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​​​​​​​Ripensando l’Utopia

Statua di Dante, Piazza dei Signori, Verona
Statua di Dante, Piazza dei Signori, Verona

Ripensando l’Utopia

Tra i termini filosofici entrati nell’uso comune, la parola “utopia” è tra quelle di cui più spesso si dimentica l’origine. Il termine è infatti ormai entrato nel vocabolario comune con una pluralità di significati e di valutazioni: utopia/utopico può essere qualcosa di positivo, uno stato ottimale lontano dall’attuale corso delle cose, ma anche qualcosa di negativo, una mera fantasia lontana dalla realtà e dalle sue storture, l’opposto della concretezza e del pragmatismo.

Ad unire queste due accezioni antitetiche sta però un comune denominatore semantico, ovvero l’idea di irrealtà e irraggiungibilità che il termine evoca nei discorsi in cui viene utilizzato.

L’utopia, che la si esalti o la si deprechi, viene sempre contrapposta all’azione concreta, al senso pratico di chi sa scendere a patti con la limitatezza del presente.

Eppure, tutte queste antitesi non sono sempre così perentorie come potrebbe sembrare, soprattutto se si ricollega il concetto alle sue prime formulazioni filosofiche e alla sua storia. Sarà proprio questo l’obiettivo che questo articolo si pone, richiamandosi soprattutto alla riflessione di Roberto Mordacci sul tema e sulle sue analisi svolte a partire dall’Utopia di Thomas More.

Ma si vuole fin da ora chiarire il motivo del nostro interesse per l’argomento, che risiede nell’inaspettata fortuna che il pensiero utopico potrebbe avere nella nostra contemporaneità.

Nonostante la popolarità di quelle forme di riflessione sociale e politica che chiameremo da ora in poi “pensiero utopico” ( e che descriveremo più chiaramente in seguito) sia infatti andata scemando nel corso del Novecento, in tempi recenti da più parti, non solo in politica ma anche in campi come l’architettura e la letteratura, si sono riaccese forme di immaginazione utopica volte all’elaborazione di nuove e migliori forme di organizzazione sociale.

All’interno della nostra trattazione vorremmo quindi dedicarci a ripercorrere brevemente la storia del pensiero utopico. Dopo una breve definizione dei tratti fondamentali dell’utopismo come apparso per la prima volta nell’opera di More, che al concetto ha dato il nome, ci si soffermerà sulle caratteristiche più rilevanti e salienti di quella riflessione e sulle novità che essa introdusse.

Si procederà poi ad esaminare le alterne fortune del concetto, il successo inizialmente guadagnato e infine il declino in popolarità in seguito alle complesse vicende politiche novecentesche.

Nell’ultima parte si ricercheranno nella cultura contemporanea alcune tendenze utopistiche che emergono in molti e diversi campi della riflessione umana.

Come ricorda il filosofo Roberto Mordacci, tra coloro che più si è occupato in tempi recenti di ricostruire e riconsiderare la genesi del pensiero utopico, la maggior parte di coloro che si sono occupati delle utopie, caratterizzandole positivamente o negativamente, lo hanno fatto senza molti richiami diretti all’opera originaria di Thomas More.

Sembrerebbe quasi che la riflessione del filosofo inglese figuri unicamente come episodio aurorale del pensiero utopistico e che sia in fondo solo la prima di una lunga serie  di opere che condividono la medesima impostazione teorica. Ma non è così e la scarsa attenzione per il testo dell’Utopia ha alla lunga oscurato gli elementi di grande originalità che lo separano sia dagli antecedenti (come la città ideale della Repubblica di Platone) che dalle successive opere “utopiche” (come quelle di Bacone e di Campanella, primi tra molti apparenti epigoni di More). Per riscoprire gli aspetti fortemente innovativi della proposta dell’Utopia originaria occorre quindi procedere ad un serrato confronto sia con ciò che precedette tale opera sia con ciò che ad essa pensò di ispirarsi.

Innanzitutto bisogna quindi andare oltre alla constatazione superficiale che accosta l’opera dell’umanista inglese alle trattazioni antiche aventi come oggetto la città ideale o lo Stato ideale. Nonostante vi sia senz’altro un rapporto di discendenza dell’Utopia dal modello platonico, che rappresentava un riferimento difficile da aggirare vista la rilevanza da esso assunta nella riflessione filosofico-politica precedente, è opportuno però constatare anche come vi siano delle enormi differenze tra i due procedimenti coi quali si delinea l’oggetto della riflessione e anche nell’oggetto stesso, solo in apparenza simile.

