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Le cose pensano e contano

La filosofia e le cose: alcune riflessioni su ciò che gli oggetti dicono, fanno e pensano
filosofia e oggetti quotidiani
filosofia e oggetti quotidiani

In tempi recenti, molti filoni di ricerca hanno riscoperto l’importanza degli oggetti quotidiani per la filosofia, analizzandone le molte dimensioni e riflettendo sul ruolo da essi assunto nelle nostre vite. Vogliamo qui proporre alcune riflessioni su ciò che gli oggetti ci comunicano e su come essi si situino nella nostra vita.

Poiché le dimensioni e gli approcci sono molti e poiché il campo di studio è piuttosto vasto, non è forse corretto parlare di una “filosofia delle cose”, quanto piuttosto di diverse riflessioni che hanno riscoperto il portato etico, estetico, conoscitivo ed esistenziale delle cose che ci circondano.            

Anche noi qui eviteremo perciò di trattare la questione in termini unitari, preferendo selezionare alcuni aspetti delle cose e alcune riflessioni su di essi.

Dopo una breve introduzione generale alle “cose” e agli “oggetti” e a qualche precisazione storico-terminologica, introdurremo due diversi autori che hanno dedicato alcune loro riflessioni agli oggetti, ovvero Georg Simmel e Gilbert Simondon.

Autori diversi tra loro per epoca, nazionalità, contesto e approccio, essi ciononostante hanno prodotto riflessioni sullo stesso tema e ne hanno messo in luce aspetti che, pur nella diversità delle due riflessioni, insistono su elementi comuni.

Di Simmel tratteremo la cosiddetta “estetica sociale” o estetica sociologica, ovvero un approccio al senso degli oggetti che ne mette in luce il ruolo nelle interazioni sociali e nella strutturazione del mondo in cui ci muoviamo.

Per quanto riguarda Simondon invece ci dedicheremo alla sua “tecno-estetica”, ovvero una proposta disciplinare abbozzata dall’autore e non pienamente sviluppata che ritrova nell’uso degli oggetti una dimensione originaria in cui esperienza estetica e valore strumentale coesistono indivisi e unitari.

Grazie a queste riflessioni concluderemo poi riflettendo su alcune applicazioni possibili di esse in campi di ricerca contemporanei.

Iniziamo dunque a chiarire cosa intendiamo quando parliamo di “filosofia delle cose”.

C’è stato un tempo, non lontano, in cui sembrava che per la filosofia occuparsi degli oggetti di uso quotidiano sembrasse o una provocazione o un tentativo di fare divulgazione e rendersi più appealing ad un pubblico “pop”, composto da non specialisti.

Autori come Francesca Rigotti, che al “pensiero delle cose” ha dedicato vari saggi e volumi, presentano ad esempio la propria riflessione come un tentativo di avvicinare la riflessione filosofica alla vita quotidiana delle persone.

Tuttavia, sarebbe riduttivo appiattire il discorso sulla sola dimensione divulgativa, come se la scelta del tema fosse un mero espediente per allargare la platea dei lettori ai “profani”: la stessa Rigotti spiega bene le motivazioni che l’hanno spinta a dedicarsi al tema ed esse non sono affatto disgiunte da questioni di interesse teoretico più ampio.

Per spiegare perché le cose sono interessante per la filosofia bisogna però iniziare a esaminare cosa si intende con “cosa” e soprattutto come i pensatori del passato hanno indagato le cose.                       

Anche per questa questione torna utile richiamarci all’opera di Francesca Rigotti, che affronta chiaramente proprio questo tema.

In fondo, afferma l’autrice, i filosofi si sono spesso dedicati alle cose, ma il loro interesse per esse non era rivolto alle cose in sé bensì alla loro essenza concettuale: una volta trovata quella si potevano abbandonare le cose concrete rimuovendole dal discorso filosofico come se avessero terminato il loro compito.

Emblematica di ciò è la dicotomia tra “cosa” e “oggetto” (ben chiara in tedesco, dove la prima è Sache e la seconda Ding). La cosa nel senso espresso da Sache è già orientata al pensiero concettuale, è un insieme di attributi e qualità, che la definiscono come quella cosa lì e non un’altra.

La cosa nella sua essenza è sì radicata in un mondo materiale, ma i concreti esemplari empirici che incontriamo servono al filosofo solo per arrivare alla definizione concettuale, per poi ignorare l’oggetto concreto.          

