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La sentenza della Corte Costituzionale n. 14/2023: problemi, interrogativi e contraddizioni

obbligo vaccinale
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La sentenza della Corte Costituzionale n. 14/2023: problemi, interrogativi e contraddizioni

 

Il 9 febbraio 2023 è stata depositata l'attesa Sentenza della Corte costituzionale n. 14/2023. Trattasi della Sentenza circa la legittimità costituzionale delle vaccinazioni anti-Covid-19 imposte per norma. Il dispositivo di questa Sentenza era stato anticipato da un comunicato-stampa della stessa Corte costituzionale in data 1 dicembre 2023, da noi commentato con la «Nota previa ad una Sentenza che tarda ad essere depositata», pubblicata in questo «Osservatorio tre Bio» il 10 gennaio 2023.

Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale era stato promosso dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, dai Tribunali di Brescia, Catania, Padova, nonché dal TAR Lombardia. Si era costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché altre parti.

Diverse e di diversa natura erano le eccezioni sollevate che la Corte costituzionale ha considerato distintamente.

Prima di entrare in medias res è necessaria una premessa. Meglio, è necessario considerare le categorie usate dalla Corte costituzionale per la «lettura» sia delle norme, sia delle eccezioni, sia dei fatti, le quali – categorie - hanno notevole rilievo per quel che attiene ai presupposti e al fondamento della Sentenza n. 14/2023. Il linguaggio usato dalla Corte, infatti, non solamente si rivela strettamente dipendente da dottrine giuridiche moderne, le quali non consentono sempre la soluzione delle questioni secondo diritto (quando diciamo «secondo diritto» intendiamo non solo il diritto come determinazione della giustizia, ma persino secondo il diritto positivo, quello posto e raccolto nell'ordinamento positivo). La Sentenza della Corte costituzionale n.14/2023 lo evidenzia chiaramente. Basteranno due esempi. La Sentenza de quo si richiama reiteratamente alla solidarietà e agli interessi collettivi. Invoca, a tal fine, esplicitamente o implicitamente, dottrine elaborate sulla base di assunzioni la cui validità andrebbe provata: sono le dottrine del costruttivismo politico-giuridico che pretese (e, in parte, tuttora pretende) – non riuscendovi – di giustificare il diritto pubblico e di affermare la sua supremazia su ogni altra «dimensione» del diritto. Queste dottrine devono sempre e coerentemente adottare come criterio ultimo la ragion di Stato, sulla base della quale tutto (e il contrario di tutto) può essere formalmente legittimato. Anche le cose più assurde e, in ultima analisi, antigiuridiche. Con la norma statuale diceva il Portalis tutto è possibile. Anche distruggere la realtà e crearne una nuova. L'interesse collettivo sostituirebbe, così, il diritto. Soprattutto nel caso de quo esso viene, dapprima, impropriamente considerato come interesse diffuso e, poi, ancora più impropriamente identificato con l'interesse della persona civitatis ovvero con l'interesse pubblico. L'interesse pubblico – lo sostengono apertamente le moderne dottrine giuspubblicistiche – è l'interesse dello Stato. A ben osservare, però, l'interesse dello Stato è sì definito pubblico, ma tale in ultima analisi esso non è. Esso, infatti, è propriamente l'interesse privato dello Stato. L'interesse diffuso, invece, è un interesse adespota che riguarda la collettività ma unicamente come insieme di persone/cittadini, cioè una collettività «indifferenziata» come comunemente si dice. Nel caso de quo esso può essere invocato unicamente sotto il profilo sanitario; la sua invocazione, quindi, è legittima solamente per i profili igienici preventivi o concomitanti con una particolare situazione, che lo Stato è chiamato a curare. Gli aspetti sanitari non investono la salute se non per gli aspetti relativi alle condizioni ambientali (vale a dire esterne agli individui) relative alla salute. L'osservazione vale anche con riferimento all'art. 32 Cost.. Lo abbiamo sottolineato in diverse pagine del lavoro Cronache biogiuridiche (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2022). La Sentenza della Corte costituzionale n. 14/2023 opera, invece, sull'erroneo presupposto secondo il quale la salute sarebbe un aspetto della sanità: anziché distinguerle, le confonde.

