Nessuna salvezza per Jean Valjean: la giustizia secondo l’ispettore Javert
È la diagnosi di una malattia, quella esposta da Luigi Manconi e Federica Graziani nel libro Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale.
Una «patologia dell’anima e della mente» che avvelena il dibattito pubblico inoculandovi gli «umori regressivi» di una narrazione della società e del diritto penale sideralmente distante dall’assetto di valori tracciato dalla Costituzione: il «giustizialismo morale». Si tratta, spiegano con lucida analisi i due autori, di un particolare orientamento culturale e politico che «persegue un concetto assoluto e astratto di giustizia, che non ammette alternative alle proprie convinzioni morali e pensa di poterne affidare la realizzazione alla spada dei tribunali, a prescindere dal rispetto delle forme, delle garanzie individuali e degli interessi dei diversi soggetti coinvolti nelle controversie di legge». Ogni richiamo ai vincoli procedurali e alle garanzie è anzi respinto con la risoluta insofferenza di chi sa sempre dove passa il confine tra il bene e il male e non concepisce varchi in questa linea di frontiera. Nessuna novità, a ben vedere.
Questa postura morale ben si specchia, ad esempio, nella sfrontata rivendicazione di Robespierre, il quale, per perorare la condanna a morte di Luigi Capeto, afferma che l’invocazione delle forme deriva dall’assenza di princìpi e porta con sé il tradimento dell’ideale rivoluzionario[1]. Ma se il morbo giustizialista ha radici antiche, non è delle tricoteuse che sferruzzavano compiaciute aspettando di veder rotolare qualche testa che si occupa questo libro, incentrato invece su quella che – assecondando il lessico corrente – potremmo definire la “variante italiana” del populismo giustizialista.
Quest’ultima avrebbe avuto una diffusione assai più recente sul finire degli anni ’80 con le trasmissioni di Santoro e Funari e assumerebbe oggi il volto di Marco Travaglio: il direttore del Fatto quotidiano è infatti elevato da Manconi e Graziani a idolo polemico per via del suo essere «il frontman aggressivo di tutte le battaglie più tetre in campo giudiziario» che lo rende una figura paradigmatica di un certo modo di intendere la giustizia.
Nella solidità delle sue certezze e nell’ostentata intransigenza, il giornalista è messo a paragone con lo zelante ispettore Javert che ne I Miserabili di Victor Hugo non ha altro orizzonte se non quello che lo porta a tampinare con implacabile sprezzo «tutti coloro che, anche una sola volta, avessero varcato la soglia legale del male». Ma si tratta di un espediente retorico, più che un (mero) attacco personale; un pretesto per tentare di rispondere alla domanda «se Travaglio raggiungesse il suo ideale? Come sarebbe il suo mondo giusto?»
La visione del mondo del populismo giustizialista si fonda sulla tendenziale sfiducia nel prossimo e, in particolare, nella classe dirigente: «la classe politico-imprenditoriale più malfamata d’Europa», per dirla con le parole di Travaglio. Si tende cioè ad accreditare l’immagine una società opaca, dominata dalla corruzione e dal sotterfugio, in cui nessuno paga per le proprie responsabilità. La causa di questa impunità generalizzata sarebbe da ricercare nelle maglie lasche del sistema giudiziario, che addirittura costituirebbero un incentivo all’illegalità. Tesi, questa, autorevolmente patrocinata da un vero alfiere dell’ideologia giustizialista come Piercamillo Davigo, autore di un libro dal titolo In Italia violare la legge conviene. La soluzione? Sempre e comunque la stessa: rimozione delle garanzie processuali, inasprimento delle pene, costruzione di nuove carceri ed esclusione dei trattamenti penitenziari alternativi. Ogni obiezione rispetto all’inadeguatezza di questa ricetta carcero-centrica è respinta con fastidio, alludendo a complicità, a connivenze, a interessi.
Il populismo, insomma, sembra rifiutare la complessità dei problemi e promuove il messaggio che i rimedi siano sempre semplici, atteggiandosi a «ideologia delle maniere spicce fondata sull’idea che esse possano funzionare come toccasana sociale». Dalle questioni scientifiche ai temi sociali, le obiezioni degli esperti sono sofisticazioni di cui diffidare. L’insofferenza non risparmia neanche i grandi Maestri, che come Manconi e Graziani dettagliatamente dimostrano nel secondo capitolo («Onomastica dello scherno»), vengono metodicamente ridicolizzati con formule di scherno dal sapore «ferrigno e cruento», che oltrepassano il limite della satira e mirano a disconoscere come interlocutore possibile colui che si fa portatore di una qualsiasi critica. La tecnica di «squalificare il recalcitrante» è del resto ben risalente[2].
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