica e forte secondo il Mochi Onory nella glossa apposta da Uguccione al canone In apibus della Concordia grazianea: «In apibus, per multa similia exempla probat Gratianus in una ecclesia non debere esse plures prelatos, ordine litterato, id est representante figuram alicuius littere, hoc saepe contingit, vel ordine litterarum, ide est ordinate sicut littere ordinatim una post aliam sunt disposite in alphabeto. Imperator unus, debet esse, hoc generale et revelare casualiter tantum quam aliter fit et forte male, ut di. XXI. nunc autem. Quid ergo de greculo? Abusive et sola usurpatione dicitur imperator, solus enim romanus dicitur iure imperator, sub quo omnes reges debent esse, quicquid sit. Iudex provintie unus, sed nonne debent esse X iudices sive presides in una provintia ubi sunt X civitates? Sic, set nomine iudicis ego intelligo regem, quia in qualibet provintia debet esse unus rex, et in qualibet civitate unus iudex sive potestas, ut VI. q. III. Scitote. Alibi videtur quod alius sit iudex provintiae et alius rex, ut XXIII. q. IIII. Duo. Set rex ibi dicitur imperator vel potest dici quod in qualibet provintia debet esse unus iudex principalis et maior coram quo tractentur negotia provintialia»[35].

Acquisendo questo passo come exemplum dell’accesa polemica sulla dottrina politica delineata dal pisano, di opinione del tutto contraria al Mochi Onory è un altro illustre studioso contemporaneo, Gaetano Catalano, che nel suo prezioso scritto “Impero, regni e sacerdozio nel pensiero di Uguccio da Pisa” afferma l’impossibilità di accettare senza riserva l’interpretazione del pensiero uguccioniano a cui è pervenuto il Mochi Onory, partendo dalla considerazione di una dubbia adesione di Uguccione al principio di equiparazione dei poteri regi a quelli imperiali.

Il Catalano sostiene che sia inesatto asserire che Uguccione abbia teorizzato un imperio spirituale del Pontefice con ripercussioni nel temporale in funzione esclusiva della ratio peccati, lo considera infatti da un lato un fedele difensore del principio dell’unus imperator e dall’altro un capace fautore della teoria dell’ordinaria iurisdictio del Pontefice sulle cose temporali del tutto autonoma e disancorata dalla ratio peccati[36]. Contro la tesi del Mochi Onory osserva che egli abbia voluto fissare un’evoluzione generale ed uniforme della canonistica, tenendo scarso conto del differente atteggiamento assunto dai canonisti in relazione al fondamentale problema della derivazione a Deo vel a Papa del cosiddetto gladius temporalis[37].

Segnala l’eccessiva insistenza del Mochi Onory sull’atteggiamento innovatore e antimperiale dei canonisti, per i quali invece la giustificazione su basi teoriche del pluralismo statuale costituiva, a suo vedere, non l’obbietto principale, ma piuttosto uno strumento sussidiario nella lotta contro il dominio dell’imperium sopra il sacerdotium[38]. Rileva come aspetto peculiare della monografia del Mochi Onory quello di inquadrare la scienza canonistica in uno schema unitario e sintetico, dove necessariamente sono tenuti in ombra i contrasti, ma messi in luce le reciproche influenze, l’organica coerenza, la concatenazione e continuità, esistenti tanto nell’opera dei decretisti quanto in quella dei decretalisti[39].

Soffermando l’attenzione specificatamente sull’opera di Uguccione, si riflette come per il Mochi Onory egli costituisca un inequivocabile momento di sintesi, dal momento che riunisce i più validi motivi elaborati in precedenza dalla decretistica, vivificandoli e potenziandoli, sì da esercitare larga e profonda influenza sia sul pensiero canonistico sia sulla normativa della Santa Sede: lo stesso Innocenzo III, che ha occupato la cattedra di Pietro per oltre tre lustri, attinge dal suo maestro bolognese la base strutturale della sua complessa ed articolata visione del mondo cristiano.

Il Catalano, rispetto al Mochi Onory, osserva come sia lecito supporre che Uguccione abbia considerato su uno stesso piano la plenitudo potestatis delle due massime potenze universali del mondo medievale, contrapponendo a tale potestas rotunda ac plena la minore autorità di chi sia preposto al governo di organismi particolari, quali le provincie e i regni; pur ammettendo che, secondo la concezione pubblicistica del pisano, i re quali capi di un ordinamento particolare abbiano piena facoltà di dettare norme con valore cogente per i rispettivi sudditi, considera che sia tuttavia evidente che il valore universale nonché generale possa essere riconosciuto soltanto alle leggi imperiali, sicché sotto tale profilo unicamente l’imperatore possa dirsi in plenitudine potestatis[40].

