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Omosessualità e canone 1095 del Codex Iuris Canonici

Il patto coniugale, delineato dal canone 1055 con il quale l’uomo e la donna costituiscono il consortium totius vitae, in quanto scelta di vita e risposta ad una vocazione personale, sorge da un libero atto di volontà cosciente e consapevole. Tutta la disciplina della Chiesa sul matrimonio ha il proprio cardine in quell’atto umano che prende il nome di consenso e che pone in essere lo stato di vita coniugale. Il consenso è l’elemento costitutivo del matrimonio; essendo atto interno e personale deve essere manifestato affinché le volontà dei due nubendi si possano incontrare in ordine alla costituzione dello stato di vita coniugale. Esso costituisce la manifestazione di una facoltà dell’uomo che, dopo una sufficiente deliberazione, si decida liberamente e spontaneamente a manifestare e a stabilire un impegno di una intima comunità di vita e di amore esclusiva, orientata al bene comune interpersonale e alla possibile procreazione ed educazione della prole (D’Auria A., Il matrimonio nel diritto della Chiesa, Roma 2003, pp. 37-38).

Questa definizione del consenso si ispira allo spirito e alla lettera del Concilio Vaticano II il quale, dopo avere affermato che l’intima comunità di vita e d’amore coniugale è stabilita dall’irrevocabile consenso personale, precisa che è dall’atto umano con il quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l’istituzione del matrimonio (Gaudium et spes, n° 48; cfr. anche Bersini F. Il nuovo diritto matrimoniale canonico, Torino 1983, pp. 16 – 18).

E’ evidente che i nubenti devono possedere la capacità naturale di esprimere un consenso valido. Infatti se il consenso è l’atto della volontà con cui essi danno vita al matrimonio, cosa succede se tale atto è interessato da difetti o mancanze che vanno ad incidere sulle facoltà intellettive e volitive che intervengono nel processo di formazione dell’atto umano consensuale?

Il canone 1095 del Codex Iuris Canonici, novità nel panorama legislativo canonico, formalizza i requisiti della capacità naturale dei contraenti che permette loro di esprimere un consenso che sia veramente un atto umano responsabile ed efficace giuridicamente. In altre parole la capacità, o meglio le ipotesi di incapacità qui previste, hanno di vista l’attitudine del soggetto di emettere il consenso nel suo processo logico di formazione e di obbligarsi all’oggetto del consenso medesimo (D’Auria A. Il matrimonio…op.cit, pp. 155-159).

La rapida evoluzione delle scienze psichiatriche nello scorso secolo e la conseguente maggiore sensibilità a queste problematiche anche nelle sentenze della Rota sono state di stimolo alla formulazione del canone in esame. Infatti durante i lavori di revisione del codice del 1917 si avvertì la necessità di una maggiore esplicitazione dei motivi di incapacità di contrarre matrimonio per vizio del consenso e, pertanto, di una canone a cui ricondurre le numerose fattispecie di cause matrimoniali fatte confluire ai Tribunali Ecclesiastici dal progresso delle suddette scienze (Giovanni Paolo II, Discorso alla S. Rota, 4 febbraio 1980, in AAS LXXII, 1980).

Il legislatore, nella formulazione del canone 1095 CIC, ha atteso maggiormente all’indole personalistica del matrimonio prevedendo che i contraenti nell’emettere il consenso matrimoniale siano forniti della debita scienza e della libera volontà (Bersini F., Il matrimonio…op. cit, p. 79).

Il canone così recita: Sono incapaci a contrarre matrimonio: 1) coloro che mancano di sufficiente uso di ragione; 2) coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente; 3) coloro che per cause di natura psichica, non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.

I nn° 2 e 3, ossia il grave difetto di discrezione di giudizio e la incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, a cui la giurisprudenza canonica ha fatto sempre più spesso riferimento nell’esaminare i casi di omosessualità, occupano in modo preponderante l’attività dei tribunali delle chiese particolari (cfr. Annuarium statisticom Ecclesiae, 1996, Città del Vaticano, p. 452) ma anche della Rota Romana (cfr. Stankiewicz A., Il contributo della giurisprudenza rotale al “defectus usus rationis et discretionis iudicii”: gli ultimi sviluppi e le prospettive nuove, in Monitor Ecclesticus, 2000, pp.332 ss.).

Con il canone 1095 2° si recepisce nel Codice un nuovo capitolo di nullità già presente però nella giurisprudenza canonica, secondo il quale, per emettere un valido consenso matrimoniale, non basta il sufficiente uso di ragione per comprendere la natura e le conseguenze dell’atto, ma si richiede altresì una discrezione di giudizio o maturità personale per mezzo della quale i contraenti siano in grado di comprendere, ponderare e valutare criticamente ciò che liberamente scelgono. Ciò a cui si fa riferimento è quel grado sufficiente di discernimento relativo all’oggetto del matrimonio e all’insieme delle responsabilità o doveri che lo identificano rispetto ad altri stati di vita (D’Auria A., Il matrimonio…op. cit., pp. 166-167).

