Il paradosso liberale della «salute di Stato»: veri problemi e false risposte dei costituzionalismi moderni e post-moderni

Note a margine dell’art. 32 della Costituzione italiana
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Il paradosso liberale della «salute di Stato»: veri problemi e false risposte dei costituzionalismi moderni e post-moderni

Note a margine dell’art. 32 della Costituzione italiana

 

Il tema assegnatomi è amplio e indubbiamente complesso per la vastità delle questioni politiche, morali e giuridiche che ne sono implicate. Basti solo considerare i problemi – enormi – inerenti la natura del diritto all’autodeterminazione della persona in ambito terapeutico, e più in generale del diritto all’autodeterminazione della persona nei cc.dd. atti dispositivi del proprio corpo, per averne immediata contezza.

Di questa vastità del tema occorre prendere immediata coscienza!

Probabilmente – anche di questo occorre in un certo senso tenere conto, dato il contesto di riferimento – i problemi e le questioni in parola sono resi ancora più complessi, o per meglio dire la loro comprensione e la loro disamina sono rese ancora più complesse, a causa dei molti ed eterogenei dibatti che ne sono derivati ai più disparati livelli e nei più varii ambienti. Spesso – lo dico per iscopo eminentemente diagnostico, quindi lungi da alcuna vis polemica – senza che le varie discussioni e le varie conclusioni cui i dibattiti sono, in un modo o nell’altro, pervenuti siano o siano state adeguatamente supportate da un congruo e appropriato compendio di categorie concettuali sia giuridiche e gius-filosofiche, sia morali, sia politiche.

È bene essere preliminarmente avvertiti, quindi, che il tema in disamina richiederebbe un’analisi e una riflessione assai più articolata rispetto a quella che potrà svolgersi in questa sede anche  per rispondere a domande, spesso mal poste, e anche per evidenziare l’errore intrinseco a certi schematismi argomentativi i quali, sovente, contestano e cercano di risolvere il «sintomo» dell’effetto, il problema che effettivamente c’è e che viene evidenziato come tale… accettando, però, almeno implicitamente, la «patologia» della causa, o comunque non essendo in grado di individuarla come causa patologica e quindi di apprestarne un’autentica «cura».

Rilevare un sintomo, infatti – mi sia consentita questa metafora – cioè avere contezza di un problema emergente, non è ancora farne la diagnosi, vale a dire individuarne la causa; allo stesso modo, l’eventuale ed estemporanea tacitazione lato sensu analgesica del sintomo, del problema che si avverte e rileva come tale, non è ancora la cura della patologia che lo ha causato, richiedendo, essa, l’esatta individuazione delle cause remote e la capacità di ripristinare ex funditus l’ordine della fisiologia, che non può essere ripristinato – ovviamente – qualora non sia preliminarmente conosciuto...

Senza nessuna ambizione di esaustività, dunque, mi limiterò a enunziare per sommi capi, e in parte almeno a disviluppare, alcune questioni per così dire di fondo, che ritengo sia opportuno porre, pur sinteticamente, se non altro con l’obiettivo di fare emergere alcuni di questi problemi e l’aporeticità di alcune false soluzioni.

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Entro in medias res – come si dice – subito annotando che qualora si accolga in ambito giuridico, cioè a dire affrontando il problema del diritto e dei diritti, la tesi positivistica, per esempio quella, pur autorevole, di Portalis[1], secondo il quale la legge si caratterizza per una peculiarissima virtù, e cioè per il potere che essa ha di distruggere ciò che è nella realtà e di creare, non solo ex novo ed ex nihilo, ma proprio ex se, una «realtà» che non esiste, ma che punto viene ad esistenza per effetto della legge medesima, ebbene, qualora si accolga questa tesi – dicevo – il discorso intorno al diritto (ogni discorso!) dovrebbe immediatamente chiudersi, così come ogni discussione, ogni ricerca, ogni questione fondativa che investa il tema del giusto e dell’ingiusto diventerebbe inutile oprativamente, ed erronea concettualmente.

L’unico riferimento da farsi in ordine alla realtà, e in ispecie in ordine alla realtà del diritto, a che cosa essa sia, a quale sia il crinale discretivo fra ius e iniuria, a che cosa sia diritto e a che cosa inveri, viceversa, una sua violazione et coetera, quindi anche in ordine al problema della salute e della malattia per gli aspetti giuridici che ne derivano, ai cc.dd. obblighi sanitarii, ai trattamenti medici, agli atti di disposizione del proprio corpo et similia si dovrebbe ridurre all’imperio della legge e alla sua asfittica applicazione.