Mentre infatti gli oggetti, come ricorda anche Remo Bodei, sono quelli “gettati” davanti a noi nel mondo (obiectum deriva dal verbo obiciere, gettare davanti), e quindi sono considerati bruta materialità resistente e sfruttabile, la cosa è ciò che guida il pensiero secondo criteri suoi propri. Quando la “cosa stessa” parla, allora si ha il valore dell’evidenza, un ragionamento dettato dalla struttura stessa del mondo.

Per questo, prosegue l’autrice, il filosofo parte ad esempio da un paio di scarpe per arrivare dapprima alla definizione di scarpa e poi alla comprensione della cosa in generale, ovvero a capire come definirne l’essenza concettuale. Insomma, si passa da un oggetto concreto ad una definizione e poi tramite essa alla riflessione sul pensiero concettuale stesso.

Una volta fatto questo, come detto, delle cose concrete ormai il filosofo può disinteressarsi.

Ma si può avere un approccio diverso agli oggetti, afferma Rigotti, uno che invece si orienta proprio verso l’oggetto in sé, alla sua natura e al suo ruolo nella nostra vita.

L’autrice ad esempio riflette sui significati metaforici e simbolici che nella storia del pensiero hanno assunto oggetti quali il pendolo, lo specchio, la porta e la scala, nonché molti altri.                                           

Non si sarebbe potuto formulare ugualmente un pensiero se non vi fosse stata la mediazione della cosa, che guida la riflessione con il suo peculiare modo di stare al mondo e fornisce quindi esempi e analogie che sono intrinsecamente rilevanti per il pensiero.

La cosa non solo “parla da sé”, ma in un certo modo pensa anche, ovvero si relaziona col mondo in un modo particolare che può divenire spunto per il pensiero.

Ovviamente sedie e porte non pensano in senso proprio, ma si prestano a divenire pensiero, non solo a essere pensate passivamente ma a darci la loro lezione sul funzionamento del mondo.

Come vedremo, sarà questo un punto fondamentale anche nella nostra trattazione, in particolar modo per quel che riguarda il pensiero di Gilbert Simondon.

Prima però di introdurre le riflessioni dei due autori centrali in questo articolo, vorrei brevemente ricordare un altro approccio al tema, simile a quello di Rigotti ma dall’angolatura lievemente diversa, ovvero quello di Remo Bodei, autore già citato.

Egli recupera la distinzione tra cosa e oggetto, ma non insiste solo sul valore cognitivo-simbolico dell’oggetto (pur presente nella sua riflessione) quanto piuttosto su quello esistenziale-affettivo, ovvero sulla capacità dell’oggetto di incarnare desideri, ideali, immaginari e aspettative di chi lo produce o compra o possiede.

Ciò non si limita alla sfera della quotidianità e della contemporaneità, ma si estende anche alla dimensione storica, in cui gli oggetti sono infatti parte dello “spirito oggettivo” che ci permette di risalire allo spirito soggettivo dell’autore o del possessore.

Essi comunicano poiché recano in sé le tracce della cultura e degli immaginari dei contesti di provenienza. Attraverso di essi, come vedremo in dettaglio parlando di Simmel, possiamo giungere a cogliere tracce interessanti delle relazioni sociali e degli universi di senso che le informano.

Ricapitolando quanto appena detto, la presenza e delle “cose” in filosofia non è né nuova né sorprendente, ma solo recentemente il pensiero filosofico ha iniziato a interessarsi delle cose senza usarle come meri pretesti per discorsi di altra portata. Approcci come quelli ricordati ci permettono quindi di cogliere le cose come enti che ci “parlano”, ovvero comunicano senso, o addirittura “pensano”, ovvero si offrono come interlocutrici del pensiero e come veicoli di particolari riflessioni. Avendo introdotto il tema, possiamo ora dedicarci in dettaglio ai contributi di Simmel e Simondon.

Iniziamo dunque a chiarire, anche alla luce di quanto appena detto, la rilevanza dei due autori da noi scelti per affrontare il tema.

I due filosofi sono assai diversi sotto molti aspetti: tedesco Simmel, francese Simondon, impegnato nella riflessione sulla nascente sociologia il primo, in dialogo critico con la cibernetica il secondo.

Simmel e Simondon sono attivi intellettualmente in periodi storici diversi: tra la fine della Belle Époque e la prima guerra mondiale il primo e nel secondo dopoguerra il secondo, introducendo un ulteriore differenza di carattere temporale tra i due.