Rientrano in questa ipotesi tutte le forme gravi di nevrosi e psicopatie e in genere tutti i disturbi psichici che siano al limite tra il patologico e il normale e che compromettono l’affettività e la volontà. Non si tratta propriamente di malattie quanto, piuttosto, di modalità abnormi di reagire acutamente o cronicamente ad esperienze interiori o a circostanze esterne sfavorevoli. Il loro processo non è organico e non altera il funzionamento del cervello ma quello del sistema nervoso (Bersini F., Il nuovo…op. cit., pp. 78-79).

Non ogni tipo di alterazione rende invalido il matrimonio, ma solo quella che turba la vita interiore e priva la persona della sufficiente capacità di una elezione libera e ponderata necessaria per un contratto così impegnativo quale è il matrimonio. (cfr. SRR Decisiones, vol. 60 p. 823 ss., sent. 7 dicembre 1968, coram Lefebvre). Infatti la discrezione di giudizio comporta la capacità intrinseca naturale di essere responsabile e imputabile giuridicamente dell’atto che si compie. E’ inconcepibile che un individuo possa volere ciò che non può valutare nel suo pieno valore e contenuto.

La discrezione di giudizio consta di due elementi distinti ma concorrenti e interdipendenti: la piena avvertenza e il deliberato consenso. Solo quando egli è capace della piena comprensione morale e giuridica dell’atto che compie e della perfetta libertà di elezione e deliberazione nel volerlo ed attuarlo, si può dire che egli l’abbia posto in essere con la piena avvertenza e il deliberato consenso (Bersini F., Il nuovo…op. cit., pp. 80-82). Oggetto della discrezione di giudizio sono i diritti e doveri essenziali del matrimonio per cui sarà grave quel difetto di discrezione di giudizio che renda il consenso inadeguato a tale oggetto nel singolo caso. In altre parole il termine grave non fa riferimento al disturbo ma all’effetto terminale di quel disturbo sul soggetto concreto che non è più in grado di discernere con il suo intelletto e di impegnarsi con la sua volontà alla donazione–accettazione dei diritti/doveri propri del matrimonio.

Il canone 1095 n° 3 completa il quadro con l’incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio per cause di natura psichica.

Il principio sotteso a questa fattispecie è che il consenso deve proiettarsi sull’oggetto matrimoniale; in caso contrario l’atto consensuale sarebbe un atto privo di contenuto proprio e specifico. Non si guarda più al processo di formazione del consenso e alla capacità del contraente di compiere un atto umano e un atto consensuale, ma alla sua capacità, al momento della prestazione del consenso, di potersi assumere e di potere compiere le obbligazioni che scaturiscono dal patto (D’Auria A., Il matrimonio...op.cit., pp. 173 – 174).

L’espressione assumere che il codice usa si riferisce a quell’aspetto della volontarietà del consenso che consiste nel farsi carico di quegli atti e di quei comportamenti che promanano dal patto coniugale, obbligandosi a portarli a compimento. Le obbligazioni essenziali che sorgono dal vincolo coniugale sono quelle che appartengono all’oggetto verso cui si dirige la volontà consensuale e che definiscono il consortium totius vitae: l’integrazione personale nella comunità di vita coniugale, l’accettazione della prole e la sua educazione, la salvaguardia dell’unità del vincolo e la fedeltà ad esso.

La causa da cui promana l’incapacità deve essere di natura psichica consistendo in tutte le possibili psicosi, nevrosi, disordini della personalità o immaturità che agiscono disfunzialmente sul rapporto intelligenza/volontà del soggetto (cfr. Bianchi P. L’incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, in Ius Ecclesiae, 2002, pp. 655 – 676).

Deve essere, inoltre, antecedente e perpetua; dovrà sussistere al momento dello scambio del consenso e deve trattarsi di una radicale e sostanziale inettitudine e non invece solo di una temporanea indisponibilità sul piano dell’esercizio da parte di un soggetto peraltro radicalmente capace (cfr. Bianchi P., L’incapacità…op.cit.,p. 663).

Ciò premesso, volendo ricostruire la qualificazione data all’omosessualità, è bene ricordare che, in mancanza di una norma, sia nel Codex del 1983 che in quello precedente, che faccia espresso riferimento ad essa, è stata proprio la giurisprudenza a dover ricostruire il fenomeno. Per la verità la versione primitiva del canone 1095 del Codice vigente, elaborata in sede di lavori preparatori, prevedeva l’ipotesi di anomalie di carattere psicosessuale, nella quale si pensava così di fare rientrare l’omosessualità (cfr. Patruno F, L’omosessualità di un coniuge causa simulandi dell’altro. Una ricostruzione dell’omosessualità nel Magistero della Chiesa e nella giurisprudenza ecclesiastica. Note Minime., in Diritto ecclesiastico, 2002, 1, 52 ss.) .

Sennonché, tale originaria impostazione fu successivamente abbandonata, per le incertezze connesse al concetto di malattia od anomalia psicosessuale. La strada prescelta dal legislatore con l’attuale formulazione del canone 1095 è quella ritenuta più corretta, visto che rimette ogni questione all’opera dell’interprete e, dunque, dei giudici.

La giurisprudenza canonica, occupandosi delle anomalie sessuali, ha giudicato con severi e rigorosi criteri, valutando, di volta in volta, i casi nei quali l’individuo affetto da dette alterazioni, tra le quali rientrerebbe evidentemente l’omosessualità, sia incapace di esprimere un valido consenso.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce omosessualità la relazione tra uomini o donne che provano un’attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Tali atti sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale. (Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992, p.575).