Con terminologia appropriata potrebbe dirsi che ogni questione, comprese quelle che investono il trinomio diritto, libertà e salute, dovrebbe essere rimessa ai termini della legalità positiva e da questa trarre ogni conseguenza e ogni soluzione.

I vecchi manuali universitarii – positivistici! – non a caso ricordavano agli studenti che lex imperat, non docet  e che dunque, sull’imperio della legge, non ha luogo discussione concernente la sua verità, il suo ordine e la sua realtà, come direbbe il mio maestro, Danilo Castellano[2]. Ciò che la legge stabilisce, infatti, vige in un dato Sistema – quello all’interno del quale la legge in parola è considerata norma giuridica – e si impone imperativamente sotto minaccia di sanzione. E la vigenza, in quanto tale, è autosufficiente a sé stessa: non abbisogna, essa, di legittimazioni o di fondazioni estrinseche, rispetto al sistema-Ordinamento, che la rendano oggettivamente legittima nell’ordine della giustizia.

Questo – pur al netto di ogni inevitabile semplificazione – è il caposaldo concettuale di tutti i positivismi giuridici, comunque declinati, compresi – mi limito a un cenno – quelli che pretenderebbero di superare o correggere sé stessi col riferimento alle varie teorie ermeneutiche, secondo le quali – come osserva per esempio Zaccaria – “i tenori letterali dei testi [normativi], le prescrizioni in essi contenute, non sono che la punta emergente […] di un complesso regolamentativo che verrà sviluppato solo in un secondo momento”[3]. Come a dire che il «giurista» usa liberamente del «materiale normativo» a sua disposizione, componendo e scomponendo di volta in volta le varie disposizioni normative, e così creando caso per caso, o, in termini generali, sistema per sistema, le varie norme da applicarsi al caso e ai casi[4].

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La tesi di Portalis, però – questo è il problema –, non resta una tesi astratta, un’opinione priva di conseguenze e relegata al dibattito c.d. accademico, un assurdo che fluttua nell’inconsistenza. Al contrario essa entra prepotentemente nella teoria generale e nella prassi degli Ordinamenti giuridici positivi vigenti attraverso la c.d. teoria delle fonti del diritto, vale a dire attraverso la teoria, condensata nella disciplina normativa, per esempio in quella sub art. 1 delle cc.dd. Preleggi al Codice civile italiano, secondo la quale il diritto – tutto il diritto – sarebbe creato dalle norme in quanto vigenti, giusta il rispetto delle procedure stabilite da altre norme, altrettanto vigenti.

La più consolidata definizione delle fonti del diritto, infatti, è quella secondo la quale – faccio riferimento a Paladin, per esempio – esse si sostanzierebbero nei “fattori giuridici dell’ordinamento, previsti e disciplinati da apposite norme costitutive dell’ordinamento stesso”[5], in altri termini negli “att[i] o fatt[i] idone[i] a produrre norme giuridiche in un sistema dato”[6].

Il diritto, dunque, non avrebbe una sua dimensione sostantiva, ontologica, un suo ordine, una sua verità e una sua razionalità – per riprendere il trinomio di prima –, ma sarebbe qualche cosa che si produce e che si crea col concorso della volontà e della forza di attuarla. Vale a dire – più elegantemente – che il diritto si produce e si crea avendo il potere di imporne l’effettiva esecuzione colla minaccia concreta e attuale delle varie sanzioni connesse all’inosservanza delle norme.

Che poi i processi formativi delle norme in parola abbiano luogo nel rispetto di regole convenzionali… altrettanto prodotte e altrettanto create da parte di una volontà capace di attuarsi – la volontà generale di Rousseau, per esempio –, è essa una questione, appunto di procedura, la quale non mi sembra aggiunga molto alla sostanza del discorso.

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Tutto ciò – come è noto – si sintetizza nell’efficace formula dello ius quia iussum, a significare proprio che l’essere del diritto in quanto diritto dipenderebbe solo ed essenzialmente dalla sua vigenza, eppertanto dal potere sovrano che sovrintende alla sua stessa applicazione coattiva. E infatti, come osserva, per esempio Fausto Cuocolo, “l’unico punto discriminante […] per accertare la reale esistenza di un ordinamento giuridico è quello della effettività, cioè della concreta vigenza delle norme da esso poste. Questo carattere, infatti, indica da un lato la capacità di un ordinamento di imporsi ai consociati e dall’altro la media osservanza delle sue norme”[7].