Simmel è un sociologo e filosofo di derivazione neo-kantiana, tra i primi studiosi di Nietzsche e impegnato in analisi della modernità, riflessioni sulla metodologia della storia e delle scienze sociali. Simondon si dedica invece alla filosofia della tecnologia, spesso collegando tra loro metafisica e riflessione sulla tecnica per dare una valenza più che meramente strumentale al fatto tecnologico, analizzato nella sua fondamentale funzione di intermediario tra noi e il mondo.

Ma essi, pur diversi, sono accomunati dalla loro attenzione per l’oggettualità concreta e la funzione che essa assume nella vita umana.

Vorremmo qui iniziare a presentare brevemente queste riflessioni e successivamente operare un confronto tra esse.

Introduciamo ora dunque l’estetica sociale (talvolta detta estetica sociologica) di Georg Simmel, spiegando innanzitutto a che titolo essa si definisca estetica.

Non in quanto riflessione sull’arte, pur essendo il tema presente nell’opera simmeliana in generale e anche in molte analisi svolte con questo metodo, ma nel suo senso estetologico di riflessione sulla sensibilità e sul suo radicare la nostra esperienza in strutture di senso che informano l’azione sociale. Tale azione sociale, studiata dalla sociologia, ha dei presupposti estetici, come ad esempio la mediazione dello spazio e dei sensi: sarebbe impossibile qualsiasi dinamica sociale se si prescindesse dalle limitazioni e dalle possibilità offerte dallo spazio in cui interagiamo, così come non vi sarebbe forma di interazione sociale senza la mediazione dei sensi.

Queste mediazioni sensibili sono quindi il fondamento delle azioni sociali e sono intrinsecamente estetiche nel senso detto sopra.

Sono spesso gli oggetti e le pratiche che li riguardano a incarnare il senso della nostra azione nel mondo, mostrando esteticamente quali operazioni di strutturazione del mondo sono state operate.

Si rende quindi necessario un metodo capace di sondarne l’effetto e il portato nelle nostre vite, un metodo che sia contemporaneamente sociologico (ha come fine la conoscenza dei fatti sociali) ma anche estetico (ha come mezzo una analisi dell’esperienza sensibile).

Tale metodo è quello dell’estetica sociale, che inverte il rapporto tra generale e particolare e anziché analizzare l’oggetto a partire da una teorizzazione astratta si concentra sulla nostra esperienza dell’oggetto e sulla nostra interazione con l’oggetto per poi fare astrazione delle dimensioni di senso che da esso emergono. Il generale è già dato nell’oggetto poiché esso contiene forme di senso sociale e condiviso, ma vi si accede a partire dall’oggetto comune e quotidiano, particolare.

Ciò ha all’epoca destato scandalo, scatenando le accuse di chi riteneva quella simmeliana una filosofia “impressionista” e frammentaria, senza sistematicità e fatta di schizzi vari e disparati senza una impalcatura unitaria sottostante ad essi.

In realtà, l’opera di Simmel presenta una serie di temi e dimensioni ricorrenti e convergenti, sviluppati in modo costante e accurato, pur senza mai assumere la forma del sistema.

Proprio per questo motivo, anche qui si presenteranno brevemente solo alcune delle riflessioni dell’autore su temi assai diversi tra loro (la cornice, l’ansa del vaso, il ponte e la porta, la lettera, l’ornamento) senza entrare purtroppo nel dettaglio e perdendo dunque molte delle sottili analisi dell’autore.

Il tema è complesso e richiederebbe una trattazione più completa e accurata, ma per il presente obiettivo sarà opportuno solo ricordare alcuni esempi noti di analisi socio-estetica realizzate dal filosofo berlinese. Ciò che interessa qui non è però tanto riassumere tutti i contributi simmeliani nel campo dell’estetica sociale (lo hanno già fatto Carnevali e Pinotti in un ottimo volume), ma esaminare la metodologia ad essi sottostante per cogliere l’approccio di Simmel alle cose.

Iniziamo dal più celebre degli oggetti simmeliani, ovvero l’ansa del vaso.

Essa è un oggetto con funzione di mediazione, a più livelli: non solo media tra il piano spirituale delle intenzioni e quello materiale degli oggetti, permettendo una presa efficace sul mondo, ma essa media inoltre tra piano pratico-utilitario e piano estetico, soprattutto nei vasi con velleità artistica.

Soffermiamoci su questo ultimo aspetto. Come molti autori a lui contemporanei, Simmel ha un approccio kantiano all’arte e la ritiene autonoma da pratiche strumentali e utilitaristiche, orientata piuttosto a una fruizione disinteressata.