La moderna scienza distingue: “Vi sono molte varietà di omosessualità; queste trapassano le une nelle altre senza limiti netti. I casi più schietti sono quelli di soggetti i quali ricercano soddisfacimento del loro erotismo soltanto nelle persone dello stesso sesso. Vengono poi quelli i quali trovano tale soddisfacimento tanto nelle persone del proprio sesso quanto in quelle di sesso opposto (bisessualità). Vi sono infine coloro che si danno a pratiche omosessuali soltanto quando sono nell’impossibilità materiale di avere rapporti con persone dell’altro sesso (omosessualità di circostanza), come avviene nelle carceri. In quest’ultimo caso non si può parlare, quindi, di vera omosessualità (Ferrio C., Trattato di psichiatria clinica forense, Torino 1970, pp. 1591-1592, 1604-1605).

Infatti, non di rado vi sono casi nei quali, a causa di prolungate condizioni di vita non miste, in carceri, collegi o caserme, si manifestano tendenze omosessuali in individui perfettamente eterosessuali, tendenze che possono rimanere confinate a livello meramente sentimentale e, dunque, latente, ovvero possono sbrigliarsi ed interessare organi genitali. Ad ogni modo, si tratta di situazioni meramente transitorie, destinate ad esaurirsi, il più delle volte, appena cessi la prolungata condizione di vita non mista. In siffatte evenienze, sembra ragionevole reputare che non ci si trovi dinanzi ad ipotesi di incapacità o vizio del consenso. In una coram Funghini del 1994 si legge in proposito che “Non omnes autem qui indulget activitati homosexuali eo ipso dicendi sunt veri homosexuales. Quidam enim tantum transeunter vel ex occasione homosexualiter agunt, ut qui, coacte viventes ad tempus cum personis eiusdem sexus (e. g. nautae, in carcere inclusi, milites, ephebei alumni, etc.) tantisper his utuntur in re sexuali in vicem subiectorum sexus; at, vitae consuetudine recte composita vel recuperata, iidem nefandum vitium funditus tollunt ipsoque vacant” (Coram Fungini, 19 dicembre 1994, in Monitor Ecclesiasticus 1996, pp. 33 ss).

Il bisessuale, poi, è un omosessuale che sente un impulso incoercibile ad avere rapporti sessuali con persone del proprio sesso e può avere anche rapporti con persone di sesso opposto. A tal proposito la giurisprudenza rotale distingue nettamente tra lo pseudo bisessuale, che agisce in modo onanistico e il cui comportamento non ha quindi rilevanza giuridica, dal bisessuale propriamente detto che è anzi un omosessuale (Liberati C., La rilevanza giuridica dell’omosessualità nella recente giurisprudenza rotale, Roma 1975, pp. 124-125). Nel bisessuale, infatti, assistiamo ad una difficoltà, e a volte ad una incapacità di accettare o di relazionarsi all’altro per quel che l’altro chiede, venendo questi piuttosto colto secondo criteri di utilità e convenienza.

Esistono, poi, gli omosessuali transitori durante l’età adolescenziale; solo il 5% di questi diverrà omosessuale per tutta la vita. Trattasi di acquisizioni ormai note e consolidate dei giudici della Chiesa: si afferma in una coram Stankiewicz 24 novembre 1983 che “utrum agatur de homosexualitate vera et primaria, quae inversione instinctus sexualis ordinis constitutionalis vel psichici distinguitur, an de illa occasionali (quae nonnumquam improprie dicitur etiam "pseudohomosexualitas"), quae ob elementa transitoria in locum heterosexualis vitae modi inseritur”.

Di qui l’utilità per la dottrina canonistica e la giurisprudenza rotale di richiamarsi, per qualificare un dato soggetto quale omosessuale vero, alla c.d. scala di Kinsey che consentirebbe di graduare le tendenze omosessuali di un individuo. E’ una scala classificatoria dei vari atteggiamenti dell’orientamento sessuale umano, fondato sui comportamenti e le fantasie dell’uomo, che è suddivisa in sette ordini di grandezze, da zero a sei; da un orientamento completamente diretto al sesso opposto (a cui si dà valore zero), attraverso gradi intermedi, si giunge all’orientamento sessuale indirizzato esclusivamente verso lo stesso sesso (a cui si dà classe sei) (Cfr. Patruno F., L’0mosessualità…op. cit., 52 ss.). La necessità di una tale graduazione appare in tutta la sua necessità dal fatto che con riguardo all’ultima classe è stata ritenuta dai giudici della Chiesa esservi incompatibilità con il matrimonio, poiché, invero, “si homosexualis status vel modus agendi, peritorum iudicio, incurabilis non est, tempore nuptiarum, non amplius loqui possumus de vera incapacitate onera adimplendi sed de inclinationibus, de dispositionibus quas inedia spiritualis, voluntatis inertia nondum uti debuerat rectificavit” (Coram Davino, 18 dicembre 1975). In altri termini, l’omosessuale esclusivo - corrispondente alla classe VI della scala del Kinsey - proprio perché spinto esclusivamente verso il proprio sesso, sarebbe radicalmente incapace di volere l’altro sesso: ciò farebbe sì che lo stesso debba riconoscersi come soggetto non in grado di porre in essere il matrimonio.

