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Breve nota a proposito di alcuni aspetti problematici relativi alla sentenza della Corte costituzionale № 15 del 2023

vaccino anti Covid
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Breve nota a proposito di alcuni aspetti problematici relativi alla sentenza della Corte costituzionale № 15 del 2023

 

Il tema relativo alla disciplina normativa e alle pronunzie giurisprudenziali in materia di cc.dd. vaccinazioni anti-SARS-CoV-2 e, in generale, in materia di legislazione emergenziale è stato più volte e ampliamente discusso, analizzato e approfondito nelle pagine di questo Osservatorio fin dai primi momenti nei quali esso si è imposto all’attenzione.

Rinviando all’indice della Rubrica, sempre aggiornato, mi esimo dall’appesantire il discorso con un’elencazione che richiami quanto già pubblicato.

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Credo di potere affermare con una certa franchezza che in nessun caso sono state prese posizioni preconcette o difese ideologie «di partito» più o meno utili a particolari operazioni «di propaganda» o «di mercato».

Anzi, credo che secondo lo «spirito» che anima quest’Osservatorio tutti i contributi di analisi e di critica finora pubblicati siano stati concepiti e prodotti con autentica libertà responsabile e nello studio e nella ricerca. Ciò non significa – socraticamente – che si tratti di verità infallibili, ma certamente significa che si tratta di una ricerca della verità (del diritto, della morale, della politica) condotta con l’intento razionale (rectius, filosofico) di avvicinarvisi.

Di ciò, peraltro, più volte è stato dato atto, anche implicitamente, e anche da parte di chi non abbia condivise le tesi sostenute.

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Recentemente è stato pubblicato, a firma di Danilo Castellano, un articolato commento sopra la sentenza della Corte costituzionale № 14/2023. Esso già dà conto del problema ermeneutico legato alla stessa lettura della Costituzione; del ruolo della Corte in quanto giudice delle leggi; della natura del suo intervento in ordine alla coerenza di un testo normativo rispetto al parametro costituzionale. Pertanto si tratta di un contributo al quale non sarebbe nulla da aggiungervi, e, comunque, dal quale occorre necessariamente partire per svolgere ulteriori considerazioni «a margine» del medesimo problema.

Nell’ordine di una considerazione a margine, pertanto, e aderendo integralmente all’analisi già svolta da Castellano, ho inteso concepire questo brevissimo commento a tre «questioni» che emergono dalla successiva, connessa, sentenza № 15/2023, sempre in materia di obbligo vaccinale.

Si tratta – come è noto – della pronunzia la quale, appunto in regime di continuità colla precedente, alla luce di una peculiare e innovativa (eversiva?) lettura del combinato disposto tra gli artt. 2 e 32 cost., ha negato la sussistenza di un vizio di costituzionalità delle cc.dd. norme emergenziali le quali imposero l’obbligo vaccinale al personale sanitario lato sensu inteso, in particolare a quello applicato.

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La prima questione da mettersi a tema riguarda la tesi, sostenuta dal Giudice, secondo la quale “può […] affermarsi che le disposizioni qui censurate hanno operato un contemperamento del diritto alla libertà di cura del singolo con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività”.

Il Giudice, cioè, sostiene che l’imposizione dell’obbligo vaccinale non abbia leso il c.d. diritto di autodeterminazione terapeutica del soggetto obbligato, poiché esso “ha costituito [… una forma di] attuazione dell’art. 32 Cost., inteso quest’ultimo come comprensivo del dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui”.

Il c.d. diritto di autodeterminazione terapeutica, pertanto, lungi dall’essere assoluto e lungi dal declinare un diritto inviolabile della persona al libero sviluppo della sua stessa personalità – cose che implicitamente o esplicitamente la Corte aveva in passato sostenute – ha assunto oggi una dimensione lato sensu sociale e socializzante, o quantomeno socialmente condizionata allo “interesse della collettività”, così come esso è stabilito e definito, per norma, dal Legislatore; e più propriamente dovrei dire dal Governo, cioè dal c.d. potere esecutivo (il quale, in realtà, più che eseguire… legifera).

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Il tema della salute, pertanto, non è più svolto sotto il profilo della  libertà liberale, ovverosia della libertà negativa che si esercita senza alcun criterio, poiché essa medesima ha per oggetto una declinazione della property lockiana, quanto piuttosto esso diviene una questione «sociale», un oggetto da regolarsi per norma, una property – possiamo anche dire – le modalità di godimento e di esercizio della quale vengono conformate dallo Stato-ordinamento attraverso una concezione grandemente elastica ed equivoca dei suoi stessi confini. Cosa che, peraltro, già Locke aveva considerato col osservare che interprete dei diritti positivi è il Sovrano, cioè lo Stato.