Iniziamo da quest’ultimo punto.

Non è corretto affermare che la civiltà che More immagina abitare l’isola di Utopia rappresenti una civiltà ideale allo stesso modo in cui è ideale la città platonica. Anziché mirare, come Platone, a delineare l’ordinamento migliore possibile in assoluto tra tutti quelli che si ritengono disponibili ad una riflessione astratta, Thomas More propone al lettore una forma di governo “ottima”, ma non perfetta. Dalle pagine dell’autore traspare l’aspirazione ad opporre alle corrotte ed ingiuste leggi dell’epoca (soprattutto quelle inglesi) una serie di provvedimenti illuminati e aventi come fine l’armonioso sviluppo del vivere comune anziché la conservazione dei privilegi nobiliari e la tutela dei soprusi dei signorotti locali.                                   

Le leggi di Utopia sono leggi buone, giuste, lungimiranti, ma non perfette: esse non si ritengono fisse ed immutabili, già perfette nel loro discendere da principi apodittici.  La civiltà utopiana non è esente da molti mali comuni a tutte le società umane, come il crimine e la guerra, ma i crimini sono prevenuti con l’educazione alla virtù o sanzionati con pene eque e ispirate a principi di giustizia e giusta tutela del benessere della comunità e la guerra è condotta solamente come mezzo di risoluzione di conflitti non altrimenti negoziabili o per porre rimedio a soprusi, oltretutto sempre con la premura di non abbandonarsi mai a crudeltà o violenza immotivata.

Utopia non è rimossa dalla storia oppure fissa e immutabile: essa è aperta al confronto con l’esterno e soggetta a possibili evoluzioni e miglioramenti. Se un ideale è perfetto, costituisce il non plus ultra della perfezione politica, il modello dell’Utopia ci mette davanti uno scenario non ideale ma migliore di tutti quelli presenti, perfettibile come perfettibili sono le nostre concrete forme di governo, che con impegno e sforzo potranno eguagliare o avvicinarsi agli ottimi risultati della civiltà degli utopiani.

Questa considerazione ci porta già nel cuore della differenza metodologica che distingue la riflessione di More da quella di Platone. In essa infatti non si procede con l’intenzione di dedurre da principi astratti una costituzione ideale, affidandosi dunque ad una razionalità a priori, bensì si fa ricorso a quella che potremmo definire immaginazione politica, ovvero ad un procedimento che comporta l’immaginazione di forme di vita politica virtuose, modelli migliori per condizioni di vita a quelli attualmente esistenti, per poi sottoporli ad un esame critico.

Una volta osservati gli esiti di questa elaborazione immaginaria e avendoli trovati davvero virtuosi e plausibili, si procede a chiedersi come quegli stati possano essere pienamente o parzialmente realizzati nella concreta vita politica.

Risulta chiaro come questo modo di riflettere si discosti radicalmente da quello aprioristico-deduttivo, essendo piuttosto basato sulla riflessione a posteriori nella forma della valutazione critica dei risultati della nostra immaginazione politica. Si procede così dall’immaginazione dell’ottimo alla sua valutazione critica e da essa alla riflessione politica concreta, secondo un modo di pensare che verrà spesso ignorato da chi pur si pensava continuatore ed imitatore dell’opera di More.

In pensatori come Bacone, autore della Nuova Atlantide, e nel Campanella de La città del sole si mescolano al pensiero utopico inaugurato dal filosofo inglese elementi ad esso estranei, come i tratti sofocratici e tecnocratici tipici della riflessione platonica.

Le città immaginate da questi pensatori sono governate, fatte le debite differenze, da versioni aggiornate dei re-filosofi di Platone, semplicemente re-immaginati alla luce dello sviluppo delle nuove scienze della natura, con esiti che non a caso sembrano oggi assai allarmanti, poiché questi autori sostituiscono alla preoccupazione umanistica per la società a misura d’uomo e il miglioramento delle istituzioni una forte componente di dominio e di controllo sociale, tramite il quale la libertà e l’autonomia dei cittadini sono sistematicamente sacrificate in nome della conoscenza e della ricerca scientifica.

Si vedrà in seguito come proprio la confusione di queste visioni con il pensiero utopico nella sua interezza sia alla base di molte condanne e accuse rivolte contro il ricorso all’utopia come mezzo di riflessione politica.