Con riferimento, poi, alla solidarietà va osservato che, a nostro avviso, la Sentenza della Corte costituzionale n. 14/2023 opera un’«estensione» impropria. L’art. 32 Cost., reiteratamente richiamato dalla Sentenza de quo, come gli artt. 2 e 3 Cost., non consentono di scambiare la solidarietà con la complicità (tale essa è, per esempio, nel caso di aborto procurato, benché legale, e di cambiamento di sesso per finalità di comodo, a carico fra l’altro del Sistema Sanitario Nazionale, nonché nel caso di molti ristori per «calamità naturali», identificate semplicemente ed arbitrariamente con danno da mancato profitto). Non può essere considerato solidarietà, inoltre, il sostegno per il soddisfacimento di esigenze postulate da bisogni indotti (vacanze per anziani a carico dei bilanci comunali, contributi a fondo perso alle imprese e via dicendo). La solidarietà è richiesta dall’ordinamento giuridico positivo in vigore per assicurare il soddisfacimento di bisogni naturali (in primis, la cura delle malattie) a chi, senza colpa, versa in uno stato di oggettivo bisogno o, comunque, in condizioni di povertà che non gli consentono di rispondere adeguatamente alle esigenze naturali (alimentazione, cura delle malattie, istruzione dei figli e via dicendo).

Nella solidarietà, che la Costituzione circoscrive al campo politico, economico e sociale (art. 2 Cost.), possono essere fatte rientrare le vaccinazioni, in particolare le vaccinazioni anti-Covid-19, che non sono cure e, pertanto, non rientrano nelle garanzie di cui al II c. dell’art. 32 Cost.?

La Sentenza della Corte costituzionale n. 14/2023, dunque, adotta un’interpretazione impropria sia di interesse collettivo sia di solidarietà. Questa interpretazione – erronea - le consente, poi, di argomentare in modo da giustificare l’imposizione della vaccinazione anti-Covid-19. Non diciamo che questa «lettura» sia dolosamente erronea, cioè che essa sia stata assunta consapevolmente al fine di giustificare un’interpretazione che consenta di ritenere legittime costituzionalmente le norme in discussione. La Corte costituzionale assume ed offre questa interpretazione certamente sulla base di insegnamenti ascoltati (e successivamente condivisi, ripetuti ed applicati) nelle Facoltà di Giurisprudenza e sostenuti dall’egemone cultura giuridica occidentale.

Il problema del linguaggio è questione spesso decisiva nelle controversie giuridiche. Esso, pertanto, non deve essere usato ideologicamente dai giudici. Essi, infatti, sono chiamati a interpretare le norme, anche quelle costituzionali, secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse e della intenzione del legislatore (art. 12 Disposizioni sulla legge in generale, premesse al Codice civile). Certo, le norme positive, anche quelle costituzionali, possono rispondere a criteri dottrinali ideologici. Basterebbe pensare, per esempio, a libertà ed eguaglianza codificati nel testo della Legge fondamentale della Repubblica e in seguito applicati (coerentemente) in senso illuministico: essi, sviluppati, hanno consentito di accogliere come diritti molte pretese individuali che il senso comune considera assurde e la filosofia – quella vera, quella cioè che non viene erroneamente scambiata con l’ideologia – sempre «respinse». In questo caso, però, l’interpretazione rimane fedele al testo (anche se discutibile), mentre nel caso degli esempi portati considerando la Sentenza n. 14/2023 essa se ne allontana con grave pregiudizio per i diritti individuali e particolarmente per i ricorrenti.

