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Adolescenti, giovani adulti e criminalità

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Adolescenti, giovani adulti e criminalità

 

Il ruolo della famiglia

Nella pedagogia familiare risiede il centro dell'intera prevenzione delle devianze antigiuridiche. Nel bene o nel male, la famiglia è e rimane la prima agenzia di controllo. I genitori svolgono un ruolo basilare e non delegabile. A tal proposito, Patterson (1976)[1] afferma che “se i genitori si lamentano eccessivamente o utilizzano minacce inutili verso i loro figli, è probabile che generino sistemi coercitivi nei quali i bambini acquisiscono il controllo attraverso comportamenti scorretti. La famiglia è così importante, in termini di sviluppo della criminalità, che quasi tutti i programmi di prevenzione sociale sono stati progettati per aiutare i genitori a far fronte ai problemi dei loro figli”. Anzi, secondo Kadzin (1997)[2] è indispensabile il coinvolgimento parentale durante la scuola dell'obbligo, ovverosia “[oggi] la formazione sulla gestione dei genitori ha portato a notevoli miglioramenti nel comportamento del bambino e nei rapporti tra genitori ed insegnanti sul comportamento deviante, con l'osservazione diretta del comportamento a casa e a scuola, e tramite documenti istituzionali (ad esempio: assenze scolastiche, tassi di arresto ed istituzionalizzazione)”. Come si può notare, in Kadzin (ibidem)[3] sono lontani i tempi di una scuola distaccata dalla famiglia ed autonoma, in tanto in quanto è necessaria una stretta collaborazione tra le figure genitoriali ed i docenti.

Le agenzie di controllo non sono monoliticamente chiuse e prive di comunicazione reciproca. Tale passaggio di informazioni tra la famiglia e le Autorità pubbliche è talmente essenziale che, a parere di Farrington (1994)[4], in casi di disagio sociale, “i problemi durante la gravidanza e durante l'infanzia possono essere attenuati da programmi di visite a casa progettati per aiutare le madri”. Ecco, in Farrington (1994)[5], lo spettro di un assistenzialismo ipertrofico che toglie qualsivoglia forma di privacy alla famiglia. Nello Stato di New York, Olds & Henderson & Tatelbaum & Chamberlin (1986)[6] hanno monitorato 400 madri problematiche seguite dagli assistenti sociali dalla gravidanza ai primi 2 anni di vita del/della bambino/a. La conclusione è stata che “le visite a domicilio durante la gravidanza hanno portato le donne fumatrici a diminuire il consumo di fumo e ad avere meno parti prematuri. Inoltre, le visite domiciliari postnatali hanno causato una diminuzione degli abusi fisici sui minori e degli abbandoni registrati durante i primi due anni di vita, soprattutto da parte di madri adolescenti povere non sposate […]. Il 4% delle madri che avevano ricevuto le visite erano colpevoli di abusi sui minori e di abbandono, contro il 19% delle madri che non avevano ricevuto visite. Quest'ultimo risultato è importante, perché si ritiene che l'essere abusati fisicamente o trascurati da bambini predica un successivo reato violento”.

A parere di chi redige, il suesposto intervento costante degli assistenti sociali rischia di mortificare le libere scelte educative delle famiglie. Le madri autonome e non devianti non debbono patire un perenne intervento della pubblica amministrazione all'interno della loro vita privata. Il rischio è quello di un assistenzialismo abnorme che finisce per  sostituirsi alla libera volontà dei genitori. L'ingresso delle Istituzioni nell'intimità del focolare domestico è accettabile e comprensibile soltanto nella fattispecie di madri devianti che versano in gravi condizioni socio-economiche. Oppure ancora, l'interventismo istituzionale è utile e ragionevole nel caso di gravidanze in età adolescenziale. Del pari, Larson (1980)[7] ha allestito e diretto una serie di visite domiciliari a 100 madri in stato di precarietà abitativa e povertà economica. Da questo esperimento di tutela è emerso che “i figli delle madri che hanno ricevuto le visite hanno subìto un numero significativamente inferiore di lesioni nel primo anno di vita. I figli di madri visitate dagli psicologi infantili sia prima sia dopo la nascita (la categoria che ha ottenuto il miglior risultato) hanno riportato solo la metà di lesioni ai figli di madri non visitate. Inoltre, le madri visitate sia nel periodo prenatale sia in quello postnatale sono state giudicate dagli psicologi le più abili nel prendersi cura del bambino”. Interessante è stato pure l'”Infant Health and development programme” guidato da Brooks & Petit (1997)[8] ed avente ad oggetto 1.000 neonati partoriti sottopeso. Siffatto monitoraggio “ha avuto degli effetti benefici, poiché i bambini dei gruppi seguiti da uno psicologo avevano una maggiore intelligenza e meno problemi comportamentali all'età di 2/3 anni”. Nel Regno Unito, sono frequenti questi programmi di tutela pubblica, ma, a parere di chi scrive, sussiste pur sempre il pericolo di buna medicina e di una psicologia tracotanti ed onnipresenti. Anche la privacy del nucleo familiare è un valore degno di tutela.

