Delinquenza minorile e giovani camorristi

Focus sulle criticità nell’area metropolitana di Napoli.
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Juvenile delinquency and young camorrists.

Focus on criticalities in Naples metropolitan area

 

ABSTRACT

Questo contributo offre delle chiavi di lettura sulla formazione a Napoli di nuovi gruppi delinquenziali composti da giovanissimi e sui legami di questi gruppi con le organizzazioni criminali locali. Sul piano teorico, grazie agli studiosi più attenti, si propongono i concetti legati al tema della delinquenza minorile. Sul piano pratico, con il supporto delle fonti più accreditate di natura antimafia, si riportano le principali criticità della criminalità minorile partenopea. Al fine di chiarire se si tratta di ordinaria criminalità metropolitana oppure se si possono individuare specificità di Napoli, nonché di fare luce sui fattori che favorirebbero l’uscita dai confini della devianza grave, al punto da trasformarsi in carriera criminale. Senza trascurare alcune possibili soluzioni.

 

This paper offers some insights on the birth of Naples new criminal groups made up of very young people and the links of these groups with local criminal organizations. On the theoretical level, a view of juvenile delinquency topics will be proposed, thanks to an analysis of dissertations by some of the most expert scholars. On the practical level, main criticalities of Neapolitan juvenile crime will be reported, with the support of the most reliable sources of anti-mafia nature. The objective is to clarify whether it is ordinary metropolitan crime or if specific characteristics of Naples can be identified, as well as to shed light on the factors that would favor the exit from the boundaries of serious deviance, to the point of becoming a criminal career. Without neglecting some possible solutions.

 

Sommario

1. Premessa

2. Giovani leve e baby gangs

3. I “rapporti di manovalanza” tra camorra e minori

4. Riflessioni finali

 

Summary

1. Introduction

2. Young generation and baby gangs

3. The “labor relations” between Camorra and minors

4. Final reflections

 

1. Premessa

Le teorie criminologiche degli anni Cinquanta e Sessanta, che avevano come oggetto la delinquenza minorile, hanno tentato di spiegare quello che ritenevano fosse la forma più diffusa di delinquenza: le bande, analizzandone l’origine e il contesto.

Una prima spiegazione delle sottoculture delinquenziali è stata offerta dalla Scuola di Chicago[1], che, a partire dallo studio di Frederic Thrasher (1927), sulle bande di questa città, fino alle teorizzazioni effettuate da Clifford Shaw (1946) e dai suoi allievi, aveva fatto dipendere la costituzione di bande minorili dalla presenza di disorganizzazione sociale, dovuta alla rottura dei legami di controllo dei genitori sui figli, abbandonati alla strada.

L’indebolimento delle relazioni sociali primarie (familiari e/o parentali), alimentando il processo di disgregazione sociale, è diventata la principale chiave di lettura dell’origine della delinquenza giovanile. Clifford Shaw ed Henry McKay, tra l’altro, concepivano le relazioni primarie in modo simile a quelle esperite in un villaggio: se i rapporti all’interno della famiglia e dei gruppi amicali erano buoni, il vicinato era stabile e coeso e la gente mostrava un senso di lealtà verso il quartiere, allora l’organizzazione sociale era solida.

Una spiegazione alternativa è stata avanzata da Walter B. Miller (1958), secondo il quale i “valori” sottoculturali, quali edonismo, furbizia, machismo, ricerca dell’eccitamento, fatalismo, erano propri non tanto di singole sottoculture, quanto della classe inferiore nella sua generalità.

Per altre vie Albert Cohen (1955) e Richard Cloward e Lloid Ohlin (1960) hanno cercato di coniugare il lavoro della Scuola di Chicago (e di Edwin Sutherland) con la teoria dell’anomia di Robert Merton[2]. In quest’ottica, la formazione delle bande costituiva una soluzione a una serie di problemi “psicosociali” dei giovani maschi nella classe inferiore.