Non deve dimenticarsi, peraltro, che taluni soggetti che ne sono affetti (circa il 20% dei maschi omosessuali), contraggono comunque matrimonio con persone dell’altro sesso, mossi principalmente dalla segreta speranza che il matrimonio li guarisca dalla perversione ovvero per reazione alla condanna sociale che spesso costringe l’omosessuale ad assumere atteggiamenti di dissimulazione per la vergogna di venire scoperti e di infangare l’onore proprio e della famiglia. Tuttavia, se le esperienze erotico-sessuali sono anomale è ben difficile che una persona se ne possa liberare. Il matrimonio, dunque, per questi problemi non può considerarsi un valido rimedio od un’adeguata soluzione, poichè assai spesso li aggrava, facendo emergere tutte le psicosi ed i disordini di cui soffre un individuo (Cfr. Patruno F., L’0mosessualità…op. cit., 52 ss.).

E’ conosciuta ed assodata la dottrina che le finalità del matrimonio consistono nel bonum coniugum e nella procreazione ed educazione della prole. Se non si hanno le risorse per questo doppio fine, non si può contrarre un valido matrimonio.

Nella nosografia psichiatrica l’omosessualità non compare più nelle classificazioni internazionali delle malattie.

Anche la giurisprudenza rotale postconciliare non ha fatto più riferimento al n°1 del canone 1095 (mancanza di sufficiente uso di ragione) allorché ha dovuto prendere in esame casi di omosessualità.

Alcuni autori ritengono che i casi di omosessualità possono essere visti sotto il profilo del difetto grave di discrezione di giudizio (canone 1095 n°2). Tali autori sostengono che un soggetto, il cui sviluppo psico-affettivo presenti carenze tali da renderlo incapace all’instaurazione della communio vitae, non possa dirsi fornito della facoltà critica o di libertà di autodeterminazione sufficienti a porre in essere una valida scelta matrimoniale. (Silvestri P., La nullità del matrimonio canonico, Napoli, 2003, p. 346). La giurisprudenza ha riconosciuto come alla base di un tale difetto di discrezione di giudizio possa esservi una condizione omosessuale (S.R.R.D., coram Sabattini, 20 dicembre 1963, vol LV, p. 961).

In realtà la giurisprudenza ed in particolare quella postconciliare, allorché ha dovuto prendere in esame casi di omosessualità, ha fatto costantemente riferimento all’ipotesi prevista dal n. 3 del canone 1095 e concernente coloro che per cause di natura psichica non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.

Già negli anni ’70 tale indirizzo poteva dirsi ormai pacifico e consolidato in quanto l’omosessualità, non consentendo l’instaurazione di quella comunità di vita ed amore coniugale che costituisce la sostanza dell’istituto matrimoniale, viene a produrre nel soggetto che ne è affetto una vera e propria incapacità di far convergere il consenso matrimoniale su quello che ne costituisce lo specifico oggetto (cfr. coram Serrano, 6 maggio 1987, in R.R.Dec., 1987, pp.275 ss.).

Il soggetto omosessuale, in altre parole, essendo irresistibilmente attratto verso il suo stesso sesso, solo nel rapporto omosessuale potrà trovare pieno appagamento, essendo radicalmente incapace a dar vita ad un consortium vitae heterosexuale perpetuum et exclusivum allo scopo di costituire quell’intima communitas vitae et amoris coniugalis a Creatore condita suisque instructa di cui parla il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes (Gaudium et spes n°48), non soltanto dal punto di vista della conservazione dell’obbligo della fedeltà, ma anche del perseguimento di una unione armonicamente finalizzata alla procreazione ed educazione della prole ed al bene dei coniugi.

L’incapacità del soggetto omosessuale di contrarre un valido vincolo matrimoniale non attiene tanto ad un difetto di intelligenza o di volontà, quanto piuttosto all’incapacità del soggetto di donarsi all’altra parte da un punto di vista psicologico, rigettando così del coniuge la sua femminilità o mascolinità ed il suo carattere di persona.

L’ulteriore evoluzione giurisprudenziale, peraltro, emersa in talune pronunce è di ritenere incapace di contrarre un valido matrimonio anche l’omosessuale latente, poiché, si è osservato che la sua tendenza "sotterranea" potrà pur sempre emergere un domani, rendendo impossibile la vita coniugale (Coram Pinto, 23 novembre 1979, in Monitor Ecclesiasticus, 1980, n°105, vol. IV, p. 393). L’omosessualità latente, che esplode nell’ambito del matrimonio, può renderlo nullo, se risultano in essa i caratteri di gravità ed antecedenza esistenti al momento della celebrazione.

Non è, comunque, possibile stabilire un automatismo tra diagnosi dell’omosessualità e incapacità matrimoniale del soggetto. Questi, al contrario, va presunto capace e la valutazione contraria va semmai ricercata caso per caso (cfr. Bonnet P.A., Il giudice e la perizia, in AA.VV., L’immaturità psico-affettiva nella giurisprudenza della Rota Romana, Città del Vaticano 1999, p.57 ss.).

Ovviamente occorrerà verificarne la gravità in quanto non qualsiasi orientamento della pulsione e nemmeno qualsiasi comportamento omosessuale è suscettibile di mettere in discussione il matrimonio.