C’è un secondo aspetto nella Sentenza de quo che è opportuno, sia pure brevemente, evidenziare. Esso è particolarmente interessante (e, simultaneamente, preoccupante), poiché tocca un principio: la Corte costituzionale, infatti, afferma esplicitamente nella Sentenza n. 14/2023 che «il diritto alla salute individuale può trovare una limitazione in nome dell’interesse della collettività». Come dire: il soggetto ed i suoi diritti naturali possono essere sacrificati sull’altare di un interesse collettivo in nome della «solidarietà orizzontale». È un’affermazione palesemente contraria alla lettera e alla ratio dell’art. 32 Cost, comunque essa venga «letta». Nella Costituzione non trovano accoglimento né la tesi di Conte (secondo il quale il progresso dell’umanità può legittimare il sacrificio del singolo essere umano) né le tesi dei totalitarismi e, in particolare, del nazismo (secondo le quali l’individuo gode solamente di quei diritti che lo Stato occasionalmente gli riconosce e che ad nutum può «revocare»).

La Corte costituzionale con la Sentenza n. 14/2023 dimostra le contraddizioni di fronte alle quali il Costituzionalismo è venuto a trovarsi in presenza della pandemia da Covid-19 (sull’argomento si veda il volume, fresco di stampa, Problemi e difficoltà del Costituzionalismo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2023). Riprendendo la questione, si può dire che l’interesse non è né fondativo né regolativo del diritto. L’interesse legittimo, infatti, è la pretesa di qualsiasi cittadino, in quanto privato, a vedere esercitato il potere della pubblica amministrazione, soprattutto nei suoi confronti, in conformità alle norme vigenti. Esso, perciò, non è un diritto soggettivo – lo chiarì la Legge n. 2248/1865, se ce ne fosse stato bisogno -; tanto meno è un diritto individuabile «oltre» e come condizione della norma: a differenza del diritto soggettivo (facultas agendi ex norma agendi) che postula una norma positiva per la sua esistenza, esso - il diritto naturale - è riconoscimento di ciò che spetta all’individuo umano secondo l’ordine naturale. Pertanto nessun interesse può essere considerato condicio sine qua non di un diritto, il quale – insistiamo – è anteriore e sovraordinato a qualsiasi interesse, anche a quelli formalmente recepiti nelle norme positive.

Quanto premesso pone rilevanti questioni, sia morali sia giuridiche (anche sotto il profilo del diritto positivo). Sono questioni sulle quali la Corte costituzionale sembra sorvolare; rectius et peius, essa sembra affermare dogmaticamente che la sua lettura – la lettura della Corte – di questi problemi e dei presupposti assunti per risolverli sono indiscutibili.

C’è di più. Ci sono, a questo proposito, affermazioni discutibili; altre incompatibili sia con l’ordinamento giuridico in vigore (compreso, ovviamente, quello costituzionale) sia con la precedente giurisprudenza della Corte costituzionale che, invece, la Sentenza n. 14/2023 afferma di rispettare integralmente; talune sbalorditive. Qui di seguito se ne richiameranno solamente cinque che a chi scrive paiono di particolare rilievo.

  1. Le «scelte tragiche». La prima sulla quale è bene riflettere a fondo è rappresentata dall’affermazione della Corte, secondo la quale quando la legge positiva impone l’obbligo della vaccinazione «compie deliberatamente una valutazione degli interessi collettivi e individuali in questione, al limite di quelle che sono state denominate “scelte tragiche” del diritto: le scelte che una società ritiene di assumere in vista di un bene […]. L’elemento tragico – afferma la Corte costituzionale – sta in ciò, che sofferenza e benessere non sono equamente ripartiti fra tutti, ma stanno integralmente a danno degli uni e a vantaggio degli altri. Finché ogni rischio di complicanze – conclude la Corte – non sarà completamente eliminato […] la decisione in ordine alla sua imposizione obbligatoria apparterrà a questo genere di scelte pubbliche».

Dunque, per la Corte costituzionale lo Stato ha sempre il potere di imporre la sua decisione, qualsiasi decisione, che faccia seguito a un bilanciamento. La Sentenza n. 14/2023 porta l’esempio della vaccinazione contro la poliomielite, la quale può comportare reazioni avverse gravi inferiori rispetto alla vaccinazione anti-Covid-19. Con ciò la Corte fa proprio un criterio adottato da tutti i regimi totalitari. Quello che conta è il conseguimento di un obiettivo (un «bene» dice la Corte). Poco importa che alcuni esseri umani siano sacrificati in vista del conseguimento di questo bene. Quello che conta è il «benessere» dei più, anche se ottenuto con la sofferenza (loro procurata) dei pochi. È, questo, un criterio giuridico? La Costituzione stabilisce questo principio?