Avendo ora provveduto a distinguere i tratti caratteristici dell’utopismo originario sia dall’ingombrante modello platonico antecedente che dai non sempre fedeli imitatori successivi, concludiamo questo paragrafo ricapitolando brevemente quelli che secondo Roberto Mordacci sono i tratti costitutivi di una riflessione permeata dallo spirito dell’utopia.

Volendo passare dall’analisi dell’opera di More alla chiarificazione del concetto stesso di utopia, quello che grande diffusione ha avuto nelle epoche successive all’opera dell’umanista inglese, occorre sottolineare alcuni tratti fondamentali che contraddistinguono le narrazioni utopiche da altre forme di riflessione politica, di immaginazione fantastica o di elaborazione di ideali di giustizia.

Sicuramente vi sono infatti molti testi politici che si sono proposti obiettivi simili a quelli dell’opera di More, così come fin dall’antichità vi sono state narrazioni fantastiche e immaginarie che descrivevano luoghi inesistenti e meravigliosi e anche per quanto riguarda gli ideali di perfetta vita associata si possono trovare modelli nelle tradizioni religiose profetiche ed escatologiche.

Ma vi sono secondo Mordacci cinque elementi che possono essere invocati come tratti distintivi per separare l’utopia da queste altre tipologie testuali.

Il primo riguarda la natura critica della riflessione utopica, che è sempre pensata in relazione alle storture e ai problemi della società presente. La narrazione non è quindi fine a sé stessa, né pensata unicamente come storia immaginifica e affascinante.

Ciò conduce al secondo criterio, quello della narrazione documentale, ovvero un modo di raccontare gli avvenimenti che non indulge sul piacere della narrazione stessa ma si propone di documentare soprattutto i fatti, come un moderno documentario o un reportage geografico o etnografico. Ciò separa l’utopia da tutti i generi in cui la brillantezza narrativa e l’estro stilistico sono più rilevanti delle descrizioni e in cui l’oggetto del narrare è spesso un pretesto per mettere in mostra le proprie doti letterarie e affascinare il lettore.

L’utopia è dunque razionale, argomentativa: secondo questo terzo criterio è fondamentale che dalla descrizione si passi alla spiegazione e a fornire ragioni per convincere i lettori della bontà di quanto descritto, renderne chiare le motivazioni e sottoporle all’attenzione critica del lettore.

Il quarto criterio si collega anch’esso a quanto appena detto, essendo il presupposto per una discussione politica razionale. Mordacci per descriverlo ricorre al termine realismo umanistico, ovvero una centralità dell’uomo così concreto all’interno della riflessione politico-filosofica.

Con ciò si intende che in ogni riflessione utopica ad essere protagonisti saranno sempre uomini non dissimili da quelli ora esistenti, con i loro vizi e le loro virtù, con tutti i tratti tipici della condizione umana. Ciò lascia fuori dal novero delle utopie tutte le narrazioni dove l’umanità del futuro è radicalmente trasformata al punto da superare la condizione umana, divenendo perfetta al punto da non poter nemmeno essere ricondotta al modello umano: nell’utopia invece gli uomini semplicemente valorizzano il meglio della propria natura e limitano il peggio, senza per questo emanciparsi dalla comune condizione umana.

E questo vale anche se si prende in considerazione come quinto punto la centralità del futuro nella narrazione utopica. Essa non si volge ad un passato perfetto e perduto, ad età dell’oro primigenie, bensì ad una evoluzione dei tempi presenti verso un futuro migliore, in cui i problemi del presente saranno superati o meglio gestiti. Nell’utopia il presente è il punto di partenza della riflessione e il futuro il punto di arrivo, mai il ritorno al passato.

Questa ultima osservazione spiega anche perché fantascienza e utopismo siano spesso stati legati e accomunati, ma non deve portare ad esagerarne la somiglianza o a sovrapporli: solo se viene mantenuto il principio di realismo umanistico allora la fantascienza può essere ancora utopica. Quando essa si popola di creature extraumane tecnologicamente avanzate o di civiltà aliene salvifiche in quanto più perfette della nostra, allora si è già usciti dall’utopia.

L’appunto conclusivo dei paragrafo precedente andrà dunque tenuto in considerazione ora che proseguiremo nella nostra trattazione ripercorrendo gli sviluppi successivi dell’utopia come genere letterario nei decenni successivi all’opera di Thomas More.

Non sempre infatti il modello umanistico della prima utopia filosofica è stato infatti rispettato e imitato fedelmente dagli autori successivi.