La questione è capitale, come credo possa agevolmente intuirsi; giacché se si postuli che la cifra del diritto alberghi nella legalità positiva, vale a dire nella vigenza della norma, qualunque contenuto essa abbia, e che la validità della norma dipenda dal rispetto di determinate procedure legalmente stabilite per il suo iter formativo, è chiaro che il problema fondativo della giustizia resta estraneo, radicalmente estraneo, a qualsiasi ragionamento intorno al diritto e che dunque può diventare diritto qualunque cosa, come qualunque cosa può cessare di esserlo… per legge.

Si tratta – mi limito, anche qui, a un solo cenno – di problemi filosofico-giuridici e filosofico-politici i quali già sono stati acutamente denunziati, per esempio da Galvão de Sousa, con riguardo alle teorie del c.d. Stato di diritto, caratterizzato invero da un vacuo e autoreferenziale formalismo nel rispetto del quale, come egli scrive, “arriviamo a un punto in cui ogni Stato finisce per essere uno Stato di diritto”[8], giacché ogni Stato introduce e modifica le proprie norme nel rispetto delle procedure che le norme stesse stabiliscono.

Kelsen direbbe, infatti, coerentemente, che l’Ordinamento giuridico è un insieme di norme effettive e costituite; intendendo, per effettive, il fatto di essere supportate da un compendio di forze capaci di mandarne a effetto il contenuto – di farle rispettare –, e per costituite intendendo proprio l’elemento della coerenza interna al Sistema di riferimento e la sua organizzazione secondo varii criterii: per esempio di gerarchia fra le varie norme, o di specialità con riguardo all’assegnazione, anch’essa normativa, dei rispettivi ambiti di disciplina.

Ricordo che il contenuto prescrittivo della Grundnorm kelseniana, al vertice della piramide ordinamentale nella quale Kelsen stesso declina l’Ordinamento giuridico, consiste nell’ubbidire al (rectius, eseguire i comandi del) potere costituito ed effettivo…

E il problema – come un altro Autore,  Miguel Ayuso, per esempio, ha messo in chiarissima luce – non è affatto risolto dalla varie declinazioni del costituzionalismo moderno e post-moderno, giacché esso, in tutte le sue sfaccettature, comprese quelle che guardano alle «scuole» dei cc.dd. diritti umani, al netto di ogni rettorica ideologica, non offre nessuna guarentigia dei veri diritti e delle vere libertà, se non quella – ancora una volta – del rispetto, peraltro più formale che sostanziale, delle varie procedure. E infatti, come Ayuso stesso scrive, la c.d. legalità dei diritti offre “una mera autolimitazione [… dello Stato, il quale] è [sì] limitato dalla legge, ma non c’è legge che non possa essere modificata, purché si osservino le formalità previste dalla Costituzione”[9].

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Il rimando alla Costituzione, però, non risolve il problema e i problemi, anzi dovrebbe propriamente dirsi che il rimando alla Costituzione e alle teorie del costituzionalismo ne sono la causa remota, giacché sanciscono in via definitiva la statualità positivistica di tutto il diritto, eppertanto l’impossibilità di riferirsi, almeno sotto il profilo della c.d. operatività giuridica – nelle aule dei Tribunali, per intenderci – a un addentellato giusnaturalistico classico, cioè a dire al fondamento metafisico del diritto – come direbbe per esempio Del Vecchio – colto “secondo l’ideale della giustizia, desunto dalla pura ragione”[10], eppertanto a un diritto che sia, da un lato, regola (oggettiva) della legge e regola per il Legislatore, non già un suo prodotto; e dall’altro regola di giustizia per il giudice e criterio in sé giuridico per la sua decisione, non dunque una conseguenza del passaggio in giudicato di una sua sentenza qualsiasi.

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Se risulta, allora, di una certa banalità osservarsi che la Costituzione non esce dalla dinamica delle fonti normative, eppertanto dalle categorie concettuali proprie del positivismo, quanto piuttosto essa si colloca al vertice dell’Ordinamento quale fonte gerarchicamente sovraordinata alle altre; meno scontato probabilmente è rilevarsi, con riguardo alla Costituzione italiana, che anche il riferimento sub art. 2 cost. ai “diritti inviolabili dell’uomo”, che la Repubblica “riconosce e garantisce”, come recita la disposizione in parola, è esso un riferimento fuorviante nei termini, e sovrattutto è esso un riferimento al quale non può darsi una lettura estemporanea ed estrapolata dal contesto di referenza. Esso non può essere usato, infatti, per invocare, a tutela della persona, diritti diversi da quelli che Gerber chiamerebbe «riflessi»; cioè a dire diritti diversi da quelli proiettati sull’individuo-soggetto – ridotto a capo d’imputazione – dal c.d. diritto oggettivo, quindi dalle norme vigenti che costituiscono e stabiliscono i diritti soggettivi quali… facultates agendi stabilite dalla norma agendi di riferimento[11].

