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Il Diritto tra relativismo ed esistenzialismo

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Il Diritto tra relativismo ed esistenzialismo

Le riflessioni che seguono si concentrano sul “presupposto” dell’ordinamento giuridico, in grado di fornire la prospettiva corretta e l’angolo di osservazione dei fenomeni che si vanno ad illustrare, e precisamente il diritto.

Fenomeno di astrazione giuridica preesistente ad ogni norma, coinvolge e sposta naturalmente l’attenzione sul relativismo.

Si tratta di un concetto che ha radici lontane, complesso e poliedrico, che ha attirato l’attenzione degli studiosi di differenti discipline, come Papa Benedetto XVI, uno dei più autorevoli.

Partiamo da Otto von Gierke in Das Deutsche Genossenschaftrecht (cooperative tedesche di diritto commerciale) che criticando la teoria della recezione del diritto romano nella cultura giuridica germanica, Recht und Sittlichkeit (diritto e moralità), sostiene che la società s’incarna quotidianamente nelle norme e istituzioni e che esse provocano una costante tensione emotiva; la positività di questa tensione può essere garantita da una visione etica del bene comune.

Come sostiene Josef Ratzingher, l’etica giuridica è sostituita da un nuovo moralismo, più vago e incerto, che scivola nell’alveo della “società liquida”, ben descritta da Zygmund Bauman.

Ecco che il relativismo non poteva non produrre conseguenze anche nell’ambito della prassi giuridica e della visione etica della società, infine della responsabilità. Nel collegamento che si genera tra relativismo e diritto, ogni relativismo è la negazione di qualunque ipotesi di ricerca di una verità oggettiva e immutabile.

Il diritto esprime sempre, invece, un’esigenza di certezza, cioè la possibilità di definire in modo chiaro i contenuti della norma positiva. La certezza del diritto, quale garanzia dei cittadini che incarnano l’essenza del diritto stesso, entra in risonanza con l’ortodossia relativista, che si fonda sul “dubbio”, l’elemento protagonista di tutti i processi della conoscenza e della scienza, compreso quello relativo alla norma giuridica, alla percezione della sua esistenza, alla possibilità di ricondurla ad un’interpretazione univoca.

Ma allora qual è la fonte ultima di un sistema giuridico formalmente valido? Se si contempla una visione filosofica e antropologica che neghi l’esistenza di verità oggettive ed immutabili, si opera una “frammentazione della ragione”, di cui scrive Stephen Stich. Ma come può il sistema giuridico, consolidato nella struttura formale di Kelsen, evitare di subire questo processo di frammentazione ma anche di svalutazione da parte dei consociati? Queste riflessioni “aperte”, che non hanno risposte ma sollevano spunti critici, non hanno solo una dimensione teoretica, che ben si esprime con il concetto di “fede”, ma si manifestano nel dibattito contemporaneo anche come problemi concreti, che interessano l’opinione pubblica per le implicazioni politiche, sociologiche, economiche e finanziarie.

Ma tornando alla dimensione teoretica, si tenta una strada non più razionale ma trascendente per motivare certe scelte decisionali.

La fede di un uomo non credo possa costituire un sedativo, un analgesico contro le sofferenze che il tempo fa emergere, ma credo costituisca l’essenza stessa dell’uomo, che non trova risposte ai suoi disagi, ma che se anche le avesse individuate non riuscirebbe ad interpretarle. Si potrebbe pensare, così, ad una “fede sociale”, un’entità spirituale che non rappresenta l’unione delle fedi individuali, ma una nuova identità collettiva, in grado di confrontarsi con il divenire delle cose, degli eventi; quindi, può risultare fuorviante rispetto alla fede dogmatica. Il perché la società si orienti verso una direzione anziché un’altra può avere un senso logico, anche se molto spesso non viene compreso, o meglio viene erroneamente interpretato.

Dostoevskij, in Memorie dal Sottosuolo, ci propone il concetto di “razionalità” come “una bella cosa, ma la razionalità è solo la razionalità e soddisfa soltanto la facoltà ragionativa”, mentre < “il volere” è l’espressione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana che comprende la ragione, ma anche tutti i veri capricci. È del tutto naturale che io voglia vivere per soddisfare tutte le mie capacità di vivere e non per soddisfare solo la mia capacità ragionativa, cioè come un ventesimo della mia capacità di vivere >.

