Di «narcisismi grandiosi», perp walk e altre stranezze del gran circo mediatico-giudiziario

​​​​​​​Recensione a Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Raffaello Cortina Editore, 2022.
max_gibelli_philippines_esistenza-rurale
max_gibelli_philippines_esistenza-rurale

Delitti in prima pagina è un titolo suggestivo, ma rispecchia solo in parte l’oggetto del bel libro di Edmondo Bruti Liberati, che non si limita ad analizzare come la carta stampata racconti i delitti, ma riflette invece su più larga scala intorno ai problemi connessi alla dimensione mediatica dei fatti criminali e, più in generale, della giustizia penale. Soccorre dunque il sottotitolo, «La giustizia nella società dell’informazione», ma – come si vedrà – è un rimedio solo parziale. D’altra parte è pressoché impossibile catturare in un’espressione di sintesi l’insieme dei temi che si addensano nel saggio, che merita di essere letto per intero.

Nella penna di Bruti Liberati si saldano due identità: da un lato, il giurista attento che per oltre cinquant’anni ha servito la magistratura, ricoprendo anche ruoli importanti; dall’altro l’uomo colto, lo storico della magistratura, frequentatore di biblioteche e lettore raffinato ed eclettico, che agilmente si muove da Gide a Topolino, da Melies a Forum. Sicché, nonostante il tema del libro non sia veramente originale, il lettore è comunque premiato con gustose spigolature d’archivio, che ci consentono di assaporare “in presa diretta” il modo in cui prende corpo la narrazione dei delitti in quella che il filosofo Luciano Floridi chiama l’infosfera (Pensare l’infosfera, Cortina, 2020).

A ben vedere, il percorso storico-ricostruttivo procede per giustapposizioni d’immagini più di quanto non assecondi una minuziosa analisi, ma l’effetto è comunque di un efficace trompe-l’oeil che consente di cogliere, per esempio, una curiosa aria di famiglia fra gli articoli di pur autorevoli testate e gli ottocenteschi resoconti dei “fatti diversi” o dei più antichi canards, fogli destinati a un pubblico popolare che si caratterizzavano per «sensazionalismo, esagerazione, imprecisione, propalazione di dicerie, invenzione di fatti immaginari» (il nome stesso canard rinvia, appunto, allo strepitare delle anatre). Del pari stupisce, nel leggere i brani delle cronache di Buzzati per il Corriere della sera riproposti nel volume, scoprire che l’autore profondo e introspettivo del Deserto dei tartari, da giornalista fosse tutt’altro che misurato rispetto ai fatti di cui scriveva.

Nel libro lo scopriamo ad esempio incrudelire contro Rina Fort, autrice di un reato efferato, descritta in aula come «la belva in gabbia», che dinnanzi ai suoi accusatori «non trema, non piange, non ha un palpito. Soltanto rotea adagio i suoi sguardi bovini». Giunta la condanna all’ergastolo, poi, lo scrittore-cronista si compiace e si rivolge direttamente alla delinquente: «non ci saranno mai più per te, Rina Fort, giorni come i nostri, allegre cene in compagnia di amici, né andare e venire per la città, né begli abiti nuovi, né sguardi di giovanotti, le corse in automobile, né gusto di metter via i soldi, né baci, mai né casa tua né teneri risvegli nel tuo letto. […] Guardali, finché sei ancora in tempo – ti rimane una frazione di secondo – questi uomini, queste signore venuti ad ascoltar la tua condanna.

Ti sono odiosi, probabilmente, i loro sguardi da visitatori di zoo ti toglievano il respiro, è vero. Ma sono liberi, capisci? E non li potrai più vedere». In una cronaca di tredici anni successiva l’autore cuneese muta atteggiamento e addirittura empatizza nei confronti di due omicidi condannati alla pena perpetua; sconvolto dinnanzi alla «profondità nera dell’ergastolo», che gli appare «qualcosa di esagerato e folle», si domanda se «si può far patire tanto una creatura per grande che sia il male che ha fatto».

Passando dalla carta stampata alla televisione, dopo un’interessante disamina delle questioni legate all’ingresso delle telecamere nelle aule di giustizia, Bruti Liberati dedica ampio spazio al tema – non solo italiano – della mediatizzazione dei processi, che ha comportato un vero e proprio sdoppiamento dei luoghi del giudizio: l’uno istituzionale, che segue le regole dettate dai codici, e l’altro mediatico, asservito alla legge spietata dell’audience e agli umori del pubblico. Il trial by media è una «deriva senza fine» in cui lo sciacallaggio giornalistico è solo un problema secondario e neanche così nuovo: nel libro si ricostruisce, ad esempio, il Caso Murri, un omicidio bolognese dei primi del ‘900 trasformato in feuilletton con tanto di modellino in legno del luogo del delitto ad uso dei curiosi che anticipa di un secolo il plastico di Porta a Porta.

Piuttosto, spiega Bruti Liberati, il problema principale è che il mezzo televisivo alimenta il sogno di una democrazia diretta svincolata da ogni mediazione procedurale, fino al punto di delegittimare il processo stesso. Nasce, insomma, quello che Daniel Soulez Larivière – principe del foro parigino e pugnace pamphlettista – ebbe a battezzare come cirque médiatico-judiciaire, in cui accusa e difesa si fronteggiano tanto in aula quanto in tv e sui giornali (il libro è in proposito ricco di esempi). L’interazione perversa fra giustizia e audience finisce col mettere seriamente in discussione gli sforzi del diritto moderno di allontanare e raffreddare le pulsioni di vendetta e non di rado incrina la tenuta di princìpi fondamentali quali quello della terzietà del giudice – spesso anche nolente tirato dentro il circo-mediatico giudiziario – o della presunzione di innocenza.

In quest’arena senza regole – specie a partire dall’inchiesta di Mani pulite, in cui secondo l’autore del libro si è passati dal protagonismo oggettivo delle indagini al protagonismo soggettivo dei giudici – hanno trovato una loro perniciosa ribalta alcuni magistrati, soprattutto dell’accusa, pronti a ergersi con settaria intransigenza a punto di riferimento morale del Paese.

Qui l’analisi di Bruti Liberati si fa impietosa: aiutandosi con le parole dello psichiatra Vittorio Lingiardi, egli tratteggia senza indulgenza la personalità di alcuni suoi ex colleghi affetti da «narcisismo grandioso» i quali «non mettono mai in dubbio il proprio comportamento e quando incontrano un problema è sempre causato da qualcuno che si è messo di traverso a rovinare la festa».

In non pochi casi – il libro richiama la parabola di Ingroia e l’esperienza di Gratteri – le indagini e i processi sulla criminalità organizzata hanno fatto sì che alcuni pubblici ministeri assurgessero al ruolo di vere e proprie «star» sui media sempre impegnati nella glorificazione di sé «perché si propongono come i “campioni dell’antimafia” magnificando ogni volta la loro ultima maxi indagine, ovviamente quella decisiva e definitiva, in attesa della prossima.

 

PER VISUALIZZARE L'INTERO CONTRIBUTO CLICCA QUI!