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Immagine e depressione

Simone Biles a Rio de Janeiro
Simone Biles a Rio de Janeiro

In quel memorabile libro che è Introduzione al cristianesimo (1968), Joseph Ratzinger scrive che «il senso, che uno si costruisce da sé, in ultima analisi non è nemmeno un senso. Il senso, ossia il terreno su cui la nostra esistenza nella sua interezza può stare salda e vivere, non può essere fatto, ma solo ricevuto»1.

Dietro alle fragilità delle due atlete olimpiche più attese, Naomi Osaka e Simone Biles, eroine inter-nazionali, si nasconde un problema culturale che questa società non è ancora in grado di affrontare: la tecnica e il dominio incontrastato dell’immagine, questione capitale che si collega all’assolutizzazione dell’io. La tecnica, che nasce come prodotto dell’uomo, ha oggi trasformato l’uomo in un prodotto della tecnica. Le immagini che postiamo con tanta ingenuità e leggerezza sui social non sono semplici “contenuti”, innocui prolungamenti dell’ego. Sono il nostro stesso ego. Voi direte: quello visibile. Certamente, a patto che il nostro tempo riesca ancora a pensare l’io nella sfera dell’invisibile.

Non è un caso se i più illustri pensatori della contemporaneità si sono interrogati sul legame profondo tra le immagini e l’ego. Dall’idolo (gr. εἴδωλον, simulacro o figura) di Feuerbach e Nietzsche all’ego sum ego cogito cartesiano ripensato da Husserl (in foto) e Heidegger. Questi ancora non potevano vedere il passaggio dall’analogico al digitale, dalla macchina come strumento alla macchina in quanto fine.

Pur non potendo assistere a questo passaggio, quei filosofi hanno comunque analizzato sotto altre categorie la fusione totale (confusione) tra l’uomo – il soggetto, o ego – e la sua immagine. I casi di Osaka e Biles sono solo gli ultimi esempi di questo affascinante e insieme inquietante problema. Va da sé che la popolarità di queste due atlete, anziché attutire la questione, l’ha amplificata ulteriormente. Come un prisma che filtrando la luce produce infiniti colori.

L’unica forma sotto la quale siamo in grado di affrontare un discorso così delicato come quello della depressione è appunto quello dell’immagine. Osaka perde, la stampa ne approfitta (tanto da dedicargli, come se non bastasse, una fenomenologia). Biles si ritira, e la stampa ripesca dal cilindro antiche fantasie (e facili letture). Tutte unite (come nel caso della Osaka) da una parolina magica e intoccabile: depressione. Un termine che decontestualizzato vuol dire tutto e niente, soprattutto in un tempo che non è più in grado di pesare (e pensare) le parole.

Come già scriveva Heidegger nel 1941, «il nostro rapporto con la lingua, con i vocaboli e con la parola da molto tempo è nebuloso, indeterminato, non fondato. La lingua è una cosa semplicemente presente». Ovvero, la lingua è uno strumento, neanche troppo importante, del nostro vivere quotidiano. È bene accorciare i concetti – vedi Twitter e Facebook –, o addirittura farne a meno – vedi Instagram, dove le immagini hanno definitivamente soppiantato il linguaggio scritto. Un pensiero articolato richiede un linguaggio articolato. Il linguaggio complica le cose, le immagini le semplificano. Anche troppo.

Osaka e Biles non sono le prime atlete della storia a manifestare un malessere psicofisico di una certa importanza, ma sono quelle più esposte mediaticamente (insieme contano, solo su Instagram, oltre sette milioni di follower). Il fatto che Naomi Osaka abbia utilizzato i social per denunciare la propria sofferenza all’iper-esposizione mediatica dovrebbe far riflettere. È un cane che si morde la coda. Il culmine è stato toccato il 16 luglio con il lancio del documentario Netflix a lei dedicato. Il sottotitolo parla da solo: «playing by her own rules». Ancora una volta l’ego al centro dello show, o meglio l’ego in quanto show. Uno spettacolo sul nulla è uno spettacolo destinato ad avere grande successo.

Il malessere psicofisico è un tema che ci riguarda tutti. La pandemia ha accelerato un processo già in atto, certificando un problema diffuso soprattutto tra i più giovani. I quali non sanno (la Osaka come la Biles fanno parte della Generazione Z, quella cresciuta a pane e social) come affrontarlo. Qui sta il punto fondamentale. Diversi studi (vedi ad esempio qui e qui) confermano il legame tra social network – esposizione della propria immagine, sotto varie forme – e depressione.