Lo welfare esasperato delle civiltà anglofone è presente pure nella Ricerca di Johnson & Walker (1987)[9], i quali hanno seguito un campione di 140 bambini dalla nascita sino agli 11 anni d'età. Il risultato è stato che “alla fine del programma, le madri che avevano ricevuto visite a domicilio sono state classificate come più affettuose, in quanto utilizzavano elogi e meno critiche, fornendo un ambiente domestico più stimolante. All'età di 11 anni, gli insegnanti hanno valutato i bambini che hanno ricevuto le visite [dei servizi sociali, ndr] come meno aggressivi rispetto ai controlli. Pertanto, le prime visite a domicilio hanno portato da un miglioramento nel comportamento dei bambini”. Chi scrive, tuttavia, reputa che il “migliore comportamento” della prole, in Johnson & Walker (ibidem)[10], abbia, come normale, un'eziologia multifattoriale, non legata solamente o prevalentemente all'intervento domiciliare di figure pedagogiche esterne. E' necessario il rispetto dell'autonomia del singolo nucleo familiare, tranne nei casi di evidente e pesante disagio economico o culturale.

Nel progetto di Lally & Mangione & Honig (1988)[11], gli operatori hanno fornito assistenza diurna esterna ad un gruppo di bimbi dai 2 ai 5 anni. Ora, “i bambini trattati avevano un'intelligenza significativamente maggiore rispetto ai controlli all'età di 3 anni, ma non significativamente diversa all'età di 5 anni. Dieci anni dopo, circa 120 bambini trattati sono stati seguiti sino all'età di 15 anni. Un numero significativamente minore di bambini che hanno ricevuto assistenza giornaliera ( il 2% contro il 17%) è stato indirizzato al Tribunale dei minori per reati di delinquenza, e le ragazze che hanno avuto assistenza hanno dimostrato di avere una miglior frequenza scolastica e rendimento scolastico. Quindi, questo esperimento di prevenzione [di Lally, Mangione & Honig, ibidem[12]] […] dimostra che le prime visite domiciliari, che forniscono consigli e supporto alle madri, possono avere esiti positivi in seguito, in particolar modo sulla riduzione del reato e dei comportamenti devianti”. Nuovamente, chi commenta si dissocia dalle conclusioni di Lally & Mangione & Honig (ibidem)[13], in tanto in quanto la prevenzione delle devianze antinormative passa attraverso un'ampia gamma di fattori non esclusivamente legati alla presenza, o meno, degli assistenti sociali e dei Criminologi. L'educazione del bambino, dell'adolescente e del giovane patisce, per esempio, anche l'influsso del gruppo dei pari.

Oppure, si ponga mente alle minoranze etniche ghettizzate nelle periferie suburbane. Lo welfare non è la chiave di risoluzione di qualsivoglia impulso antisociale, come dimostra il fallimento del sistema scandinavo negli Anni Venti del Duemila.

Viceversa, pienamente condivisibile è Kazdin (1987)[14], a parere del quale “un altro aspetto legato alla prevenzione della devianza all'interno della famiglia è quello dei metodi di educazione dei figli. Infatti, […] i fattori familiari sono correlati a problemi di condotta e di delinquenza nei giovani. E' stato riscontrato che scarsa supervisione genitoriale, disarmonia parentale, rifiuto del figlio da parte dei genitori e scarso coinvolgimento nelle attività del bambino sono tutti importanti predittori della devianza […] Comportamenti sbagliati nell'educazione dei figli sono causa di delinquenza”. Del pari, giustamente, Tolan & Cromwell & Brasswell (1986)[15] osservano che “allenare i genitori a crescere i propri figli in modo più efficace può ridurre i loro reati”