Il diritto alla salute, allora, e più propriamente dovrei dire la libertà di salute, e meglio ancora lo spazio della salute, non dànno più conto di un diritto, di una libertà e di uno spazio individuali, intimi e soggettivi nel senso più stretto dell’espressione – dunque: liberali in termini stretti –, quindi di ambiti sottratti alla normazione dello Stato, quanto piuttosto essi dànno conto di un diritto, di una libertà e di uno spazio… sociali o socialmente connotati, vale a dire legati alle dinamiche interne a un determinato contesto comunitario di scelte più o meno condivise.

Il diritto all’autodeterminazione terapeutica, e in generale il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo, pertanto, diviene un diritto lato sensu sociale, quindi un diritto nell’esercizio del quale, l’interesse sociale diviene prevalente rispetto a quello individuale e criterio per la conformazione di questo. Il contesto sociale, pertanto, il quale si condensa nello Stato e nel suo Ordinamento, diviene il titolare ultimo del diritto alla salute dell’individuo, ed essa sarebbe, di fatto, in funzione di quello.

E la cosa – si badi bene – non deve sorprendere o stupire, anche se essa appare contraddittoria e financo opposta rispetto alla più consolidata narrativa del c.d. diritto all’autodeterminazione soggettiva in ambito terapeutico – qui richiamo, per esempio, le tesi di Rodotà –, infatti la declinazione in termini di interesse sociale del diritto dell’individuo-soggetto, risponde tout-court alla logica moderno-rousseauiana del citoyen-unità frazionaria, vale a dire al sistema – rousseauiano, appunto – dell’individuo-soggetto che è frazione, parte, del corpo politico e che, operando come organo di questo, ne partecipa del volere e della libertà.

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Non solo: l’obbligo (obbligazione?) di non mettere a repentaglio la salute altrui – cosa che sotto certi profili potrebbe effettivamente porre un problema di sanità in senso proprio – non viene più fatto rientrare nel novero delle cautele attuali legate alla necessità di isolare taluno dal gruppo sociale in quanto malato e in quanto portatore di un attuale e concreto rischio sanitario, quanto piuttosto viene arretrato, per così dire, a una dimensione di profilassi imposta agli individui sani e attualmente non affatto pericolosi, sull’ipotesi che essi potrebbero contrarre una patologia e potrebbero trasmetterla ad altri. E qui si vede bene come l’interesse c.d. sociale diviene prevalente rispetto alla libertà individuale e criterio per il suo stesso esercizio.

Altro, infatti, è confinare nel vecchio reparto celtico il soggetto portatore di una patologia contagiosa, o nel vecchio manicomio l’individuo incapace di intendere e di volere e pericoloso per sé e per gli altri, e altro – tutt’altro, aggiungo – è imporre alla persona sana un trattamento farmacologico lato sensu inteso per evitare o per limitare la probabilità che ella possa eventualmente contagiarsi e, una volta eventualmente contagiatasi, possa ipoteticamente trasmettere la malattia ad altre persone. Sarebbe, in questo secondo caso, come sottoporre al confinamento manicomiale coloro i quali potrebbero contrarre una patologia psichiatrica ed, eventualmente contraendola, potrebbero diventare pericolosi per sé stessi e per gli altri…nel primo caso si andrebbe a preservare il bene comune sotto il profilo della sanità, nel secondo, invece, si preserva un interesse, appunto, (economico, finanziario, di ordine c.d. pubblico, organizzativo et similia) il quale fa capo a un dato contesto sociale e il quale risponde a precipue progettualità operative.

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Ora – e qui mi rivolgo ai «fieri liberali», adoperando le loro stesse categorie – imporre il sacrificio della c.d. libertà di salute, del c.d. spazio inerente la salute – dico libertà e spezio poiché di diritti, qui, in ambito liberale, non dovrebbe propriamente parlarsi, come ha osservato Castellano – sul presupposto che la limitazione de qua sia necessaria a preservare la salute altrui, cioè l’altrui libertà e l’altrui spazio, e quindi sul presupposto che sia attualmente necessaria una actio finium regundorum la quale eviti sconfinamenti indebiti, essa è una pratica coerente con l’impianto di fondo – kantiano – secondo il quale la libertà dell’uno terminerebbe ove inizi quella altrui; ma imporre piuttosto che limitazioni interventi e pratiche attive di carattere profilattico, quali appunto sono le vaccinazioni, su di una base eminentemente prospettica, e cioè sul presupposto che possa verificarsi l’evento contagioso e che esso possa recare nocumento ad altri, essa è una vera e propria ingerenza nello spazio privato, la quale esula dalla demarcazione del confine, eppertanto la quale esce dagli schematismi dello stesso liberalismo di fatto tradendoli e di fatto ponendo nel nulla l’intiera dommatica dell’autodeterminazione soggettiva (del velle, come ho altrove detto).

