Le disposizioni della normativa “emergenziale” in tema di locazioni commerciali e di accordi sul canone
1. Premessa e linee guida
L’argomento che andrò a sviluppare mi sembra capace di propiziare almeno due angoli visuale: da un lato, si è invitati ad indagare qualcosa di “nuovo”; e, dall’altro ad analizzare i caratteri peculiari che ha acquisito rispetto ad altri istituti giuridici.
Già nei primi e caotici giorni di diffusione dell’epidemia e dei, più o meno riuscirti, tentativi di contenere l’espansione, era stato facile individuare nella locazione commerciale un caso, quasi di scuola, per saggiare l’impatto della pandemia e delle conseguenti misure di contenimento, sui contratti in corso di esecuzione.
L’inibizione, durante il lock down, dell’apertura al pubblico di gran parte delle attività economiche e le stringenti misure di contenimento adottate nei mesi successivi hanno infatti reso pressante l’esigenza di ridiscutere condizioni contrattuali (e, in particolare, i canoni) pattuiti prima dell’emergenza sanitaria.
Sicché ripresa l’attività giudiziaria, tra i primi casi oggetto di scrutinio, per lo più in sede di ricorsi di urgenza, si sono puntualmente registrati quelli promossi dai conduttori che agivano in giudizio per la riduzione o addirittura l’azzeramento del canone, basando la loro pretesa sugli i imprevedibili eventi occorsi fin dai primi mesi del 2020.
La questione che si pone solleva un duplice piano di analisi.
D’onde, si potrebbero isolare due traiettorie conoscitive capaci di fungere da linee guida delle riflessioni che vorrei condividere con Voi.
(I) La prima.
Afferisce, in generale, alla possibilità di rinegoziare i contratti pendenti e certamente rappresenta un vero punctum dolens intorno al dibattito che la pandemia ha innescato.
Si tratta di verificare se le strutture rimediali delle sopravvenienze, già esistenti rispetto alla legislazione pandemica, possano legittimare, appunto, tale rinegoziazione.
(II) La seconda.
È duplice e più specifica rispetto al tema assegnato.
È dubbio anzitutto se l’impossibilità di godere (anzi, di godere utilmente) del bene per sopravvenuti provvedimenti normativi possa sottrarre il conduttore all’obbligo di corrispondere i canoni.
È controverso se il rifiuto del locatore alla rinegoziazione dei termini contrattuali per il loro adeguamento al mutato scenario economico possa configurare un inadempimento, tale da giustificare l’omesso versamento dei canoni.
Per entrambe le prospettive, una domanda metodologica.
La pandemia può essere qualificata come una sopravvenienza, cioè come un fatto che accade in modo inatteso e che modifica una situazione antecedente?
Tralasciando l'attenzione dall'aspetto sociale a quello giuridico, il tema da affrontare è stabilire se il fatto, oggettivamente straordinario e imprevedibile, alteri una precedente situazione alla luce di un criterio giuridico.
I.
La pandemia Covid-19 ha imposto l’adozione di misure urgenti per fronteggiare la situazione emergenziale, che ha stravolto le relazioni giuridiche, specie nell’ambito privatistico.
Il legislatore si è limitato a porre in essere prescrizioni emergenziali di contenuto sanitario con funzione contenitiva della pandemia, e da subito si sono aperte delicate questioni di tutele dei diritti dei soggetti titolari delle relazioni giuridici compromesse e di quelle a vario titolo collegate.
L’insufficienza delle disposizioni straordinarie costringe ad applicare gli istituti giuridici generali dell’impossibilità e dell’eccessiva onerosità sopravvenuta per la gestione delle sopravvenienze contrattuali.
Valga il vero che l’unica norma di portata generale riferita ai rapporti obbligatori è quella di cui all’articolo 3 del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, che al comma 6 bis prevede come “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1218 codice civile (Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile] e articolo 1223 codice civile (La obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.[II]. Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia, l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla), della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penale connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La disposizione, quindi, individua delle limitazioni, costituenti cause di esonero, di responsabilità conseguenti all’osservanza delle prescrizioni sanitarie che hanno portato al blocco delle attività.
In tal caso per le attività vietate si è ravvisato un caso di impossibilità sopravvenuta e temporanea della prestazione, dovuta al factum principis.
Con riferimento all’istituto dell’impossibilità sopravvenuta – che, giusto per fare un accenno costituisce una delle esimenti per l’imputabilità dell’inadempimento), vengono in rilievo tre previsioni emergenziali:
l’articolo 28 (rimborso titoli di viaggio e pacchetti turistici) decreto legge 2 marzo 2020 n. 9, ai sensi del quale ricorre la sopravvenuta impossibilità ex articolo 1463 codice civile, “in relazione ai contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo nelle acque interne o terrestre”;
l’articolo 88 decreto legge 17 marzo 202, n. 18, prevede che i contratti di soggiorno e quelli per spettacoli, musei e alti luoghi per la cultura siano risolti per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione ai sensi dell’articolo 1463 codice civile, ma che il costo sia trasfuso in un voucher.