Deve rilevarsi che, come hanno affermato Roger Hood e Richard Sparks (1970), questo tipo di teorizzazione fonde il concetto di sottocultura con quello di “cultura” della gang: la sottocultura sarebbe, così, l’insieme di norme, valori e ideali che caratterizzano le bande minorili[3].

In più, grazie agli studi di Cohen si apprende che «la sottocultura delinquenziale non è solo un complesso di regole e un modello di vita diversi dalle norme della società adulta “rispettabile”, ovvero indifferenti a queste o addirittura in conflitto con esse. […] Essa prende le proprie norme dalla più vasta cultura circostante, ma le capovolge. [Tant’è vero che] La condotta del delinquente è giusta, secondo i principi standard che regolano la sua sottocultura, precisamente perché è ingiusta secondo le norme della cultura circostante»[4].

La mafia napoletana o Camorra, notoriamente, è l’unica organizzazione criminale ad avere origini urbane, in quanto nasce agli inizi del XIX secolo nel cuore della città di Napoli.

Differentemente, ad esempio, la mafia siciliana o Cosa nostra nasce sempre nei primi dell’Ottocento, tuttavia, tra le campagne di una regione in cui c’era tanta povertà e le istituzioni erano pressoché assenti, in un intreccio di “reciproci interessi” tra latifondisti e “guardiani” di quei tempi.

Già nel 1993, nella Relazione dell’allora Commissione parlamentare antimafia[5], sulla camorra, si documentava che «il carattere metropolitano e l’antica storia la rendono fisiologicamente disponibile ai commerci, ad avere rapporti con chi esercita funzioni politiche e istituzionali, le fanno acquisire la negoziazione come forma delle relazioni sociali».

Ciò in ragione del fatto che, allora come oggi, di quel sistema sono parte integrante gruppi che si compongono e scompongono con grande facilità, nonché vere e proprie holding criminali che hanno creato imperi economici e una rete di relazioni affaristiche in grado di condizionare l’intero mercato, oltre che la vita politica e istituzionale. La camorra, tra l’altro, è l’unica organizzazione criminale entrata a far parte di un corpo di polizia: la Guardia cittadina del 1860, reclutata dall’allora Prefetto di Napoli[6].

La caratteristica con la maggiore pericolosità sociale della camorra napoletana è rappresentata dal fatto che «i diversi clan non hanno mai avuto una cupola: nessuna struttura verticale di comando, di coordinamento o di condizionamento sulle singole attività», in grado di poter «dirimere controversie o rispondere unitariamente ad una eventuale azione repressiva dello Stato». E «ogni tentativo di unificazione sotto forma di un unico comando è degenerato in una carneficina»[7].

La Direzione investigativa antimafia (DIA), con la pubblicazione sul proprio sito Internet[8] della Relazione semestrale al Parlamento, rende noto che i gruppi camorristici ormai hanno assunto una struttura “pulviscolare”, la quale ha accentuato smisuratamente sia la conflittualità che le alleanze, incidendo sulla stabilità dei rapporti tra i vari clan.

Secondo quanto emerge dalle inchieste della DIA, «a Napoli e provincia complessivamente risultano 89 clan (per un numero complessivo di circa 4.500 affiliati) di cui 42 operativi a Napoli e 47 in provincia che interagiscono tra loro in equilibrio instabile e in territori caratterizzati da una densità abitativa elevatissima, ove è più facile – sotto il profilo delle risorse umane disponibili – rinnovare costantemente gli organigrammi dei sodalizi»[9].

Ciò ha originato un’area urbana caratterizzata, oltre dai considerevoli episodi di faide scissioniste, anche dalla nascita di nuove aggregazioni di giovanissimi, ma con un curriculum criminale di tutto “rispetto”, attirati sempre più da facili e grossi guadagni della camorra; e, a volte, animati da forti ambizioni di potere: accedere a ruoli di comando, sostituendo addirittura i vecchi boss.