La vita non si può riassumere “nell’estrazione di una radice quadrata” e non si può accettare la supposizione che l’uomo debba necessariamente volere ciò che è sensatamente vantaggioso. Dostoevskij sostiene, inoltre, che “l’uomo ha bisogno soltanto di essere indipendente nella sua volontà di scelta, qualunque prezzo abbia la sua indipendenza e ovunque lo conduca, mandando al diavolo i logaritmi”. Per questi motivi, l’uomo, sempre e ovunque, chiunque esso sia, ama agire come vuole e non come consigliano la ragione e l’interesse; perché si può volere anche ciò che è contrario al proprio vantaggio ma a volte è positivamente indispensabile”. Coloro che vogliono condurre l’umanità all’obbedienza razionale incondizionata dovranno fare i conti con queste considerazioni di fondo; potranno imporla solo usando la forza, che non si è mai rivelata decisiva, anzi, l’esatto contrario.

La felicità indotta, come sostiene Byung-Chul Han, è un meccanismo tipico di una società algofobica, che ha paura del dolore e lo ritiene “del tutto insensato e inutile”. L’analgesia sociale è un fenomeno che soffoca il dolore, lo medicalizza, lo rende un fattore puramente tecnico, rendendo l’individuo incapace di accettare la sofferenza come una componente inevitabile del suo essere nel mondo. Ivan Illich (in Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, 1977, p. 150), sostiene che la medicalizzazione del dolore diviene un fattore di economia politica, traducendosi nella crescente domanda di farmaci, servizi medici e di cura.

In una società anestetizzata occorrono stimoli sempre più forti perché si abbia il senso di essere vivi; per cui droga, sesso, violenza, velocità… sono stimolanti da utilizzare in dosi crescenti per suscitare l’esperienza dell’io.

Marcel Proust nella sua Recherche sostiene che “si guarisce da una sofferenza solo a condizione di sperimentarla pienamente”.

Quindi, per concludere questo ragionamento propedeutico a ciò che si dirà oltre, la felicità artificiale indotta dalle scienze biomediche, cioè dagli psicofarmaci, dall’esercizio fisico ossessivo, dalle psicoterapie, dai potenziatori chimici dell’umore, presuppone la semplificazione della duplicità e complessità dell’essere umano e la sua riduzione ad un meccanismo biochimico, quindi ad una schiavitù farmacologica.

Ma andiamo oltre e completiamo il quadro della situazione allargando l’angolo di osservazione.

Le scuole di fenomenologia ed esistenzialismo che annoverano tra i loro iniziatori Edmund Husserl (Prossnitz, Moravia, 1859 - Friburgo, Brisgovia, 1938) e Martin Heidegger (Messkirch, Baden-Württenberg, 1889 - 1976) tentano di dare una spiegazione filosofica attraverso l’intuizione empirica, eidetica della psicologia descrittiva, fornendoci un riferimento teorico-partico per inquadrare da un altro punto di vista l’antagonismo “diritto-fede”. Ma è Karl Jaspers (Oldenburg 1883 - Basilea 1969) che ci può offrire un’interpretazione filosofica più vicina al paradigma diritto-fede.

Husserl, nella sua ultima opera, La crisi delle scienze europee, analizza la fase di declino della società occidentale indotta dalla crisi delle scienze moderne, colpevoli di affidarsi ad una conoscenza ingenuamente naturalistica, incapace di cogliere il senso vero delle cose. Il naturalismo fisico-matematico delle scienze moderne si appoggia sulla convinzione che la natura sia una realtà originaria, mentre essa, secondo Husserl, è solo una costruzione della coscienza, il risultato della costituzione creativa da parte degli atti intenzionali della coscienza pura.

Al mondo oggettivo di cui si occupano le scienze Husserl oppone il mondo della vita, costituito da esperienze vissute. Recuperando, pertanto, il legame tra sapere e vita, l’uomo può attingere una visione unitaria e razionale della realtà, restituendo alla scienza un senso ed uno scopo universali.

Martin Heidegger è il maggiore rappresentante dell’esistenzialismo tedesco, insieme a Jaspers ed è anche il filosofo che si fa carico della crisi dei valori annunciata da Nietzsche, in vista di una complessa ricerca sul senso dell’essere e sulle fonti del pensiero occidentale.

In Essere e tempo, opera che ha fondato l’esistenzialismo, Heidegger ricerca il significato dell’essere, che la filosofia occidentale ha smarrito a partire da Platone. Heidegger propone un’ontologia (scienza dell’essere) che sia in grado di riformulare la domanda che cos’è l’essere e ritiene che sia proprio l’uomo, in quanto esistente, a dover essere interrogato. Egli applica il metodo fenomenologico Husserl all’indagine sull’esistenza umana. L’esistenzialismo è, infatti, quella filosofia che ha come oggetto l’uomo nella sua esistenza, così come per Husserl la coscienza è sempre intenzionale, per Heidegger l’esistenza umana è intenzionalità pura, in quanto è sempre un tendere verso il mondo. In senso più specifico, l’esistenza dell’uomo si definisce attraverso due relazioni fondamentali, la relazione con il mondo delle cose e la relazione con il mondo degli uomini.