Val bene prendere coscienza, allora, che il riconoscimento dei diritti qui proclamato non può leggersi quale riconoscimento in senso proprio di un ordine giuridico che precede concettualmente l’Ordinamento e la Costituzione, essendone sovraordinato – come pure è stato autorevolmente sostenuto[12] –, a ciò ostandovi, in particolare, il riferimento dell’art. 1 della Costituzione stessa alla sovranità quale elemento costituivo dello Stato, inteso sia come soggetto – Persona civitatis –, sia come Ordinamento. Essa sovranità, infatti, dà conto di un potere il quale si definisce supremo e indipendente[13], e che dunque è incompatibile con la considerazione concettuale di un ordine di verità oggettiva che lo informi a principii di giustizia indipendenti da sé e dalla sua concreta e materiale effettività.

Sul punto – che potrebbe anche dare adito a discussioni, e che per esempio portò La Pira[14] a un «ingenuo» entusiasmo per l’approvazione in sede di Assemblea costituente del citato art. 2 cost.[15] – non credo vi sia un amplio margine per manovre lato sensu elusive, sovrattutto considerando che la giurisprudenza costante della Corte costituzionale, la quale è interprete per così dire ufficiale della Costituzione, e comunque Organo deputato alla sua applicazione e tutela, ha consolidata una lettura positivistica dell’art. 2 cost., anche se declinandola come norma a c.d. “fattispecie aperta”[16].

L’interpretazione dell’art. 2 cost. tralaticiamente data dalla Corte, infatti, se ammette che per tramite della disposizione in parola il riconoscimento e la costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo, non siano limitati al solo catalogo di quelli elencati ex professo nell’articolato della Costituzione medesima – ecco l’apertura della fattispecie! – precisa senza possibilità di equivoci che il «catalogo dei diritti» cui potere e dovere attingere per dare corpo e contenuto alla fattispecie in questione non può che essere definito e limitato dall’Ordinamento costituzionale considerato nella sua complessità, cioè – in termini tecnicamente più corretti – dalla coorte dei diritti soggettivo-positivi che l’Ordinamento stesso contempla e dalle rationes sottostanti alla loro previsione normativa.

Tant’è vero che Livio Paladin, per esempio, recisamente osserva che “è […] ai sensi dell’ordinamento giuridico italiano che si deve stabilire in che cosa consistano i vari diritti inviolabili e quali siano […] le corrispettive garanzie […]; il che comporta […] che i diritti stessi ‹si risolvono integralmente nel diritto positivo› […]. Solo in questi termini, del resto, si spiega che la sovranità venga bensì conferita al popolo […] ma ‹nelle forme e nei limiti della Costituzione›; sicché rimane esclusa […] l’immediata applicabilità […] dei ‹precetti di diritto naturale›”[17].

Ciò significa quindi – conchiudo il ragionamento – che l’apertura della “fattispecie aperta” in parola è in un tempo apertura all’Ordinamento – certamente –, ma anche… chiusura dell’Ordinamento e nell’Ordinamento, il quale infatti rappresenta il solo e unico termine di referenza per ogni forma di interpretazione, di estensione, di evoluzione; “l’apertura [operata con l’elaborazione della c.d. fattispecie aperta, infatti] è da considerarsi […] come uno sviluppo (una ‹gemmazione›) coerente dei principii e degli enunciati costituzionali”[18], come osserva, in termini conclusivi, Danilo Castellano, per esempio.

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La questione credo torni di assoluto interesse proprio per quanto essa attiene all’interpretazione e all’uso in sede di legittimità costituzionale dell’art. 32, co. II cost., particolarmente quando si pongano profili di problematicità inerenti l’obbligatorietà dei cc.dd. trattamenti sanitarii previsti per legge e se ne invochi il combinato disposto coll’art. 2 cost. allo scopo di proporre una «lettura» del diritto alla salute e, per certi aspetti del diritto all’autodeterminazione in ambito sanitario, la quale faccia assegnamento sulla riconosciuta garanzia e inviolabilità dei diritti dell’uomo… su sé stesso e sul proprio corpo.

L’unica domanda che può porsi con riguardo ai profili di problematicità qui paventati, però, stando alle rationes positivistiche dell’Ordinamento costituzionale, solamente concerne la legalità – particolarmente la legalità costituzionale – delle previsioni normative dalle quali derivino, in un senso o nell’altro, limitazioni all’esercizio dell’autodeterminazione soggettiva su sé stessi. E ciò, anche perché la sussistenza e lo spettro operativo di tale diritto di autodeterminarsi, nell’economia del Sistema costituzionale – evidentemente –, da altro non dipendono, se non dalla vigenza delle norme che li affermano e dalla costituzionalizzazione, diretta o indiretta, delle facoltà nelle quali il loro esercizio si può sostanziare ed esprimere.