In questo senso, contrariamente a quanto afferma Raj Tawney, la depressione della Osaka non ha posto alcun interrogativo sul legame tra social e depressione, o angoscia, costantemente in crescita soprattutto tra i più giovani – ovvero coloro che vivono di social network. Anziché aprire il dibattito sul tema, la “confessione” social della Osaka l’ha chiuso anzitempo. La sua parola – non questionabile, perché appunto sua – è troppo pesante per essere pesata. In un mondo che ci vuole monadi, ogni opinione è dogma. E il monologo è l’unica forma di dialogo possibile.

Sfruttiamo allora questo spazio protetto per alcune considerazioni. In primis, il comportamento della Osaka è ambiguo: non solo perché lo strumento da lei usato per esporre il problema è parte (se non qualcosa in più) del problema, ma anche perché di questo stesso strumento l’atleta sta sfruttando le risorse più subdole. Da quando la tennista giapponese ha pubblicato il celebre post, il suo volto e la sua immagine sono stati utilizzati nove volte in meno di un mese. Per otto differenti aziende o multinazionali: Vogue, Nike, Barbie, Netflix, Sports Illustrated, Panasonic, Complex.

“È possibile che vi accontentiate di vivere accettando un mondo in cui lo spirito è morto?”, si chiedeva Yukio Mishima. La bulimia dell’ego all’esposizione mediatica della Osaka sembra rispondere affermativamente a questa domanda.

Ora, che la depressione sia connessa unicamente ai problemi dell’individuo è un’idea propria dell’Occidente americanizzato. Lo ha spiegato su Psyche il professore di filosofia e di studi asiatico-americani dell’Università del Connecticut Alexus McLeodis: «Spesso si pensa che le malattie mentali siano una questione di disordine individuale. La moderna psichiatria guarda alle esperienze individuali, ai comportamenti e ai pensieri in grado di diagnosticare le malattie mentali, e si focalizza sui rimedi individuali per cercarne la cura.

Se sei depresso, la depressione viene pensata come la tua risposta alle circostanze in base alla tua genetica, ai tuoi disordinati modelli di pensiero, ai tuoi problemi personali ed emotivi. Il trattamento occidentale delle malattie mentali segue queste stesse linee individualistiche. L’individuo si cura con la terapia e le medicine, senz’altro utili. Ma una così forte enfasi sull’individuo potrebbe portarci ad escludere differenti approcci. Spesso si finisce per trascurare il modo in cui le norme sociali, le credenze culturali e i comportamenti comuni, condivisi, contribuiscono all’insorgere delle malattie mentali. L’antica Cina, e in particolare i confuciani, lo compresero benissimo».

Per approfondire, leggi Osaka contro Osaka

A dire il vero, alcuni dottori occidentali, dottori in filosofia, arrivarono per altre vie a comprendere la stessa cosa. Su tutti Martin Heidegger, schernito dalla filosofia accademica quanto dalla filosofia pop contemporanea. Anche per Heidegger, come per i Confuciani, il problema dell’individuo (del subjectum) non è un problema solo dell’individuo, ma in primo luogo del contesto (metafisico) che lo struttura (soggetto in quanto subjectum gettato).

Nell’ultima intervista rilasciata allo Spiegel prima della morte, Heidegger rispondeva all’intervistatore che gli chiedeva in cosa consistesse il problema della tecnica, dal momento che ogni cosa, a suo dire, funzionava a meraviglia:

«Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che tutto funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra. Non so se Lei è spaventato, io in ogni caso lo sono stato appena ho visto le fotografie della terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta sono problemi di pura tecnica». Martin Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, p. 146

In una società che, come abbiamo provato ad abbozzare, non accetta altro linguaggio che quello visivo, è difficile, se non impossibile, parlare sensatamente a proposito di cose – la depressione come l’ansia, la tristezza, l’angoscia – che, parlando propriamente, non sono cose, ma stati dell’animo. Tutto ciò che resta, dice Heidegger, sono problemi di pura tecnica. E infatti la Osaka, allergica alle conferenze stampa, ha scelto Instagram e Netflix per “esporsi” in prima persona.

Immagini, ancora immagini, solo immagini. Non se ne esce. E la cosa sorprendente è proprio questa: che se ne esce solo non entrandoci affatto, cioè non esponendo ai media il problema. Come ha fatto Josip Ilicic, che dopo mesi di silenzio ha rivelato di essere riuscito ad andare avanti grazie «all’amore per la vita». Parole semplici e tanto più potenti, vicine a noi, simili a quelle di Gianluigi Buffon, che ha raccontato a The Players’ Tribune di essere guarito per caso, grazie all’arte:

«una mattina, ho deciso di interrompere la routine per andare in un nuovo ristorante di Torino a fare colazione. Ho preso una nuova strada e sono passato davanti ad un museo d’arte. Il manifesto esposto fuori dalla mostra diceva “CHAGALL”. Avevo sentito quel nome prima, ma non sapevo niente di arte. Avevo da fare, ma decisi di entrare. Fu la decisione più importante della mia vita. Centinaia di quadri di Chagall. Molti dei quali non mi dicevano nulla. Ma poi ne vidi uno che mi colpì come fosse un fulmine: si chiamava La passeggiata».