Gli studiosi dei fenomeni criminali hanno non poche volte suggerito che la delinquenza giovanile nelle aree urbane potesse essere spiegata in base al concetto di trasmissione culturale. In altri termini, i giovani che vivono in aree socialmente disgregate hanno maggiori possibilità di venire “a contatto” con individui che abbracciano valori criminali o delinquenziali.

Per Shaw e McKay (1942): «I ragazzi di queste zone non solo vengono a contatto coi delinquenti della loro stessa età, ma anche con quelli più vecchi, che a loro volta ebbero rapporti con quelli che li avevano preceduti, e via di seguito fino all’inizio della storia del quartiere.

Questi contatti significano che le tradizioni delinquenziali possono essere e vengono trasmesse di generazione in generazione di ragazzi, in maniera simile a quelle che trasmettono il linguaggio e altre forme»[10].

Tant’è vero che l’area centrale di Napoli pare sia proprio caratterizzata dallo sviluppo di una spiccata tradizione delinquenziale, attraverso cui i “valori” devianti vengono trasmessi ormai da secoli.

Sempre in tema di trasmissione culturale, il sociologo americano Cohen era dell’idea che i giovani dei ceti subalterni, che tenevano relazioni continue con i membri della sottocultura delinquenziale, diventassero a loro volta delinquenti, iniziando a considerare i componenti delle bande come «Altri significativi» e finendo a identificare la soluzione dei problemi attraverso la sottocultura delinquenziale[11]. Secondo Cohen: «Quando parliamo di una sottocultura delinquenziale, ci riferiamo a una forma di vita che, in qualche modo, è divenuta tradizionale […] nelle bande di ragazzi che prosperano nella forma più vistosa entro i “quartieri della malavita” dei nostri maggiori centri urbani. Col passare degli anni alcuni dei membri di queste bande divengono normali cittadini attenendosi alla legge, altri diventano criminali adulti, ma la tradizione delinquenziale è mantenuta dalle generazioni susseguenti»[12].

Isaia Sales ha sempre cura di sottolineare quanto la criminalità minorile che si consuma a Napoli sia differente rispetto alle forme criminali che si realizzano in altri luoghi. Una riflessione che sviluppa lo studioso ruota intorno al c.d., effetto periferia: Napoli pare essere l’unica città italiana a ospitare nel cuore del centro storico una estesa “periferia”, intendendo con questa espressione “un concetto sociale più che geografico”.

Se in altri contesti metropolitani la periferia che circonda il centro storico è la parte geografica che accoglie in prevalenza il crimine, a Napoli centro storico e periferia s’intersecano favorendo, in tal senso, lo sviluppo di quartieri a rischio, dove non è inusuale che alcuni giovani utilizzino il crimine come esperienza comune.

E se è vero che «la criminalità a Napoli vive spalla a spalla con il disagio minorile»[13], l’integrazione con gli ambienti devianti è, quindi, un rilevante fattore dell’uscita dai confini della devianza grave, al punto da trasformarsi in carriera criminale.

Sales, inoltre, è del parere che a Napoli si assiste a un intreccio tra “questione urbana”, “questione minorile” e “questione criminale”, per il quale non si può ipotizzare di conoscere o studiare l’una senza aver appreso delle altre e viceversa[14].

Così – nel senso di Sales – è possibile osservare come la questione urbana della città di Napoli è imprescindibilmente legata alla questione criminale, acquisendo in un solo connubio – se purtuttavia esageratamente in forma pulviscolare – il marchio di camorra napoletana, con le proprie origini, evoluzioni e peculiarità.

Adesso non resta che affrontare la questione minorile partenopea, ovverosia mostrare come una urbe criminis cattura nelle proprie grinfie certi bambini, indottrinandoli a una delle forme più violente di delinquenza, fino a farli divenire giovani camorristi ed elevarli, anche se in un solo caso eccezionale e per brevissimo tempo, addirittura, a baby boss.