Qualcuno[2] ha ravvisato, in realtà, come più che di risoluzione si tratti di una rideterminazione ex lege dei contenuti del rapporto.
La Terza, probabilmente la più pregnante, è quella rappresentata dal c.d. decreto Rilancio (DECRETO LEGGE n. 34/2020)[3] che prevede una serie di agevolazioni previste per lo sport, con particolare riferimento alla riduzione dei canoni di locazione per palestre, piscine e impianti sportivi e il rimborso degli abbonamenti per l’accesso agli impianti sportivi.
Nello specifico (cfr articolo 216, coma 1 e 2) si riconosce al conduttore il diritto, limitatamente alle cinque mensilità da marzo 2020 a luglio 2020, ad una corrispondente riduzione del canone locatizio che, salvo la prova di un diverso ammontare a cura della parte interessata, si presume pari al 50% del canone contrattualmente stabilito.
Ora, è evidente che le disposizioni richiamate, pur apprezzabili, non paiono sufficienti a sostenere l’impatto devastante sui contratti conseguente all’applicazione delle misure di contrasto alla pandemia.
Si pone, quindi, il problema di quale disciplina applicare per gestire le altre situazioni di crisi non contemplate dalla legislazione emergenziale e pertanto soggette alla quella ordinaria vigente.
Per gestire quindi le sopravvenienze, in via immediata e diretta, si richiamano le disposizioni del codice civile concernenti l’impossibilità (articolo 1463 codice civile - Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito e l’eccessiva onerosità sopravvenuta (articolo 1467 codice civile- Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458.[II]. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. [III]. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto)
Come è noto, l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore è considerata causa di estinzione dell’obbligazione (articolo 1256 - La obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile). [II]. Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla) e di risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive (articolo 1463 - Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito ) [4]
La disciplina codicistica generale dei contratti sinallagmatici, in conseguenza di eventi straordinari ed imprevedibili, prevede la risoluzione allorquando, in conseguenza di eventi straordinari ed imprevedibili, si configuri una eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (articolo 1467 codice civile [5]),
In tal caso, il rimedio è appunto quello risolutorio, che la controparte può evitare offrendo di ridurre a equità il contratto.
I limiti di tale rimedio sono noti: il connotato demolitorio del contratto prevale, ed ogni profilo conservativo del contratto è rimessa alla scelta di controparte mediante l’offerta ad equità dello scambio.
Infine, disposizioni codicistiche speciali, per le sopravvenienze nei contratti di durata si ravvisano in relazione alla locazione, che per un uso parziale dell’immobile prevede una rimodulazione del canone (articolo 1578 [I]). Se al momento della consegna la cosa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l'idoneità all'uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili [II]. Il locatore è tenuto a risarcire al conduttore i danni derivati da vizi della cosa, se non prova di avere senza colpa ignorato i vizi stessi al momento della consegna), e con riferimento all’appalto, dinanzi ad una alterazione dello scambio, è contemplato una revisione del prezzo, entro determinate soglie di valore (articolo1664 - Qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d'opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l'appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo. La revisione può essere accordata solo per quella differenza che eccede il decimo.[II]. Se nel corso dell'opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell'appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso.
Da tempo in dottrina e giurisprudenza si è evidenziata l’eccessiva rigidità formale delle disposizioni codicistiche in materia di sopravvenienze contrattuali e, quindi, la necessità di invocare principi dell’ordinamento tanto per ampliare le fattispecie rilevanti.
Quali principi? Innanzitutto, quello della solidarietà, che trova nell’articolo 2 della Costituzione la sue genesi, che potrebbe modularsi nella gestione dei rischi, specie nei rapporti di durata, che sono disseminati nel percorso imprenditoriali.
L’altro principio è quello della buona fede che costituisce una formula aperta che trova espressa applicazione, non solo nella fase di formazione (articolo1337codice civile), ma anche in quella dell’interpretazione (articolo 13369 e dell’esecuzione del contratto (articolo 1375 codice civile - Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede) e, più in generale, del rapporto obbligatorio.
La buona fede è, quindi, intesa come criterio legale integrativo che permette di trovare soluzioni meglio bilanciate alla luce delle concrete circostanze nelle quali opera la crisi de rapporto contrattuale.
La buona fede dovrebbe attribuire rilevanza a vicende sopravvenute ulteriori rispetto a quelli di oggettiva impossibilità ed eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, che sono capaci di alterare in modo significativo le posizioni delle parti.
2. La rinegoziazione
Con riferimento alla gestione delle sopravvenienze, il codice civile segue un’impostazione rimediale di tipo caducatorio, laddove prevede la risoluzione del contratto nei casi di impossibilità o eccessiva onerosità sopravvenuta.
Da più parti, e da ultimo ancor con più forza alla luce del fenomeno pandemico, si invoca l’applicazione del rimedio della rinegoziazione che offrirebbe una tutela conservativa del rapporto contrattuale, senza dover adire l’autorità giudiziaria.