Così Gianni Bugno, che a 32 anni rivelava alla stampa il proprio malessere, con poche e incisive battute: «è la testa che conta, che stimola le grosse motivazioni. Io non l’avevo più: e ciò mi ha psicologicamente depresso». Così anche Michael Phelps, altro campione olimpico, forse il più grande di sempre, che al termine della missione sportiva si è sentito svuotato, spremuto. Come Ian Thorpe e Andre Agassi, che dalla sofferenza trattenuta in silenzio per anni ha poi partorito uno dei libri più belli mai scritti da uno sportivo (e non solo). Tutte queste testimonianze, vuoi per il mutare dei tempi, vuoi per la distanza intercorsa tra il malessere e la sua confessione (gioco-forza elaborata), hanno un peso sensibilmente diverso da quella della Osaka. Ma anche da quella della Biles. La reazione della stampa di fronte al suo ritiro da Tokyo 2020 conferma la diagnosi.

Vanessa Dickerson per The Undefeated ha scritto che «questo è il primo anno olimpico in cui si parla della vita reale che è dietro lo sport». Banale, soprattutto non vero. Emanuela Audisio su Repubblica ha scritto di Simone Biles, lapidariamente: «anche lei, regina depressa. Senza più fiamma» (sic!).

Con molta più saggezza, Angelo Carotenuto ha scritto che «nessuno ha mai guardato da lontano Naomi Osaka e Simone Biles, forse nessuno guarda da lontano più nessuno». Juliet Macur, sul New York Times, scrive che «sarebbe stato inimmaginabile solo pochi anni fa per un atleta olimpico ammettere i suoi dubbi durante i Giochi, tanto meno ritirarsi da un evento. Ma Biles, Osaka e altri (tra cui Nyjah Huston, che lo ha annunciato sempre tramite Instagram) hanno fatto sentire la loro voce mettendo la salute mentale al primo posto e le aspettative degli altri, nella migliore delle ipotesi». Sarebbe stato inimmaginabile fino a pochi anni fa, dice la Macur. E dice bene, perché fino a pochi anni fa l’esposizione mediatica era incomparabilmente minore. Non perché gli atleti non si esponessero, anzi. Semplicemente gli strumenti odierni non sono strumenti, come detto, ma black mirror di noi stessi.

La stampa, da sempre abituata a gonfiare il nulla, si strofina le mani e si lecca i baffi dinnanzi a certe sensazionali notizie. Lo fa spesso e volentieri con frasi sensazionalistiche, sulla scia di quelle scritte da Candace Buckner sul Washington Post: «Ogni volta che Biles mette il body è come se si stesse stringendo un mantello intorno al collo. È l’eroina incaricata di salvare uno sport inquinato, incarnando una banale fiducia nel dominio americano, un genere e un’intera razza. È un mantello pesante e soffoca». Può darsi. Quel che è certo è che sul body della Biles compare un logo: GOAT come capra e acronimo di greatest of all time. Rimaniamo dunque, finché possiamo, sul mero piano sportivo.

Lo ha capito meglio di chiunque altro quel martello serbo di Novak Djokovic, sorta di Übermensch dello sport contemporaneo: «Per sperare di rimanere ai vertici dello sport, devi imparare a gestire la pressione. In campo e fuori, tutte le aspettative. Ho imparato a sviluppare un meccanismo per gestirlo in modo che non mi dia più fastidio, non mi sfinisca più». Anche Rafa Nadal, tempo fa, aveva dichiarato che «senza i giornali e l’attenzione che mi riservano non sarei quello che sono».

Alla fine, al di là di tutte le elucubrazioni e le difese (iperuraniche) della stampa per le due eroine, non rimangono altro che le offese social – queste sì, tangibili e gravissime – rivolte alla Biles e denunciate da Bill Plaschke sul Los Angeles Times. Eccoli nuovamente i social, insieme pietra angolare e pietra di scandalo di un mondo allo sbaraglio. Le immagini sono idee visibili, ma le idee del nostro tempo sono legate unicamente alle immagini. Sono quindi sgargianti ma disordinate, luccicanti ma accecanti, ovunque quindi vuote. Disimpegnate. Chiedere a Simon Biles che, interrogata su quale fosse il momento più felice della sua carriera, ha risposto: «Onestamente, il mio tempo libero».

 

1. Joseph Ratzinger, Einführung in das Christentum: Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, Kosel-Verlag, Munchen 1968, trad. it. Introduzione al cristianesimo, Editrice Queriniana, Brescia 1969, p. 66