Il ruolo dell'istituzione scolastica

Dal Novecento in poi, l'istituzione scolastica reca un ruolo fondamentale nell'accertamento delle prime devianze antisociali e/o antigiuridiche. Secondo Fergusson & Horwood (1995)[16], “ci sono molti fattori per cui le scuole svolgono un ruolo essenziale nella prevenzione, nel trattamento e nel controllo della criminalità minorile. Studi longitudinali, infatti, hanno dimostrato che bassa intelligenza, rendimento scolastico scarso, vocabolario limitato e ragionamento verbale scarso sono predittori di delinquenza cronica”. Del pari, Seguin & Pihl & Harden & Tremblay & Boulerice (1995)[17] hanno evidenziato che “[in ambito scolastico] scarse funzioni esecutive, inclusa la capacità di pianificare e sequenziare il comportamento sono state associate ad un comportamento aggressivo stabile nei ragazzi della prima adolescenza”.

In maniera eccessivamente apodittica e quasi lombrosiana, Fergusson & Lynskey (1996)[18] hanno addirittura postulato che “una bassa capacità cognitiva precede [sempre ?, ndr] lo sviluppo del comportamento delinquenziale”. Viceversa, in modo assai più prudente, Yoshikawa (1994)[19] ha negato l'eziologia diretta tra “un QI inferiore […]  e la delinquenza”. Finalmente, Yoshikawa (ibidem)[20] affranca la Criminologia contemporanea da un approccio deterministico che rischia di sfociare nell'eugenetica. Il rendimento ed il disagio scolastico costituiscono soltanto due dei molteplici fattori che conducono alla criminogenesi, la quale è una realtà troppo ampia per essere ricondotta soltanto ad esperienze scolastiche negative. Ecco, dunque, il ritorno della ratio della multifattorialità causale delle devianze antigiuridiche degli infra-25enni. In effetti, Fergusson & Horwood (ibidem)[21] utilizzano prudentemente il verbo “potere” nell'asserire che “il basso legame con la scuola, le assenze scolastiche e l'abbandono scolastico possono essere correlati con la delinquenza violenta successiva. Una bassa capacità cognitiva che porta al fallimento scolastico ed un ridotto legame con la scuola possono portare a saltare la scuola e ad abbandonarla, aumentando il tempo disponibile per essere coinvolti in comportamenti delinquenziali”.

Nella tematica del pessimo rendimento scolastico, il condizionale è d'obbligo, in tanto in quanto sarebbe profondamente irragionevole e fuorviante associare una bassa cultura alla criminalità, la quale veniva agita anche prima dell'istituzione dell'obbligo scolastico. Un individuo normodotato può non essere incline a commettere reati a prescindere dal proprio titolo di studio. Del resto, bisogna spostare l'ago della bilancia verso altri elementi criminogenetici, come la famiglia dissociata, la precarietà abitativa, l'influsso dei coetanei e l'appartenenza ad un gruppo etnico minoritario. A loro volta, queste ultime componenti vanno egualmente contestualizzate e potrebbero non risultare né influenti né decisive. Esposta tale premessa doverosa, è ognimmodo incontestabile, come rimarca Farrington (1991)[22] che “i problemi comportamentali rilevati a scuola sono obiettivi importanti per l'intervento di prevenzione. Il comportamento dirompente in classe consuma il tempo e l'energia dell'insegnante e interferisce con i processi di apprendimento degli studenti non dirompenti; il che può portare ad una riduzione del rendimento scolastico nella classe”. Tuttavia, a parere di chi commenta, pure Farrington (ibidem)[23] va letto separando sempre l'eventuale mancanza di disciplina scolastica dalla criminogenesi.