  1. Autodeterminazione. L’autodeterminazione soggettiva, intesa come autodeterminazione del puro volere, soprattutto a partire dagli anni ’80 del secolo scorso è stata considerata dalla Corte costituzionale italiana diritto fondamentale e irrinunciabile del cittadino (cfr., per esempio, Sentenze n. 203/1989, n. 13/1991, n. 334/1996). Con la sentenza n. 14/2023 questo diritto subisce limitazioni notevoli; anzi una vera e propria trasformazione. Titolare del diritto non sarebbe più l’individuo. La sua sovranità soggettiva, riconosciuta e proclamata reiteratamente dalla giurisprudenza costituzionale sino al limite di riconoscere al cittadino il diritto di non adempiere a obblighi definiti inderogabili dalla stessa Costituzione (Sentenza n. 467/1991), è vanificata. La Sentenza de quo la cestina senza argomentare. La Corte costituzionale, infatti, stabilisce che la società è l’unica che può disporre. Non specifica nemmeno quale società: lo Stato, il potere esecutivo, un qualche potere amministrativo? Non considera, poi, nemmeno i problemi che stanno dietro al termine «società»: la sua maggioranza è legittimata a disporre assolutamente?; le disposizioni che natura debbono avere: la natura di legge, di Decreti legislativi, di Decreti legge, di DPCM e via dicendo?; il suo potere è illimitato?

La Sentenza n. 14/2023 va molto «oltre». Continuando ad invocare il «principio di solidarietà», ritiene costituzionalmente legittimo il «trattamento sanitario obbligatorio» anche se questo comportasse «un rischio specifico». Dunque, la persona umana – contrariamente a quanto dispone l’art. 32 Cost. – può essere sacrificata per garantire quello che nella Sentenza de quo viene considerata «la base della convivenza sociale». La Corte costituzionale richiama – è vero – precedenti Sentenze (n. 307/1990, n. 118/1996, n. 268/2017), le quali, però, pur valutando la questione di legittimità costituzionale di norme riguardanti l’obbligo vaccinale, l’hanno considerata sotto profili diversi e sulla base di presupposti non identici a quelli che stanno alla base delle norme che impongono come obbligatoria la vaccinazione anti-Covid-19.  Queste, infatti, presentano novità assai rilevanti e, allo stesso tempo, problematiche che la Corte costituzionale con la Sentenza n. 14/2023 ritiene di risolvere ricorrendo a dati statistici pubblicati su siti, che richiederebbero serie e approfondite valutazioni scientifiche e che, comunque, anche se considerati attendibili, non potrebbero essere fonte di legittimazione per la violazione della dignità umana e, persino, per il misconoscimento del diritto alla salute e, in ultima analisi, del diritto alla vita. La Sentenza n. 14/2023 a questo proposito ammette apertis verbis che una percentuale di cittadini è «sacrificabile». A chi spetti decidere circa questo possibile sacrificio la Corte non lo dice specificamente. Aveva, però, già individuato nella «società» il soggetto detentore di questo potere per il cui eventuale esercizio ritiene di poterlo sgravare da responsabilità penali riconducendo aprioristicamente le reazioni avverse gravi a casi fortuiti e alla loro imprevedibilità. Il che dovrebbe essere in sé e per sé causa di non legittimazione della vaccinazione obbligatoria anti-Covid-19.