Ad esempio, emergono grandi differenze già solo comparando l’opera di More con quelle di Tommaso Campanella e Francesco Bacone, due autori che nel secolo successivo produrranno opere molto influenti nel definire la percezione del pensiero utopico.

La Città del Sole di Campanella dà enorme risalto ad elementi mistico-escatologici nel delineare la città ideale, risultato dell’avvento di una nuova epoca dell’universo desunta tramite calcoli astrologici e previsioni esoteriche. La ricerca della conoscenza informa ogni aspetto della vita cittadina, sottoposta al controllo di figure autoritarie preposte al rigido e sistematico controllo delle vite degli abitanti, secondo modalità che ricordano più il modello platonico che quello di More.

Anziché porre al centro l’ottima vita cittadina e la libertà, la città di Campanella ha come unico valore fondante l’accrescimento della conoscenza, spesso intesa in senso teologico-misterico.

Se si sostituisce l’elemento teologico e speculativo con una sua versione tecnico-sperimentale si comprende invece come le stesse istanze siano realizzate nella Nuova Atlantide di Bacone: anch’essa è assai vicina alla città platonica, governata da saggi che strutturano dall’alto la vita dei cittadini, perseguono la ricerca scientifica ed il dominio della natura e difendono il loro predominio rendendo accessibile a pochi le loro conoscenze.

In nessuno dei due casi la società immaginata si presenta come democratica e in nessuno dei due casi sono la vita associata ed il benessere dei cittadini ad essere al centro delle preoccupazioni degli autori, più inclini, come Platone, a diffidare dalle masse democratiche e a ricercare forme di governo totalitarie, armoniose ed organicistiche.

Ma pur essendosi trasformata radicalmente nelle opere più direttamente imparentate col modello letterario della prima Utopia, la visione utopica si è spesso evoluta andando oltre la semplice forma narrativa, innervando del proprio spirito anche movimenti sociali più complessi.

Ad esempio, ritroviamo aspetti utopistici nelle riflessioni di alcuni illuministi, specialmente quelli che non si affidano ciecamente alle ineluttabili leggi del progresso ma pongono al centro della loro riflessione il potere trasformativo dell’azione umana, capace di coniugare progresso tecnico e progresso civile. Ne è un esempio la visione della società futura in Condorcet, ma ne sono esempi ancora più chiari gli esperimenti teorici e pratici dei socialisti utopici, animati dall’ideale di una società meno ineguale e più democratica, toccando spesso alcuni temi già cari a More.

Non sempre teorizzato in maniera coerente e sistematica e prono a idealizzazioni religiose e misticheggianti, il socialismo utopico ha comunque rappresentato la forma più compiuta di utopismo, ovvero di un pensiero che prova a realizzare compiutamente l’ideale utopico.

Sarà il marxismo, con la pretesa di superarne le ingenuità in nome di un socialismo scientifico, a screditare gli sforzi degli utopisti e a decretare il tabù a riguardo delle utopie all’interno del marxismo ortodosso, che ad esse non volle mai essere associato.

Ma nonostante questa avversione, funzionale anche alla contrapposizione tra vecchio socialismo ingenuo e nuovo socialismo consapevole e critico, vi furono pensatori marxisti che seppero riscattare il pensiero utopico dalle dure condanne di Marx ed Engels e ritrovare spazi per l’utopia anche all’interno del pensiero marxista. Basti citare a titolo esemplificativo Karl Mannheim, che nel ripensare l’eredità marxista arriva addirittura a trasformare il concetto di utopia in una delle modalità fondamentali dell’azione e della lotta politica come opposto dell’ideologia, e Ernst Bloch, che opererà uno dei più profondi lavori di recupero dell’immaginazione utopica come elemento fondamentale ed ineludibile della vita umana.

Ma proprio negli anni in cui il marxismo faceva i conti con le tensioni generate dal simultaneo rifiuto dell’utopia e dal riconoscimento del suo ruolo positivo, sorgevano altrove forme di rifiuto radicale dell’immaginazione utopica, esplicatesi nella letteratura distopica.

Essa, pur avendo il merito di essersi levata contro gli eccessi e i soprusi di chi in nome dell’utopia generava totalitarismi, ha finito per gettare ombre su ogni tentativo di immaginazione politica che cercasse di seguire il metodo utopico (ovvero immaginare società ottime e poi discuterne la realizzazione). Secondo la distopia, l’utopia è inerentemente dominio e pianificazione oppressiva, fusione deleteria delle tecnologie più avanzate e dei filoni più dispotici della modernità.