Dinanzi sopravvenienza rilevanti, proprio in base ai principi generali di solidarietà e buona fede, le parti sarebbero tenute a rinegoziare il contenuto del contrato, al fine di preservare l’iniziale equilibrio delle posizioni.
E se una delle parti si sottrae al confronto ovvero tenga un atteggiamento di apparente disponibilità al negoziato, ma che non si traduce in una effettiva volontà di condividere un nuovo assetto contrattuale, si avrebbe una evidente violazione del principio di buona fede o di quello della solidarietà se invece mostrasse una formale e imperituro diniego, l’unico rimedio è il ricorso all’azione giudiziale.
Il limite del ragionamento appena esposto è evidente: una spinta all’utilizzo del principio della buona fede oltre che di quello solidaristico.
Vi è chi spinge per l’introduzione di un addenda all’articolo 1468 codice civile prevedendo – anche ricorrendo ad un 1468 bis – di consentire alla parte pregiudicata di chiedere la rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali.
Si pensa quindi a tradurre l’obbligo di rinegoziare nel poter dovere delle parti di formulare proposte e controproposte di adeguamento fondate su ragioni giustificate, cos’ da evitare che sia il giudice a dover determinare le nuove condizioni contrattuali.
La proposta (avanzata dall’associazione civilisti italiani) sollecita molte riflessioni.
Quella più assorbente risiede nella diversa intensità della nozione di “eccessiva onerosità”, diversa e meno impeditiva di quella asfittica presente oggi nella formulazione della norma codicistica.
Sul punto, dovrebbe avere un nuovo risalto il dettato dell’articolo 1468 codice civile (Nell'ipotesi prevista dall'articolo precedente, se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurla ad equità)
3. Impossibilità sopravvenuta
La pandemia, intesa come fatto, consente di applicare ai contratti in corso, l'articolo 1463 codice civile? La risposta non è così semplice.
Il fatto-pandemia rende impossibile la prestazione di una delle parti?
La risposta è positiva se la prestazione del debitore debba essere eseguita da un paziente ricoverato in terapia intensiva e il contratto sia intuitu personae. Almeno per il periodo di durata del suo isolamento certamente la prestazione sarà impossibile; e in questo caso, l'altro contraente non potrà di certo pretendere l'adempimento dell'obbligazione, soggettivamente e temporaneamente impossibile, e sarà a sua volta liberato, sia pur temporaneamente, dall'obbligo di eseguire la propria.
Ma ove invece non ricorra questa ipotesi, la prestazione delle parti non può a mio avviso considerarsi impossibile per effetto del fatto-pandemia.
Il concetto di impossibilità, sia pur storicamente determinato, è un concetto assoluto, nel senso che trova applicazione alla generalità dei consociati. Sotto questo profilo si rileva che molte prestazioni di molti contratti continuano ad essere eseguite anche in tempo di pandemia. Inutile fare esempi per non scadere in una superficiale retorica in tempi in cui siamo sommersi di retorica.
Se ben si riflette, allora, la impossibilità non è indotta dal fatto-pandemia, ma dai provvedimenti normativi, via via emessi dal Governo e dal Presidente del Consiglio dei Ministri[6].
È a seguito di questi provvedimenti, certamente fondati sulla pandemia, che molte obbligazioni sono divenute impossibili. Senza ricorrere alla casistica, è evidente che per effetto di quei provvedimenti, del factum principis, molte prestazioni siano divenute temporaneamente impossibili; il tema è che in diversi casi, interrompendosi filiere produttive, l'impossibilità non abbia riguardato solo la prestazione del debitore, ma anche l'impossibilità del creditore di ricevere la prestazione medesima. E non a caso la giurisprudenza, distinguendo tra impossibilità della prestazione del debitore e impossibilità di fruizione della prestazione da parte del creditore, ha affermato che il contratto si risolve per impossibilità sopravvenuta non solo quando il debitore non può tenere la condotta dovuta, ma anche quando la prestazione non può essere fruita dal creditore per causa a lui non imputabile (Cass. civ., 10 luglio 2018, n. 18047, annotata da M. DELLA CASA, Impossibilità di fruire della prestazione non imputabile al creditore e risoluzione del contratto, in C. GRANELLI (a cura di), I nuovi orientamenti della Cassazione civile, III ed., Milano, 2019, 375 ss.).
L'impossibilità temporanea della prestazione non è determinata dal fatto-pandemia, ma dalla normativa eccezionale di questi giorni. Senza scomodare concetti come la forza maggiore, che presentano contorni incerti ed hanno comunque ad oggetto eventi, naturali e umani, non contrastabili una volta verificatisi, sarà invece opportuno fare più semplicemente e correttamente riferimento alle norme in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione, che consentono di risolvere il problema con un corretto ricorso all'evento che ha determinato l'impossibilità che non è un evento naturale, ma è l'evento giuridico segnato dai provvedimenti legislativi.
Se, quindi, l'articolo 1463 codice civile è applicabile nei limiti delle previsioni normative, che impediscono l'esecuzione di certi contratti, occorre domandarsi cosa accade a proposito di quei rapporti che non sono stati vietati, oppure dei rapporti non disciplinati.