Tuttavia, il Catalano scorge la previsione di una approbatio ecclesiae per la produzione giuridica degli imperatori[41] ed un’implicita svalutazione del principio dell’universale validità delle leggi imperiali, giacché quelle abbiano assoluta obbligatorietà solo quando siano state approbatae ab ecclesia; dunque, egli accoglie il punto di vista individuato dal Calasso in merito al germe della tesi ierocratica destinata nel futuro ad uno straordinario sviluppo[42]. Afferma che Uguccione, nel ricorrere alla ratio pontificis, spezza risolutamente i legami che nei secoli avevano strettamente appaiato Chiesa ed impero, appunto perché vuole evitare che la crisi del principio imperiale si estenda al sacerdozio e comprometta la fondamentale unità della Repubblica cristiana[43].

Circa l’adesione di Uguccione alla teoria gelasiana della divisio gladiorum e della mutua coordinazione fra sacerdozio e regno quali entità indipendenti, il Catalano rileva che proprio l’attribuzione al Papa della potestà di giudicare e deporre i re e l’imperatore attenui pericolosamente l’aderenza dell’autore al principio delle iurisdictiones divisae: rispetto ai partigiani dell’impero, i quali traducono il postulato della nota formula nec in temporalibus, nec imperator in spiritualibus se debet intromittere[44], il canonista accetta quest’ultima proposizione, respingendo nettamente la prima, dal momento che ritiene l’imperatore privo di qualsiasi potere nella sfera spirituale ed in tutto sottoposto all’autorità del Papa, ma non ammette il principio reciproco[45].

Tirando le fila del discorso, il Catalano riassume in sette capisaldi imprescindibili le fondamenta della dottrina pubblicistica di Uguccione, quali

l’esistenza di un impero universale dei popoli cristiani,

il valore generale delle leggi e del diritto imperiale,

la subordinazione all’imperatore di tutti gli organismi particolari,

l’equiparazione della posizione giuridica dei regni medievali a quella dell’antica provincia romana,

la piena giurisdizione del Patrimonio di S. Pietro,

l’ordinaria jurisdictio super reges et imperatores del Pontefice in funzione del defectus iustitiae e

l’assoluta incompetenza di ogni autorità temporale ad intervenire in rebus ecclesiae.

Lo sfondo che racchiude tali assiomi è sancito dall’illimitata potestà del Papa in spiritualibus, dall’assoluta incapacità di ogni ecclesiastico ad agitare per sé il cosiddetto gladium sanguinis e dalla necessaria distinzione tra le giurisdizioni civile ed ecclesiastica, determinata dalla finalità non di tutelare la potestà civile contro eventuali inframmettenze dell’autorità ecclesiastica, bensì da quella di salvaguardare la libertà della Chiesa.

In ultimo, occorre evidenziare che, secondo il Catalano, la Chiesa e i canonisti nel considerare il problema dell’impero non possono non tenere presente che l’imperatore sia per definizione il braccio secolare della Chiesa e che sia chiamato ad esercitare il ruolo di ineccepibile difensore di essa contro tutti i suoi nemici interni ed esterni: funzione che innalza l’imperatore sopra ogni altro principe terreno e che viene esercitata in universo orbe senza alcun limite territoriale[46].

Quindi, a parer dell’autore, il riconoscimento che Uguccione fa del dogma imperiale non può essere ritenuto come anacronistico attaccamento ad una ideologia superata, poiché nasce da un’esigenza sistematica avvertita da tutta la scienza canonistica, quella cioè di assicurare la materiale defensio della Chiesa. L’imperialismo del decretista si spiega infatti ove si tenga presente che egli avverte in misura maggiore di altri canonisti la necessità di conservare l’ordinamento unitario della respublica christiana, ritenendo tale unità un requisito indispensabile per la riuscita della missione del Vicario di Cristo[47].

Gaetano Catalano concepisce il canonista pisano come uno spirito pratico capace di comprendere come di fronte alla innegabile realtà di regni mai sottomessi all’impero non valga dire che le duae sunt potestates penes quas totius mundi iudicia sunt constituta[48]e che la crisi del sistema imperiale possa essere superata soltanto per opera del Pontefice, il quale interviene sussidiariamente ogni qual volta l’autorità imperiale non sia più in grado di farsi rispettare; solo così ratione pontificis può essere mantenuta la fondamentale unità della società cristiana[49].