Dott. Matteo Forghieri

Il patto coniugale, delineato dal canone 1055 con il quale l’uomo e la donna costituiscono il consortium totius vitae, in quanto scelta di vita e risposta ad una vocazione personale, sorge da un libero atto di volontà cosciente e consapevole. Tutta la disciplina della Chiesa sul matrimonio ha il proprio cardine in quell’atto umano che prende il nome di consenso e che pone in essere lo stato di vita coniugale. Il consenso è l’elemento costitutivo del matrimonio; essendo atto interno e personale deve essere manifestato affinché le volontà dei due nubendi si possano incontrare in ordine alla costituzione dello stato di vita coniugale. Esso costituisce la manifestazione di una facoltà dell’uomo che, dopo una sufficiente deliberazione, si decida liberamente e spontaneamente a manifestare e a stabilire un impegno di una intima comunità di vita e di amore esclusiva, orientata al bene comune interpersonale e alla possibile procreazione ed educazione della prole (D’Auria A., Il matrimonio nel diritto della Chiesa, Roma 2003, pp. 37-38).

Questa definizione del consenso si ispira allo spirito e alla lettera del Concilio Vaticano II il quale, dopo avere affermato che l’intima comunità di vita e d’amore coniugale è stabilita dall’irrevocabile consenso personale, precisa che è dall’atto umano con il quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l’istituzione del matrimonio (Gaudium et spes, n° 48; cfr. anche Bersini F. Il nuovo diritto matrimoniale canonico, Torino 1983, pp. 16 – 18).

E’ evidente che i nubenti devono possedere la capacità naturale di esprimere un consenso valido. Infatti se il consenso è l’atto della volontà con cui essi danno vita al matrimonio, cosa succede se tale atto è interessato da difetti o mancanze che vanno ad incidere sulle facoltà intellettive e volitive che intervengono nel processo di formazione dell’atto umano consensuale?

Il canone 1095 del Codex Iuris Canonici, novità nel panorama legislativo canonico, formalizza i requisiti della capacità naturale dei contraenti che permette loro di esprimere un consenso che sia veramente un atto umano responsabile ed efficace giuridicamente. In altre parole la capacità, o meglio le ipotesi di incapacità qui previste, hanno di vista l’attitudine del soggetto di emettere il consenso nel suo processo logico di formazione e di obbligarsi all’oggetto del consenso medesimo (D’Auria A. Il matrimonio…op.cit, pp. 155-159).

La rapida evoluzione delle scienze psichiatriche nello scorso secolo e la conseguente maggiore sensibilità a queste problematiche anche nelle sentenze della Rota sono state di stimolo alla formulazione del canone in esame. Infatti durante i lavori di revisione del codice del 1917 si avvertì la necessità di una maggiore esplicitazione dei motivi di incapacità di contrarre matrimonio per vizio del consenso e, pertanto, di una canone a cui ricondurre le numerose fattispecie di cause matrimoniali fatte confluire ai Tribunali Ecclesiastici dal progresso delle suddette scienze (Giovanni Paolo II, Discorso alla S. Rota, 4 febbraio 1980, in AAS LXXII, 1980).

Il legislatore, nella formulazione del canone 1095 CIC, ha atteso maggiormente all’indole personalistica del matrimonio prevedendo che i contraenti nell’emettere il consenso matrimoniale siano forniti della debita scienza e della libera volontà (Bersini F., Il matrimonio…op. cit, p. 79).

Il canone così recita: Sono incapaci a contrarre matrimonio: 1) coloro che mancano di sufficiente uso di ragione; 2) coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente; 3) coloro che per cause di natura psichica, non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.

I nn° 2 e 3, ossia il grave difetto di discrezione di giudizio e la incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, a cui la giurisprudenza canonica ha fatto sempre più spesso riferimento nell’esaminare i casi di omosessualità, occupano in modo preponderante l’attività dei tribunali delle chiese particolari (cfr. Annuarium statisticom Ecclesiae, 1996, Città del Vaticano, p. 452) ma anche della Rota Romana (cfr. Stankiewicz A., Il contributo della giurisprudenza rotale al “defectus usus rationis et discretionis iudicii”: gli ultimi sviluppi e le prospettive nuove, in Monitor Ecclesticus, 2000, pp.332 ss.).

Con il canone 1095 2° si recepisce nel Codice un nuovo capitolo di nullità già presente però nella giurisprudenza canonica, secondo il quale, per emettere un valido consenso matrimoniale, non basta il sufficiente uso di ragione per comprendere la natura e le conseguenze dell’atto, ma si richiede altresì una discrezione di giudizio o maturità personale per mezzo della quale i contraenti siano in grado di comprendere, ponderare e valutare criticamente ciò che liberamente scelgono. Ciò a cui si fa riferimento è quel grado sufficiente di discernimento relativo all’oggetto del matrimonio e all’insieme delle responsabilità o doveri che lo identificano rispetto ad altri stati di vita (D’Auria A., Il matrimonio…op. cit., pp. 166-167).

Rientrano in questa ipotesi tutte le forme gravi di nevrosi e psicopatie e in genere tutti i disturbi psichici che siano al limite tra il patologico e il normale e che compromettono l’affettività e la volontà. Non si tratta propriamente di malattie quanto, piuttosto, di modalità abnormi di reagire acutamente o cronicamente ad esperienze interiori o a circostanze esterne sfavorevoli. Il loro processo non è organico e non altera il funzionamento del cervello ma quello del sistema nervoso (Bersini F., Il nuovo…op. cit., pp. 78-79).