In alcuni casi, infatti, il legislatore ha indicato precisamente le attività che debbono proseguire, o comunque che possono proseguire, mentre altri rapporti non sono stati affatto previsti.
Si pensi per tutti ai rapporti di locazione (solo il tema della esecuzione dei provvedimenti di sfratto è stato disciplinato dal legislatore con l'articolo 103, comma 6 che prevede: «L'esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, è sospesa fino al 30 giugno 2020»), dove a fronte del mancato godimento dell'immobile da parte di molti conduttori non si è previsto nulla a proposito del pagamento del canone ad opera di questi ultimi.
Difficile in questo caso invocare l'applicazione dell'articolo 1463 codice civile perché, non avendo previsto nulla al riguardo, i diversi provvedimenti legislativi non hanno reso impossibile la prestazione di pagamento, ma solo molto più complesso il godimento da parte del conduttore. Tuttavia, poiché il locatore esegue la propria prestazione consentendo il godimento del bene al conduttore, il sinallagma non sembra risultare alterato: ne deriva che il conduttore sarebbe comunque tenuto al pagamento del canone.
4. Eccessiva onerosità
Da ultimo la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
È indubbio che in questo caso il fatto-pandemia rappresenti un evento straordinario (essendo statisticamente la prima volta che accade) e imprevedibile (considerato che nessuno avrebbe potuto prevederlo usando il criterio di ordinaria diligenza).
Ed è altrettanto indubbio che in molti casi (soprattutto con riguardo alle attività che non sono state vietate dal legislatore) l'evento pandemia abbia prodotto un forte squilibrio del sinallagma contrattuale, che potrebbe legittimare la richiesta di risoluzione del contratto ex articolo 1467 codice civile.
Tuttavia, tra la domanda di risoluzione proposta da chi subisce gli effetti della eccessiva onerosità e la sentenza di risoluzione correrebbe un periodo non inferiore a due-tre anni; ciò che renderebbe il rimedio del tutto inefficace rispetto all'esigenza immediata di chi la richiede. È vero che la sentenza opera retroattivamente al momento della domanda con l'obbligo del creditore di ripetere quanto pagato, ma è altrettanto vero che il debitore sino alla sentenza deve continuare a pagare l'intero; e non è poi detto che arrivi a quel momento.
Ne discende che la misura di cui all'articolo 3, comma 6-bis, si palesa un rimedio molto più efficace rispetto a quelli ordinari, in particolare la risoluzione per eccessiva onerosità, perché in ogni caso attribuisce all'altro contraente l'onere di provare l'inadempimento del debitore non alla stregua dell'articolo1218 codice civile, ma secondo il diverso criterio del mancato rispetto delle misure di contenimento.
Potrebbe eccepirsi che la interpretazione offerta presuppone anche qui un giudizio; ed è un'eccezione corretta. Tuttavia, ciò che muta è il soggetto che è costretto ad avviare il giudizio: che non sarà il debitore che ha rispettato le norme di contenimento del Covid-19, ma il creditore della prestazione che dovrà offrire la prova del mancato rispetto di quelle misure da parte del debitore ovvero offrire la prova che il rispetto delle misure non avrebbe impedito l'adempimento della prestazione.
Poiché non assume rilevanza l'inadempimento inteso come fonte di responsabilità ex articolo 1218 codice civile, il giudice non potrà far ricorso agli articoli 1223 e 1225 codice civile se non limitatamente all'ipotesi in cui il rispetto delle misure di contenimento non avrebbe impedito comunque la prestazione; ed anche in questo caso, peraltro in via equitativa avrà l'obbligo di valutare l'incidenza di quelle misure con riguardo al sacrificio imposto al debitore per l'adempimento della prestazione.
Sul punto, in tema di contratti di locazione chi lamenta un'eccessiva onerosità sopravvenuta durante l’esecuzione di un contratto a causa dell’emergenza COVID-19 ha l'onere di provarlo. Se il ricorrente non offre alcun dato obiettivo da cui desumere un peggioramento della propria condizione patrimoniale tale da precludergli – in quanto eccessivamente oneroso- il pagamento del canone concordato, discorrendo sempre e solo in termini astratti dell’aggravamento della propria situazione patrimoniale causato dall'emergenza sanitaria, il suo ricorso per la sospensione di pagamento dei canoni non può essere accolto. (Tribunale Pisa, 30/06/2020).
Il secondo tema è quello, come accennato in apertura, afferente l’impossibilità di godere (anzi, di godere utilmente) del bene per sopravvenuti provvedimenti normativi e sa da questa circostanza possa derivare possa che il conduttore si sottragga all’obbligo di pagare i canoni.
Il tema da affrontare è chiaro: l’impossibilità di godere dell’immobile per sopravvenuti provvedimento normativi legittima il conduttore a non corrispondere il canone.
E ancora: come detto prima, per quelle attività non coinvolte e inserite direttamente nell’elenco delle attività sottoposte a chiusura forzata ma che subiscono o hanno subito una draconiana riduzione del proprio fatturato, possono opporre un legittimo diniego nel loro adempimento principale che è appunto il pagamento del canone?