 

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[1] L’Università di Chicago ha istituito il primo Dipartimento di sociologia nel 1892; in seguito, con l’insediamento nell’ateneo di Robert Park, nel 1914, è nata la Scuola di Chicago. I ricercatori, grazie allo studio della sociologia empirica, studiavano gli individui sia nella loro singolarità sia nel loro ambiente sociale, utilizzando la “storia di vita” (metodo che afferrava in profondità le vite individuali) e lo studio ecologico (analisi di dati ufficiali sulle caratteristiche di vasti gruppi di persone). La Scuola di Chicago, incrociando le informazioni raccolte (casi individuali e dati statistici), è riuscita a costruire una visione d’insieme che da allora in poi avrebbe improntato l’impostazione di molte delle attuali teorie criminologiche. Cfr. WILLIAMS F. P., MCSHANE M. D., Devianza e criminalità, Bologna, 2002, p. 55.

[2] Merton (1938), allontanandosi dal concetto di anomia legato ai lavori di Emile Durkheim (1893), distingueva le norme sociali in due tipi: mete sociali e mezzi accettabili per raggiungerle. Egli ha ridefinito l’anomia come una discrepanza o incongruenza tra mezzi e fini prodotta dalla struttura sociale (definire delle mete senza fornire però a tutti i mezzi per conseguirle). La devianza, quindi, poteva essere spiegata come il risultato di una organizzazione della società dentro la quale le mete culturalmente definite e i mezzi socialmente strutturati sono separati o incoerenti tra di loro. In altre parole, la devianza è il frutto dell’anomia. Cfr. ivi, 85 s.

[3] BANDINI T., GATTI U., GUALCO B., MALFATTI D., MARUGO M., VERDE A., Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, II, Milano, 2004, 367.

[4] COHEN A. K., Ragazzi delinquenti. Una penetrante analisi sociologica della “cultura” della gang, Milano, 1974 (ed. or. 1955), 23.

[5] Si tratta della prima relazione organica sulla camorra, definita dallo studioso Isaia Sales quale “documento storico che, per la prima volta, supera la sottovalutazione del fenomeno”.

[6] Cfr. DIA, Relazione semestrale al Parlamento, II [= semestre], 2018, 146 s.

[7] Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, XVII legislatura, Relazione conclusiva, Doc. XXIII, n. 38, Relatrice: On. BINDI R., Roma, 7 febbraio 2018, 59. Vd., sul sito ufficiale del Parlamento italiano, link: http://documenti.camera.it/_dati/leg17/lavori/documentiparlamentari/IndiceETesti/023/038/INTERO.pdf.

[8] Vd. link: https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/relazioni-semestrali/.

[9] DIA, Relazione semestrale al Parlamento, I, 2017, nota 262, 111 (i tratti sono degli autori). In più, secondo la Commissione parlamentare antimafia «nel 2015 si contavano ben 180 clan camorristici a Napoli e provincia, un numero record in rapporto alle altre criminalità mafiose italiane» (cfr. op. cit., 60).

[10] SHAW C. e MCKAY H., Juvenile delinquency in urban areas, Chicago, 1942, 168.

[11] Cfr. WILLIAMS F. P., MCSHANE M. D., op cit., 103.

[12] COHEN A. K., Ragazzi delinquenti, cit., 7.

[13] SALES I., Minori e reati, qui non è solo una questione di giustizia, in «Il Mattino», 12 dicembre 2019 e cfr. DI PASCALE M., Criminalità minorile metropolitana: aggiornamento alle recenti tendenze, in AA.VV., Terzo rapporto. Criminalità e sicurezza a Napoli, a cura di DI GENNARO G. e MARSELLI R., Napoli, 2020, 76 s.

[14] Ibid.