Di nuovo, è necessario ribadire che la scuola non è né l'unica né la più importante agenzia di controllo. P.e., risultano maggiormente diseducative certune ambigue frequentazioni extra-scolastiche o certuni ambienti ontologicamente antigiuridici, come le discoteche e gli altri locali notturni. In ogni caso, potenzialmente, come osservano Huesmann & Eron (1984)[24], può darsi che “i problemi di comportamento in classe possono rappresentare le prime avvisaglie di un successivo comportamento delinquenziale”. Parimenti, come asserito da Pulkkinen & Tremblay (1992)[25], è altrettanto verificabile che “il comportamento aggressivo infantile, così come l'iperattività, le difficoltà di attenzione, l'impulsività ed il comportamento oppositivo siano correlati con il comportamento delinquenziale nell'adolescenza”. Similmente, Tremblay & Pihl & Vitaro & Dobkin (1994)[26] ipotizzano che “il comportamento aggressivo valutato dagli insegnanti a scuola [può essere] correlato alla delinquenza successiva”. Ad ogni conto, le summenzionate ipotesi non debbono indurre ad assolutizzare il fattore del rendimento scolastico. La mancanza di disciplina all'interno dell'istituzione scolastica non è mai un elemento predittivo certo della futura antigiuridicità. L'eziologia delle devianze è connessa ad una vasta gamma di realtà che inducono alla commissione di reati. Concentrarsi eccessivamente sulla ratio della scuola risulta dogmatico e riduttivo.

Come messo in evidenza da Figueira & McDonough (1992)[27], molte volte, ancorché non in maniera matematica, “i processi scolastici ed il clima scolastico sono spesso correlati ai livelli di rendimento e di delinquenza”. A tal proposito, sempre senza addivenire a conclusioni apodittiche, Rutter & Giller (1983)[28] notano che “un certo numero di Studi ha dimostrato un'ampia variabilità nei tassi di delinquenza nelle scuole. Un ambiente scolastico caratterizzato da risultati competitivi, da un processo formalizzato per la gestione di tutti i problemi disciplinari ed una supervisione negligente è associato a tassi più elevati di delinquenza minorile, rispetto ad un ambiente scolastico caratterizzato da un'enfasi sull'interesse all'apprendimento, da una gestione informale dei problemi disciplinari non gravi e da una stretta supervisione”. In tutti i predetti Autori, come si può notare, l'antisocialità scolastica tende a trasformarsi in antinormatività sociale.

Dunque, la condotta scolastica costituisce una preparazione per l'ingresso nel più ampio mondo della vita collettiva. L'esperienza della scuola, sebbene non sia univocamente decisiva, aiuta l'inserimento in gruppi sociali ben più grandi e complessi. Tuttavia, di nuovo, chi redige nega con vigore che l'istituzione scolastica rechi una valenza pedagogica assoluta rispetto alle altre e ben più importanti agenzie di controllo. P.e., rimangono decisivi gli eventuali influssi anti-pedagogici della famiglia e, soprattutto, del gruppo dei pari.

Non senza esagerazioni, Stattin & Klackenberg-Larsson (1993)[29] spostano l'attenzione degli operatori verso la fase della prima infanzia, ovverosia “un altro vantaggio dell'intervento nelle scuole per prevenire e ridurre la delinquenza è che [oggi], con poche eccezioni, la maggior parte dei bambini frequenta la scuola e la maggior parte frequenta anche la scuola materna. Ciò aiuta l'identificazione precoce dei bambini con problemi comportamentali, difficoltà scolastiche o entrambi, che sono noti predittori di comportamenti delinquenziali successivi”. Pure White & Moffitt & Earls & Robins & Silva (1990)[30] esortano gli educatori scolastici a creare “un intervento pedagogico implementato per individui o gruppi problematici”.

Tuttavia, nella realtà quotidiana, la scuola non sempre offre “interventi” preventivi ben coordinati. In effetti, Tremblay & Pihl & Vitaro & Dobkin (ibidem)[31] amaramente sottolineano che “alcuni interventi mirano a cambiare l'ambiente scolastico o la classe, mentre altri si concentrano sul cambiamento del comportamento, sulle abilità o sugli atteggiamenti degli studenti. Poche valutazioni misurano direttamente la delinquenza come risultato […]. Tuttavia, vengono spesso esaminati il consumo di alcol e droghe. Inoltre, poche valutazioni includono un monitoraggio di lungo termine, rendendo impossibile sapere se la riduzione dei fattori di rischio si traduca in una riduzione della delinquenza o se i comportamenti delinquenziali, subito dopo un intervento, siano mantenuti nel tempo. Questi fattori rendono difficile il compito di trarre conclusioni su quali interventi scolastici siano più efficaci nel ridurre la delinquenza”. Più ottimista è Gottfredson (1987)[32], a parere del quale “i programmi volti a rafforzare la capacità delle scuole di avviare e sostenere l'innovazione hanno ridotto il comportamento delinquenziale, l'uso di droghe e la sospensione”. Analogamente, Kenney & Watson (1996)[33] osservano che “gli interventi che si sono concentrati sul chiarimento delle regole e sulla definizione delle norme per il comportamento a scuola riducono il vandalismo, il bullismo e l'utilizzo di alcol e droga”.