Tale profilo, nella dualità appena narrata, deve essere poi accompagnato dalla riflessione in ordine al rifiuto del locatore alla rinegoziazione dei termini contrattuali per il loro adeguamento al mutato scenario economico e se tale condotta possa configurare un inadempimento, tale da giustificare l’omesso versamento dei canoni.
Le misure di contenimento conseguenti all’emergenza sanitaria, nella misura in cui hanno inciso in modo apprezzabile sull’idoneità all’uso pattuito dei beni locati, hanno dato vita a vizi sopravvenuti che, seppur non imputabili al locatore, giusta il rinvio operato dall’articolo 1581 codice civile Le disposizioni degli articoli precedenti si osservano, in quanto applicabili, anche nel caso di vizi della cosa sopravvenuti nel corso della locazione., soggiacciono proprio alla disciplina dettata dall’articolo 1578 codice civile (Se al momento della consegna la cosa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l'idoneità all'uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili [II]. Il locatore è tenuto a risarcire al conduttore i danni derivati da vizi della cosa, se non prova di avere senza colpa ignorato i vizi stessi al momento della consegna).
Ne segue, pertanto, che, se il conduttore non può completamente godere del bene secondo l’uso convenuto, non è tenuto a corrispondere il canone; se può farne un uso ridotto ha, invece, diritto a una riduzione proporzionata al minor uso della cosa rispetto a quello convenuto.
Nell’impostazione qui coltivata la fondatezza della domanda di riduzione non dipende, dunque, dai minori ricavi o dai maggiori costi ottenuti o sostenuti dalla società conduttrice in conseguenza dell’evento pandemico, ma risponde all’esigenza, tutta interna all’economia contrattuale, di tutelare l’equilibrio sinallagmatico perturbato dall’evento pandemico.
Proprio ragionando sulle disposizioni codicistiche, si è giustamente rilevato che “non è da escludere a priori l’eventualità che, in certi casi, la riduzione del canone dovuto si spinga — per una o più mensilità — sino a portarlo allo zero” (Dolmetta, 2020, p. 8). Nella concreta dinamica dei rapporti locatizi è tuttavia difficile immaginare un azzeramento del canone, persino per i mesi di inibizione dell’apertura al pubblico delle attività, poiché anche durante il lock down il bene locato può apportare al conduttore delle apprezzabili utilità, che potranno essere dimostrate dall’impresa locatrice anche per presunzioni.
Per esemplificare, si può richiamare il caso paradigmatico dell’attività di ristorazione (non casualmente oggetto dei primi provvedimenti urgenti di cui si ha notizia: v., ad es., l’ordinanza del Trib. Roma del 29 agosto 2020, riportata dalla stampa nazionale), rispetto al quale si potrà dimostrare che durante il lock down il locale è parzialmente servito all’uso pattuito (perché ha consentito di preservare gli alimenti non deperibili, stivati nei magazzini o nei congelatori rimasti in funzione; di ospitare macchinari e attrezzature; di utilizzare le cucine per confezionare cibo da asporto; di preservare l’avviamento dell’attività economica); oppure che, alla riapertura al pubblico successiva al lock down, la clientela ospitabile sia rimasta in linea con il periodo prepandemico (questo potrebbe essere il caso di ristoranti particolarmente esclusivi, con pochi “coperti” e una disposizione interna di tavoli ben distanziati tra loro per garantire riservatezza).
Quest’ultimo esempio consente di cogliere in che modo l’applicazione delle regole codicistiche distribuisca sulle imprese parti di un contratto di locazione commerciale il rischio tipicamente inerente all’attività economica esercitata. Il rischio che la clientela si riduca perché, per timore del contagio, preferisce limitare al massimo gli spostamenti resta in capo alla conduttrice perché inerisce alla sua attività come qualsiasi altro imprevedibile evento che modifichi le abitudini dei consumatori.
Specularmente, il rischio che i ricavi si contraggano perché i canoni si sono ridotti in conseguenza dell’impossibilità di mantenere i beni locati idonei all’uso convenuto, inerisce all’attività della locatrice: né tale rischio potrà essere paralizzato adducendo fattori esterni che incidono positivamente sull’utile netto della conduttrice, come potrebbero essere eventuali agevolazioni o provvidenze di natura pubblica come, nel caso specifico, il credito di imposta introdotto dal decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 sui canoni corrisposti: argomento spuntato sia perché la normativa tributaria non si riflette sull’interpretazione delle norme civilistiche, sia perché quest’agevolazione presuppone logicamente un debito d’imposta (circostanza, soprattutto per il 2020, non così ovvia).
Segnalo un caso affrontato e deciso dal Tribunale di Milano che può essere descritto come segue e che credo possa trovare molta aderenza con ipotesi che sono albergate nella Vostra recente attività professionale o che, invece, possano affacciarsi nei prossimi tempi.