C’è un terzo aspetto da considerare con riferimento all’affermato diritto all’autodeterminazione del volere del soggetto (per approfondimenti sul tema si rinvia a R. DI MARCO, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017). La Corte costituzionale, considerando il problema «vaccinazioni» già con la Sentenza n. 307/1990 aveva sentenziato che ove il trattamento fosse diretto «non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri» è giustificata la «compressione» dell’affermato diritto all’autodeterminazione. La Sentenza n. 307/1990 pare considerare la vaccinazione obbligatoria come sicuramente finalizzata, di diritto e di fatto, a migliorare o a preservare lo stato di salute. Non sono state valutate (anche se per comprimere il diritto di autodeterminazione la Corte allora richiese le previsioni di non incidenza negativa sullo stato di salute di chi è assoggettato alla vaccinazione) le possibili reazioni avverse gravi (soprattutto quelle causa di effetti permanenti) che successive Sentenze (n. 118/1996, n. 5/2018) hanno ritenuto, in taluni casi, causa legittima di esenzione per i soggetti che la rifiutano. La Corte, comunque, si è contraddetta l’anno successivo con la Sentenza n. 467/1991, ove questa venisse coerentemente e radicalmente applicata. Per la Corte costituzionale le contraddizioni giurisprudenziali non sono una novità. Basterebbe pensare, per esempio, alla sua giurisprudenza degli anni ’60 del secolo scorso allorché venne investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 559 C.P., vale a dire della legittimità della punizione dell’adulterio (cfr. Sentenze n. 64/1961, n. 126/1968, n. 147/1969).

La «compressione» del diritto di autodeterminazione è in realtà la sua vanificazione. Resta in piedi la facciata (come per taluni edifici che vengono ristrutturati). Nella sostanza, però, questo diritto – sia nella sua versione «moderna», quella recepita dall’ordinamento costituzionale, sia nella sua versione classica, quella che lo considera giustamente condizione dello stesso diritto – è posto nel nulla. Il che rivela un’aporia della giurisprudenza costituzionale, confermata da ultimo dalla Sentenza n. 14/2023.

  1. Il consenso informato. Strettamente legata all’autodeterminazione è la questione del consenso informato. Ciò che si legge, a questo proposito, nella Sentenza n. 14/2023 rileva (almeno) sotto due profili. Il primo investe una questione di liceità non solamente delle cure ma anche dei trattamenti sanitari: il consenso informato, infatti, è condicio sine qua non della legittimità di ogni intervento sia curativo sia preventivo. Sotto questo aspetto, soprattutto dopo l’entrata in vigore della Legge n. 219/2017, esso postula l’autodeterminazione «moderna». La Corte costituzionale sostiene che essa – l’autodeterminazione «moderna» - sarebbe da intendere come disponibilità assoluta del proprio corpo (nonostante sia pienamente in vigore l’art. 5 C.C. e nonostante le condizioni stabilite dalla stessa Corte costituzionale con l’Ordinanza n. 207/2018 e la Sentenza n. 242/2019, relative al suicidio assistito). Il che renderebbe legittima l’accettazione della vaccinazione anti-Covid-19 da parte del soggetto anche in presenza di eventi avversi certi e gravi. Renderebbe, però, quanto meno di dubbia legittimità costituzionale le norme che fanno divieto di essere compensati per l’accettazione dell’immissione nelle sperimentazioni farmacologiche e cliniche (D. P. R. n. 211/2003, art. 5).