 

Riflessioni conclusive

Complessivamente l’opera di Uguccione si presenta come il punto di arrivo delle speculazioni precedenti e costituisce validamente una sintesi solida delle molteplici prerogative papali, da cui la storia successiva, tanto del papato quanto del pensiero canonistico, prende le mosse per sviluppare la costruzione della monarchia papale a partire dal tredicesimo secolo[50]: dunque, la plenitudo potestatis, frutto della formulazione dottrinale compiuta dalla decretistica e suggellata dal lavoro di ricerca, commento ed interpretazione operato dal canonista pisano, da questo frangente storico in poi viene adoperata sempre più risolutamente per affermare la prelavanza assoluta del potere spirituale su quello temporale.

Pertanto, il primato della Chiesa di Roma su tutte le altre chiese giunge a fondare non soltanto l’inerrabilità dottrinale (numquam erravit)[51], bensì anche la diretta ed immediata competenza giurisdizionale, soprattutto amministrativa e giudiziaria, su tutto il popolo cristiano e sui pastori. Il fronte interno della Chiesa si consolida e diviene maggiormente resistente ai continui e numerosi attacchi che subisce dall’esterno, non risultando comunque immune da contestazioni e prevaricazioni[52].

Su tali presupposti, il fondamento della potestas directa Ecclesiae in temporalibus, fin qui elaborato soltanto da un punto di vista dottrinale, apre la strada all’idea dell’onnipotenza pontifica, che diverrà abbastanza generalizzata e diffusa nei secoli susseguenti;  in virtù della rinnovata superiorità personale ratione ufficii del Sommo Sacerdote, la sua posizione di supremazia si concretizzerà attraverso uno spiccato predominio e una rilevante egemonia nel corpo ecclesiale, tale da adombrare il ruolo dell’episcopato, nonché i rapporti di cooperazione ed integrazione fra primato e collegialità[53].

Lo studioso del diritto Carlo Fantappiè, nel suo testo “Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa”, afferma che l’attività dei decretisti e dei decretalisti ha posto le basi per la qualificazione del Papa quale vigerente di Dio e detentore di una plenitudo potestatis, idonea al conferimento di un’autorità assoluta su ogni sfera di governo della Chiesa; senza moderatismi e mediazioni, dunque, rileva tutto il potere residente in tale istituzione interamente riassunto e concentrato nell’identità del Papa[54].

 

[1] G. CREMASCOLI, Uguccione da Pisa: saggio bibliografico, in Saggi di lessicografia mediolatina, 1968, 29 ss.

[2] www.treccani.it.

[3] Fra i vari manoscritti presenti quello più vicino all’originale scelto come testo guida per l’edizione critica della Summa è il Ms. Munchen Staatsbibliothek n. 10247, tuttavia occorre rivolgere particolare attenzione anche al Ms. Vat. Lat. 2280.

[4] F. GILLMANN, Die Abfassungzeit der Dekretsumme Huguccios, in AKKR 94, 1914, 233 ss.

[5] W. P. MULLER, Huguccio. The life, works and thought of a twelfh-century jurist, in Studies in medieval and early modern canon law, Washington D. C., 1994, 69 ss.

[6] A. RECCHIA, L’uso della formula «plenitudo potestatis» da Leone Magno ad Uguccione da Pisa, Milano, 1999, 119.

[7] Ms. Munchen Staatsbibliothek n. 10247, fol. 22rb, D. 22, c. 2.

[8] A. RECCHIA, op. cit., 121.

[9] S. MOCHI ONORY, Fonti canonistiche dell’idea moderna dello stato, Milano, 1951, 152.

[10] Ivi, 154.

[11] G. CATALANO, Impero, regni e sacerdozio nel pensiero di Uguccio da Pisa, in Rivista di storia del dititto italiano, 1957, 33.

[12] Ivi, 34.

[13] Ms. Vat. Lat. 2280, D. 96, c. 10.

[14] S. MOCHI ONORY, op. cit., 160 ss.

[15] G. DE VERGOTTINI, Il diritto pubblico italiano nei secoli XII-XV, Milano, 1954, 69.

[16] Ms. Munchen Staatsbibliothek n. 10247, fol. 19vb-10ra, D. 11, c. 2.

[17] A. RECCHIA, op. cit., 127.

[18] G. CATALANO, op. cit., 45.

[19] L’idea di ratio a cui fa riferimento Uguccione è l’idea di una ratio legis come conformità all’ordine naturale e soprannaturale, quindi una ratio di matrice metafisica. Cfr. K. PENNINGTON, Pope and Bishops, The papal monarchy in the Twelfth and Thirteenth Centuries, 1984, 21 ss.