Così, il vaso pregiato e riccamente ornato, di fattura ricercata e artisticamente progettata, si trova di fronte a una condizione duplice e problematica: esso è oggetto d’uso, un recipiente, ma anche un oggetto d’arte. Può essere valorizzato solo come oggetto artistico e non essere utilizzato, ma a questo punto il suo essere vaso diverrebbe superfluo e inutile.

Se tale oggetto vuole essere anche un vaso con valore d’uso esso deve dotarsi di una forma di integrazione tra dimensioni estetica e strumentale. Esso è l’ansa o manico del vaso.

Qui si trova il punto di congiunzione tra un oggetto contemplato esteticamente e un oggetto che può essere sollevato, spostato, inclinato, sollecitato. Se la maniglia fosse grezza e solida ma innestata su un vaso grazioso e raffinato sarebbe l’arte a perderci, ma anche nel caso contrario vi sarebbe una sconfitta di uno dei due elementi, quello pratico.

La perfetta armonizzazione dei due elementi è dunque un processo complesso e ricco di significati, poiché attraverso di esso si notano le relazioni tra diversi aspetti della vita umana.

Sul medesimo tema si sofferma la riflessione di Simmel sulla cornice, altro oggetto di mediazione tra arte e oggetti d’uso.

Come l’ansa del vaso, essa si situa tra due dimensioni, ma, anziché unificarle come fa il manico del vaso artistico, essa è pensata per separarle, per tenere distinta l’autonoma opera d’arte dal resto degli oggetti e dare forma visibile al diverso statuto che il quadro ha in quanto oggetto avulso dalle logiche d’uso degli oggetti. In essa si leggono dunque la concezione dell’arte che una società produce e la nostra relazione con essa.

Ma il filosofo tedesco non si occupa solo di arte e oggetti artistici, bensì anche di cose più quotidiane, come la lettera, l’ornamento, il ponte e la porta.

Della lettera a Simmel interessa il modo in cui essa richieda al lettore uno sforzo immaginativo atto a completare ciò che il testo evoca solo parzialmente, nonché a situare nel tempo e nello spazio il momento e il luogo di scrittura e invio, diversi da quelli di ricezione e lettura.

Si legge qui infatti la necessità dell’azione umana di fare i conti con la spazialità e la temporalità, di darvi forma e di costruire sistemi sociali che le diano senso e le organizzino.

Ciò è evidente se si tratta di oggetti spaziali quali il ponte e la porta, che segmentano lo spazio indefinito in zone chiare e determinate: stanze, aree degli edifici, zone di città, quartieri, città intere e regioni sono tutte in vario modo segnalate e delimitate da oggetti che funzionano come i loro esemplari più comuni e noti, il ponte e la porta.

Essi uniscono alcuni punti nello spazio e ne separano altri, avvicinano zone della vita e ne separano altre, includono comunità o le segregano.

In essi è evidente la trasformazione impressa dall’azione umana sullo spazio fisico, azione che iscrive in esso complesse dinamiche politiche, sociali e culturali.

Un discorso simile ma a parte meritano l’ornamento e la moda. Esse si situano ancor maggiormente in un ordine sociale ricco di significati condivisi, dove un oggetto ha un valore riconosciuto a livello impersonale.

A differenza degli ornamenti personali, che incarnano gusti e identità dei portatori, l’ornamento di cui tratta Simmel è uno status symbol il cui valore dipende da logiche condivise da un gruppo sociale se non dalla società intera.

Esso deve perciò essere il più riconoscibile e generale possibile, smarcarsi da elementi idiosincratici e soggettivi per divenire un oggetto simbolico asettico e impersonale, il cui valore è evidente e, per così dire, parla da sé. Ciò comporta un elevato livello di stilizzazione e una ricerca di materiali, forme e colori che possano essere applicabili indistintamente ai più diversi tipi umani senza perdere il loro connotato simbolico.

Lo stile individuale lascia il posto ad una formalizzazione dello stile, rimarcando il tema portante della filosofia della cultura di Simmel, imperniato sul conflitto dialettico tra vita e forme.

Spazio, tempo, uso e non-uso, statuto sociale, aggregazione e distinzione sono dimensioni cardine dell’azione sociale, di importanza fondamentale per la sociologia. Al loro studio il filosofo berlinese dedica il suo metodo estetico, che ha come prerogativa un’attenzione dettagliata e concreta per le cose, gli oggetti e le pratiche. Non a caso in molti hanno visto Georg Simmel come il precursore di tutti gli studi di “filosofia delle cose” che dal Novecento a oggi si sono dedicati al tema.

