I delitti mediatici in Italia

La Giurisdizione dei media che condiziona i Processi
media
media

I delitti mediatici in Italia

La Giurisdizione dei media che condiziona i Processi

 

I media svolgono un ruolo fondamentale nell’informare il pubblico sugli eventi che accadono nel mondo, compresi i casi giudiziari. Tuttavia, la copertura mediatica intensiva e sensazionale può avere un impatto significativo sui processi giudiziari, mettendo a rischio la presunzione di innocenza, la giusta procedura e i diritti individuali delle persone coinvolte. In questo articolo, esploreremo come l’influenza dei media può influenzare i casi giudiziari e le strategie per evitare la gogna mediatica.

Uno dei rischi principali dell’influenza mediatica è la creazione di pregiudizi nell’opinione pubblica. Casi famosi come quello di O.J. Simpson negli Stati Uniti hanno dimostrato come una copertura mediatica intensiva possa portare il pubblico a formare opinioni preconcette sulla colpevolezza o l’innocenza degli imputati, influenzando così la selezione della giuria e la sua imparzialità.

I media possono esercitare pressioni significative sui testimoni e sulle parti coinvolte nei casi giudiziari.

In Italia tutto è cominciato con Cogne e la spettacolarizzazione effettuata nel salotto di “Porta a Porta” di Bruno Vespa, trasmissione divenuta nel tempo il luogo delle indagini, con l’esibizione dei plastidi dei luoghi del delitto e i commenti sulle prove da parte di esperti criminologi e giudici popolari che emettono sentenze che spesso anticipano proprio quelle dei tribunali sui quali è stata effettuata una pressione e un condizionamento subliminale enorme.

Il carma si ripete e Vespa non poteva esimersi da ri-produrre il Plastico della villetta di via Pascoli a Garlasco (la casa Poggi)  con dovizia di dettagli e commenti sulle dinamiche presunte, dedotte e volutamente indotte a seconda di un convincimento che il Codice di procedura penale vuole si formi in aula mentre in questi casi viene indotto nell’opinione pubblica da trasmissioni come questa (ed altre da Quarto grado e Chi là visto, da Le Iene a Presa diretta e Storie Italiane …)  arrivando a determinare una pressione mediatica che si riversa inevitabilmente sul libero convincimento degli inquirenti i quali, incalzati, spesso si orientano là proprio dove i media si sono indirizzati inducendo i giudici a valutare elementi parziali e incompleti, talvolta faziosi.

Se l’inizio può essere ascritto alla vicenda Cogne, passando poi per  il caso Erba, il delitto di Avetrana, il delitto di Perugina (con l’attenzione morbosa su Raffaele Sollecito e Amanda Knox), per giungere ad Avetrana e a Brembate nella Bergamasca dove viveva e si allenava la giovane Yara Gambirasio e dove per arrivare ad un colpevole voluto a tutti i costi non si sono lesinati milioni di euro per una ricerca spasmodica del riscontro del DNA  cercato su oltre 60 mila abitanti della valle.

Antesignano  di questa spettacolarizzazione non si può non ricordare essere stato nel 1981 il caso del 10 giugno 2081  quando   Qualcuno decise di mandare in onda il dialogo tra la mamma e Alfredino che si trovava giù nel pozzo. In quel momento si superò una misura che non doveva essere superata, si entrò nella privacy e nel dolore della famiglia. Questo creò la curiosità morbosa che tra l’altro portò circa 10.000 persone ad andare a Vermicino senza che ci fosse nessun controllo. Quell’episodio è rimasto impresso nella coscienza come un grosso errore, una spettacolarizzazione del dolore. La vicenda del piccolo Afredino fu certamente la prima volta di una morte raccontata in diretta quando a Vermicino lo spettacolo non si fermò neppure difronte al dramma di un bambino.  Di lì non ci fu più limite, sino all’oggi quando tutto viene vissuto in diretta e si vive mettendo tutto in rete in diretta.

Anche in occasione del suicidio del detenuto gettatosi dalle guglie del Duomo di Milano domenica 11 maggio 2025 c’è stato chi ha ripreso l’uomo sul  tetto del duomo per mettere il video subito in rete invece di chiamare le autorità e le forze dell’ordine ed avvisare che stava per consumarsi un dramma.

L’influenza dei media nei casi giudiziari è un tema complesso che richiede una gestione attenta per garantire un processo giusto e imparziale. Equilibrare il diritto del pubblico a essere informato con la presunzione di innocenza e i diritti delle persone coinvolte avendo rispetto del dolore che in una vicenda giudiziaria si consuma sempre, è una sfida, ma è essenziale per il corretto funzionamento del sistema giudiziario ed evitare che una vasta attenzione mediatica possa contribuire alla pressione sulle forze dell’ordine e  sul sistema giudiziario per risolvere rapidamente il caso. È spesso capitato che la diffusione di dettagli sensazionalistici riguardanti casi di omicidio abbia suscitato un ossessivo interesse pubblico.

E se da un lato questo è il motore propulsivo di trasmissioni che trattano cronaca nera da un lato l’influenza mediatica ha spesso sollevato interrogativi sulla giustizia, sulla presunzione di innocenza e sulla capacità del sistema giudiziario italiano di garantire processi equi.

È importante notare che il modo in cui i media trattano i casi giudiziari può avere un impatto significativo sul processo stesso, e quindi è fondamentale garantire un equilibrio tra il diritto del pubblico di essere informato e il diritto degli imputati a un giusto processo. L’interazione tra media e giustizia può essere complessa e portare a sfide significative nel garantire un processo non solo giusto, ma anche imparziale, pertanto a salvaguardia di ciò è fondamentale la collaborazione tra autorità giudiziarie, media, legislatori e il pubblico è ciò diventa determinante per proteggere i valori fondamentali della giustizia e dei diritti individuali nei casi giudiziari.