Un ristorante milanese è costretto a rimanere chiuso per il periodo del lockdown (febbraio-aprile 2020) e non consegue alcun incasso. Per questa ragione, la società che gestisce il ristorante cade in difficoltà finanziarie e chiede al locatore la sospensione del pagamento dei canoni. Nei mesi di lockdown (e, a dire il vero, anche a causa di alcuni canoni anteriori non pagati) si è accumulato un significativo debito del conduttore nei confronti del locatore per l'importo di € 275.822,35. La richiesta stragiudiziale del conduttore di sospensione del pagamento dei canoni arretrati non viene accolta dal locatore.
Dal canto suo, il locatore dispone di una garanzia rilasciata da una banca, escutibile in caso di mancato pagamento dei canoni da parte del conduttore. La società che gestisce il ristorante teme che la banca possa pagare quanto richiesto dal proprietario. Per questa ragione si rivolge all'autorità giudiziaria per ottenere in via d'urgenza, ai sensi dell'articolo 700 codice procedura civile, un provvedimento che inibisca alla banca garante il pagamento della garanzia
Nel merito, la società che gestisce l'attività di ristorante ritiene di non essere tenuta a pagare i canoni per il periodo del lockdown. La ricorrente argomenta che la normativa emergenziale volta a prevenire la diffusione del Covid-19, nella parte in cui ha sospeso tutte le attività di ristorazione, è da interpretare quale fatto del principe (factum principis) idoneo a determinare, ai sensi dell'articolo 1256 codice civile, l'impossibilità oggettiva della prestazione locativa, intesa come impossibilità di utilizzare la prestazione della controparte locatrice, consistente nel mettere a disposizione del ristoratore l'immobile per l'esercizio dell'attività di ristorazione. Da tale impossibilità discenderebbe, sempre secondo la prospettazione della ricorrente, ai sensi del combinato disposto degli articoli 1256 e 1463 codice civile, che la società che gestisce il ristorante non sarebbe tenuta ad eseguire alcun pagamento a titolo di canone in riferimento ai mesi di febbraio, marzo e aprile 2020. Per tali motivi sarebbe abusiva la richiesta di escussione della garanzia.
Le questioni principali trattate nell'ordinanza sono:
1) se la chiusura forzata di un esercizio commerciale per fatto del principe autorizzi il titolare dell'attività a non pagare i canoni di locazione nel periodo della chiusura;
2) se l'escussione da parte del locatore della garanzia bancaria possa determinare un pregiudizio imminente e irreparabile in capo al conduttore.
La prima questione, attinente alla fondatezza della domanda nel merito, viene trattata pochissimo dal Tribunale di Milano. Il giudice milanese ritiene, infatti, che basti la mancanza di periculum per rigettare la domanda, e si sofferma più estesamente sul difetto di periculum.
5. Quali soluzioni giuridiche
Il provvedimento in commento è costituito da un'ordinanza emessa ai sensi dell'articolo 700 codice proedura civile, che rigetta il ricorso presentato dal conduttore. Il Tribunale di Milano rileva come, in caso di richiesta di un'ordinanza d'urgenza, il giudice debba valutare la fondatezza della domanda (fumus boni iuris) nonché il pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile (periculum in mora). Nel caso di specie ritiene il Tribunale di Milano che non sussista il periculum in mora, consistente - secondo le allegazioni del ricorrente - nelle conseguenze negative derivanti da un'eventuale segnalazione in Centrale Rischi del conduttore quale cattivo pagatore. Per questa ragione si giunge a una pronuncia di rigetto, poiché - se già manca il periculum - non è necessario esaminare il fumus.
L'ordinanza del Tribunale di Milano è uno dei primi precedenti editi in tema di conseguenze del lockdown sui contratti pendenti. Il problema si pone soprattutto per i rapporti di durata, come le locazioni e gli affitti. La chiusura forzata imposta dalle misure di contenimento del Governo ha impedito per alcuni mesi di conseguire incassi. Inoltre, gli esercizi commerciali, e quelli della ristorazione sono fra i più colpiti, stanno sperimentando - dopo la riapertura - fatturati ridotti rispetto al periodo precedente all'esplosione della pandemia di Covid-19.
Il Tribunale di Milano rigetta il ricorso poiché ritiene che non sussista il periculum in mora: la garanzia non è stata pagata dalla banca e, anche se venisse prossimamente pagata, bisognerebbe aspettare l'azione di regresso della banca e infine, anche in quest'ultimo caso, la segnalazione a sofferenza in Centrale Rischi non sarebbe automatica. L'ordinanza del giudice milanese, fermandosi al periculum, non affronta il tema centrale del contenzioso generato dalla pandemia di Covid-19, ossia se i canoni di locazione siano o meno dovuti per i periodi di chiusura imposti dal Governo.
6. Osservazioni
Nella prassi delle locazioni commerciali, quasi sempre il locatore pretende dal conduttore una garanzia per tutelarsi contro il rischio del futuro mancato pagamento dei canoni oppure contro il rischio di futuri danni all'immobile. Questa garanzia prende di solito la forma di deposito cauzionale, che - ai sensi dell'articolo 11 della l. n. 392/1978 - non può essere superiore a tre mensilità del canone.