Siamo ora giunti alla seconda parte del nostro lavoro, in cui terremo presenti le ricche suggestioni offerteci dal pensiero di Georg Simmel per confrontarle con quelle del filosofo francese della tecnica Gilbert Simondon.

Non è affatto mia intenzione riassumere il pensiero complesso dell’autore in questo breve articolo, oltretutto focalizzato solo su un aspetto poco sviluppato del pensiero simondoniano.

Il concetto di “tecno-estetica” è infatti risultato di una brevissima riflessione informale contenuta in una lettera a Derrida non pensata per la pubblicazione.

In essa l’autore nota come molte delle nostre esperienze con gli strumenti tecnici di uso comune comportino elementi di valutazione estetica e di apprezzamento, nonché vere e proprie esperienze estetiche legate al loro uso.

Uno strumento efficace ed efficiente, che non impedisce l’azione nel mondo bensì la potenzia, la esalta, ci dà un senso di profondo piacere e coinvolgimento, rende viva e intensa la nostra esperienza. Non a caso, aggiungerei, il linguaggio abbonda di espressioni come “Funziona che è un piacere” oppure “è un piacere usarlo”.

Un esempio di Simondon è una ergonomica e ingegnosa chiave per riparare biciclette, che assomma in sé il massimo dell’efficienza con un design economico a livello di spazio e funzioni.

Oggetti come questo ci gratificano perché ci permettono una accresciuta capacità di azione nel mondo. Ma tale intensità emotiva e tale gratificazione non sono orientate allo scopo utilitaristico ultimo della realizzazione del fine per cui abbiamo adoperato l’attrezzo.

Il piacere tecno-estetico risiede infatti nell’uso stesso, nel momento in cui noi partecipiamo del modo di esistenza dello strumento e ciò ci premette di sentirci tutt’uno con esso.

In quel momento la nostra azione nel mondo non conosce impedimenti e l’utensile diviene metaxu, intermediario insostituibile della nostra relazione con il mondo, che unisce in una esperienza unitaria i nostri desideri, l’azione dell’attrezzo e il mondo.

Come l’ansa del vaso di Simmel, non a caso qui oggetto di trattazione particolare, l’oggetto tecno-estetico è congiunzione di elementi spirituali e materiali, di intenzioni e materialità.

Come il manico della brocca artistica, anche qui vi sono uniti elementi pratici ed estetici, ma con una sostanziale differenza: per il kantiano Simmel l’unificazione di bello e utile è un problema da superare con ingegno e perizia tecnica, mentre in Simondon le due dimensioni coesistono pacificamente.

Anzi, esse sono indivise e una cosa sola, poiché il sentimento tecno-estetico precede la distinzione, formale e astratta, tra gli elementi puramente estetici e quelli meramente strumentali.

Una lezione, quella di Simondon, che si rivela utilissima se si vuole comprendere l’importanza del design e della user experience nella moderna cultura. A differenza del bello autonomo simmeliano-kantiano, la concezione dell’autore francese recupera una concezione dell’estetica che assomma e tiene insieme elementi cognitivi e valutativi, apprezzamento ed efficienza pratica, utile e bello.

Vedremo ora meglio nelle conclusioni come tali suggestioni possono essere sviluppate.

Nel presente articolo abbiamo variamente affrontato la questione della “filosofia delle cose” e dei suoi oggetti di ricerca.

Abbiamo visto come autori come Francesca Rigotti e Remo Bodei hanno colto nello studio degli oggetti proficue possibilità di riflessione sugli immaginari, gli affetti e i significati cognitivi che le cose ci comunicano e come già autori precedenti, su cui ci siamo soffermati più a lungo, hanno percorso itinerari filosofici simili.

Generalizzando con cautela e consapevole di non esaurire la ricchezza di questi approcci, potrei dire che dalla nostra discussione emergono due modi di guardare alle cose: il primo si concentrano sul significato che le cose hanno per noi a partire dall’analisi delle cose nella loro oggettualità, mentre il secondo non si focalizza tanto sull’oggetto quanto sull’esperienza d’uso, studiando il senso che le cose hanno per noi a partire dalla relazione diretta con le cose.

Ciò ci permette di allargare la riflessione verso alcuni possibili applicazioni di tali idee.