L’uomo è infatti un’entità particolare, poiché il suo modo costitutivo di essere è quello di essere nel mondo; ma questo suo esserci, proprio perché si identifica attraverso le relazioni, non è passivo; infatti, l’uomo non solo è nel mondo, ma è anche aperto al mondo, in quanto vi abita e ne ha cura. L’essere nel mondo dell’uomo si caratterizza per l’apertura originaria della comprensione dell’essere che si manifesta in due modi. Il primo è prendersi cura delle cose, l’apertura al significato delle cose, alla sollecitudine nei loro confronti che rappresenta un sentimento rivelatore della nostra struttura ontologica. Il secondo è aver cura degli altri; contro il solipsismo, che considera l’io quale unica realtà esistente, Heidegger afferma che l’esistenza dell’uomo è un essere con altri, cioè è aperta alla relazione con le altre persone.

Siccome il modo di esistere dell’uomo è l’esserci, il mondo degli oggetti con cui entra in contatto non è fatto di semplici presenze, di punti distribuiti nello spazio e nel tempo come vorrebbe la scienza, ma di strumenti che entrano in relazione con lui, la loro realtà coincide con la loro fruibilità.

Anche l’elemento temporale entra in gioco, qualificando la convinzione filosofica di Heidegger. Infatti, egli ritiene determinante per l’essere la sua storicità proiettata verso il futuro, cioè come se il presente non esistesse, ma fosse solo una successione di istanti tra ciò che invece è stato e sarà. In sostanza egli sostiene che non riusciamo a “essere” nel presente, ma solo nel transito passato-futuro; l’attimo che noi percepiamo come presente è già passato; quindi, la proiezione dell’essere si rivolge al futuro. È come se la percezione dell’esistenza fosse appoggiata sopra un nastro trasportatore, che scorre senza sosta, nel quale non riusciamo ad identificare e fissare l’attimo che rappresenterebbe la dimensione statica, ma possiamo solo constatarne il divenire continuo, che fa di ogni istante il suo “passato-futuro”.

Infine, Karl Jaspers, giurista e medico, sviluppa come punto di partenza la definizione degli ambiti e delle competenze di scienza e filosofia. Egli afferma che la scienza applica schemi quantitativi e categorie esatte per avere conoscenza degli oggetti nel mondo, ma non può aspirare alla conoscenza dell’essere. La filosofia, invece, è una chiarificazione dell’esistenza, comprensione del mondo come insieme, ricerca dell’essere come assoluto attraverso paradigmi speculari rispetto alla fede.

L’esistenza, per Jaspers, è sempre situata nel mondo, con riferimento ad un preciso momento storico e luogo determinati, mentre l’essere è sempre trascendente, cioè esprime un concetto spirituale. Essendo l’esistenza condizionata dalla situazione storica, essa si manifesta come incompleta, rimanendo chiusa nella propria situazione e nella propria verità, mancando il rapporto con il trascendente, che invece viene espresso con l’essere. Quando l’uomo affronta i sentimenti come il dolore, la lotta, la morte si scontra con qualcosa che lo trascende e che conduce al naufragio di tutte le sue possibilità. Quindi, è proprio in queste situazioni che l’esistenza si apre alla trascendenza; cioè, l’uomo, riconoscendo i suoi limiti, caratterizzati dalla finitezza, che definiscono gli ambiti delle sue possibilità, può finalmente cogliere l’essere trascendente, dando risposte non più razionali al suo essere ma spirituali, in senso filosofico o religioso.

Entrambi i profili sono proiettati verso i fenomeni trascendenti, quindi infiniti. Tutto ciò dimostra che l’uomo, a differenza degli animali, ha un’anima che agisce come un veicolo verso ciò che l’uomo non conosce, ma può solo immaginare. Infatti, a parere di chi scrive, l’immaginazione è tutto ciò che manca alla conoscenza per tendere alla sapienza, al sapere.

Si può, dunque, affermare convintamente che governare i fenomeni giuridici ed economici non vuol dire dare risposte e certezze, come se fossero essenza, ma interrogarsi sui dubbi e sulle perplessità che si manifestano, osservando i problemi sempre da punti di vista differenti, evitando quelle opacità e superficialità con cui ci confrontiamo troppo spesso, lasciando agire l’essere. Bisogna costruire, pertanto, nelle dinamiche sociali quei comportamenti virtuosi che tengano in equilibrio le scelte, le opportunità e infine le decisioni, ma lasciando sempre la porta aperta alle condizioni che creano il cambiamento. Niente è finito una volta normato, tutto è in divenire. L’unica cosa certa è che tutto cambia.