[20] A. RECCHIA, op. cit., 132.

[21] J. H. HACKETT, State of the church: a concept of the medieval canonists, in The Jurist, 1963, 290.

[22] M. H. HOEFLICH, The concept of Utilitas Populi in Early Ecclesiastical Law and Government, in ZRG Kan. Abt., 1981, 36 ss.

[23] A. RECCHIA, op. cit., 134.

[24] F. X. WERNZ, Ius Decretalium, 1905, 397.

[25] G. C. CRUMP - E. F. JACOB, The legacy of the Middle Ages, 1927, 337.

[26] F. ERCOLE, Sulla origine francese e le vicende in Italia della formola “rex superiorem non recognoscens est princeps in regno suo”, in Arch. St. it., 1931, 19.

[27] F. CALASSO, I glossatori e la teoria della sovranità, 1951, 64.

[28] Ibidem.

[29] S. MOCHI ONORY, op. cit., 4.

[30] F. CALASSO, op. cit., 63.

[31] G. CATALANO, op. cit., 9. Cfr. G. POST, Studies in Medieval Legal Thought, in Public Law and the State 1100-1322, 480: «Mochi Onory goes too far, Calasso not far enough in finding expression of indipendence of the greater kingdoms from the empire».

[32] S. MOCHI ONORY, op. cit., 154.

[33] Ivi, 162.

[34] Ivi, 163.

[35] Ivi, 165.

[36] G. CATALANO, op. cit., 13.

[37] Ivi, 8.

[38] Ibidem.

[39] Ivi, 10.

[40] Ivi, 26. Sul tema della limitazione del potere legislativo dei re si veda, U. NICOLINI, La proprietà, il principe e l’espropriazione per pubblica utilità, 1952, 116; A. MARONGIU, Concezione della sovranità di Ruggero II, in Atti Studi Ruggeriani, 1955, 229.

[41] Cfr. G. DE VIRGOTTINI, op. cit., 76.

[42] F. CALASSO, op. cit., 65.

[43] G. CATALANO, op. cit., 29.

[44] A. M. STICKLER, Imperator vicarius Papae. Gli insegnamenti dei decreti di scuola franco-tedesca del XII e dell’inizio del XIII secolo sui rapporti tra il papa e l’imperatore, in Mitteilungen des Institut fur Osterreichische Geschichtsforschung, 1954, 205.

[45] G. CATALANO, op. cit., 39.

[46] Ivi, 45. La funzione ecclesiastica dell’impero è stata rilevata da quasi tutti i più illustri medievisti, i quali hanno cercato di precisarne l’aspetto giuridico. Sulla base di un riesame e di un’accurata interpretazione dei testi canonistici, specificatamente di quelli ove ricorre l’allegoria dei duo gladia materialis et spiritualis, sono giunti ad affermare che la Chiesa fin dai tempi di Gregorio VII abbia preteso di esercitare come propria prerogativa anche il massimo potere coattivo materiale, il materialis gladius, e abbia ritenuto di possedere pro sua defensione una vis armata autonoma dal potere civile. Questa potestas coactiva, però, doveva essere esercitata per mano dei laici, giacché i chierici per l’indole del loro ministero sacerdotale non potevano farlo. In maniera precipua il compito di agitare gladium materialem ad nutum sacerdotis è stato attribuito all’imperatore, difatti è pacifico rilevare che, tanto che l’imperatore abbia agito auctoritate propria, quanto come delegato della Chiesa, nella concezione dell’epoca il compito della defensio ecclesiae era considerato pertinente all’impero. Sul punto si veda, V. DOMEIER, Die Papste als Richter uber die dentsche Konige, 1897, 90.

[47] G. CATALANO, op. cit., 48.

[48] S. MOCHI ONORY, op. cit., 109.

[49] G. CATALANO, op. cit., 49.

[50] K. PENNINGTON, op. cit., 45 ss.

[51] XXII. «Quod Romana ecclesia nunquam erravit nec imperpetuum scriptura testante errabit». Cfr. S. VACCA, Prima sedes a nemine iudicatur: genesi e sviluppo dell’assunto fino al Decreto di Graziano, 1993, 214 ss.

[52] M. DEL POZZO, The extent of Primatial Power in the costitutional design, in Ius Canonicum, 2016, 199.

[53] Ivi, 200.

[54] C. FANTAPPIÈ, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, 2011, 128.