Hawkins & Laub & Lauritsen (1998)[34] mettono in risalto che “la formazione degli insegnanti nella gestione della classe, nell'insegnamento interattivo e nell'apprendimento cooperativo, in particolare in un contesto di intervento multimodale, può portare a riduzioni, alungo termine, del comportamento delinquenziale”. In particolar modo, i predetti Hawkins & Laub & Lauritsen (ibidem)[35] hanno fondato il “progetto Seattle “, che monitorava, nel lungo periodo, un gruppo multietnico di scolari “controllati” da équipes di Docenti affiancati costantemente dai genitori. Tale progetto ha dato effetti positivi, in tanto in quanto “all'età di 18 anni, i bambini dell'intervento avevano risultati scolastici significativamente più alti e tassi più bassi di comportamento delinquente violento durante la vita rispetto ai bambini non controllati”. Come si può notare, anche il “progetto Seattle” ha avuto cura di coinvolgere non solo gli insegnanti, ma anche i genitori. Sono lontani i tempi della separazione radicale tra l'agenzia di controllo scolastico e quella familiare.

Analoghi risultati positivi sono sortiti pure dal PATHS (Promoting Alternative Thinking Strategies), coordinato da Greenberg & Kusche (1998)[36]. Il PATHS è stato “un progetto volto a promuovere la competenza sociale ed emotiva, a prevenire e ridurre il comportamento [deviante] ed i problemi emotivi nei bambini delle scuole elementari […]. [Questo esperimento] ha riscontrato riduzione del comportamento aggressivo e dirompente tra i gruppi sperimentali dopo un follow-up di due anni”. A parere di chi redige, ognimmodo, è essenziale rimarcare che anche Greenberg & Kusche (ibidem)[37] non hanno isolato l'istituzione scolastica, bensì essi hanno voluto e creato una costante e preziosa sinergia tra scuola e genitori. La partecipazione attiva della famiglia è basilare, mentre, una trentina d'anni fa, si accettava una semplicistica delega di potere all'autorità costituita. Ora, viceversa, si è consapevoli che la sorveglianza parentale, durante l'infanzia e l'adolescenza, non va mai disgiunta dal monitoraggio degli educatori esterni.

Come prevedibile, Bry (1982)[38] ha notato che “l'utilizzo di metodi comportamentali per il raggiungimento di obiettivi accademici, con premi per il completamento con successo e costi per le violazioni, ha dimostrato miglioramenti comportamentali, a breve termine, e riduzioni, a lungo termine, della delinquenza. In buona sostanza, Bry (ibidem)[39] ha notato il ruolo positivo del creare un giusto equilibrio, nell'ambiente scolastico, tra punizioni e gratificazioni. Pure Brooks & Petit (1997)[40] hanno posto in essere un sistema di gratifiche, scolastiche ed extra-scolastiche, che ha rinforzato il legame degli infra-18enni con le agenzie di controllo, riducendo le devianze antinormative entro 8 settimane dall'inizio del programma terapeutico. Dunque, il “voto” è stato trasformato in un mezzo di approvazione sociale, a fronte della rinuncia del ragazzo a mettere in atto azioni illecite e collettivamente non gradite. Apprezzabile è pure, secondo Arbuthnot & Gordon (1988)[41], allestire “interventi scolastici che enfatizzano la capacità di ragionamento morale [poiché questi approcci] hanno dimostrato una certa efficacia nel ridurre il comportamento delinquenziale. Più nel dettaglio, Arbuthnot & Gordon (ibidem)[42], per un periodo di 16/20 settimane, hanno monitorato i miglioramenti di 48 “studenti con storie di sregolatezza, aggressività, impulsività, distruttività o problemi comportamentali specifici”. Siffatto Studio anglofono del 1988 dimostra che il giovane deviante non è mai irrecuperabile, specialmente allorquando si crea un'union epedagogica tra la famiglia e le autorità scolastiche.