Il secondo profilo investe, invece, la possibilità di esercizio dell’autodeterminazione in presenza di un obbligo vaccinale stabilito per norma. A questo proposito la Sentenza n. 14/2023 sembra oscillare. Da una parte – ciò le consente, fra l’altro, di considerare legittime le disposizioni che prevedono per alcune categorie la sospensione sia dal lavoro sia dallo stipendio dei non vaccinati – ritiene che anche di fronte all’obbligatorietà del vaccino il soggetto conservi «la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all’obbligo, proprio nel rispetto dell’intangibilità della persona». In questo caso, però, si assumerebbe le conseguenze previste dalla norma (per esempio, la sospensione temporanea dal lavoro e dallo stipendio), nonché – aggiungiamo noi – le conseguenze «naturali» della propria decisone. Dall’altra, la Sentenza de quo sembra sostenere l’incondizionata obbligatorietà della vaccinazione, soprattutto per certe professioni: per la Corte costituzionale che sul punto sembra condividere parzialmente una tesi dell’Avvocatura generale dello Stato, sostenuta nel corso dell’Udienza del 30 novembre 2022, sarebbe possibile parlare «di consenso solo laddove esso fosse esercitabile […], circostanza esclusa ex lege nell’ipotesi di vaccinazione obbligatoria». A tal fine la Sentenza n. 14/2023 si appella sia a precedenti pronunciamenti della Corte costituzionale sia a profili di diritto comparato ricavati anche dall’analisi di ordinamenti extra comunitari, cioè di Paesi non aderenti all’Unione Europea. La cosa non è nuova sebbene essa sia veramente singolare. Soprattutto, però, la Sentenza n. 14/2023 sembra sostenere in ultima analisi una vecchia tesi giuspositivistica (benché ci arrivi per la via solidaristica fatta propria dalla Sentenza n. 75/1992) secondo la quale «lo Stato non sbaglia mai»: ciò e solamente ciò che la norma positiva prescrive sarebbe giuridico; tesi, questa, sicuramente in contrasto con lo spirito e con la lettera della Costituzione palesemente «orientata» in senso diverso: le sue norme sono di ostacolo alla rinascita di regimi totalitari, particolarmente alla rinascita di impostazioni «giuridiche» già praticate, per esempio, dal regime nazista.

I due profili, quindi, sembrano contraddittori. L’oscillazione lascia indecisa la questione. In altre parole viene a mancare una risposta certa e sicura almeno con riferimento alle norme positive vigenti sia di rango costituzionale sia di gradi diversi.

  1. La sperimentazione. La Sentenza della Corte costituzionale n. 14/2023 sostiene che il vaccino anti-Covid-19 è stato sperimentato e, di seguito, autorizzato all’immissione in commercio sia pure condizionatamente. L’affermazione si basa su dati forniti dall’AIFA, dall’ISS, dal Segretariato generale del Ministero della Salute e via dicendo. Non ci sarebbero, pertanto, dubbi – scrive la Corte – circa la sua natura non sperimentale, la sua efficacia e la sua sicurezza: ciò che le Autorità istituzionali nazionali ed europee certificano non ammetterebbe dubbi e, tanto meno, contestazioni. Altri dati e altre informazioni sarebbero, conseguentemente, da «respingere»: i dati e le informazioni forniti dalle Autorità sarebbero da considerarsi assolutamente veritieri e scientificamente certi; perciò definitivi. Essi godrebbero di quella caratteristica che i giuristi chiamano praesumtio iuris et de iure. L’affermazione sorprende. Non solamente perché i dati scientifici sono provvisori per la loro stessa natura, ma anche perché la Sentenza de quo nel sostenere quanto sostiene cade in diverse contraddizioni. Ne elenchiamo alcune.

L’autorizzazione all’immissione in commercio in modo condizionato del vaccino anti-Covid-19 da parte degli Istituti citati è di per sé una riserva di successive valutazioni circa la sua efficacia e la sua sicurezza. Il che significa che la sperimentazione non è chiusa e definitiva. Lo hanno dichiarato anche le case farmaceutiche produttrici del vaccino.

L’affermazione, poi, della Sentenza de quo secondo la quale «è innegabile che ogni legge elaborata sulla base di conoscenze medico-scientifiche è per sua natura transitoria», lascia aperta la questione circa la conoscenza effettiva di tutti gli effetti del vaccino immesso condizionatamente in commercio e delle sue reazioni avverse. Ciò è confermato da un’altra affermazione della stessa Sentenza n. 14/2023 secondo la quale l’urgenza con la quale è stata effettuata la scelta «comporta che essa [… sia stata] fatta, necessariamente allo stato delle conoscenze scientifiche del momento e nella consapevolezza della loro fisiologica provvisorietà».Tutto ciò contrasta con l’affermazione riportata supra secondo la quale il vaccino non avrebbe natura sperimentale e sarebbe efficace e sicuro.