Per questo, come nota Mordacci, la distopia è associata spesso con la critica postmodernista delle grandi narrazioni, identificate spesso con la modernità tutta. Se però una componente ironica era sempre stata positivamente parte nelle utopie autentiche, capaci di mettersi criticamente in discussione, la critica distopica sembra assumere a priori un atteggiamento sospettoso che in ultima istanza nega ogni progetto di miglioramento sociale e genera sfiducia nel futuro.

Le conseguenze di questa sfiducia le si vede soprattutto in alcuni fenomeni sociali contemporanei, come la fuga nostalgica verso passati idealizzati, ritenuti migliori di un presente che si presenta odioso e senza prospettive. Ma in queste retrotopie, come le ha definite il sociologo Zygmunt Bauman, non vi è spazio per una dimensione collettiva, poiché ognuno si riallaccia tribalmente al proprio passato immaginario e romanticizzato, generando tribalismi, divisioni e conflittualità.

Ma al contempo vi sono anche spinte verso un recupero della tradizione utopica, capaci di vedere oltre le caricaturali distopie novecentesche e di ripensare nuovamente forme di immaginazione politica apertamente utopica. Ciò avviene non solo a livello di teorizzazione politica esplicita, ma anche in ambiti diversi della riflessione sul futuro, anch’essi politici nella misura in cui riflettono sulla vita associata in una società futura più giusta e umana.

Saranno alcuni di questi fenomeni al centro del prossimo paragrafo.

In questa sezione conclusiva, come già annunciato, vorrei proporre alcuni brevi itinerari all’interno di alcune forme di forme di utopismo riapparse nella cultura contemporanea.

Una prima area che ritengo interessante mettere in relazione con la risorgenza del pensiero utopico è quella dell’architettura: essa ha infatti intrattenuto fin dall’inizio stretti rapporti con l’immaginazione politica alla base della creazione di utopie e ha provato spesso a porsi anch’essa come forma di immaginazione di futuri migliori e di soluzioni ottimali di convivenza civile.

La città ideale è stata fin dal Rinascimento concepita sia come città ideale in quanto ottima per costituzione politica sia città ideale come progettazione e organizzazione dello spazio e del territorio, a testimoniare come la civitas e l’urbs siano spesso state pensate in relazione tra loro.

L’architettura non si è limitata ad immaginare questi progetti utopici ma li ha talvolta anche realizzati. Se, come ricorda Gillo Dorfles in un suo breve saggio sul tema, molte utopie architettoniche sono rimaste sulla carta o sono degenerate in distopie, alcune sono state effettivamente portate a termine, operando spesso miglioramenti nel tessuto urbano preesistente oppure creando addirittura forme abitative utopiche a partire dal nulla, costruendo in zone desertiche e poco abitate.

Molti architetti moderni, come Frank Lloyd Wright e Bucminster Fuller si sono infatti cimentati nella progettazione e a volte persino nell’edificazione di città ideali, costruite “da zero” per mostrare concretamente la possibilità di modelli di associazione alternativi e migliori a quelli attualmente esistenti. Se tali utopie architettoniche sono state emblematiche della concezione utopica classica, radicata nello spirito della modernità, anche in tempi più recenti si possono rintracciare forme di pensiero utopico ripensate alla luce delle critiche a tale modello. È il caso ad esempio di quei progetti che eccedono l’ambito dell’architettura, dell’urbanistica e del design in senso accademico per aprirsi ad una più ampia concezione di placemaking.

Il placemaking è inerentemente partecipativo e spesso mette in contatto le comunità destinatarie degli interventi architettonici e i professionisti del settore, così da evitare pianificazioni dall’alto ed esiti paternalistici. Ciò comporta una forte vocazione collettiva, partecipativa e immaginativa, che prevede una discussione collettiva volta a delineare possibili miglioramenti non solo dell’efficienza degli interventi sul territorio ma anche delle condizioni di vita delle popolazioni che abitano quel territorio. Infatti, i placemaker si propongono di radicare le pratiche architettoniche non in un discorso autoreferenziale e chiuso ma in forme di architettura in relazione con la più ampia cornice della vita delle comunità e delle necessità del territorio.