Non ogni tipo di alterazione rende invalido il matrimonio, ma solo quella che turba la vita interiore e priva la persona della sufficiente capacità di una elezione libera e ponderata necessaria per un contratto così impegnativo quale è il matrimonio. (cfr. SRR Decisiones, vol. 60 p. 823 ss., sent. 7 dicembre 1968, coram Lefebvre). Infatti la discrezione di giudizio comporta la capacità intrinseca naturale di essere responsabile e imputabile giuridicamente dell’atto che si compie. E’ inconcepibile che un individuo possa volere ciò che non può valutare nel suo pieno valore e contenuto.

La discrezione di giudizio consta di due elementi distinti ma concorrenti e interdipendenti: la piena avvertenza e il deliberato consenso. Solo quando egli è capace della piena comprensione morale e giuridica dell’atto che compie e della perfetta libertà di elezione e deliberazione nel volerlo ed attuarlo, si può dire che egli l’abbia posto in essere con la piena avvertenza e il deliberato consenso (Bersini F., Il nuovo…op. cit., pp. 80-82). Oggetto della discrezione di giudizio sono i diritti e doveri essenziali del matrimonio per cui sarà grave quel difetto di discrezione di giudizio che renda il consenso inadeguato a tale oggetto nel singolo caso. In altre parole il termine grave non fa riferimento al disturbo ma all’effetto terminale di quel disturbo sul soggetto concreto che non è più in grado di discernere con il suo intelletto e di impegnarsi con la sua volontà alla donazione–accettazione dei diritti/doveri propri del matrimonio.

Il canone 1095 n° 3 completa il quadro con l’incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio per cause di natura psichica.

Il principio sotteso a questa fattispecie è che il consenso deve proiettarsi sull’oggetto matrimoniale; in caso contrario l’atto consensuale sarebbe un atto privo di contenuto proprio e specifico. Non si guarda più al processo di formazione del consenso e alla capacità del contraente di compiere un atto umano e un atto consensuale, ma alla sua capacità, al momento della prestazione del consenso, di potersi assumere e di potere compiere le obbligazioni che scaturiscono dal patto (D’Auria A., Il matrimonio...op.cit., pp. 173 – 174).

L’espressione assumere che il codice usa si riferisce a quell’aspetto della volontarietà del consenso che consiste nel farsi carico di quegli atti e di quei comportamenti che promanano dal patto coniugale, obbligandosi a portarli a compimento. Le obbligazioni essenziali che sorgono dal vincolo coniugale sono quelle che appartengono all’oggetto verso cui si dirige la volontà consensuale e che definiscono il consortium totius vitae: l’integrazione personale nella comunità di vita coniugale, l’accettazione della prole e la sua educazione, la salvaguardia dell’unità del vincolo e la fedeltà ad esso.

La causa da cui promana l’incapacità deve essere di natura psichica consistendo in tutte le possibili psicosi, nevrosi, disordini della personalità o immaturità che agiscono disfunzialmente sul rapporto intelligenza/volontà del soggetto (cfr. Bianchi P. L’incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, in Ius Ecclesiae, 2002, pp. 655 – 676).

Deve essere, inoltre, antecedente e perpetua; dovrà sussistere al momento dello scambio del consenso e deve trattarsi di una radicale e sostanziale inettitudine e non invece solo di una temporanea indisponibilità sul piano dell’esercizio da parte di un soggetto peraltro radicalmente capace (cfr. Bianchi P., L’incapacità…op.cit.,p. 663).

Ciò premesso, volendo ricostruire la qualificazione data all’omosessualità, è bene ricordare che, in mancanza di una norma, sia nel Codex del 1983 che in quello precedente, che faccia espresso riferimento ad essa, è stata proprio la giurisprudenza a dover ricostruire il fenomeno. Per la verità la versione primitiva del canone 1095 del Codice vigente, elaborata in sede di lavori preparatori, prevedeva l’ipotesi di anomalie di carattere psicosessuale, nella quale si pensava così di fare rientrare l’omosessualità (cfr. Patruno F, L’omosessualità di un coniuge causa simulandi dell’altro. Una ricostruzione dell’omosessualità nel Magistero della Chiesa e nella giurisprudenza ecclesiastica. Note Minime., in Diritto ecclesiastico, 2002, 1, 52 ss.) .

Sennonché, tale originaria impostazione fu successivamente abbandonata, per le incertezze connesse al concetto di malattia od anomalia psicosessuale. La strada prescelta dal legislatore con l’attuale formulazione del canone 1095 è quella ritenuta più corretta, visto che rimette ogni questione all’opera dell’interprete e, dunque, dei giudici.

La giurisprudenza canonica, occupandosi delle anomalie sessuali, ha giudicato con severi e rigorosi criteri, valutando, di volta in volta, i casi nei quali l’individuo affetto da dette alterazioni, tra le quali rientrerebbe evidentemente l’omosessualità, sia incapace di esprimere un valido consenso.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce omosessualità la relazione tra uomini o donne che provano un’attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Tali atti sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale. (Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992, p.575).