Da segnalare è il progetto-censimento di Gottfredson & Gottfredson (1992)[43], a parere dei quali ribadire agli studenti “l'importanza dell'ordine e delle regole” diminuisce sia il consumo di alcol e stupefacenti, sia il tasso di antigiuridicità comportamentale. Sin dagli Anni Ottanta e Novanta del Novecento, svariati Dottrinari anglo-statunitensi hanno molto insistito sulla “moralizzazione” dei giovani infrattori. In effetti, istanze etiche e valoriali robuste prevengono la criminogenesi e/o la tossicodipendenza. Un contesto sociale a-morale ed ateistico crea un terreno fertile per le devianze auto-/etero-lesive. All'opposto, Lipsey (1992)[44] ha osservato che, solitamente, lasciare il/la ragazzo/a alla “consulenza tra pari” non è preventivo e, anzi, “aumenta gli atteggiamenti antisociali ed il comportamento delinquenziale”. Parimenti, Gottfredson (1987)[45] definisce illusoria la convinzione che i gruppi di discussione tra coetanei possano avere un ruolo deterrente, nemmeno nel caso in cui è un adulto a mediare il dibattito. Anche Farrington (1990)[46] svela l'inutilità delle “consulenze tra pari”, ovverosia “i programmi di mediazione tra pari e di risoluzione dei conflitti sono diventati molto popolari nelle scuole […]. [Ma] la maggior parte degli Studi sulla mediazione tra pari […] non ha riscontrato effetti significativi della mediazione tra i pari sul comportamento degli studenti”.

Pertanto, gli Autori ribadiscono la centralità della supervisione di almeno un insegnante, in tanto in quanto è assurdo pretendere che il/la coetaneo/a svolga funzioni pedagogiche a beneficio di un altro studente. Dunque, Gottfredson (ibidem)[47] giustamente afferma che “è assolutamente necessario capire quali sono i programmi che non funzionano, in modo da evitare di sprecare investimenti di tempo e denaro. Le strategie che si sono rivelate inefficaci e, talvolta, persino dannose includono programmi didattici incentrati sulla diffusione delle informazioni, sulla consulenza agli studenti, in particolare in gruppi di pari e sull'esecuzione di attività alternative senza alcuna programmazione di prevenzione”. Quindi, Gottfredson (ibidem)[48] lascia intendere che rimane imprescindibile la presenza e la direzione di un insegnante in grado di garantire la serietà del programma preventivo. Anzi, talune iniziative, anziché implementare la general-preventività, portano all'unica conseguenza collaterale di acuire inutili o, financo, pericolose curiosità morbose dell'adolescente, il quale è, per natura, in un'età ancora esposta alla traumatofilia ed alla sottovalutazione dei rischi.

P.e., a proposito del DARE (Drug Abuse Resistance Education), Clayton & Cattarello & Johnstone (1996)[49] hanno tristemente rilevato che “non è stata riscontrata alcuna riduzione del consumo di droga tra gli studenti che hanno seguito questo programma”. Anzi, sempre con afferenza al DARE, Rosebaum & Hanson (1998)[50] hanno osservato che “una valutazione di follow-up di 6 anni ha rilevato che gli studenti delle scuole suburbane che avevano seguito il programma DARE avevano un leggero aumento nell'uso delle droghe rispetto a quelli che non avevano partecipato al programma”. In terzo luogo, quanto al DARE, Sigler & Talley (1995)[51] dichiarano apertamente che “questa ricerca non funziona e non riduce l'uso di sostanze. Il contenuto del programma, i metodi di insegnamento e l'uso di agenti di polizia in divisa, piuttosto che di insegnanti, potrebbero spiegare le sue valutazioni così deboli. Nessuna prova scientifica suggerisce che questo programma, come originariamente era stato progettato nel 1993, ridurrà l'uso di sostanze, in assenza di un'istruzione continua più focalizzata sullo sviluppo delle competenze sociali”. Pure Rotheram (1982)[52] evidenzia che “i programmi [scolastici] incentrati sulle abilità di competenza sociale, come lo sviluppo dell'autocontrollo, la gestione dello stress, un processo decisionale responsabile, la riduzione dei problemi sociali e le capacità di comunicazione riducono il comportamento dirompente ed antisociale se utilizzano metodi di formazione cognitivo-comportamentale e se vengono forniti per un lungo tempo, in modo che le abilità siano continuamente rafforzate”.