Soprattutto negli ultimi anni hanno, però, trovato sempre maggiore utilizzo nella prassi, al posto dei depositi cauzionali, le garanzie bancarie a favore del locatore. La garanzia non si attua mediante la dazione di una somma di danaro dal conduttore al locatore, ma mediante la conclusione di un secondo contratto (aggiuntivo a quello di locazione) fra locatore (soggetto garantito) e banca (soggetto garante). I costi della garanzia sono a carico del conduttore, mentre il beneficiario della garanzia è il locatore. Nel caso in cui non vengano pagati i canoni, il locatore ha il diritto di rivolgersi alla banca per escutere la garanzia e ottenere il pagamento di quanto dovuto.
In un altro caso (Tribunale Roma sez. VI, 27/08/2020) una società che gestisce due ristoranti nel centro di Roma, ubicati entro locali da essa condotti in locazione, agisce in giudizio, diremo, in prevenzione, nei confronti della società locatrice, chiedendo, in sede cautelare, che venga inibita a tale società l'escussione di una fideiussione prestata da un terzo, una banca, a garanzia di adempimento dell'obbligazione di pagamento del canone mensile: il tutto in ragione della morosità insorta nel periodo del lockdown determinato dalla pandemia COVID-19.
Il ricorso è suscettibile di favorevole considerazione sotto il profilo del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Certamente la crisi economica dipesa dalla pandemia Covid e la chiusura forzata delle attività commerciali - ed in particolare di quelle legate al settore della ristorazione - devono qualificarsi quale sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale; invero, nel caso delle locazioni commerciali il contratto è stato stipulato “sul presupposto” di un impiego dell'immobile per l'effettivo svolgimento di attività produttiva, e segnatamente nel caso di specie per lo svolgimento dell'attività di ristorazione.
Ciò posto, si è ritenuto che pur in mancanza di clausole di rinegoziazione, i contratti a lungo termine, in applicazione dell'antico brocardo “rebus sic stantibus”, debbano continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio.
Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceva uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (articolo 1375 codice civile).
Orbene, sulla questione dell'ammissibilità di un'azione riduzione in via equitativa dei canoni di locazione in ragione del mancato rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, proposta in via principale senza previa domanda di risoluzione per sopravvenuta eccessiva onerosità, si rileva come secondo un diffuso orientamento dottrinale (cfr., ex aliis, V. Roppo, Il contratto, 2011, Giuffré) condiviso dal Tribunale di Roma, la buona fede può essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l'alea normale del contratto.
Nello specifico, secondo il citato orientamento, le suddette circostanze vengono a verificarsi nel caso dei cosiddetti contratti relazionali implicanti un rapporto continuativo tra le parti e che mal tollerano la risoluzione del contratto. All'interno della suddetta categoria sembrano poter rientrare anche i contratti di locazione di beni immobili per l'esercizio di attività produttive. In tal caso, infatti, l'eventuale risoluzione del contratto per eccessiva sopravvenuta onerosità comporterebbe inevitabilmente la perdita dell'avviamento per l'impresa colpita dall'eccessiva onerosità e la conseguente cessazione dell'attività economica. In siffatte ipotesi sorge, pertanto, in base alla clausola generale di buona fede e correttezza, un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire ad un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell'alea normale del contratto. La clausola generale di buona fede e correttezza, invero, ha la funzione di rendere flessibile l'ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore. Si evidenzia peraltro che, come è stato evidenziato dalla resistente, sono state previste a livello statale una serie di misure volte a ridurre l'impatto finanziario della pandemia nelle attività produttive.
Tra le suddette misure rileva in particolare per il caso che qui ci occupa la previsione di cui all'articolo 65 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 convertito in legge n. 27/2020 di un credito di imposta del 60% sui canoni di locazione pagati nel marzo 2020. Nonostante lo sforzo fatto dal legislatore, le suddette misure non sembrano tuttavia essere sufficienti, almeno nel caso di specie, a riportare in equilibrio il contratto entro la sua normale alea atteso che nella fattispecie a fronte del recupero di poco più della metà del credito di imposta per un solo mese si sono verificate delle perdite nette dei ricavi per i mesi di marzo, aprile, maggio di euro 136.555,11 rispetto al corrispondente periodo di gestione dell'anno precedente. Tanto rilevato, anche in presenza dell'intervento generale del legislatore per fare fronte alla crisi economica causata dal Covid-19, deve ritenersi doveroso in tale ipotesi fare ricorso alla clausola generale di buona fede e di solidarietà sancito dall'articolo 2 della Carta costituzionale al fine di riportare il contratto entro i limiti dell'alea normale del contatto. In tali situazioni non sembra possa dubitarsi in merito all'obbligo delle parti di addivenire a nuove trattative al fine di riportare l'equilibrio negoziale entro l'alea normale del contratto.