Per fare ciò vengono mobilitati diversi saperi, non solo tecnici e scientifici ma anche umanistici e sociali, tutti coordinati per il miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo. Non solo l’intento di queste pratiche può essere avvicinato alle modalità tradizionali del pensiero utopico, ma i richiami espliciti all’utopismo non sono rari in molti progetti di immaginazione urbana e placemaking.

Anche in opposizione ad un certo cinismo rinunciatario che separa architettura e immaginazione politica, il placemaking si propone di innervare nuovamente di spirito utopico gli interventi sugli spazi urbani. Proprio la rivolta contro il cinismo e la rassegnazione accomunano molti dei moti di rinascita dello spirito utopico e nel prossimo paragrafo si osserverà come anche nell’ambito della letteratura fantascientifica si assista a fenomeni simili.

Come accennato ripercorrendo la storia del pensiero utopico, il legame tra l’utopia (e il suo negativo, la distopia) e letteratura fantascientifica è antico e solido, a tal punto che le differenze tra le opere specificamente utopiche e la fantascienza in generale sono state spesso indebitamente confuse. Soprattutto agli albori del genere, gli scrittori di fantascienza hanno infatti saputo inserire elementi utopici nelle loro opere, continuando la tradizione delle utopie classiche. Ma a questa tradizione ottimista e riformista è subentrata nel tempo un altrettanto ricco filone distopico, il cui successo ha fatto sì che sempre più spesso siano state le critiche pessimiste ad assumere un ruolo preponderante nella narrativa del genere.

Tutto il novecento ha infatti visto una sempre crescente produzione immaginaria di mondi totalitari, disumanizzanti e spersonalizzanti, dove la tecnica e il dominio si intersecano e si fondono per dare vita a scenari orribili. Come già ricordato da Mordacci nelle due analisi, queste narrazioni hanno contribuito a criticare efficacemente gli aspetti più tecnocratici ed elitisti presenti in alcune opere utopiche primo-moderne, ma mancano il bersaglio quando estendono la loro critica all’utopia tout court. Esse hanno inoltre sdoganato il clima di esagerato sospetto verso la modernità che le riflessioni postmoderne hanno diffuso, considerando quegli elementi di dominio e sopraffazione tramite la tecnica e la razionalizzazione sociale come l’unica essenza della modernità.

In tempi recenti diversi filosofi hanno perciò ripensato criticamente l’impatto delle distopie, cogliendone anche le aporie e le esagerazioni oltre che i legittimi aspetti critici.

A questa critica filosofica alle distopia si affianca però anche un altro tipo di critica, stavolta proveniente direttamente dal campo della narrativa fantascientifica stessa, che accusa il genere distopico di essere ormai diventato incapace di essere critico o trasformativo e di essere divenuto invece una rassegnata e rinunciataria apologia delle presenti strutture economiche e sociali: le distopie sono diventate infatti un prodotto di consumo, in molti casi di grande successo al cinema e nelle serie televisive,  portando spesso il genere a diventare una stantia sequela di elementi stereotipici, che compiacciono e anestetizzano anziché colpire e stimolare la riflessione.

È da questa critica del carattere apologetico e depotenziato delle distopie che prende le mosse la proposta della nuova corrente narrativa che si definisce Solarpunk.

Richiamandosi nella scelta del nome al più noto cyberpunk, che negli anni ‘80 e ‘90 ha dato vita ad alcune delle più famose distopie letterarie e cinematografiche, il Solarpunk si considera derivato da esso ma al contempo si propone come un superamento degli aspetti problematici e obsoleti di quest’ultimo. Anziché la durezza e la crudeltà di mondi futuri desolati e senza speranza, dominati da grandi multinazionali e dalla deleteria commistione di meschinità umana e tecnologia avanzata, gli autori del Solarpunk recuperano elementi dichiaratamente utopici nelle loro narrazioni, dove il compito non è più solo criticare il presente ma anche immaginare forme di vita più sostenibili, inclusive e solidali.

Molti autori Solarpunk teorizzano esplicitamente il carattere utopico delle narrazioni che si identificano con il movimento e il termine utopia non è affatto usato a sproposito. Tali autori sono consapevoli del fatto che l’utopia non può mai ridursi ad ingenuo ed edulcorato ottimismo: i mondi elaborati da questi autori sono anzi mondi complessi, afflitti da molti problemi e in cui spesso la vita è dura, gravata da disastri ambientali, conflitti e crisi economiche e sociali.