La moderna scienza distingue: “Vi sono molte varietà di omosessualità; queste trapassano le une nelle altre senza limiti netti. I casi più schietti sono quelli di soggetti i quali ricercano soddisfacimento del loro erotismo soltanto nelle persone dello stesso sesso. Vengono poi quelli i quali trovano tale soddisfacimento tanto nelle persone del proprio sesso quanto in quelle di sesso opposto (bisessualità). Vi sono infine coloro che si danno a pratiche omosessuali soltanto quando sono nell’impossibilità materiale di avere rapporti con persone dell’altro sesso (omosessualità di circostanza), come avviene nelle carceri. In quest’ultimo caso non si può parlare, quindi, di vera omosessualità (Ferrio C., Trattato di psichiatria clinica forense, Torino 1970, pp. 1591-1592, 1604-1605).

Infatti, non di rado vi sono casi nei quali, a causa di prolungate condizioni di vita non miste, in carceri, collegi o caserme, si manifestano tendenze omosessuali in individui perfettamente eterosessuali, tendenze che possono rimanere confinate a livello meramente sentimentale e, dunque, latente, ovvero possono sbrigliarsi ed interessare organi genitali. Ad ogni modo, si tratta di situazioni meramente transitorie, destinate ad esaurirsi, il più delle volte, appena cessi la prolungata condizione di vita non mista. In siffatte evenienze, sembra ragionevole reputare che non ci si trovi dinanzi ad ipotesi di incapacità o vizio del consenso. In una coram Funghini del 1994 si legge in proposito che “Non omnes autem qui indulget activitati homosexuali eo ipso dicendi sunt veri homosexuales. Quidam enim tantum transeunter vel ex occasione homosexualiter agunt, ut qui, coacte viventes ad tempus cum personis eiusdem sexus (e. g. nautae, in carcere inclusi, milites, ephebei alumni, etc.) tantisper his utuntur in re sexuali in vicem subiectorum sexus; at, vitae consuetudine recte composita vel recuperata, iidem nefandum vitium funditus tollunt ipsoque vacant” (Coram Fungini, 19 dicembre 1994, in Monitor Ecclesiasticus 1996, pp. 33 ss).

Il bisessuale, poi, è un omosessuale che sente un impulso incoercibile ad avere rapporti sessuali con persone del proprio sesso e può avere anche rapporti con persone di sesso opposto. A tal proposito la giurisprudenza rotale distingue nettamente tra lo pseudo bisessuale, che agisce in modo onanistico e il cui comportamento non ha quindi rilevanza giuridica, dal bisessuale propriamente detto che è anzi un omosessuale (Liberati C., La rilevanza giuridica dell’omosessualità nella recente giurisprudenza rotale, Roma 1975, pp. 124-125). Nel bisessuale, infatti, assistiamo ad una difficoltà, e a volte ad una incapacità di accettare o di relazionarsi all’altro per quel che l’altro chiede, venendo questi piuttosto colto secondo criteri di utilità e convenienza.

Esistono, poi, gli omosessuali transitori durante l’età adolescenziale; solo il 5% di questi diverrà omosessuale per tutta la vita. Trattasi di acquisizioni ormai note e consolidate dei giudici della Chiesa: si afferma in una coram Stankiewicz 24 novembre 1983 che “utrum agatur de homosexualitate vera et primaria, quae inversione instinctus sexualis ordinis constitutionalis vel psichici distinguitur, an de illa occasionali (quae nonnumquam improprie dicitur etiam "pseudohomosexualitas"), quae ob elementa transitoria in locum heterosexualis vitae modi inseritur”.

Di qui l’utilità per la dottrina canonistica e la giurisprudenza rotale di richiamarsi, per qualificare un dato soggetto quale omosessuale vero, alla c.d. scala di Kinsey che consentirebbe di graduare le tendenze omosessuali di un individuo. E’ una scala classificatoria dei vari atteggiamenti dell’orientamento sessuale umano, fondato sui comportamenti e le fantasie dell’uomo, che è suddivisa in sette ordini di grandezze, da zero a sei; da un orientamento completamente diretto al sesso opposto (a cui si dà valore zero), attraverso gradi intermedi, si giunge all’orientamento sessuale indirizzato esclusivamente verso lo stesso sesso (a cui si dà classe sei) (Cfr. Patruno F., L’0mosessualità…op. cit., 52 ss.). La necessità di una tale graduazione appare in tutta la sua necessità dal fatto che con riguardo all’ultima classe è stata ritenuta dai giudici della Chiesa esservi incompatibilità con il matrimonio, poiché, invero, “si homosexualis status vel modus agendi, peritorum iudicio, incurabilis non est, tempore nuptiarum, non amplius loqui possumus de vera incapacitate onera adimplendi sed de inclinationibus, de dispositionibus quas inedia spiritualis, voluntatis inertia nondum uti debuerat rectificavit” (Coram Davino, 18 dicembre 1975). In altri termini, l’omosessuale esclusivo - corrispondente alla classe VI della scala del Kinsey - proprio perché spinto esclusivamente verso il proprio sesso, sarebbe radicalmente incapace di volere l’altro sesso: ciò farebbe sì che lo stesso debba riconoscersi come soggetto non in grado di porre in essere il matrimonio.