A tal punto sembra prima facie essere stato violato da parte della resistente il canone di buona fede in senso oggettivo. Quest'ultima ha infatti dedotto di essersi resa disponibile a ridurre del 30 per cento l'importo dei canoni di locazione per i mesi di marzo, aprile e maggio 2020, impegnandosi a non escutere la fideiussione sino a quando la situazione debitoria sarà inferiore al 30.000 euro. Tali asserzioni sembrano tuttavia sfornite di un adeguato impianto probatorio a sostegno. In particolare, le dichiarazioni di disponibilità circa la volontà di non voler escutere la fideiussione e di ridurre del 30 per cento l'importo dei canoni sembrano inoltre essere effettuate per la prima volta dal difensore della resistente in questa sede in assenza di idonea procura per disporre in questo giudizio della res sostanziale di cui si controverte. Pertanto, in ragione della mancata ottemperanza della parte resistente ai doveri di contrattazione derivanti dai principi di buona fede e solidarietà, sembra necessario fare ricorso alla buona fede integrativa per riportare in equilibrio il contratto nei limiti dell'alea negoziale normale, disponendo la riduzione del canone di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021; si rileva al riguardo che, anche dopo la riapertura dell'esercizio commerciale, l'accesso della clientela è contingentato per ragioni di sicurezza sanitaria. Si dispone altresì la sospensione della fideiussione in oggetto fino ad una esposizione debitoria del conduttore di 30.000 euro. Alle medesime conclusioni si perviene qualificando la suddetta fattispecie come peculiare ipotesi di impossibilità della prestazione della locatrice resistente di natura parziale e temporanea (cfr. Tribunale di Roma, sezione V civile, ordinanza del 29 maggio 2020, r.g. n. 18779/2020), attesa la sostanziale impossibilità di utilizzazione dei locali locati per l'attività di ristorazione, idonea ad incidere sui presupposti alla base del contratto, e che dà luogo all'applicazione del combinato disposto degli articoli 1256 codice civile (norma generale in materia di obbligazioni) e 1464 codice civile. (norma speciale in materia di contratti a prestazioni corrispettive).
Le conseguenze di tale vicenda sul contratto - ferma la circostanza che alcuna delle parti ha manifestato la volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale - non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea (che comporterebbe il completo venir meno del correlato obbligo di corrispondere la controprestazione: si veda in tal senso Cass. 9816/2009) né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex articolo 1464, una riduzione parimenti definitiva del canone). Trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull'obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex articolo 1464 codice civile una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita (il giudice accoglie quindi la domanda cautelare disponendo la riduzione dei canoni di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20 % per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021 e, altresì, dispone la sospensione della garanzia fideiussoria fino ad un'esposizione debitoria di 30.000 euro).
Del resto, in tema di mancato pagamento dei canoni di affitto nelle locazioni ad uso non abitativo nel periodo di lockdown, considerato che la morosità si riferisce a mensilità nelle quali la società conduttrice non ha potuto esercitare nei locali l'attività commerciale a causa delle restrizioni imposte dalla normativa sanitaria in materia di COVID-19 o l'ha potuta esercitare in maniera ridotta, non si può parlare di un'impossibilità assoluta di godimento dell'immobile, ma di una mera – per quanto significativa – impossibilità soltanto parziale, dal momento che l'unità immobiliare è rimasta pur sempre nella disponibilità della conduttrice ed è stata utilizzata quantomeno con funzione di ricovero delle attrezzature e delle materie prime relative all'attività di ristorazione; - appare, dunque, pertinente non tanto il richiamo all'articolo 1463 codice civile ma piuttosto alla figura dell'impossibilità parziale temporanea, che giustifica nei contratti a prestazioni corrispettive o la riduzione della controprestazione o il recesso (cfr. articoli 1256,1258 e 1464 codice civile - Tribunale Venezia sez. I, 28/07/2020).
[1] Relazione all’incontro di studio organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Tivoli il 14.12.20.
[2] C. PILIA, Le Tutele dei diritti durante la pandemia Covid - 19: soluzioni emergenziali o riforme strutturali, in Persona e Mercato 2020/2, pag. 80.
[3] Le misure economiche adottate dal Governo con il decreto “Rilancio” sono finalizzate a consentire una ripresa più agevole alle imprese dopo la crisi emergenziale causata dal Covid -19.Tra queste vi è la possibilità, per coloro che esercitano attività in locali in affitto, di poter godere di un credito d’imposta dell’ammontare pari al 60% del canone mensile dovuto al locatore per i mesi di marzo, aprile e maggio.
[4] Sulla disciplina codicistica dell’impossibilità sopravvenuta, C. MARCHESINI, L’impossibilità sopravvenuta, Milano, 2008;
[5] Sulla disciplina codicistica dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, A. RICCIO, Eccessiva onerosità (1447 – 1469), in Commentario del codice civile Scialoja Branca, Bologna-Roma, 2010.
[6] M. ZACCHEO, Brevi riflessioni sulle sopravvenienze contrattuali alla luce della normativa sull'emergenza epidemiologica da Covid-19, in EmergenzaCovid-19, Speciale Uniti per l’Italia, 2, Giustiziacivile.com.