I dati forniti dalle Autorità devono essere certamente considerati «attendibili». Ciò, però, sino a prova contraria. Pertanto, essi non sono dati definitivi e indiscutibili. Per usare ancora una volta il linguaggio giuridico essi sarebbero da considerarsi iuris tantum. Ammetterebbero, quindi, sempre la prova contraria. Certamente la prova contraria deve essere offerta sulla base di argomentazioni scientifiche, le quali possono essere fornite da tutti, anche dai Ricercatori che indagano privatamente. La chiusura a ulteriori valutazioni e alla messa in discussione di quanto provvisoriamente conosciuto non è scientifica, rectius non è propria di un metodo autenticamente scientifico; anzi, non è in sé e per sé scientifica. La chiusura cui ci riferiamo può avere rilievo giuridico, in particolare rilievo penale. Insistiamo: non si tratta di «sostituire» i dati che la Sentenza de quo definisce «scientifici» con altri dati di fonti diverse dogmaticamente assunti: vanno, però, attentamente considerati i dati forniti da «esperti» del settore.

  1. Strumentalizzazione del diritto? La notizia secondo la quale l’ISS avrebbe censurato alcuni    suoi Ricercatori dichiarando – ma non dimostrando – che le loro ricerche (non rispondenti evidentemente alle attese dell’Istituto Superiore di Sanità) sarebbero lacunose e parziali e, comunque prive delle necessarie autorizzazioni per essere pubblicate (quest’ultimo non è un argomento scientifico, essendo di natura burocratica), sta a significare che la «scienza» viene usata spesso (probabilmente anche in questo caso) con finalità non esclusivamente scientifiche. Lo dimostra anche il (quasi) velo di silenzio calato su alcuni studi condotti all’estero, in particolare in alcuni Paesi dell’Europa del Nord, i cui risultati non vengono affatto divulgati al fine, forse, di non ingenerare o di non aumentare sospetti e diffidenze nei confronti del vaccino anti-Covid-19; cosa che rappresenta in sé e per sé un ostacolo alla realizzazione delle opzioni del potere politico e alla realizzazione di interessi economico-finanziari.

Qui, però, interessa un altro argomento, accolto nella e ripetutamente usato dalla Sentenza n. 14/2023 della Corte costituzionale. La Corte costituzionale, rifacendosi alla Sentenza n. 268/2017, insiste nel considerare rilevante per la legittimità delle norme che impongono la vaccinazione obbligatoria anti-Covid-19 (soprattutto al personale medico e sanitario), aspetti politici e, persino, amministrativi ed organizzativi: la Corte, infatti, dà particolare rilievo alla considerazione secondo la quale, al fine di evitare l’interruzione di servizi  essenziali per la collettività – tale è quello sanitario – a causa della ritenuta probabile diffusione del virus fra il personale medico e sanitario, sarebbe  necessaria la vaccinazione di detto personale; pertanto la vaccinazione del personale medico e sanitario dovrebbe essere  obbligatoria. Questo, però, non è un argomento giuridico. Esso investe problemi organizzativi che la pubblica amministrazione deve risolvere nel rispetto del diritto e dei diritti. Le cure vanno certamente prestate. Non si può far leva, tuttavia, sulla necessità di garantire la loro erogazione ricorrendo dapprima al potere politico per ottenere norme ad hoc, vale a dire funzionali ad operazioni amministrative, e successivamente al potere giudiziario per garantirne l’applicazione anche sacrificando i diritti della persona.

La Corte costituzionale, comunque, era stata chiamata a pronunciarsi sui diritti, non sugli aspetti politici e ancor meno sulle questioni organizzative. Non è lecito sostenere - cosa che la giustizia amministrativa fa spesso – che, poiché per esempio un’opera pubblica è importate, può essere approvata in violazione delle norme. Così non sembra giuridicamente corretto sacrificare diritti fondamentali della persona sull’altare degli interessi o considerando i danni che il Sistema Sanitario Nazionale potrebbe subire. Non è, poi, un rimedio sostanziale alla violazione del diritto il ristoro economico, sul quale la giurisprudenza insiste da tempo al fine di non aggiungere ingiustizia a ingiustizia.

Sorprende, pertanto, - la cosa va detta apertis verbis – che la Corte costituzionale nella Sentenza n. 14/2023 abbia accolto come degne di considerazioni simili presunte argomentazioni.