Altri influssi criminogeni non di tipo familiare

Con molto realismo, Dishion & Duncan & Eddy & Fagot & Fetrow (1994)[53] sottolineano che “i coetanei giocano ruoli sempre più importanti man mano che i bambini crescono e raggiungono l'adolescenza. Sia a causa di una chiara relazione tra attività fra i pari e delinquenza, sia a causa dell'apparente rapporto costo-efficacia, molti programmi di intervento sono forniti in contesti di gruppo. Tuttavia, ci sono buoni motivi per credere che, in alcune circostanze, tali contesti possano esacerbare i comportamenti tra i giovani adolescenti”. Dunque, anche i predetti cinque Dottrinari ammettono che certune iniziative di general-preventività altro non fanno se non risvegliare inutili curiosità morbose negli infra-18enni. Del pari, Berger & Crowley & Gray & Arnold (1975)[54] debbono riconoscere che, contrariamente a quanto ci si aspettava, “i minori che hanno ricevuto interventi specifici di prevenzione hanno [paradossalmente, ndr] aumentato il numero di crimini denunciati e le loro registrazioni hanno mostrato un aumento significativo dei contatti con la polizia”. Oppure ancora, si pensi a Gottfredson (1986)[55], il quale osserva che “il programma [preventivo] Guided Group Interaction “tendeva ad aumentare il comportamento scorretto e la delinquenza”.

Quindi, la general-preventività non è un dato algebrico che raggiunge sempre e comunque i risultati prefissati. Anche fuori dai contesti estremi della Criminologia, esistono molti approcci pedagogici che si rivelano inutili o, financo, controproducenti, come accade sovente, ad esempio, nell'educazione in tema di alcol e stupefacenti. Sempre nella Letteratura anglofona, Dishion & Andrews (1995)[56] notano anch'essi che “[non è sempre positivo] l'impatto delle tecniche di insegnamento […] Certi gruppi di lavoro hanno aumentato il comportamento aggressivo degli adolescenti “. Anzi, per Dishion & McCord & Poulin (1999)[57], “[questi] effetti negativi sono stati trovati anche dopo 3 anni di follow-up”. D'altronde, la pedagogia non garantisce sempre idonei risultati. Spesso, gli sforzi degli operatori si rivelano tristemente inutili ed i fallimenti culturali sono all'ordine del giorno.

Senza alcun dubbio, come asserito da Hudley & Graham (1993)[58], “l'influenza negativa del gruppo dei pari devianti o ad alto rischio sembra essere più forte durante l'adolescenza. Mettere insieme bambini più piccoli negli interventi, invece, si è dimostrato efficace nel ridurre i comportamenti aggressivi”. Giustamente, McCord & Tremblay & Vitaro & Desmarais-Gervais (1994)[59] precisano che “per i ragazzi più grandi, gli Studi sono incerti e [anzi] alcuni interventi di gruppo danno esiti negativi”.

Pertanto, viene confermato che gli ultra-12enni, a causa della sessualizzazione, recepiscono le nozioni fornite in piena libertà, giacché, dopo l'età infantile, un soggetto sessualizzato non apprende più per imitazione formale. La forma mentale dell'adolescente è condizionata, ancorché quasi completamente intro-versa, specialmente negli individui di sesso femminile. Del resto, sempre con afferenza agli ultra-12enni, Eggert & Thompson & Herting & Nicholas & Dicker (1994)[60] evidenziano che “i risultati positivi del raggruppamento di bambini piccoli e, all'opposto, i risultati negativi del raggruppamento di ragazzi più grandi hanno senso dal punto di vista dello sviluppo. Infatti, l'influenza dei pari diventa molto importante durante la prima adolescenza ed i giovani che si comportano male possono essere più sensibili all'approvazione dei pari piuttosto che a quella degli adulti”.

A parere di Dishion & Andrews (ibidem)[61], “anche la composizione del gruppo può influenzare i risultati […] Mettere uno o due giovani a rischio in gruppi pro sociali riduce i comportamenti antisociali ed aumenta i comportamenti pro sociali, mentre i gruppi di [soli] giovani a rischio che ricevono gli stessi interventi aumentano il loro comportamento scorretto. Mettere insieme giovani antisociali a rischio può fornire loro l'opportunità di rafforzare attivamente il comportamento deviante, attraverso l'attenzione sociale mentre si parla di tale comportamento”. In buona sostanza, Dishion & Andrews (ibidem)[62] confermano appieno che la pedagogia non segue regole matematicamente certe. Inoltre, a parere di chi scrive, rimane poco indagato il dilemma della minore indole criminogena delle ultra-12enni femmine. Le giovani donne paiono seguire regole di maturazione diverse, ancorché non migliori. La donna commette reati diversi da quelli del maschio, ma, pur avendo esperienze tossicomaniacali, risulta meno etero-lesiva.

