Il mercato del patetico

Il mercato del patetico
Se non hai talento o idee ma vuoi conquistare followers sui social, hai due opzioni:
-racconta le tue disgrazie in un reality;
-oppure crea una pagina che punti tutto sul patetico.
Hai anche una terza opzione: se hai fretta di essere seguito gira per Bologna in auto. I vigili sono una sicurezza. Saranno loro a scovare in te qualcosa di “speciale” che tu non sai, fotografarti come neanche i paparazzi e recapitarti una multa con tanto di targa e tag.
Nei primi due casi, però, qualcosa guadagni anche tu.
Funziona così: prima di tutto, devi parlare di te in terza persona, perché se non ti citi per nome è come se non esistessi. Poi, dichiara di essere una persona sensibile e #resiliente, ma avverti che, se qualcuno ti delude – o meglio, delude “il te medesimo” – chiuderai ogni rapporto, lasciando un #silenzioassordante. Fai capire che sei buono e giusto, magari con la pelle liscia o la barba morbida (grazie a uno sponsor di prodotti coreani), ma sottolinea che chi non merita la tua benevolenza subirà dure conseguenze.
Infine, ammonisci qualcuno, senza mai definirlo chiaramente, che – a seconda di come si sente, vittima o carnefice – rimpiangerà o farà rimpiangere per sempre l’occasione persa.
C’è però una clausola: in onore di un selfie venuto bene, l’approccio può passare da ruvido a morbido. La stessa persona che augura sciagure a chi la delude, è la stessa che non porta rancore, perché questo sporcherebbe le sue #goodvibes. Insomma, “sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma”.
Superato il caos tra soggetti e oggetti – simile a quando sbagli un congiuntivo o non capisci se il “Lei” sia rivolto a te – bisogna riconoscere l’esistenza del mercato del patetico. Un mercato che sovente stupra Oscar Wilde e Bukowski. Una logica che si ispira, in modo più o meno consapevole, alla filosofia del camionista di Mario Brega.
E così tutti si crogiolano nella tomba o nelle polveri, mentre noi ci interroghiamo sui confini tra i diritti e i maltrattamenti d’autore.
Queste apologie di cuori grandi e infranti sono spesso lavori di team, con parenti, amici ma soprattutto animali che confermano lo spessore del soggetto. Però devono restare sfondo sfocato o fungere da incipit per un finale incentrato sul sé medesimo.
Credo che sia sopravvalutata la correlazione che svelerebbe l’affidabilità di un essere umano dal suo amore per gli animali o l’onoranza dei defunti, che spesso vengono manifestati insieme.
I tratti comuni sembrano ovvi ma trascurati: non possono parlare, non possono contraddire e attirano spettatori. Forse è per questo che i funerali sono più frequentati delle case di riposo. Certo, un animale può rendere le persone migliori. Può. Potrebbe. Anche laddove falliscono psicoanalisi, chimica o galera. E ha l’innegabile potere di far apparire migliori le persone, se non altro.
Chiunque sa, con un istinto seduttivo innato, che inquadrare la propria mano nell’atto di accarezzare un animale aggiunge aggettivi migliorativi e superlativi al proprio profilo. Ma resta fermo che “po’ esse fero”.
Anche il Führer si faceva ritrarre con il suo cane Blondi, che pare lo rilassasse al punto da influenzare, si dice, persino la campagna di Russia.
Oggi, (e alle volte sembra guadagnare followers anche da morto) avrebbe portato in un reality il tesoro della sua infanzia traumatica: il bambino malaticcio che soffriva per le sue tasche vuote e il dolore di aver visto i genitori fare sconcezze.
La brutta storia mostra quanto il lato patetico del dolore sia pericoloso. Un dolore senza dignità diventa una scusa per fare del male.
E non è l’unico pericolo. Il confine tra la generosità di chi condivide un’esperienza di cui ha fatto tesoro e lo sciacallaggio di chi trasforma quel dolore in un tesoretto è piuttosto labile.
Può suonare quasi consolatorio che ciò che prima era un limite o un fardello tale da non poter pensare leggero, oggi sia una chiave d’accesso a un mondo lucroso. Il dolore è una ricchezza, e in quei contesti diventa denaro e audience.
Se un genitore fatica a portare il pane a casa, potrebbe essere rasserenato da un autore televisivo che gli direbbe: “Un giorno tutto questo ti arricchirà” – anche se forse sta parlando di sé in terza persona.
E capita che lo stesso genitore che portava il suo fardello sulle sue spalle si trovi ad essere compatito suo malgrado.
Checco Zalone sbaglierebbe oggi a correggere i toni affranti della mamma: non è più vero che “l’audience funziona che devi dire fatti allegri”.
È difficile distinguere tra il desiderio di condividere un dolore e la sua strumentalizzazione.
La creatività spesso nasce dall’elaborazione del dolore. Un libro, una poesia, una fotografia, una canzone sono mezzi delicati che ti danno tempo per capire come vuoi raccontarti. Sarebbe bello poter dare un po’ di poesia al proprio vissuto difficile.
Ma quando si è galvanizzati da luci, like, commenti e applausi, quel tesoro poi non diventa moneta altrui? Non è droga per chi si espone?
Ciò che prima era condiviso finisce dato in pasto.
La giustificazione dell’aprirsi senza filtri per “aiutare gli altri”, quando in realtà altri ancora stanno lucrando, è una delle cose che mi spaventa di questo secolo.
Questa spontaneità tanto promossa è spesso dimentica che anche l’aggressività è spontanea. Cosa c’è di brutto nella riflessione, nella discrezione?
Il dolore è ancora un valore tuo se lo vendi? E vendendolo te ne liberi davvero?
Come diceva il mio prof. di Filosofia Giovanni Provenzano: “Il compagno di dolore scema la pena, se il compagno non è scemo”.