Tra i paladini della intangibilità della cronaca giudiziaria, c’è una parte del ceto politico che denuncia come intollerabile bavaglio qualsiasi proposta di arginare l’invadenza dei media. E nel partito dei rassegnati bisogna registrare quei giuristi che, pur riconoscendo gli effetti devastanti dell’informazione giudiziaria, alzano le braccia al cielo e auspicano un’autodisciplina dei giornalisti, ritenendo inconcepibile qualsiasi divieto. Infine, c’è una giurisprudenza a dir poco paradossale che fissa una regola azzeratrice di ogni possibile reazione di fronte alle deformazioni del giornalismo giudiziario perché esse sarebbero prive di qualsiasi impatto negativo sulle garanzie processuali.

I media alterano, stravolgono, sfigurano l’estetica della giustizia penale, ma non fanno male. Lo ha detto di recente una sentenza della Corte di cassazione in tema di rimessione del procedimento affermando che «le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza» (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). E’ lo stereotipo del giudice con la corazza, insensibile ad ogni perturbazione esterna perché protetto dalla sua olimpica saggezza.

La stessa sentenza continua sostenendo che «anche il debordare della cosiddetta giustizia spettacolo, il vedere pagine di giornali o intere puntate di talk show occupate da vicende giudiziarie ancora in corso in cui si sviscerano tesi su tesi, talvolta fantasiose spesso l’una contraria all’altra, ha finito per diventare un fenomeno talmente normale che nessuno ci fa più caso». Qui c’è la sterilizzazione dell’inquinamento da overdose di informazione giudiziaria anche con riguardo all’opinione pubblica, che si immagina rinchiusa nel bozzolo di una assoluta imperturbabilità.

Il nostro paese sarebbe dunque sul piano mediatico l’isola dell’ingiusto processo.

Strasburgo secondo cui l’imparzialità dei tribunali garantita dall’art. 6 CEDU non consente ai giornalisti di formulare  «dichiarazioni che risulterebbero idonee, intenzionalmente o no, a ridurre le chances per una persona di beneficiare di un processo equo» (sentenza Worm c. Austria, 29 agosto 1997) e tali da scalzare la fiducia dei cittadini nella amministrazione della giustizia.

E’ proprio vero invece che nel nostro paese la giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo. Basta pensare alla crescita esponenziale dell’agire comunicativo, ormai affrancato dai canoni della oggettività in una sequenza evolutiva impressionante: dalla cronaca al commento; dal commento alle ricostruzioni; dalle ricostruzioni alle inchieste parallele che si sovrappongono alle indagini della magistratura e nelle quali prevale lo spettacolo in ossequio alla tirannia dell’audience.

Mentre la magistratura indaga e affronta con paziente analisi la lettura del quadro indiziario, la stampa lancia i suoi titoli in cui l’inquisito è «inchiodato» dal video di un anonimo furgone che attraversa un incrocio, dai monosillabi captati in una intercettazione telefonica ovvero dalle risultanze di uno screening di massa del DNA.

E poi ci si meraviglia se l’indagato … il condannato arrivano al suicidio !

Stefano Vitelli, il giudice che assolse Alberto Stasi nel primo grado di giudizio, ha rilasciato una  intervista  alla Stampa emblematica del tema. Dopo aver ripercorso i passaggi salienti del procedimento che lo convinsero a pronunciare un verdetto favorevole all’unico imputato dell’epoca, Vitelli chiude il suo intervento con qualcosa che somiglia molto a un accorato appello nei confronti di una deriva giudiziaria: “Comunque vada questo caso di Garlasco, il ragionevole dubbio è un valore importantissimo, culturale – ha sentenziato il magistrato – che ci deve unire tutti. Tutti noi: dal magistrato, all’avvocato, all’opinione pubblica. Perché come ci insegnano i maestri rimane (il ragionevole dubbio) un insegnamento insuperabile. È meglio un colpevole fuori che un innocente dentro. Anche mia mamma, che non c’è più, quando io studiavo le carte di questo e di altri processi, nel farmi la pasta mi diceva questo; e aveva la quinta elementare”.

Un altro aspetto cruciale è la presunzione di innocenza, un principio fondamentale del diritto. La gogna mediatica può minare questo principio, portando il pubblico a considerare gli imputati colpevoli prima della sentenza, creando un “tribunale della pubblica opinione.”

Tutto si manifesta con tutta una serie di processi mediatici inscenati su alcuni popolari canali televisivi, in cui per l’appunto vengono propugnate vere e proprie congetture, che nella maggior parte dei casi anticipano quasi in fotocopia gli esiti del processi giudiziari che si celebrano in aula di tribunale ormai in differita ed ad esito già sentenziato.

E’ dunque ormai tempo di mettere mano ad una politica dei limiti e dei divieti nei confronti dei media. Lo sappiamo tutti che ai pubblici ministeri fa comodo giovarsi della cronaca colpevolista, ma i togati della giudicante non sono sulla stessa lunghezza d’onda. Essi avvertono il fastidio e il disagio di veder offuscato il loro ruolo quando la televisione investe di funzioni oracolari il conduttore del talk show che pronuncia la sentenza di condanna in nome del popolo dei telespettatori.

Cominciamo a chiudere le porte di quei salotti televisivi in cui sedicenti esperti ovvero familiari delle vittime, animati da comprensibile revanche punitiva, si esibiscono in un coro colpevolista contro indagati in processi pendenti. Poi si potrà pensare a misure appropriate a ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere di esercitare una penetrante attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza.