x

x

Il processo penale nel periodo inquisitoriale: il sospetto tra metodo inquisitorio e metodo accusatorio

"I fatti, si sa, sono come gli scogli:

riemergono immutabili e lucidi

dopo ogni ondata di chiacchiere"

Francesco Ruffini

Una costante del diritto penale dell’Europa continentale, dal medioevo ad oggi, è il sospetto, inteso come presunzione di colpevolezza.

L’ampia ed approfondita analisi, cui tale tematica è stata sottoposta negli studi[1], mi esime dal riproporre spunti ed osservazioni già prospettati. Concentrerò, allora, l’attenzione su qualche profilo che  particolarmente colpisce e che, a mio giudizio, si presta a qualche commento ulteriore.

Italo Mereu, nella Storia dell’Intolleranza in Europa[2], definisce il sospetto come l’enzima giuridico che ha dato vita a tutta la civiltà inquisitoria dell’Europa dell’est e dell’ovest. Si è caratterizzato, fin dall’inizio, come uno strumento edulcorato dalla varie ideologie quasi a mascherarne gli effetti.

Probabilmente si tratta dell’invenzione giuridica tra le più originali: basti pensare che nascendo nel medioevo, in Europa (con esclusione dell’Inghilterra), ha superato indenne il Rinascimento, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e l’epoca liberale, per arrivare, sempre viva, all’epoca contemporanea.

Nel corso dei cinque secoli in cui domina la scena processuale, diviene lo strumento di indagine intorno ad un atteggiamento spirituale, quale l’eresia, dando corpo ad un panorama giudiziario ideologicamente assai omogeneo ed uniforme.

Auspicio non est cognitio certa sed dubitatio incerta. Questa frase fa da perno ad un intero sistema che si è caratterizzato in Italia proprio nel cinquecento e che vede il sospetto come un instrumentum regni, vale a dire ogni provvedimento repressivo della liberta personale di un soggetto, ogni arresto, anche ingiustificato, avrà sempre il suo movente arcano: la lotta contro il maligno.

È proprio in questo contesto storico che inizia a radicarsi il concetto di intolleranza, alla quale si accompagna fatalmente alla certezza di possedere una verità assoluta, con il preciso obbligo di farla trionfare secondo uno schema elementare: o consenso o repressione.

Tale formula ha successivamente trovato cittadinanza in tutte (o quasi) le istituzioni penali dell’Europa occidentale, così da rappresentare uno dei cardini di ogni ordinamento penale moderno.

Inventrice e animatrice di questo metodo processuale, fondato sul sospetto inteso come presunzione di colpevolezza, è stata la Chiesa cattolica[3].Con assoluta originalità quindi, in confronto dei metodi processuali precedenti, la prima istituzione che ha fondato la propria azione penale sul concetto di sospetto è stata la Chiesa.

Non tenere conto di ciò vuol dire ignorare il contributo che la Chiesa ha dato alla costruzione del diritto processuale penale dell’Europa continentale.

Con questo non si vuole chiaramente riscrivere la storia della codificazione penale in Italia e, soprattutto, non tener conto di tutto il dibattito sorto per identificare il primo codice penale italiano[4], tuttavia non si può negare che, per quanto riguarda il diritto processuale penale, il medioevo è la grande epoca creatrice.

In un’accezione più lata, ma non trascurabile, se si vuol cogliere il fenomeno giuridico nella sua genesi, di certo, è legittimo chiedersi il motivo che ha condotto la chiesa, per eliminare gli eretici e per scoprire i devianti, ad avere un proprio metodo processuale[5].

Per rispondere a questo quesito è necessario partire dal spirito, profondamente antiromanistico, che la chiesa ha sempre avuto nel concepire la propria giustizia criminale e, secondo un profilo eminentemente storico, da un evento che ha segnato, inconfutabilmente, il radicale cambiamento della Chiesa nei confronti dei fedeli.

Tale evento si rinviene nell’anno 313, ossia con l’editto di Milano, con il quale Costantino proclama che la religione annunciata da Cristo non è una delle tante che possono benissimo coesistere, “ma è la vera l’unica”[6].

Viene ad emergere il principio di intolleranza sul quale viene impostata la soluzione e la politica dei rapporti con il potere imperiale e legittimata l’uso della violenza legale[7].

Una nuova giurisdizione penale

Nel Digesto si affermava, ad esempio, che nessuno può essere punito per il solo pensiero: cogitationis poenam nemo patitur[8].Tale principio era in netto contrasto con la persecuzione dell’eresia che era un crimine di pensiero.

Ma c’era soprattutto il sistema processuale per accusatio che andava contro tutti i presupposti repressivi dai quali partiva la Chiesa. Accusatore ed accusato erano posti, nel Digesto, sullo stesso piano.

Chi accusava doveva provare. Da qui la pena del taglione verso l’accusatore che fosse risultato colpevole di calunnia. L’accusato aveva il diritto di difendersi e di farsi difendere; il processo aveva uno svolgimento rapido, e come caratteristica l’oralità e la pubblicità.

Non erano ammesse denuncie e testimonianza segrete. Il giudice ascoltava le parti, e sulla base delle prove esibite, decideva.

Al contrario, la chiesa per superare tale “tradizione”, aveva cominciato a potenziare la forma della denunciatio, con la quale un fedele comunicava la notizia peccati all’autorità spontaneamente o perché obbligato in confessione, senza essere tenuto a sostenere pubblicamente l’accusa.

Ma sarà con l’inquisitio che la sistematica del sospetto diverrà perentoria ed invincibile. Il confronto dialettico tra le parti verrà eliminato e sostituito con la “prudenza” del giudice. Non ci sarà più bisogno della diffamatio.

Da un punto di vista dogmatico nel sistema accusatorio la posizione di uguaglianza delle parti era rigorosamente rispettata. Accusatore e reo avevano gli stessi diritti e doveri: Il giudice non poteva emettere sentenza ad arbitrio ma solo sulla base delle prove.

Nel sistema inquisitorio prevarrà invece il sistema delle disuguaglianza: le parti non hanno le stesse possibilità e non sono poste sullo stesso piano.

Il sospetto diventa così l’asse portante di tutto il nuovo sistema preventivo e punitivo caratterizzato da una asimmetrica considerazione dei poteri/facoltà riconosciuti alle parti processuali.

Da un punto di vista ideologico tale impostazione risultava immune da qualsiasi eccezione di merito: se infatti fuori dalla chiesa non c’era salvezza (extra ecclesiam nulla salus), se l’unico tramite tra Dio e l’uomo era fornito dal mondo ecclesiale, se soltanto la chiesa possedeva le chiavi dell’altre vita, la nuova impostazione della presunzione di colpevolezza (praesuntio culpae) era del tutto coerente con il mandato salvifico demandato all’istituzione petrina.

Più segnatamente, e Mereu, con efficace pennellate ne offre una precisa immagine, il pontefice che ha introdotto ufficialmente il sospetto come presunzione di colpevolezza nel diritto penale è stato Alessandro III[9], che con la decretale Accusatus, riconosceva piena cittadinanza al sospetto nella procedura penale del tempo.

Viene affermato che l’accusato e il sospetto di eresia sulla cui ortodossia sarà sorto un grave e veemente sospetto da parte dell’autorità, se dopo aver abiurato ricadeva nell’eresia, si considerava come recidivo[10], anche se il suo primo delitto non fosse stato pienamente provato

Successivamente, con altre due decretali, Ad abolendam (Lucio III, 1185)[11] e Excommunicamus (Innocenzo III, 1216)[12], si passa all’affermazione del sospetto come prassi con la consolidazione del principio di inversione dell’onere della prova[13].

Tali documenti si immettono nel solco tracciato da Alessandro III, variando comunque la metodologia con cui verrà operata la lotta contro i devianti, destinatari di effetti ablatori su tutti i benefici e ogni proprietà qualora incorsi nel reato di eresia, e affidati alla giustizia secolare[14]. Dopo Innocenzo III, tutti i pontefici non solo si atterranno a questo modello, ma Paolo III, con la bolla Licet ab inizio (1542)[15], fonderà la nuova Inquisizione romana, lasciando immutata tutta la legislazione medievale[16]. Una volta eletto alla “cattedra di Pietro”, Paolo III si trova al cospetto di delicate questioni da affrontare, sia in ambito di politica estera, sia soprattutto in ambito domestico. Ma l’unico problema che ritiene non differibile è proprio quello penale, che rientra, da quel momento in poi, un architrave di qualunque riforma che tutti i pontefici successivi promuoveranno nel loro governo.

Con la Licet ab inizio non sarà più l’autorità a dimostrare l’esattezza del sospetto per il quale è stato dato avvio al procedimento, ma sarà compito dell’imputato dimostrare la propria estraneità al fatto contestato cercando di persuadere, chi lo giudica, di essere un vero penitente.

In questo clima politico, si assiste pertanto ad un adeguamento di un vecchio strumento repressivo (l’inquisizione) reso più efficace a contrastare la pubblica pravità con un nuovo metodo di tipo centralistico.[17]

Si passa dal sistema duopolistico rappresentato dall’autorità di Roma e dal potere locale attribuito ai Vescovi ad una nuova strutturazione burocratica che rinviene nella centralità il suo carattere peculiare.

Analogamente anche l’azione penale, se prima era esercitata dai Vescovi, ora viene trasmessa in toto (ius inquirenti, procedendi et iudicandi) agli inquisitori generali nominati dal pontefice.[18]

Altra novità di rilievo è la nuova universalità della giurisdizione dell’Inquisizione romana. Se prima i Vescovi erano i depositari esclusivi dell’esercizio dell’azione penale nell’ambito della propria diocesi, ora esistono nuovi limiti di efficacia nello spazio; si cristallizza una nuova dimensione spaziale rappresentata da una sola diocesi, indivisibile e generale, i cui confini sono dilatati e assorbono quelli riferiti ai governi locali.

Per quanto concerne l’organizzazione interna, i cardinali inquisitori hanno la prerogativa di creare il proprio apparato burocratico servente, con assoluta libertà e aderendo alla più ampia discrezionalità[19].

Un nuovo reato: l’eresia

In un contesto legislativo e sociale nel quale tutto i diritto penale è incentrato specialmente per la difesa della fede, nasce un nuovo reato, del tutto sconosciuto ai romani: il reato di eresia[20].

Viene ad enuclearsi quindi il delitto di eresia che viene dichiarato come crimine pubblico perché qualunque attività svolta contro la religione divina è una ingiuria verso tutti quod in religionem divinam comittur in omnium fertur iniuriam).

Per rendere più intelligibile il senso di queste considerazioni può essere utile fermare l’orologio del tempo e riportarlo all’epoca in esame, ci troveremo dinanzi  ad una politica penale repressiva per effetto della quale essere sospettato significava essere diverso, un quasi eretico. Il sospetto diventava così il principio informatore dell’intera procedura penale, così che vi sono logicamente implicate le più significative caratteristiche poste a presidio del sistema inquisitorio: inversione dell’onere della prova, svuotamento dei diritti di difesa e infallibilità del giudice.

Tutta la nuova procedura penale e tutte quelle innovazioni che la Chiesa vi apporterà, dall’istruttoria scritta e segreta, alla tortura, alla confessione, non sono che un’applicazione di quel principio rinnovatore nel campo processuale ed in quello di prevenzione del reato.

Limiti all’efficacia di tale istituto praticamente non ne esistono.

Essere sospettato vorrà dire essere un diverso, un non allineato, un soggetto da escludere e da evitare. Per mezzo del sospetto la presunzione di colpevolezza si istituzionalizza, diventa un instrumentum regni molto efficace in quanto non è possibile fissargli degli esatti confini giuridici.

Contro un metodo che muove  da queste premesse, non esistono possibilità di valida opposizione e di effettiva difesa.

Nel tempo si ripeterà sempre la stessa formula: simpliciter et de plano et sine stupitu advocatorum et forma iudiciorum. Non ci sono limiti di tempo, né obbligo di citazioni, né dovere di sentire la difesa.

Il giudice può rifiutare le eccezioni, può circoscrivere l’ambito della causa o dilatarlo come lui riterrà più opportuno, può respingere gli appelli che riterrà meramente dilatori, può non ammettere dei testimoni e far tacere gli avvocati. E’ il dominus delle indagini e del processo.

Può scegliere la procedura da adottare, può iniziare l’azione penale in seguito a denuncia o d’ufficio. L’unico limite è di natura meramente formale: il giudice ha l’onere di annotare e registrare ogni suo atto processuale.

In questa fase, la scrittura ed il formalismo assolveva a un duplice funzione: da un lato, rappresenta uno strumento di terrore nei confronti dei testimoni i quali sanno che tutto ciò che hanno riferito è stato registrato così che non sarà possibile in seguito smentire, ritrattare, cambiare quanto in precedenza è stato dichiarato e sottoscritto; dall’altro, ottempera alla possibilità, per l’autorità centrale, di consentire controlli ed ispezioni su come ogni singolo procedimento è stato condotto.

Con tali elementi posti a fondamento dell’azione processuale e penale, il diritto viene trasformato da “tecnica della coesistenza” in “tecnica della coazione”.[21]

Liberata dal peso della prova, fondata sull’attività insindacabile del giudice, dotata di un potere pubblico sul sospetto, questa tecnica porterà una indiscusso potere di dissuasione stante la possibilità di essere impiegata in ogni occasione.

Questa espressione di decisionismo processuale degrada inesorabilmente il rito a giudizio senza verità, anzi, a verità del solo giudice, si connota altresì di una interpretazione rigida e sistematica.. Per un verso, il thema decidendum, non assorbito da fatti oggettivi ma anche e soprattutto offerto dall’intrinseca temibilità del sospetto, converte l’accertamento dei fatti di causa in una prognosi intuitiva, discrezionale ed irreversibilmente incontrollabile.

Postulare, difatti, la possibilità di un controllo sulla decisione di condanna, prima che questa produca i suoi effetti, non era una necessità né di ordine giuridico né morale.

Del resto, tale potere istruttorio incondizionato, che all’organo inquisitoriale veniva assegnato, rinveniva la sua ratio nella necessità di attribuire al giudicante il riconoscimento della qualità di difensore della sicurezza, giustificando in questo modo l’unilateralità della formazione del convincimento ed escludendo ogni confronto intersoggetivo della fattispecie accusatoria.

Sospetto e principio di legalità

Tale sintagma potrebbe sembrare del tutto stridente in ordine alle considerazioni fin qui svolte. In realtà si esprime come una logica e, soprattutto, coerente conseguenza; una delle caratteristiche tipiche e peculiari della Chiesa è proprio la presenza del principio di legalità quale principio regolatore della sua storia.

Il cosiddetto convenzionalismo penale, espressione con la quale si vuole alludere al criterio di stretta legalità nella determinazione delle condotte punibili secondo le classiche formulazioni nulla poenaet nullum crimen sine lege, e del nulla poena sine crimine et sine culpa, escludendo, così, dal campo di applicazione del trattamento penale norme costitutive e non regolative, inosservanze che non abbiano riferimento a comportamenti empirici ed oggettivi preventivamente ritenuti offensivi di beni giuridici primari, trova nella visione inquisitoria la il giusto alveo nel quale immettersi per giungere ad ottenere una metodologia giudiziaria finalizzata all’acquisizione di un sapere onnicomprensivo senza l’inosservanza delle regole procedurali.

Il principio di legalità ha i suoi più accorti esegeti proprio nei maestri dell’Inquisizione.

Le ragioni che, tra il XIII e XIV secolo, avevano indotto la Chiesa ad una operazione di questo genere, sono di tre specie.

La prima, di ordine politico e sociale, ha il suo fondamento nella fede come nesso unificatore di tutte le componenti della società e pertanto, andava preservata con ogni mezzo.

Allontanarsi dalla via retta altro non era che attaccare quel bene che è l’unità della Chiesa, che coincide esattamente con il bene dell’intera società. E’ per questo motivo che l’interesse individuale poteva essere schiacciato dinanzi al prevalente interesse collettivo, e l’eretico e il diverso non potevano apparire come delinquenti.

La seconda ragione può sintetizzarsi con la formula giuridica: giurisdizione=amministrazione. A nulla rileva la prima senza la seconda.

La prima è la fonte che giustifica il comando; la seconda è il contenuto di cui si riempie il potere formale.

La terza ragione era d’ordine strettamente pragmatico.

Le voci, le spiate, le “soffiate” molto spesso dovevano essere esatte. Non venivano incoraggiate ma comunque venivano registrate ed utilizzate ogni qualvolta si presentasse l’occasione[22].

Se oggi si discute sulla questione della presunzione di non colpevolezza quale concezione del processo ancorata ai valori dell’individuo e della legalità e sul superamento della tradizionale dicotomia presunzione di innocenza-presunzione di non colpevolezza[23], la matrice ideologica che animava nel periodo in esame il processo penale, pone al riparo da qualunque interpretazione sbiadita o tendenti ad ampliare le (inesistenti) valenze garantiste.

Facendo ricorso al binomio consenso-repressione, sorge quindi, in seno alla Chiesa, un sistema penale tecnicamente perfetto avente come fine il consenso e come mezzo il sospetto.

Intolleranza, sospetto, diritto, vanno a formare un chiaro sillogismo, nel quale il primo termine costituisce la necessaria premessa, il secondo il termine medio, il terzo la conclusione concreta.

Si afferma così il sistema processale penale di tipo inquisitorio, fondato sul sospetto

Secondo il ragionamento finora svolto, e quando , come suggerisce Mereu, si traccerà la storia della nostra unità “con occhi meno obnubilati dal nazionalismo”, si potrà comprendere come la prima unione dell’Italia si realizza proprio nel ‘500 per merito della Chiesa. Non è opera di “garibaldini”, ma di “inquisitori”.

Modello inquisitorio e modello accusatorio. Una contrapposizione atavica

È questo il momento in cui ha inizio una profonda rivoluzione giuridica del diritto penale e processuale, nel quale la lotta tra il romanistico sistema accusatorio[24] ed il medievale sistema inquisitorio ha sempre avuto una grande vitalità.[25]

Caratteristica tipica del modello accusatorio è la parità di posizione tra accusa e difesa, innanzi ad un giudice super partes, terzo ed imparziale.

Più segnatamente, qualche autore[26], ha sottolineato che il processo accusatorio poggia su alcuni “postulati di base”, che possono essere così riassunti: a) il potere di iniziativa e di accusa spetta a soggetto diverso dal giudice; b) il procedimento è interamente contrassegnato dalla pubblicità e dall’oralità; c) accusatore ed imputato sono collocati in posizione di assoluta uguaglianza e parità; d) il giudice non ha il compito di ricercare e raccogliere le prove a carico o a discarico, essendo tenuto ad esaminare soltanto quelle allegate dalle parti; e) l’accusato articola la propria difesa, mantenendo la libertà personale fino al passaggio in giudicato della sentenza.

Corrisponde quindi ad un’ideale configurazione di un triangolo che vede al vertice il giudice e alla base accusa e difesa, in posizione contrapposta ma su un piano paritario di facoltà e diritti[27]

Per quanto concerne il modus procedendi che anima questo modello, si deve preliminarmente sottolineare la preminenza dell’ufficio dell’accusa esercitato da un organo pubblico dotato di specifici poteri giurisdizionali.

Nel sistema processuale inquisitorio si verifica l’abdicazione dei diritti della difesa: l’imputato diventa o tende a divenire un semplice soggetto passivo dell’inquisizione pubblica.

Il modello processuale inquisitorio contempla invece: a) l’attribuzione allo stesso organo pubblico di funzioni inquirenti e giudicanti con conseguente promovimento di ufficio dell’azione penale; b) la totale segretezza della procedura; c) l’incondizionata libertà di indagine probatoria del decidente; d) la minuziosa documentazione scritta di tutti gli atti compiuti; e) la naturale disparità di poteri tra giudice-accusatore ed imputato, al quale non compete alcun diritto di acquisizione probatoria; f) la permanente carcerazione preventiva del giudicabile [28].

Tali principi trovano facile cartina di tornasole nel processo inquisitoriale medievale, nel quale si dimostra altresì nettatemene antitetiche con il “moderno” principio del contraddittorio la apparente parità tra le due figure processuali del procuratore fiscale e dell’avvocato.

Il procuratore fiscale formulava l’accusa, poteva chiedere l’emissione di mandati di cattura, essere presente in tutte le dinamiche dell’istruttoria, prendere visione degli atti processuali in atti, produrre prove a carico dell’imputato.

Non partecipava alla deliberazione della sentenza per il (tentativo) rispetto della romanità dove già nel Digesto si distingueva di continuo tra la funzione del giudice e quella di accusatore. Tale aspetto segna, più di altri, la netta dicotomia tra ideologia ed effettività; si afferma un principio che poi viene disatteso in modo clamoroso nella pratica.

L’avvocato, invece, era detto collaborazionista proprio perché, con il nuovo metodo processuale, viene trasformato in un mero compartecipe del processo, considerato Innocenzo III nella costituzione Si adversus aveva vietato l’assistenza legale agli eretici e aveva ordinato di non patrocinare le cause di quanti fossero sospettati.

In questo casi non c’era discrasia tra ideologia ed effettività: non era prevista difesa né dialettica fra le parti del processo.

Del resto perché ricorrere ad un confronto dialettico quando si ha un giustizia perfetta dove il principale rimedio era il conseguimento di una confessione contra rei.

L’avvocato restava escluso dall’istruttoria, non era nominato liberamente dall’imputato, ma veniva assegnato dall’inquisitore, scelto  tra quei legali di assoluta fiducia e di fede integerrima.

Infine, quanto ai suoi onorari, se gli inquisiti erano proprietari nessun problema; era sufficiente vendere i beni per ottenere il compenso; se invece l’inquisito era un povero la “parcella professionale” veniva pagata direttamente dall’Inquisizione.

Se qualche autore[29] ha inteso definire il rito inquisitorio come una macchina che può produrre verità in assenza dell’accusato, perché è costruito quale procedura pubblica d’inchiesta o d’indagine, la radice politica è proposta dal sospetto quale metodo di ricerca unilaterale ed autoritativo attribuita al solo giudice.

L’Abiura

L’abiura, come abbiamo visto, era una sorta di patteggiamento, “l’antidoto più comune”[30], introdotta come un’ulteriore prova penitenziale alla quale doveva sottoporsi l’eretico dichiarato, l’apostata e lo scismatico, per poter essere riammesso nella Chiesa.

Mutuata dal diritto canonica, l’abiura inquisitoriale viene trasformata in una autocritica, in una rinuncia al proprio pensiero espresso.

Il rifiuto ad abiurare rappresentava un aggravio della propria posizione: significava l’autocondanna.

Tecnicamente l’abiura era il rinnegare una determinata cosa mediante il giuramento detestando i propri errori[31].

Abiurare significa detestare i propri errori, criticarli e giurare di attenersi alla più assoluta ortodossia, che si riconosce unicamente nella linea tracciata da chi rappresenta l’istituzione.

Secondo l’ottica processuale, detto istituto è uno dei modi per concludere un processo inquisitorio, mediante una sentenza che sarà d’abiura per un sospetto leggero (abiuratio de levi) o abiura  per un sospetto veemente (abiuratio de veementi)  o per un sospetto violento.

Anche nell’abiura il presupposto fondante l’intero procedimento è il sospetto dell’autorità, rappresentando, da un punto di vista storico, una pena infamante in considerazione del giuramento di fedeltà che l’abiurante doveva pronunciare per “allinearsi” all’ortodossia e abbracciare ideologicamente il magistero vigente.

Si accennava al sospetto d’autorità; ebbene questo era sufficiente a provocare l’arresto, che si manteneva fino alla pronuncia della sentenza finale.

Secondo l’iter procedurale, dopo l’arresto del “reo” vi era l’esame, nel quale il giudice cerca di chiarire e di accertare la fondatezza dei sospetti invocati. Parlando con termini odierni si potrebbe definirlo come l’interrogatorio di garanzia oggi previsto del codice di procedura penale, anche se i due termini a quel tempo potevano costituire un’antinomia troppo complicata da applicare.

L’esame diveniva successivamente “rigoroso” quando si voleva arrivare ad una confessione del sospettato in assenza di prove certe.

La sentenza

Punto di arrivo del processo inquisitoriale era la sentenza Redatta in lingua italiana presentava tre parti essenziali.

Nella prima si annotano i dati anagrafici dell’imputato, paternità, luogo di nascita, professione e tutti gli elementi che valgono ad identificarlo.

La seconda abbiamo la motivazione, nella quale il giudice espone brevemente i fatti contestati, le deposizioni dell’imputato rese durante l’interrogatorio e la tortura.

Nella terza segue il dispositivo della sentenza, dove l’inquisitore e il vescovo, dopo aver specificato che i sospetti dell’Inquisizione sono ancora presenti, impongono al sospettato l’atto di abiura e lo condannano alla “berlina” oppure alle pene delle galere o delle carceri.[32]

Alcune osservazioni vanno svolte in ordine a due aspetti.

La sentenza veniva redatta in italiano quando la lingue della chiesa, non solo nelle cerimonie ma in qualsiasi atto, è il latino. Tale scelta è da rinvenire nella volontà di far giungere il contenuto  a tutti e non ridurla ai soli dotti; per questo si rinuncia all’uso di vocaboli difficili o termini tecnici di difficile comprensione.

La domenica precedente a quella in cui doveva avvenire l’abiura, si avvisavano i fedeli perché partecipassero alla cerimonia, e dopo quella religiosa, iniziava quella della abiura; con una mano sul Vangelo si procedeva alla lettura del testo[33].

Conclusioni

Mutano le dinastie, mutano i sistemi sociali e politici, mutano anche, in altri settori, le relazioni tra Stato e Chiesa, ma in ordine ai dissidenti tutto resta fermo per oltre 14 secoli: ciò che varia è tutt’al più l’intensità dello sfavore, la violenza della pressione; il principio per contro, con tutte le sue implicazioni essenziali, è immutabile. Soltanto con l’approssimarsi dell’Illuminismo anche l’apparato inquisitorio conosce una fase di crisi e gli avvenimenti parigini del 1789 ne segnano la fine.

Di certo, è dimostrato che accanto al diritto canonico esiste un diritto inquisitoriale, dotato una propria ideologia, basato su una tecnica processuale affidabile. Si tratta di un’articolazione del diritto penale canonico, avente una natura eccezionale ma solo con riguardo alla sua specialità ed alla particolarità degli istituti che abbiamo sommariamente visto finora: eresia, abiura, rigoroso esame

Trattare questo aspetto in modo negletto significa abdicare alla esigenza di conoscere, da un punto di vista squisitamente storico, lo svolgimento effettivo del diritto penale.

In fondo se si è giunti solo di recente al superamento della tradizionale dicotomia presunzione di innocenza – presunzione di colpevolezza è proprio perché il sospetto si è sempre annidato nelle istituzioni penali e processuali.

Non può essere infatti “un caso” la formula negativa adottata dal Costituente nell’articolo 27,  comma 2 della Costituzione, dando origine a tante discussioni in dottrina. L’impostazione adottata nella carta è stata appositamente ambigua ed impregnata dalla tentazione di compiere in compromesso, così da autorizzare, come nei fatti spesso è avvenuto, opzioni interpretative manipolatrici o riduttrici.

L’artefice morale di tale formulazione non può che essere ravvisato nel sospetto che, dopo quasi sei secoli dall’emanazione della bolla licet ab inizio continua ad alimentare la formulazione di una domanda, sempre di stretta attualità formulata dallo studioso Vincenzo Cavallari nel (lontano) 1974, a conclusione della sua relazione sulle misure di prevenzione al Congresso tenuto ad Alghero: “Quale prova può garantire, quale processo può tutelare quella libertà che può essere tolta per un semplice sospetto?”

[1] Il primo  studio comunque dedicato specificatamente al sospetto come istituto giuridico è quello di  A. Stein, De Suspicione, in S. Strykii (1640-1710), 1838, vol. IV, pp. 702-756.

3 I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa ,III^ ed.., Milano, 2000.

[3]Ci riferiamo evidentemente alla chiesa non come comunione di credenti, ma come istituzione giuridico-politica.

[4]Sul punto, A. CADOPPI, Il primo Codice penale italiano, Il codice penale del Principato di Piombino(1808) in Codice Penale per il Principato di Piombino (1808), a cura di S. Vinciguerra, p. XXXI ss., ritiene che il codice di Piombino del 1808 è il vero e proprio codice penale italiano, “sanzionato” il 24 marzo del 1808 ed entrato in vigore il 15 aprile dello stesso anno; altri, S. VINCIGUERRA, Pensieri sparsi su diritto penale e processo nel codice di Piombino del 1808, op.cit., pag. CCXXXVIII, ritengono che se non si vuole considerare il concetto di italianità nella semplice vigenza nel territorio italiano, ma l’espressione giuridica dell’autonomia politica, essenza della statualità moderna, bisogna riconoscere che il primato appartiene allo stato italiano il quale si munì per primo di un codice penale nel 1819, spetta, cioè, al Regno delle Due Sicilie.

[5] Tale aspetto è ancor più interessante se si considera che già esisteva il metodo accusatorio romano, che nel medioevo, con la “scoperta” del Digesto, proprio nel periodo in cui l’Inquisizione muove i primi passi, comincia ad essere apprezzato nelle università.

[6] B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, Milano, 1952, I, pp. 254 ss.

[7] Cfr. in tal senso MEREU I., La morte come pena, Saggio sulla violenza legale, 2000, p.16 ss.

[8] Digesti, 48,19,18.

[9] Alleato e guida morale della Lega dei Comuni Lombardi che sconfiggerà Federico Barbarossa a Legnano, giudicato da Voltaire, che verso i papi aveva una certa prevenzione, come un pontefice che era andato contro la rozzezza dei tempi in cui visse.

[10] L’istituto delle recidiva nel diritto pontificio costituisce un punto di contatto con il diritto penale moderno; si intendeva recidivo che una ricadeva  dopo una pubblica penitenza ovvero dopo una solenne e giudiziale abiura.

[11] Ubaldo Allucingoli, nato a Lucca, morto a Verona nel 1185.

 [12] Innocenzo “aveva cinto la tiara” all’età di trentasette anni, aveva compiuto i suoi studi a Parigi e a Bologna, e si era laureato in scolastica e giurisprudenza. Sotto Clemente III era stato eletto Cardinale della Chiesa dei Santi Sergio e Bacco;

[13] E’ questo il momento in cui la Chiesa prende posizione a favore della morte come pena, inflitta dal potere laico, con la decretale di Innocenzo III, Vergentis in senium, diretta alle autorità e al popolo di Viterbo e poi inserita nelle Decretali di Gregorio IX, cfr. MEREU I, op. cit., p. 19.

[14] In questo caso l’unico ravvedimento era costituito, una volta appreso l’errore, spontaneamente, dalla dall’abiura pubblica e adeguata soddisfazione.

[15] Il 24 maggio dello stesso anno con la bolla Inizio nostri, Paolo III indice il Concilio di Trento.

[16] Sul tema della pena di morte, si ricordi che questa verrà abrogata dai territori sotto la giurisdizione politica della Chiesa, oggi Stato Città del Vaticano, solo con Paolo Vi nel 1969.

[17] Opportunamente sottolineato da MEREU I., op. cit. p. 57.

[18] Nella Licet ab inizio si afferma per la prima volta l’uguaglianza giuridica di tutti dinanzi alla legge penale, senza distinzione di gradi, di privilegi o di qualifiche, così I, MEREU, ibidem, p. 60.

[19] L’unico limite è costituito dall’età: gli inquisitori delegati non potranno avere meno di trenta anni, cfr. I. MEREU, ibidem., p. 61.

[20] Si può definire eretico quel soggetto scoperto nel deviare (detesti fuerent deviare) dalla linea della religione cattolica.

[21] I. MEREU, Il metodo inquisitorio tra ideologia ed effettività nella dialettica del potere dell’europa continentale, in Diritto e Potere nella storia europea, Atti del quarto Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del diritto, 1982,Firenze.

[22] Sul punto, comunque, RICCIO, in Ragioni del processo penale e resistenze eversive, tra novellazioni e prassi, ora in Ideologie e modelli del processo penale, Napoli, 1995, p. 199, ha osservato come nell’alto medioevo gli interessi da tutelare esigevano “automatismo repressivo incompatibile con le accuse private” (cioè con le forme di azione con oggetto disponibile diffuse nella cultura giuridica romana).

[23] Per un’accurata disamina di tale problematica cfr. PAULESU P.P., Presunzione di Colpevolezza, p. 670; ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 80; PISANI, Sulla presunzione di non colpevolezza, FPE, 1965, 3 ss.DOMINIONI, La presunzione di innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, 1985, 240, nt. 143.

[24] Le conoscenze tramandateci circa l’amministrazione della giustizia criminale in epoca romana risultano assai frammentarie, spesso appaiono accompagnate da notizie leggendarie e non di rado le relative sezioni del Digesto si dimostrano incomplete.

[25] Per ILLUMINATI, op. cit. p. 2, si tratterebbe della contrapposizione tra due modelli culturali, tanto che non sarebbe sbagliata “sebbene alquanto schematica, la ricorrente affermazione secondo cui il processo accusatorio sarebbe espressione dei regimi democratici, il processo inquisitorio dei regimi autoritari”.

[26]G. CONSO,  Accusa e sistema accusatorio,in Enc. Dir. Vol.I, Milano, 1958, pag. 334 ss.

[27] G. CONSO, op. loc. cit..

[28] Per dare fondamento e sicura riconoscibilità ai sistemi processuali accusatorio ed inquisitorio, PERELMAN-TYTECA, in Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, trad. it. A cura di Schick, Mayer e Barassi, Torino, 1966,p. 433., fa ricorso ad una tecnica argomentativa che descrive il fenomeno mediante coppie di opposti: pubblicità-segretezza, oralità-scrittura, accusa privata o ex officio, par condicio o disuguaglianza probatoria, sono i più importanti tratti distintivi alternativi dai quali emergono le forme processuali  in rigida contrapposizione.

[29] Cfr. FAUCAULT, Sorvegliare e punire, Nascita della prigione, trad. it. A cura di A. Tarchetti, Torino, 1976, p. 336.

[30] I. MEREU, op. cit., pag. 292.

[31] Inscindibilmente legato all’abiura è la vicenda di Galileo Galilei, il quale ha reso, in forza di sentenza, atto di abiura dinanzi al tribunale dell’Inquisizione il 22 giugno 1633.

[32] L’abiurante, dopo aver dichiarato il proprio nome, inginocchiato davanti all’inquisitore e al vescovo, giurava sopra i Vangeli di aver sempre creduto, di credere e di sperare di credere tutto quello che tiene, crede, predica e insegna la santa Cattolica e Apostolica Romana Chiesa.

[33] Non era raro che l’abiurante fosse analfabeta, in tal caso era il notaio ovvero un religioso che leggevano, sillabando, il testo dell’abiura e l’abiurante aveva l’obbligo di ripeterlo ad alta voce.

"I fatti, si sa, sono come gli scogli:

riemergono immutabili e lucidi

dopo ogni ondata di chiacchiere"

Francesco Ruffini

Una costante del diritto penale dell’Europa continentale, dal medioevo ad oggi, è il sospetto, inteso come presunzione di colpevolezza.

L’ampia ed approfondita analisi, cui tale tematica è stata sottoposta negli studi[1], mi esime dal riproporre spunti ed osservazioni già prospettati. Concentrerò, allora, l’attenzione su qualche profilo che  particolarmente colpisce e che, a mio giudizio, si presta a qualche commento ulteriore.

Italo Mereu, nella Storia dell’Intolleranza in Europa[2], definisce il sospetto come l’enzima giuridico che ha dato vita a tutta la civiltà inquisitoria dell’Europa dell’est e dell’ovest. Si è caratterizzato, fin dall’inizio, come uno strumento edulcorato dalla varie ideologie quasi a mascherarne gli effetti.

Probabilmente si tratta dell’invenzione giuridica tra le più originali: basti pensare che nascendo nel medioevo, in Europa (con esclusione dell’Inghilterra), ha superato indenne il Rinascimento, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e l’epoca liberale, per arrivare, sempre viva, all’epoca contemporanea.

Nel corso dei cinque secoli in cui domina la scena processuale, diviene lo strumento di indagine intorno ad un atteggiamento spirituale, quale l’eresia, dando corpo ad un panorama giudiziario ideologicamente assai omogeneo ed uniforme.

Auspicio non est cognitio certa sed dubitatio incerta. Questa frase fa da perno ad un intero sistema che si è caratterizzato in Italia proprio nel cinquecento e che vede il sospetto come un instrumentum regni, vale a dire ogni provvedimento repressivo della liberta personale di un soggetto, ogni arresto, anche ingiustificato, avrà sempre il suo movente arcano: la lotta contro il maligno.

È proprio in questo contesto storico che inizia a radicarsi il concetto di intolleranza, alla quale si accompagna fatalmente alla certezza di possedere una verità assoluta, con il preciso obbligo di farla trionfare secondo uno schema elementare: o consenso o repressione.

Tale formula ha successivamente trovato cittadinanza in tutte (o quasi) le istituzioni penali dell’Europa occidentale, così da rappresentare uno dei cardini di ogni ordinamento penale moderno.

Inventrice e animatrice di questo metodo processuale, fondato sul sospetto inteso come presunzione di colpevolezza, è stata la Chiesa cattolica[3].Con assoluta originalità quindi, in confronto dei metodi processuali precedenti, la prima istituzione che ha fondato la propria azione penale sul concetto di sospetto è stata la Chiesa.

Non tenere conto di ciò vuol dire ignorare il contributo che la Chiesa ha dato alla costruzione del diritto processuale penale dell’Europa continentale.

Con questo non si vuole chiaramente riscrivere la storia della codificazione penale in Italia e, soprattutto, non tener conto di tutto il dibattito sorto per identificare il primo codice penale italiano[4], tuttavia non si può negare che, per quanto riguarda il diritto processuale penale, il medioevo è la grande epoca creatrice.

In un’accezione più lata, ma non trascurabile, se si vuol cogliere il fenomeno giuridico nella sua genesi, di certo, è legittimo chiedersi il motivo che ha condotto la chiesa, per eliminare gli eretici e per scoprire i devianti, ad avere un proprio metodo processuale[5].

Per rispondere a questo quesito è necessario partire dal spirito, profondamente antiromanistico, che la chiesa ha sempre avuto nel concepire la propria giustizia criminale e, secondo un profilo eminentemente storico, da un evento che ha segnato, inconfutabilmente, il radicale cambiamento della Chiesa nei confronti dei fedeli.

Tale evento si rinviene nell’anno 313, ossia con l’editto di Milano, con il quale Costantino proclama che la religione annunciata da Cristo non è una delle tante che possono benissimo coesistere, “ma è la vera l’unica”[6].

Viene ad emergere il principio di intolleranza sul quale viene impostata la soluzione e la politica dei rapporti con il potere imperiale e legittimata l’uso della violenza legale[7].

Una nuova giurisdizione penale

Nel Digesto si affermava, ad esempio, che nessuno può essere punito per il solo pensiero: cogitationis poenam nemo patitur[8].Tale principio era in netto contrasto con la persecuzione dell’eresia che era un crimine di pensiero.

Ma c’era soprattutto il sistema processuale per accusatio che andava contro tutti i presupposti repressivi dai quali partiva la Chiesa. Accusatore ed accusato erano posti, nel Digesto, sullo stesso piano.

Chi accusava doveva provare. Da qui la pena del taglione verso l’accusatore che fosse risultato colpevole di calunnia. L’accusato aveva il diritto di difendersi e di farsi difendere; il processo aveva uno svolgimento rapido, e come caratteristica l’oralità e la pubblicità.

Non erano ammesse denuncie e testimonianza segrete. Il giudice ascoltava le parti, e sulla base delle prove esibite, decideva.

Al contrario, la chiesa per superare tale “tradizione”, aveva cominciato a potenziare la forma della denunciatio, con la quale un fedele comunicava la notizia peccati all’autorità spontaneamente o perché obbligato in confessione, senza essere tenuto a sostenere pubblicamente l’accusa.

Ma sarà con l’inquisitio che la sistematica del sospetto diverrà perentoria ed invincibile. Il confronto dialettico tra le parti verrà eliminato e sostituito con la “prudenza” del giudice. Non ci sarà più bisogno della diffamatio.

Da un punto di vista dogmatico nel sistema accusatorio la posizione di uguaglianza delle parti era rigorosamente rispettata. Accusatore e reo avevano gli stessi diritti e doveri: Il giudice non poteva emettere sentenza ad arbitrio ma solo sulla base delle prove.

Nel sistema inquisitorio prevarrà invece il sistema delle disuguaglianza: le parti non hanno le stesse possibilità e non sono poste sullo stesso piano.

Il sospetto diventa così l’asse portante di tutto il nuovo sistema preventivo e punitivo caratterizzato da una asimmetrica considerazione dei poteri/facoltà riconosciuti alle parti processuali.

Da un punto di vista ideologico tale impostazione risultava immune da qualsiasi eccezione di merito: se infatti fuori dalla chiesa non c’era salvezza (extra ecclesiam nulla salus), se l’unico tramite tra Dio e l’uomo era fornito dal mondo ecclesiale, se soltanto la chiesa possedeva le chiavi dell’altre vita, la nuova impostazione della presunzione di colpevolezza (praesuntio culpae) era del tutto coerente con il mandato salvifico demandato all’istituzione petrina.

Più segnatamente, e Mereu, con efficace pennellate ne offre una precisa immagine, il pontefice che ha introdotto ufficialmente il sospetto come presunzione di colpevolezza nel diritto penale è stato Alessandro III[9], che con la decretale Accusatus, riconosceva piena cittadinanza al sospetto nella procedura penale del tempo.

Viene affermato che l’accusato e il sospetto di eresia sulla cui ortodossia sarà sorto un grave e veemente sospetto da parte dell’autorità, se dopo aver abiurato ricadeva nell’eresia, si considerava come recidivo[10], anche se il suo primo delitto non fosse stato pienamente provato

Successivamente, con altre due decretali, Ad abolendam (Lucio III, 1185)[11] e Excommunicamus (Innocenzo III, 1216)[12], si passa all’affermazione del sospetto come prassi con la consolidazione del principio di inversione dell’onere della prova[13].

Tali documenti si immettono nel solco tracciato da Alessandro III, variando comunque la metodologia con cui verrà operata la lotta contro i devianti, destinatari di effetti ablatori su tutti i benefici e ogni proprietà qualora incorsi nel reato di eresia, e affidati alla giustizia secolare[14]. Dopo Innocenzo III, tutti i pontefici non solo si atterranno a questo modello, ma Paolo III, con la bolla Licet ab inizio (1542)[15], fonderà la nuova Inquisizione romana, lasciando immutata tutta la legislazione medievale[16]. Una volta eletto alla “cattedra di Pietro”, Paolo III si trova al cospetto di delicate questioni da affrontare, sia in ambito di politica estera, sia soprattutto in ambito domestico. Ma l’unico problema che ritiene non differibile è proprio quello penale, che rientra, da quel momento in poi, un architrave di qualunque riforma che tutti i pontefici successivi promuoveranno nel loro governo.

Con la Licet ab inizio non sarà più l’autorità a dimostrare l’esattezza del sospetto per il quale è stato dato avvio al procedimento, ma sarà compito dell’imputato dimostrare la propria estraneità al fatto contestato cercando di persuadere, chi lo giudica, di essere un vero penitente.

In questo clima politico, si assiste pertanto ad un adeguamento di un vecchio strumento repressivo (l’inquisizione) reso più efficace a contrastare la pubblica pravità con un nuovo metodo di tipo centralistico.[17]

Si passa dal sistema duopolistico rappresentato dall’autorità di Roma e dal potere locale attribuito ai Vescovi ad una nuova strutturazione burocratica che rinviene nella centralità il suo carattere peculiare.

Analogamente anche l’azione penale, se prima era esercitata dai Vescovi, ora viene trasmessa in toto (ius inquirenti, procedendi et iudicandi) agli inquisitori generali nominati dal pontefice.[18]

Altra novità di rilievo è la nuova universalità della giurisdizione dell’Inquisizione romana. Se prima i Vescovi erano i depositari esclusivi dell’esercizio dell’azione penale nell’ambito della propria diocesi, ora esistono nuovi limiti di efficacia nello spazio; si cristallizza una nuova dimensione spaziale rappresentata da una sola diocesi, indivisibile e generale, i cui confini sono dilatati e assorbono quelli riferiti ai governi locali.

Per quanto concerne l’organizzazione interna, i cardinali inquisitori hanno la prerogativa di creare il proprio apparato burocratico servente, con assoluta libertà e aderendo alla più ampia discrezionalità[19].

Un nuovo reato: l’eresia

In un contesto legislativo e sociale nel quale tutto i diritto penale è incentrato specialmente per la difesa della fede, nasce un nuovo reato, del tutto sconosciuto ai romani: il reato di eresia[20].

Viene ad enuclearsi quindi il delitto di eresia che viene dichiarato come crimine pubblico perché qualunque attività svolta contro la religione divina è una ingiuria verso tutti quod in religionem divinam comittur in omnium fertur iniuriam).

Per rendere più intelligibile il senso di queste considerazioni può essere utile fermare l’orologio del tempo e riportarlo all’epoca in esame, ci troveremo dinanzi  ad una politica penale repressiva per effetto della quale essere sospettato significava essere diverso, un quasi eretico. Il sospetto diventava così il principio informatore dell’intera procedura penale, così che vi sono logicamente implicate le più significative caratteristiche poste a presidio del sistema inquisitorio: inversione dell’onere della prova, svuotamento dei diritti di difesa e infallibilità del giudice.

Tutta la nuova procedura penale e tutte quelle innovazioni che la Chiesa vi apporterà, dall’istruttoria scritta e segreta, alla tortura, alla confessione, non sono che un’applicazione di quel principio rinnovatore nel campo processuale ed in quello di prevenzione del reato.

Limiti all’efficacia di tale istituto praticamente non ne esistono.

Essere sospettato vorrà dire essere un diverso, un non allineato, un soggetto da escludere e da evitare. Per mezzo del sospetto la presunzione di colpevolezza si istituzionalizza, diventa un instrumentum regni molto efficace in quanto non è possibile fissargli degli esatti confini giuridici.

Contro un metodo che muove  da queste premesse, non esistono possibilità di valida opposizione e di effettiva difesa.

Nel tempo si ripeterà sempre la stessa formula: simpliciter et de plano et sine stupitu advocatorum et forma iudiciorum. Non ci sono limiti di tempo, né obbligo di citazioni, né dovere di sentire la difesa.

Il giudice può rifiutare le eccezioni, può circoscrivere l’ambito della causa o dilatarlo come lui riterrà più opportuno, può respingere gli appelli che riterrà meramente dilatori, può non ammettere dei testimoni e far tacere gli avvocati. E’ il dominus delle indagini e del processo.

Può scegliere la procedura da adottare, può iniziare l’azione penale in seguito a denuncia o d’ufficio. L’unico limite è di natura meramente formale: il giudice ha l’onere di annotare e registrare ogni suo atto processuale.

In questa fase, la scrittura ed il formalismo assolveva a un duplice funzione: da un lato, rappresenta uno strumento di terrore nei confronti dei testimoni i quali sanno che tutto ciò che hanno riferito è stato registrato così che non sarà possibile in seguito smentire, ritrattare, cambiare quanto in precedenza è stato dichiarato e sottoscritto; dall’altro, ottempera alla possibilità, per l’autorità centrale, di consentire controlli ed ispezioni su come ogni singolo procedimento è stato condotto.

Con tali elementi posti a fondamento dell’azione processuale e penale, il diritto viene trasformato da “tecnica della coesistenza” in “tecnica della coazione”.[21]

Liberata dal peso della prova, fondata sull’attività insindacabile del giudice, dotata di un potere pubblico sul sospetto, questa tecnica porterà una indiscusso potere di dissuasione stante la possibilità di essere impiegata in ogni occasione.

Questa espressione di decisionismo processuale degrada inesorabilmente il rito a giudizio senza verità, anzi, a verità del solo giudice, si connota altresì di una interpretazione rigida e sistematica.. Per un verso, il thema decidendum, non assorbito da fatti oggettivi ma anche e soprattutto offerto dall’intrinseca temibilità del sospetto, converte l’accertamento dei fatti di causa in una prognosi intuitiva, discrezionale ed irreversibilmente incontrollabile.

Postulare, difatti, la possibilità di un controllo sulla decisione di condanna, prima che questa produca i suoi effetti, non era una necessità né di ordine giuridico né morale.

Del resto, tale potere istruttorio incondizionato, che all’organo inquisitoriale veniva assegnato, rinveniva la sua ratio nella necessità di attribuire al giudicante il riconoscimento della qualità di difensore della sicurezza, giustificando in questo modo l’unilateralità della formazione del convincimento ed escludendo ogni confronto intersoggetivo della fattispecie accusatoria.

Sospetto e principio di legalità

Tale sintagma potrebbe sembrare del tutto stridente in ordine alle considerazioni fin qui svolte. In realtà si esprime come una logica e, soprattutto, coerente conseguenza; una delle caratteristiche tipiche e peculiari della Chiesa è proprio la presenza del principio di legalità quale principio regolatore della sua storia.

Il cosiddetto convenzionalismo penale, espressione con la quale si vuole alludere al criterio di stretta legalità nella determinazione delle condotte punibili secondo le classiche formulazioni nulla poenaet nullum crimen sine lege, e del nulla poena sine crimine et sine culpa, escludendo, così, dal campo di applicazione del trattamento penale norme costitutive e non regolative, inosservanze che non abbiano riferimento a comportamenti empirici ed oggettivi preventivamente ritenuti offensivi di beni giuridici primari, trova nella visione inquisitoria la il giusto alveo nel quale immettersi per giungere ad ottenere una metodologia giudiziaria finalizzata all’acquisizione di un sapere onnicomprensivo senza l’inosservanza delle regole procedurali.

Il principio di legalità ha i suoi più accorti esegeti proprio nei maestri dell’Inquisizione.

Le ragioni che, tra il XIII e XIV secolo, avevano indotto la Chiesa ad una operazione di questo genere, sono di tre specie.

La prima, di ordine politico e sociale, ha il suo fondamento nella fede come nesso unificatore di tutte le componenti della società e pertanto, andava preservata con ogni mezzo.

Allontanarsi dalla via retta altro non era che attaccare quel bene che è l’unità della Chiesa, che coincide esattamente con il bene dell’intera società. E’ per questo motivo che l’interesse individuale poteva essere schiacciato dinanzi al prevalente interesse collettivo, e l’eretico e il diverso non potevano apparire come delinquenti.

La seconda ragione può sintetizzarsi con la formula giuridica: giurisdizione=amministrazione. A nulla rileva la prima senza la seconda.

La prima è la fonte che giustifica il comando; la seconda è il contenuto di cui si riempie il potere formale.

La terza ragione era d’ordine strettamente pragmatico.

Le voci, le spiate, le “soffiate” molto spesso dovevano essere esatte. Non venivano incoraggiate ma comunque venivano registrate ed utilizzate ogni qualvolta si presentasse l’occasione[22].

Se oggi si discute sulla questione della presunzione di non colpevolezza quale concezione del processo ancorata ai valori dell’individuo e della legalità e sul superamento della tradizionale dicotomia presunzione di innocenza-presunzione di non colpevolezza[23], la matrice ideologica che animava nel periodo in esame il processo penale, pone al riparo da qualunque interpretazione sbiadita o tendenti ad ampliare le (inesistenti) valenze garantiste.

Facendo ricorso al binomio consenso-repressione, sorge quindi, in seno alla Chiesa, un sistema penale tecnicamente perfetto avente come fine il consenso e come mezzo il sospetto.

Intolleranza, sospetto, diritto, vanno a formare un chiaro sillogismo, nel quale il primo termine costituisce la necessaria premessa, il secondo il termine medio, il terzo la conclusione concreta.

Si afferma così il sistema processale penale di tipo inquisitorio, fondato sul sospetto

Secondo il ragionamento finora svolto, e quando , come suggerisce Mereu, si traccerà la storia della nostra unità “con occhi meno obnubilati dal nazionalismo”, si potrà comprendere come la prima unione dell’Italia si realizza proprio nel ‘500 per merito della Chiesa. Non è opera di “garibaldini”, ma di “inquisitori”.

Modello inquisitorio e modello accusatorio. Una contrapposizione atavica

È questo il momento in cui ha inizio una profonda rivoluzione giuridica del diritto penale e processuale, nel quale la lotta tra il romanistico sistema accusatorio[24] ed il medievale sistema inquisitorio ha sempre avuto una grande vitalità.[25]

Caratteristica tipica del modello accusatorio è la parità di posizione tra accusa e difesa, innanzi ad un giudice super partes, terzo ed imparziale.

Più segnatamente, qualche autore[26], ha sottolineato che il processo accusatorio poggia su alcuni “postulati di base”, che possono essere così riassunti: a) il potere di iniziativa e di accusa spetta a soggetto diverso dal giudice; b) il procedimento è interamente contrassegnato dalla pubblicità e dall’oralità; c) accusatore ed imputato sono collocati in posizione di assoluta uguaglianza e parità; d) il giudice non ha il compito di ricercare e raccogliere le prove a carico o a discarico, essendo tenuto ad esaminare soltanto quelle allegate dalle parti; e) l’accusato articola la propria difesa, mantenendo la libertà personale fino al passaggio in giudicato della sentenza.

Corrisponde quindi ad un’ideale configurazione di un triangolo che vede al vertice il giudice e alla base accusa e difesa, in posizione contrapposta ma su un piano paritario di facoltà e diritti[27]

Per quanto concerne il modus procedendi che anima questo modello, si deve preliminarmente sottolineare la preminenza dell’ufficio dell’accusa esercitato da un organo pubblico dotato di specifici poteri giurisdizionali.

Nel sistema processuale inquisitorio si verifica l’abdicazione dei diritti della difesa: l’imputato diventa o tende a divenire un semplice soggetto passivo dell’inquisizione pubblica.

Il modello processuale inquisitorio contempla invece: a) l’attribuzione allo stesso organo pubblico di funzioni inquirenti e giudicanti con conseguente promovimento di ufficio dell’azione penale; b) la totale segretezza della procedura; c) l’incondizionata libertà di indagine probatoria del decidente; d) la minuziosa documentazione scritta di tutti gli atti compiuti; e) la naturale disparità di poteri tra giudice-accusatore ed imputato, al quale non compete alcun diritto di acquisizione probatoria; f) la permanente carcerazione preventiva del giudicabile [28].

Tali principi trovano facile cartina di tornasole nel processo inquisitoriale medievale, nel quale si dimostra altresì nettatemene antitetiche con il “moderno” principio del contraddittorio la apparente parità tra le due figure processuali del procuratore fiscale e dell’avvocato.

Il procuratore fiscale formulava l’accusa, poteva chiedere l’emissione di mandati di cattura, essere presente in tutte le dinamiche dell’istruttoria, prendere visione degli atti processuali in atti, produrre prove a carico dell’imputato.

Non partecipava alla deliberazione della sentenza per il (tentativo) rispetto della romanità dove già nel Digesto si distingueva di continuo tra la funzione del giudice e quella di accusatore. Tale aspetto segna, più di altri, la netta dicotomia tra ideologia ed effettività; si afferma un principio che poi viene disatteso in modo clamoroso nella pratica.

L’avvocato, invece, era detto collaborazionista proprio perché, con il nuovo metodo processuale, viene trasformato in un mero compartecipe del processo, considerato Innocenzo III nella costituzione Si adversus aveva vietato l’assistenza legale agli eretici e aveva ordinato di non patrocinare le cause di quanti fossero sospettati.

In questo casi non c’era discrasia tra ideologia ed effettività: non era prevista difesa né dialettica fra le parti del processo.

Del resto perché ricorrere ad un confronto dialettico quando si ha un giustizia perfetta dove il principale rimedio era il conseguimento di una confessione contra rei.

L’avvocato restava escluso dall’istruttoria, non era nominato liberamente dall’imputato, ma veniva assegnato dall’inquisitore, scelto  tra quei legali di assoluta fiducia e di fede integerrima.

Infine, quanto ai suoi onorari, se gli inquisiti erano proprietari nessun problema; era sufficiente vendere i beni per ottenere il compenso; se invece l’inquisito era un povero la “parcella professionale” veniva pagata direttamente dall’Inquisizione.

Se qualche autore[29] ha inteso definire il rito inquisitorio come una macchina che può produrre verità in assenza dell’accusato, perché è costruito quale procedura pubblica d’inchiesta o d’indagine, la radice politica è proposta dal sospetto quale metodo di ricerca unilaterale ed autoritativo attribuita al solo giudice.

L’Abiura

L’abiura, come abbiamo visto, era una sorta di patteggiamento, “l’antidoto più comune”[30], introdotta come un’ulteriore prova penitenziale alla quale doveva sottoporsi l’eretico dichiarato, l’apostata e lo scismatico, per poter essere riammesso nella Chiesa.

Mutuata dal diritto canonica, l’abiura inquisitoriale viene trasformata in una autocritica, in una rinuncia al proprio pensiero espresso.

Il rifiuto ad abiurare rappresentava un aggravio della propria posizione: significava l’autocondanna.

Tecnicamente l’abiura era il rinnegare una determinata cosa mediante il giuramento detestando i propri errori[31].

Abiurare significa detestare i propri errori, criticarli e giurare di attenersi alla più assoluta ortodossia, che si riconosce unicamente nella linea tracciata da chi rappresenta l’istituzione.

Secondo l’ottica processuale, detto istituto è uno dei modi per concludere un processo inquisitorio, mediante una sentenza che sarà d’abiura per un sospetto leggero (abiuratio de levi) o abiura  per un sospetto veemente (abiuratio de veementi)  o per un sospetto violento.

Anche nell’abiura il presupposto fondante l’intero procedimento è il sospetto dell’autorità, rappresentando, da un punto di vista storico, una pena infamante in considerazione del giuramento di fedeltà che l’abiurante doveva pronunciare per “allinearsi” all’ortodossia e abbracciare ideologicamente il magistero vigente.

Si accennava al sospetto d’autorità; ebbene questo era sufficiente a provocare l’arresto, che si manteneva fino alla pronuncia della sentenza finale.

Secondo l’iter procedurale, dopo l’arresto del “reo” vi era l’esame, nel quale il giudice cerca di chiarire e di accertare la fondatezza dei sospetti invocati. Parlando con termini odierni si potrebbe definirlo come l’interrogatorio di garanzia oggi previsto del codice di procedura penale, anche se i due termini a quel tempo potevano costituire un’antinomia troppo complicata da applicare.

L’esame diveniva successivamente “rigoroso” quando si voleva arrivare ad una confessione del sospettato in assenza di prove certe.

La sentenza

Punto di arrivo del processo inquisitoriale era la sentenza Redatta in lingua italiana presentava tre parti essenziali.

Nella prima si annotano i dati anagrafici dell’imputato, paternità, luogo di nascita, professione e tutti gli elementi che valgono ad identificarlo.

La seconda abbiamo la motivazione, nella quale il giudice espone brevemente i fatti contestati, le deposizioni dell’imputato rese durante l’interrogatorio e la tortura.

Nella terza segue il dispositivo della sentenza, dove l’inquisitore e il vescovo, dopo aver specificato che i sospetti dell’Inquisizione sono ancora presenti, impongono al sospettato l’atto di abiura e lo condannano alla “berlina” oppure alle pene delle galere o delle carceri.[32]

Alcune osservazioni vanno svolte in ordine a due aspetti.

La sentenza veniva redatta in italiano quando la lingue della chiesa, non solo nelle cerimonie ma in qualsiasi atto, è il latino. Tale scelta è da rinvenire nella volontà di far giungere il contenuto  a tutti e non ridurla ai soli dotti; per questo si rinuncia all’uso di vocaboli difficili o termini tecnici di difficile comprensione.

La domenica precedente a quella in cui doveva avvenire l’abiura, si avvisavano i fedeli perché partecipassero alla cerimonia, e dopo quella religiosa, iniziava quella della abiura; con una mano sul Vangelo si procedeva alla lettura del testo[33].

Conclusioni

Mutano le dinastie, mutano i sistemi sociali e politici, mutano anche, in altri settori, le relazioni tra Stato e Chiesa, ma in ordine ai dissidenti tutto resta fermo per oltre 14 secoli: ciò che varia è tutt’al più l’intensità dello sfavore, la violenza della pressione; il principio per contro, con tutte le sue implicazioni essenziali, è immutabile. Soltanto con l’approssimarsi dell’Illuminismo anche l’apparato inquisitorio conosce una fase di crisi e gli avvenimenti parigini del 1789 ne segnano la fine.