Merita di essere menzionato pure il fenomeno del bullismo. Olweus (1991)[63] riferisce che “il bullismo può essere considerato come una nuova forma di devianza, molto aggressiva e diffusa tra i ragazzi e gli adolescenti. Si manifesta soprattutto nelle scuole o nel tragitto scuola-casa. In termine bullismo deriva dall'inglese bullying. In Scandinavia, è utilizzato il termine mobbing, la cui etimologia mob- si riferisce ad un gruppo di persone coinvolte in azioni moleste. […]. In generale, il termine bullismo sta ad indicare sia l'opera di un singolo, sia l'opera di un gruppo di individui”. Secondo la definizione criminologica di Glew & Rivara & Feudtner (2000)[64], il bullying “è generalmente definibile come una forma di aggressione in cui uno o più bambini tendono a danneggiare o a disturbare un altro bambino, che è percepito come incapace di difendersi”. Gli italiofoni Fabbro & Muratori (2012)[65] qualificano il bullismo alla stregua di “un atto aggressivo, premeditato ed opportunistico; è un comportamento delinquenziale”. Interessanti sono pure Pellegrini & Bartini & Brooks (1999)[66], per i quali “tipicamente, esiste uno squilibrio di potere tra il bullo e la vittima: il bullo, infatti, spesso utilizza il bullismo come mezzo per stabilire il dominio e mantenere lo stato”. Per Roberts & Morotti (2000)[67], “esistono degli elementi distintivi per poter parlare di bullismo, quali: l'intenzionalità dell'azione, la persistenza del comportamento e l'asimmetria relazionale. Il primo sottende la volontà di produrre un danno, ossia il desiderio razionale di infliggere ad un'altra persona paura e sofferenza. La freddezza emotiva e la mancanza di compassione sono un aspetto proprio della condotta del bullo. Inoltre, l'azione si perpetua anche con comportamenti diversificati, rilevando come il disequilibrio tra bullo e vittima sia dato sia da elementi fisici, quali la forza, sia dalla popolarità sociale”. Chi commenta nota che il bullying è un fenomeno trasversale, che colpisce pure le devianti di genere femminile in età adolescenziale. Da evidenziare è pure, come osservano Nansel & Overpeck & Pilla & Ruan & Simons-Morton & Scheidt (2001)[68], che “i comportamenti di bullismo tendono a verificarsi ripetutamente”.


[1]Patterson, Living with Children: New Methods for Parents and Teachers (Revised Edition). Research Press: Champaign, Illinois, BABP, Bulletin 5(2), 1976

 

[2]Kadzin, Parent Management Training: Evidence, Outcomes, and Issues, Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 36, 1997

 

[3]Kadzin, op. cit.

 

[4]Farrington, Editorial. Criminal Behaviour and Mental Health, 4(2), 1994

 

[5]Farrington, op. cit.

 

[6]Olds & Henderson & Tatelbaum & Chamberlin, Improving the Delivery of Prenatal Care and Outcomes of Pregnancy: A Randomized Trial of Nurse Home Visitation, Pedriatics, 77(1), 1986

[7]Larson, Efficacy of Prenatal and Postpartum Home Visits on Child Health and Development, Pediatrics, 66(2), 1980

 

[8]Brooks & Petit, Early intervention: Crafting a Community Response to Child Abuse and Violence, Child Welfare League of America, Washington, DC, 1997

 

[9]Johnson & Walker, Primary prevention of behavior problems in Mexican-American Children, American Journal of Community Psychology, 15(4), 1987

 

[10]Johnson & Walker, op. cit.

 

[11]Lally & Mangione & Honig, The Syracuse University Family Development Research Program: long-range impact of an early intervention with low-income children and their families, in Powell, Parent Education as Early Childhood Intervention: Emerging Directions in Theory, Research and Practice Norwood, Ablex, New York, 1988

 

[12]Lally & Mangione & Honig, op. cit.

 

[13]Lally & Mangione & Honig, op. cit.

 

[14]Kazdin, Treatment of antisocial behavior in children: Current status and future directions, Psychological Bulletin, 102(2), 1987

 

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[20]Yoshikawa, op. cit.

 

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