Non deve dimenticarsi, peraltro, che taluni soggetti che ne sono affetti (circa il 20% dei maschi omosessuali), contraggono comunque matrimonio con persone dell’altro sesso, mossi principalmente dalla segreta speranza che il matrimonio li guarisca dalla perversione ovvero per reazione alla condanna sociale che spesso costringe l’omosessuale ad assumere atteggiamenti di dissimulazione per la vergogna di venire scoperti e di infangare l’onore proprio e della famiglia. Tuttavia, se le esperienze erotico-sessuali sono anomale è ben difficile che una persona se ne possa liberare. Il matrimonio, dunque, per questi problemi non può considerarsi un valido rimedio od un’adeguata soluzione, poichè assai spesso li aggrava, facendo emergere tutte le psicosi ed i disordini di cui soffre un individuo (Cfr. Patruno F., L’0mosessualità…op. cit., 52 ss.).

E’ conosciuta ed assodata la dottrina che le finalità del matrimonio consistono nel bonum coniugum e nella procreazione ed educazione della prole. Se non si hanno le risorse per questo doppio fine, non si può contrarre un valido matrimonio.

Nella nosografia psichiatrica l’omosessualità non compare più nelle classificazioni internazionali delle malattie.

Anche la giurisprudenza rotale postconciliare non ha fatto più riferimento al n°1 del canone 1095 (mancanza di sufficiente uso di ragione) allorché ha dovuto prendere in esame casi di omosessualità.

Alcuni autori ritengono che i casi di omosessualità possono essere visti sotto il profilo del difetto grave di discrezione di giudizio (canone 1095 n°2). Tali autori sostengono che un soggetto, il cui sviluppo psico-affettivo presenti carenze tali da renderlo incapace all’instaurazione della communio vitae, non possa dirsi fornito della facoltà critica o di libertà di autodeterminazione sufficienti a porre in essere una valida scelta matrimoniale. (Silvestri P., La nullità del matrimonio canonico, Napoli, 2003, p. 346). La giurisprudenza ha riconosciuto come alla base di un tale difetto di discrezione di giudizio possa esservi una condizione omosessuale (S.R.R.D., coram Sabattini, 20 dicembre 1963, vol LV, p. 961).

In realtà la giurisprudenza ed in particolare quella postconciliare, allorché ha dovuto prendere in esame casi di omosessualità, ha fatto costantemente riferimento all’ipotesi prevista dal n. 3 del canone 1095 e concernente coloro che per cause di natura psichica non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.

Già negli anni ’70 tale indirizzo poteva dirsi ormai pacifico e consolidato in quanto l’omosessualità, non consentendo l’instaurazione di quella comunità di vita ed amore coniugale che costituisce la sostanza dell’istituto matrimoniale, viene a produrre nel soggetto che ne è affetto una vera e propria incapacità di far convergere il consenso matrimoniale su quello che ne costituisce lo specifico oggetto (cfr. coram Serrano, 6 maggio 1987, in R.R.Dec., 1987, pp.275 ss.).

Il soggetto omosessuale, in altre parole, essendo irresistibilmente attratto verso il suo stesso sesso, solo nel rapporto omosessuale potrà trovare pieno appagamento, essendo radicalmente incapace a dar vita ad un consortium vitae heterosexuale perpetuum et exclusivum allo scopo di costituire quell’intima communitas vitae et amoris coniugalis a Creatore condita suisque instructa di cui parla il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes (Gaudium et spes n°48), non soltanto dal punto di vista della conservazione dell’obbligo della fedeltà, ma anche del perseguimento di una unione armonicamente finalizzata alla procreazione ed educazione della prole ed al bene dei coniugi.

L’incapacità del soggetto omosessuale di contrarre un valido vincolo matrimoniale non attiene tanto ad un difetto di intelligenza o di volontà, quanto piuttosto all’incapacità del soggetto di donarsi all’altra parte da un punto di vista psicologico, rigettando così del coniuge la sua femminilità o mascolinità ed il suo carattere di persona.

L’ulteriore evoluzione giurisprudenziale, peraltro, emersa in talune pronunce è di ritenere incapace di contrarre un valido matrimonio anche l’omosessuale latente, poiché, si è osservato che la sua tendenza "sotterranea" potrà pur sempre emergere un domani, rendendo impossibile la vita coniugale (Coram Pinto, 23 novembre 1979, in Monitor Ecclesiasticus, 1980, n°105, vol. IV, p. 393). L’omosessualità latente, che esplode nell’ambito del matrimonio, può renderlo nullo, se risultano in essa i caratteri di gravità ed antecedenza esistenti al momento della celebrazione.

Non è, comunque, possibile stabilire un automatismo tra diagnosi dell’omosessualità e incapacità matrimoniale del soggetto. Questi, al contrario, va presunto capace e la valutazione contraria va semmai ricercata caso per caso (cfr. Bonnet P.A., Il giudice e la perizia, in AA.VV., L’immaturità psico-affettiva nella giurisprudenza della Rota Romana, Città del Vaticano 1999, p.57 ss.).

Ovviamente occorrerà verificarne la gravità in quanto non qualsiasi orientamento della pulsione e nemmeno qualsiasi comportamento omosessuale è suscettibile di mettere in discussione il matrimonio.

Dott. Matteo Forghieri