Di certo, è dimostrato che accanto al diritto canonico esiste un diritto inquisitoriale, dotato una propria ideologia, basato su una tecnica processuale affidabile. Si tratta di un’articolazione del diritto penale canonico, avente una natura eccezionale ma solo con riguardo alla sua specialità ed alla particolarità degli istituti che abbiamo sommariamente visto finora: eresia, abiura, rigoroso esame

Trattare questo aspetto in modo negletto significa abdicare alla esigenza di conoscere, da un punto di vista squisitamente storico, lo svolgimento effettivo del diritto penale.

In fondo se si è giunti solo di recente al superamento della tradizionale dicotomia presunzione di innocenza – presunzione di colpevolezza è proprio perché il sospetto si è sempre annidato nelle istituzioni penali e processuali.

Non può essere infatti “un caso” la formula negativa adottata dal Costituente nell’articolo 27,  comma 2 della Costituzione, dando origine a tante discussioni in dottrina. L’impostazione adottata nella carta è stata appositamente ambigua ed impregnata dalla tentazione di compiere in compromesso, così da autorizzare, come nei fatti spesso è avvenuto, opzioni interpretative manipolatrici o riduttrici.

L’artefice morale di tale formulazione non può che essere ravvisato nel sospetto che, dopo quasi sei secoli dall’emanazione della bolla licet ab inizio continua ad alimentare la formulazione di una domanda, sempre di stretta attualità formulata dallo studioso Vincenzo Cavallari nel (lontano) 1974, a conclusione della sua relazione sulle misure di prevenzione al Congresso tenuto ad Alghero: “Quale prova può garantire, quale processo può tutelare quella libertà che può essere tolta per un semplice sospetto?”

[1] Il primo  studio comunque dedicato specificatamente al sospetto come istituto giuridico è quello di  A. Stein, De Suspicione, in S. Strykii (1640-1710), 1838, vol. IV, pp. 702-756.

3 I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa ,III^ ed.., Milano, 2000.

[3]Ci riferiamo evidentemente alla chiesa non come comunione di credenti, ma come istituzione giuridico-politica.

[4]Sul punto, A. CADOPPI, Il primo Codice penale italiano, Il codice penale del Principato di Piombino(1808) in Codice Penale per il Principato di Piombino (1808), a cura di S. Vinciguerra, p. XXXI ss., ritiene che il codice di Piombino del 1808 è il vero e proprio codice penale italiano, “sanzionato” il 24 marzo del 1808 ed entrato in vigore il 15 aprile dello stesso anno; altri, S. VINCIGUERRA, Pensieri sparsi su diritto penale e processo nel codice di Piombino del 1808, op.cit., pag. CCXXXVIII, ritengono che se non si vuole considerare il concetto di italianità nella semplice vigenza nel territorio italiano, ma l’espressione giuridica dell’autonomia politica, essenza della statualità moderna, bisogna riconoscere che il primato appartiene allo stato italiano il quale si munì per primo di un codice penale nel 1819, spetta, cioè, al Regno delle Due Sicilie.

[5] Tale aspetto è ancor più interessante se si considera che già esisteva il metodo accusatorio romano, che nel medioevo, con la “scoperta” del Digesto, proprio nel periodo in cui l’Inquisizione muove i primi passi, comincia ad essere apprezzato nelle università.

[6] B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, Milano, 1952, I, pp. 254 ss.

[7] Cfr. in tal senso MEREU I., La morte come pena, Saggio sulla violenza legale, 2000, p.16 ss.

[8] Digesti, 48,19,18.

[9] Alleato e guida morale della Lega dei Comuni Lombardi che sconfiggerà Federico Barbarossa a Legnano, giudicato da Voltaire, che verso i papi aveva una certa prevenzione, come un pontefice che era andato contro la rozzezza dei tempi in cui visse.

[10] L’istituto delle recidiva nel diritto pontificio costituisce un punto di contatto con il diritto penale moderno; si intendeva recidivo che una ricadeva  dopo una pubblica penitenza ovvero dopo una solenne e giudiziale abiura.

[11] Ubaldo Allucingoli, nato a Lucca, morto a Verona nel 1185.

 [12] Innocenzo “aveva cinto la tiara” all’età di trentasette anni, aveva compiuto i suoi studi a Parigi e a Bologna, e si era laureato in scolastica e giurisprudenza. Sotto Clemente III era stato eletto Cardinale della Chiesa dei Santi Sergio e Bacco;

[13] E’ questo il momento in cui la Chiesa prende posizione a favore della morte come pena, inflitta dal potere laico, con la decretale di Innocenzo III, Vergentis in senium, diretta alle autorità e al popolo di Viterbo e poi inserita nelle Decretali di Gregorio IX, cfr. MEREU I, op. cit., p. 19.

[14] In questo caso l’unico ravvedimento era costituito, una volta appreso l’errore, spontaneamente, dalla dall’abiura pubblica e adeguata soddisfazione.

[15] Il 24 maggio dello stesso anno con la bolla Inizio nostri, Paolo III indice il Concilio di Trento.

[16] Sul tema della pena di morte, si ricordi che questa verrà abrogata dai territori sotto la giurisdizione politica della Chiesa, oggi Stato Città del Vaticano, solo con Paolo Vi nel 1969.

[17] Opportunamente sottolineato da MEREU I., op. cit. p. 57.

[18] Nella Licet ab inizio si afferma per la prima volta l’uguaglianza giuridica di tutti dinanzi alla legge penale, senza distinzione di gradi, di privilegi o di qualifiche, così I, MEREU, ibidem, p. 60.

[19] L’unico limite è costituito dall’età: gli inquisitori delegati non potranno avere meno di trenta anni, cfr. I. MEREU, ibidem., p. 61.

[20] Si può definire eretico quel soggetto scoperto nel deviare (detesti fuerent deviare) dalla linea della religione cattolica.

[21] I. MEREU, Il metodo inquisitorio tra ideologia ed effettività nella dialettica del potere dell’europa continentale, in Diritto e Potere nella storia europea, Atti del quarto Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del diritto, 1982,Firenze.

[22] Sul punto, comunque, RICCIO, in Ragioni del processo penale e resistenze eversive, tra novellazioni e prassi, ora in Ideologie e modelli del processo penale, Napoli, 1995, p. 199, ha osservato come nell’alto medioevo gli interessi da tutelare esigevano “automatismo repressivo incompatibile con le accuse private” (cioè con le forme di azione con oggetto disponibile diffuse nella cultura giuridica romana).

[23] Per un’accurata disamina di tale problematica cfr. PAULESU P.P., Presunzione di Colpevolezza, p. 670; ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 80; PISANI, Sulla presunzione di non colpevolezza, FPE, 1965, 3 ss.DOMINIONI, La presunzione di innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, 1985, 240, nt. 143.

[24] Le conoscenze tramandateci circa l’amministrazione della giustizia criminale in epoca romana risultano assai frammentarie, spesso appaiono accompagnate da notizie leggendarie e non di rado le relative sezioni del Digesto si dimostrano incomplete.

[25] Per ILLUMINATI, op. cit. p. 2, si tratterebbe della contrapposizione tra due modelli culturali, tanto che non sarebbe sbagliata “sebbene alquanto schematica, la ricorrente affermazione secondo cui il processo accusatorio sarebbe espressione dei regimi democratici, il processo inquisitorio dei regimi autoritari”.

[26]G. CONSO,  Accusa e sistema accusatorio,in Enc. Dir. Vol.I, Milano, 1958, pag. 334 ss.

[27] G. CONSO, op. loc. cit..

[28] Per dare fondamento e sicura riconoscibilità ai sistemi processuali accusatorio ed inquisitorio, PERELMAN-TYTECA, in Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, trad. it. A cura di Schick, Mayer e Barassi, Torino, 1966,p. 433., fa ricorso ad una tecnica argomentativa che descrive il fenomeno mediante coppie di opposti: pubblicità-segretezza, oralità-scrittura, accusa privata o ex officio, par condicio o disuguaglianza probatoria, sono i più importanti tratti distintivi alternativi dai quali emergono le forme processuali  in rigida contrapposizione.

[29] Cfr. FAUCAULT, Sorvegliare e punire, Nascita della prigione, trad. it. A cura di A. Tarchetti, Torino, 1976, p. 336.

[30] I. MEREU, op. cit., pag. 292.

[31] Inscindibilmente legato all’abiura è la vicenda di Galileo Galilei, il quale ha reso, in forza di sentenza, atto di abiura dinanzi al tribunale dell’Inquisizione il 22 giugno 1633.

[32] L’abiurante, dopo aver dichiarato il proprio nome, inginocchiato davanti all’inquisitore e al vescovo, giurava sopra i Vangeli di aver sempre creduto, di credere e di sperare di credere tutto quello che tiene, crede, predica e insegna la santa Cattolica e Apostolica Romana Chiesa.

[33] Non era raro che l’abiurante fosse analfabeta, in tal caso era il notaio ovvero un religioso che leggevano, sillabando, il testo dell’abiura e l’abiurante aveva l’obbligo di ripeterlo ad alta voce.