E non dico che l’appena citato dogma del diritto all’assoluta autodeterminazione del velle non sia da avversarsi – da più di un decennio lo contesto! –, dico, però, che esso, da un lato non può essere smentito senza smentire l’intiero sistema (innanzitutto costituzionale) sopra il quale si erge; e dall’altro che esso neppure può essere smentito sostituendolo con uno sostanzialmente identico, il quale però si differenzia dal primo per ampliezza e titolarità soggettiva: se a fare quello che vuole della salute è, infatti, in luogo dell’individuo, lo Stato, il fondamento volontaristico non viene meno, solo si sposta il centro gravitazionale dell’arbitrio, dell’esercizio della libertà negativa. L’arbitrio è arbitrio, però, e il diritto è diritto…

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La seconda questione, a questa connessa, riguarda la logica, affatto giuridica, la quale sottostà alla decisione del Giudice; la quale decisione, peraltro, piuttosto che una decisione in senso proprio essa appare come un tentativo «politico» (fallito) di giustificazione ex post, di ratifica.

Il tema, qui, concerne la prospettata alternativa alla vaccinazione, cioè la sottoposizione periodica ai cc.dd. test molecolari o antigenici funzionali a individuare l’eventuale presenza dell’infezione in atto nel soggetto sottopostovi.

Il Giudice, in merito, ritiene che “tale soluzione sarebbe stata del tutto inidonea a prevenire la malattia (specie grave) degli stessi operatori, con il conseguente rischio di compromettere il funzionamento del servizio sanitario nazionale. Inoltre, l’effettuazione periodica di test antigenici con una cadenza particolarmente ravvicinata (e cioè ogni due o tre giorni) avrebbe avuto costi insostenibili e avrebbe comportato uno sforzo difficilmente tollerabile per il sistema sanitario”.

Il Giudice, cioè, ritiene non irragionevole l’imposizione dell’obbligo vaccinale su due presupposti i quali smentiscono la stessa ratio normativa dell’obbligo in parola. Il primo  di questi è rappresentato dalla tutela della salute dell’operatore sanitario stesso. E annoto che in questi casi, alcuni, liberali e non solo, fino a qualche tempo fa avrebbero parlato di paternalismo... Il secondo è rappresentato da asserite difficoltà economico-gestionali legate sia allo svolgimento degli esami de quibus, cioè alla refertazione dei tamponi, sia alla gestione delle cc.dd. Aziende sanitarie.

Dico che questo smentisce la ratio della stessa norma impositiva poiché, in ossequio al dogma (liberale) dell’autodeterminazione terapeutica, la preservazione della salute individuale non può essere imposta. Tantomeno può essere imposta una pratica profilattica che la tutela in forma arretrata e preventiva rispetto alla possibilità di un eventuale danno o esposizione a pericolo. Diversamente… tutta la narrativa e la legislazione in materia di diritto al rifiuto delle cure – che talvolta prelude, o già consente, addirittura la pratica di certe forme di eutanasia –, di diritto all’autodeterminazione terapeutica, di consenso infrmato et similia verrebbe a collassare per contraddittorietà interna al sistema stesso. Dunque la tesi secondo la quale l’imposizione dell’obbligo vaccinale in parola sarebbe legittimo in quanto essa risponderebbe alla necessità di tutelare la salute dell’obbligato non collima con il compendio normativo e giurisprudenziale che viceversa accoglie e applica le tesi liberali secondo le quali la salute è una libertà, anzi… uno spazio di libertà sopra il proprio corpo.

Nemmeno convince la tesi economico-funzionale secondo la quale la difficoltà nella refertazione dei tamponi giustificherebbe il citato obbligo di sottoporsi alla vaccinazione. Essa non convince (almeno) per due ragioni: in primis perché una libertà considerata fondamentale e inviolabile, come sarebbe quella concernente la salute e il corpo umano, non può essere sacrificata sull’altare del bilancio, per questioni attinenti alla ragioneria generale dello Stato: ciò significherebbe che non la persona, ma il bilancio, non la libertà, ma i conti pubblici sarebbero titolari dei diritti contemplati o implicati dall’art. 2 della Costituzione, pur anche nella lettura “a fattispecie aperta” già tralaticiamente data e consolidata nella Giurisprudenza costituzionale.

In secundis la tesi de qua non convince poiché essa implicherebbe – di fatto – di considerare costituzionalmente legittimo e coerente col dettato e con le rationes della Carta costituzionale, un provvedimento normativo il quale riversi sull’individuo le conseguenze di un’impropria e carente amministrazione del Servizio sanitario nazionale, conculcandone diritti e libertà considerate altrimenti inviolabili.

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L’ultima questione che considero brevemente concerne il tema dell’interesse della collettività, evocato dalla Corte, il quale giustificherebbe, e forse anche imporrebbe, il sacrificio del diritto individuale all’autodeterminazione c.d. terapeutica.