Come in tutte le utopie autentiche, tali problematiche non sono negate o sminuite ma anzi messe al centro della narrazione, che verte spesso sulla ricerca di strategie per fronteggiare tali situazioni. Il risultato è una narrativa speranzosa e combattiva anziché ottimista, capace di immaginare mondi migliori nonostante le crisi e gli ostacoli e non a prescindere da essi. Anche qui, come nelle utopie classiche, gli uomini rimangono uomini, con tutti i problemi che la loro condizione umana comporta, e la vita ottima non può che essere quella che sa riconoscere e gestire tali problemi, senza soluzioni tecnocratiche o escatologiche ma con un autentico realismo umanistico.

Essi recuperano inoltre la dimensione pluralistica e inclusiva dell’utopia moreana, consapevoli delle aberrazioni delle tecnocratiche utopie successive e dei loro esiti totalitari e repressivi e consapevoli anche della necessità di una costruzione democratica e pluralista di tali utopie future.

Riportando lo spirito utopico nella letteratura, il Solarpunk si rivela uno dei più attenti interpreti attuali dello spirito utopico.

Da ultimo occorre ricordare un terzo ambito di sviluppo della nuova riflessione utopistica, ovvero quello della coscienza storica e della sua relazione con l’azione politica.

Molti autori hanno analizzato negli ultimi anni la crisi che la società contemporanea vive a riguardo della propria capacità di collocarsi nel tempo storico, ovvero di elaborare una filosofia della storia che ne orienti l’azione: si è parlato ad esempio di presentismo, ovvero di ripiegamento sull’immediato presente, oppure di retromania, di spinta nostalgica verso la cultura popolare del passato, ma anche della necessità di ricominciare ad immaginare futuri possibili come strumento di trasformazione politica e sociale.

E proprio a riguardo di queste ultime riflessioni si è tornato a parlare di utopie e utopismi, spesso riscattando i termini dalle sfumature derisorie che essi hanno assunto e ripercorrendone criticamente la storia. Se negli ultimi decenni del Novecento sembrava infatti che l’unica forma di utopismo fosse quella totalitaria e intollerante stigmatizzata dal postmodernismo, negli ultimi anni si è rivalutata la portata utopica di alcuni movimenti di riforma sociale, giudicati modelli positivi da imitare (primo fra tutti il Sessantotto).

Inoltre, le preoccupazioni per il cambiamento climatico hanno prepotentemente scosso le coscienze di molti dal loro ripiegamento presentista sull’oggi, portando di nuovo al centro del dibattito politico la questione del futuro in cui vivremo. Di fronte alle sfide del futuro e dell’evidente problematicità di un assetto sociale incapace di pensare sul lungo periodo, da più parti si invoca oggi un ritorno a forme di pensiero capaci di elaborare progetti lungimiranti e sviluppare forme di vita migliori e più sostenibili sul lungo periodo. Questo recupero di coscienza storica si è in molti casi legato a rivalutazioni più o meno consapevoli e attente del pensiero utopico.

L’idea di utopia è infatti saldamente legata alla fiducia nella possibilità di un miglioramento della vita umana che può avvenire in un momento futuro, ovvero a quello che potremmo definire progresso. Ripulita criticamente dalle incrostazioni metafisiche, provvidenzialistiche, deterministiche e colonialiste, l’idea di progresso sembra anch’essa tornare timidamente a farsi strada nelle discussioni contemporanee, seppure in forma assai diversa dalle ingenue concezioni sette-ottocentesche contro cui si sono giustamente rivolte le critiche postmoderniste.

D’altronde, come ricorda ancora Mordacci, se l’utopia di Moro era contemporanea allo scrittore ma situata in un altro luogo, dalla modernità in poi essa è sempre ed inevitabilmente situata in un altro tempo, nel futuro storico. Essa è dunque una anteroropia, una utopia che ci sta dinnanzi, nel tempo a venire, raggiungibile solo nella storia e concepibile solo alla luce di una riflessione consapevole sulla storicità. 

L’utopia moderna non può esistere senza una concezione del futuro come orizzonte di aspettative sviluppato in relazione al presente: come ricorda infatti lo storico Reinhart Koselleck, è proprio agli albori della modernità che nasce la consapevolezza della propria storicità e che si inizia a pensare le proprie azioni all’interno di una cornice diacronica unitaria chiamata Storia. La filosofia della storia, pur con molte esagerazioni e ingenuità, è stato uno degli esiti di questa consapevolezza e ha animato gli ultimi secoli spingendo gli uomini a pensare passato, presente e futuro in continuità.

