Body shaming: diffamazione per chi sui social irride i difetti fisici di altri utenti
Body shaming: diffamazione per chi sui social irride i difetti fisici di altri utenti
La Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, con sentenza n. 2251 del 2023, pone l’accento sul rapporto intercorrente tra la diffamazione a mezzo dei social network e il fenomeno del c.d. “body shaming”.
Body shaming: è diffamazione sui social. la vicenda
La Corte di Cassazione rivedeva la decisione della Corte di Appello di Milano, qualificando come diffamazione ai sensi dell’art. 595 c.p. il comportamento di un soggetto che scriveva post offensivi della reputazione di un concittadino sul social network “Facebook”, adoperando termini ed emoticons dileggiativi.
In effetti, la vicenda prendeva le mosse da disagi al traffico cittadino di cui la parte offesa era coordinatrice e per i quali veniva sistematicamente sbeffeggiata sul predetto social network sottolineando le problematiche visive dello stesso.
Orbene, la decisione del secondo Giudice andava riformata - a parere della Suprema Corte- allorché lo stesso riteneva si trattasse di una mera ingiuria (art. 594 c.p.), oramai depenalizzata, poiché utilizzando la piattaforma Facebook, la presunta parte offesa avrebbe potuto replicare immantinente a quanto postato sul profilo dell’imputato.
A tal fine, emerge con lapalissiana evidenza un importante elemento trascurato dai giudici meneghini: l’utilizzo di un canale social, prescindendo dalla possibilità che l’interessato abbia o meno di intervenire, costituisce un chiaro mezzo diffamatorio, atteso che i contenuti postati possono essere divulgati in pochissimi istanti attraverso una moltitudine di persone.
La derisione delle qualità visive della persona offesa, dunque, rappresentava una chiara aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito da questa Corte (Cass., Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016).
La condotta punibile ai sensi dell’art. 595 c.p. è perfettamente realizzata allorquando ci si riferisca ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche.
La reputazione individuale, intesa quale senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale, rappresenta «un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona» come ricordato, più di recente dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 150 del 2021.
Pertanto, proprio la correlazione tra dignità e reputazione assume rilievo nel caso di specie, posto che le espressioni adoperate dell'imputato sottendono una deminutio della persona offesa, che, in quanto ipovedente, non avrebbe dignità di interlocuzione pari a quella degli altri utenti della piattaforma.
Giova evidenziare, per altro, che la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa», a condizione che essi siano, in quel momento e in quel luogo (virtuale o non), in grado di difendersi.