Ebbene, interesse della collettività e sovrattutto diritto sono termini che la Corte usa in senso assolutamente moderno: l’interesse de quo, infatti, sarebbe, propriamente, quello dello Stato alla conservazione del proprio potere sovrano e i diritti de quibus sarebbero, altrettanto propriamente, quelli cc.dd. riflessi, cioè quelli positivi che lo Stato stesso pone in capo ai suoi soggetti. Siamo ben lungi, pertanto, sia dal bene comune, sia dal diritto classicamente intesi. Ma su questi aspetti non posso soffermarmi; li segnalo solo per evitare equivoci e per evitare che possa farsi entrare dalla finestra – come si dice – un compendio di fondazioni giusnaturalistiche dell’obbligo vaccinale, il quale usi impropriamente un riferimento al bene comune.

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Ebbene, già nel 1990 la Corte affermò che l’obbligo legale in materia di salute è da ritenersi costituzionalmente legittimo solo se esso sia funzionale a tutelare la salute dell’individuo obbligatovi e a “preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”.

La necessità di preservare la salute altrui, pertanto, fonderebbe la legittimità dell’imposizione in subiecta materia, eppertanto la conculcazione della relativa libertà (negativa).

L’interesse della collettività invocato dalla Corte, però, non coincide sic et simpliciter con il diritto alla salute degli altri: esso dà conto di qualche cosa di diverso.

Non dico che per accidens non possa rientrare anche qualche aspetto legato alla salute individuale o alla sanità propriamente detta, ma dico che l’interesse della collettività trascende questi e senz’altro non si riduce a questi. L’interesse della collettività, infatti, il quale si sostanzia nell’interesse di Stato, se pur abbia o possa avere una certa dimensione sanitaria, fa dipendere quest’aspetto da valutazioni di ordine diverso. Per esempio, nel passo prima commentato, la Corte fa riferimento al funzionamento del Sistema sanitario e alla necessità di sopperire in qualche modo alle sue deficienze. E questa – come già dicevo – è una questione che non attiene alla salute altrui, né direttamente, né indirettamente; piuttosto essa attiene a quella che Francesco Gentile, per esempio, chiamerebbe ragion di Stato.

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In verità, allora, siccome la vaccinazione – la Corte stessa lo annota – non rende immuni e non impedisce, qualora contagiati, la diffusione del virus, qualora l’obiettivo primario della tutela apprestata dalla c.d. normativa emergenziale fosse stato rappresentato dalla salute altrui propriamente detta, esso si sarebbe sostanziato piuttosto nell’isolamento delle persone infette, che in una campagna vaccinale settorialmente mirata e definita. In altri termini la normativa avrebbe dovuto prescrivere e imporre l’esame scrupoloso e frequente degli operatori sanitari mediante tampone molecolare e/o antigenico al fine di evitare contatti tra gli operatori infetti e i pazienti.

 Solo l’individuazione delle persone infette e solo il loro isolamento, infatti, avrebbe veramente preservato «gli altri» dal contagio, eppertanto avrebbe rappresentato una ragionevole forma di conculcazione della libertà di movimento della persona malata – non del diritto alla sua autodeterminazione terapeutica! – efficacemente funzionale a preservare l’altrui salute, sia essa intesa come libertà, come spazio o come diritto.

Che poi la vaccinazione sia o possa essere stata, in alcuni casi almeno, provvida o addirittura necessaria per evitare conseguenze particolarmente gravi, a determinate tipologie di pazienti, essa è una questione – medica – sulla quale non intendo entrare e la quale compete appunto ai medici e alla precipua conoscenza che essi hanno dei loro pazienti. Essa, però, non leva e non mette in merito al tema qui considerato.

In punto di diritto (rectius, di disciplina legislativa), pertanto, e proprio utilizzando le più consolidate categorie del costituzionalismo liberale, nulla consente di ritenere il provvedimento normativo in narrativa legittimo e proporzionato rispetto al sacrificio che esso impone al c.d. diritto all’autodeterminazione terapeutica e rispetto al fine che esso persegue consistente nella tutela della salute altrui.

Che la Corte sia arrivata a conclusioni opposte è evidente, che questo, però, sia coerente con la sua stessa giurisprudenza più che quarantennale non è sostenibile.

Gli inglesi, in questi casi, parlerebbero di overrouling, il sistema di c.d. common law, però, non ha come riferimento un Testo costituzionale rigido come la Corte stessa definisce la Costituzione italiana. Quindi, se sulla base del medesimo Articolato costituzionale il Giudice, su una medesima questione, dà differenti e opposti giudizii, ciò consente di ipotizzare che esso operi, piuttosto che come giudice, come vero e proprio legislatore.