La filosofia della storia, come il pensiero utopico, è entrata spesso in crisi negli ultimi decenni, ma le crisi della filosofia della storia, come le crisi del pensiero utopico, sembrano ora più imputabili alla necessità di ripensamenti e superamenti di tali ingenuità che a crisi definitive o alla “fine della storia”. Anche la filosofia della storia, bistrattata quasi quanto l’utopia negli ultimi decenni, sembra quindi ritornare in auge e legarsi nuovamente a doppio filo con il pensiero utopico.

Ovviamente quelle chiamate in causa non potranno essere una filosofia della storia e un pensiero utopico identici a quelli entrati in crisi e tramontati nel Novecento, ma dovranno essere di un tipo nuovo, più plurale, critico e inclusivo. Ma vista la necessità di elaborare tali strumenti concettuali per agire nel presente e costruire il futuro, è ora più che mai opportuno riflettere nuovamente sulle utopie e sulla possibilità di elaborare nuovi modelli per la vita in comune.

In conclusione, possiamo quindi dire che il concetto di utopia, per quanto spesso frainteso, è ancora oggi dotato di grande vitalità: esso è per sua stessa natura abbastanza indefinito nei suoi tratti sostanziali da poter essere adattato ad ogni epoca storica e a ogni orizzonte di aspettative.                    

Anzi, come ricorda Roberto Mordacci è opportuno che ogni epoca sviluppi le sue utopie, partendo dalla critica del proprio presente e immaginando il proprio futuro.

A fronte di questa indefinitezza nei contenuti vi è però una costante presenza di elementi costitutivi del pensiero utopico: esso è tale se è critico rispetto alla situazione politico-sociale presente, documentario nella narrazione, razionale nell’argomentare ciò che propone, realistico nel considerare gli uomini come sono e orientato al futuro. Tali tratti non sono vincolati ad una specifica epoca, a un genere letterario o a una posizione particolare, ma permettono di mantenere viva la riflessione utopica nel tempo.

Lo spirito dell’utopia si può quindi bene sintetizzare con le parole di un autore che è molto più utopico di quanto comunemente si rilevi, ovvero John Dewey.

Nella riflessione deweyana immaginazione, creatività, ragionamento critico ed emotività non sono mai divise artificiosamente ma si coagulano in un’unica facoltà umana, la “human intelligence”.

La descrizione del ruolo politico di questa facoltà riassume al meglio quanto detto a proposito del pensiero utopico. Il filosofo americano proponeva infatti nel suo Una fede comune una concezione della democrazia che si fondava sulla “fede nell’intelligenza umana”, ovvero nella capacità di immaginare condizioni di vita sempre migliori e di lasciare che tali ideali immaginati guidassero l’azione critica volta a valutarli ed eventualmente realizzarli.

Tale processo doveva essere democratico e razionale, prodotto in ugual misura dall’immaginazione e dalla discussione politica. Solo grazie agli ideali volti al perseguimento di una vita migliore le nostre facoltà intellettuali possono interpretare il mondo e cogliere le relazioni che legano il presente stato delle cose ai suoi possibili corsi futuri, poiché è proprio nella progettazione e nello slancio verso un fine che orienta la riflessione che si mette in atto il pensiero.

Anche senza richiami all’opera di More, emerge qui come altrove l’influenza duratura dell’immaginazione politica, vero contrassegno di ogni autentica utopia: esso permea non solo la riflessione di moltissimi pensatori della modernità ma anche il nostro presente, che sempre più spesso si rende conto di non poter fare a meno delle utopie.

Note:

Thomas More, Utopia, Mimesis, 2020

Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia, Laterza, 2020

Roberto Mordacci, La condizione neomoderna, Einaudi, 2017

Gillo Dorfles, L’utopia è architettura, contenuto in Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini (a cura di), Utopie. Percorsi per immaginare il futuro, Codice, 2012

Elena Granata, Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi, 2021

Andrew Dana Hudson, “Sulle dimensioni politiche del Solarpunk” in Francesco Verso (a cura di) Solarpunk. Come ho imparato ad amare il futuro, Future Fiction, 2020

Jay Springett, Introduzione a Solarpunk. Dalla disperazione alla strategia a cura di Francesco Verso, Future Fiction, 2021

Francois Hartog, Regimi di storicità, Sellerio, 2007

Simon Reynolds, Retromania: musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Minimum Fax, 2022

Paolo Jedlowski, Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali, Carocci, 2017

Aldo Schiavone, Progresso, Il Mulino, 2020

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