Ad esempio, un focus sull’oggettualità che si ricolleghi alla riflessione sullo “spirito oggettivo”, il significato culturale storico di cui la cosa è intrisa, può essere di grande utilità per studiare la storia culturale e il patrimonio culturale ad essa associato.

Tale nozione ha trovato nuova formulazione nella nozione di “semioforo” proposta dal filosofo e storico Krzysztof Pomian come unità di studio della storia culturale.

Il semioforo è un oggetto sia materiale che socio-culturale, che richiede analisi sia semiotico-sociali sia storico-materiali, poiché il senso complessivo dell’oggetto è dato sia dal senso testuale sia da ciò che esso ci racconta in virtù della sua fattura e costituzione.

Ciò, nelle intenzioni dell’autore, serve a superare distinzioni metodologiche esasperate tra chi studia solo i supporti materiali e chi fa astrazione da essi per dedicarsi unicamente alle strutture testuali.

Un approccio che recuperi l’estetica sociologica simmeliana andrebbe anch’esso in tale direzione, aggirando tale distinzione in virtù della sua proposta metodologica e riconnettendo il senso delle pratiche sociali alla materialità delle tecniche e degli oggetti.

Venendo invece al secondo approccio, incentrato sull’esperienza d’uso, possiamo osservare come la teoria del design e l’estetica applicata abbiano ormai da tempo fatto, inconsapevolmente in molti casi, fatto proprie le riflessioni di Gilbert Simondon.

Sarebbe riduttivo però ritenere la tecno-estetica una pura e semplice teoria di estetica applicata, poiché essa è ricca di ripercussioni antropologiche e metafisiche (sviluppate estensivamente in altre opere dell’autore) e ci porta a riflettere sull’importanza della mediazione tecnica nel nostro relazionarci al mondo. La tecnica non è ausiliaria o aliena all’essere umano, ma ne costituisce una dimensione essenziale, come rimarca anche l’antropologia filosofica tedesca.

Ma è anche dal punto di vista dell’apprezzamento estetico che la riflessione di questo autore si apre a nuove applicazioni.

Un esempio potrebbe essere rappresentato dal filone contemporaneo dell’everyday aesthetics, ovvero la riflessione filosofica sulla presenza e la fruizione di elementi estetici nella vita quotidiana.

Esteticità e quotidianità sono spesso state opposte in quanto la prima sarebbe straordinaria e la seconda ordinaria, ma molte riflessioni nel settore (che non posso qui ricordare) hanno mostrato come vi siano possibilità di incontro tra le due.

Applicando le intuizioni del pensatore francese all’estetica del quotidiano avremo infatti modo di rintracciare e analizzare le molte esperienze di interazione profonda con il mondo che sono poste in atto dalla mediazione dell’oggetto tecnologico. Penso che un approccio tecno-estetico possa dare un buon contributo a tale riflessione, introducendo nel discorso le molte e profonde, per quanto non tematizzate consciamente, esperienze estetiche che l’uso degli strumenti tecnici ci permette di vivere.

In conclusione, ritornerei dunque a quanto detto in apertura di questo articolo a riguardo della varietà e dell’eterogeneità della riflessione filosofica sulle cose.

Come detto, infatti, esse non si prestano ad un solo tipo di analisi poiché esse sono sfaccettate e ricche di dimensioni diverse.

Sono materiali ma incarnano significati simbolici e culturali, sono utilizzate ma sono anche pensate e aiutano a pensare, sono apprezzate come fine ma anche come mezzo.

La varietà di autori qui (brevemente e non in dettaglio) presentati vuole essere un modo di mostrare, pur come detto avendo selezionato solo pochi ristretti temi tra i tanti che l’oggetto ci offre, come intorno alle cose si possano fare discorsi complessi e teoreticamente interessanti.

Lungi dall’essere di poco conto, banali, gli oggetti quotidiani danno da pensare alla filosofia e lo fanno permettendo non solo una grande varietà di ricchezza ma anche una profondità di comprensione inaspettata.

Note

Francesca Rigotti, Il pensiero delle cose, Apogeo, 2007

Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza, 2019

Georg Simmel, Stile moderno. Saggi di estetica sociale (a cura di Barbara Carnevali e Andrea Pinotti), Einaudi, 2020

Gilbert Simondon, Sulla tecno-estetica, Mimesis, 2014

Krzystof Pomian, Che cos’è la storia?, Mondadori, 2001

Elisabetta Di Stefano, Che cos’è l’estetica quotidiana, Carocci, 2019

Giovanni Matteucci (a cura di), Estetica e pratiche del quotidiano, Mimesis, 2015