Prescindere da questo, o confondere i piani del ragionamento, equivarrebbe a commettere un errore concettuale e metodologico in un tempo: una contradictio in adiecto! Giacché può invocarsi la guarentigia costituzionale, secondo la procedura posta a presidio della c.d. legalità costituzionale, solo con riferimento a «posizioni soggettive» tutelate dalla Costituzione, o comunque afferenti alle sue rationes costitutive, non già con riferimento a quelle che ne sono estranee, ivi comprese quelle che fanno assegnamento su principii di diritto naturale (classico) e sull’ordine oggettivo della giusitizia.

Se si voglia affermare e difendere, infatti, il diritto e la libertà dell’essere umano sul piano del giusnaturalismo classico, e dunque sulla base di una fondazione ontologica degli stessi rispetto all’essere in sé della persona umana – “naturae rationalis individua substantia[19], come la definisce Severino Boezio – occorre contestare in toto e in toto rifiutare ogni declinazione del positivismo, compresa quella propria del costituzionalismo, essendo – come cennato – costitutivamente incompatibili per la strutturale deficienza dell’elemento fondativo che punto caratterizza il positivismo tutto. Diversamente, si rimarrebbe «prigionieri del sistema» e se ne combatterebbero gli effetti – peraltro con esiti se non fallimentari, sicuramente molto modesti –  ammettendo e accogliendo, però, almeno sul piano concettuale, le cause a priori, vale a dire il c.d. potere costituente, in luogo del potere ordinatore[20]; la sovranità, in luogo della regalità et coetera.

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È da considerarsi, allora, che già nel 1993 la Corte costituzionale riconobbe, sulla base di una lettura sistematica della Costituzione e in particolare sulla base del c.d. principio di uguaglianza sub art. 3 cost., che “il primario imperativo costituzionale [… dovesse essere quello] di perseguire l’obbiettivo finale della ‹piena› autodeterminazione della persona”.[21] Gli stessi Giudici, peraltro, hanno successivamente ribadito, in continuità con questa impostazione, che la “libertà di autodeterminarsi […] è riconducibile agli artt. 2, 3 e 32 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare”[22] della persona e che “l’art. 2 della Costituzione [tutela] l’integrità della sfera personale della stessa e la sua libertà di autodeterminarsi nella vita privata”[23], quindi in particolare negli ambiti che concernono la vita e la salute, rispetto ai quali, infatti, nulla di più «privato» può ipotizzarsi.

Ciò significa che l’impostazione concettuale della Corte dà conto di un orientamento dal quale traspare, nettissimo, l’accoglimento del liberalismo politico-giuridico, vale a dire delle tesi secondo le quali la libertà dell’uomo coinciderebbe con quella che Danilo Castellano chiama libertà negativa, la quale si sostanzia nella libertà lato sensu hegeliana, che è “determinata in sé e per sé, perché essa non è altro che l’autodeterminarsi”[24] della volontà.

Da questo derivano perlomeno due aspetti, anche se ovviamente il punto dovrebb’essere approfondito.

In primis deriva la qualificazione dell’Ordinamento giuridico e, più in generale della regola prescrittiva, qualunque essa sia, come un “male necessario”[25] – così direbbe Hanna Arendt, per esempio – funzionale a garantire la vicinanza non conflittuale degli arbitrii kantiani[26]. L’Ordinamento e la regola giuridica, dunque, sotto questo primo profilo, non sarebbero condizione e criterio autenticamente giuridici per l’esercizio della libertà umana, quanto piuttosto essi sarebbero un limite, e in questo senso un male, alla libertà della persona di autodeterminarsi come vuole. Essi sarebbero, tuttavia, un male inevitabile, e in questo senso necessario, in quanto esigito dalle stesse contingenze operative della convivenza, non altrimenti superabili.

In secundis da tali premesse deriva che il liberalismo politico-giuridico, come osserva ancora Castellano, “ritiene di dovere ‹difendere› spazi, [e] non diritti”[27]. Vale a dire che esso ritiene, coerentemente, di dovere difendere «ambiti» e «recinti» all’interno dei quali possa pienamente esprimersi la libertà negativa individuale e non già regole che ne informino l’esercizio. Gli spazii, gli ambiti, i settori, i contesti et coetera ove l’individuo possa fare ciò che egli vuole, invero, – ammesso che si possano concettualmente configurare – sono altro, essenzialmente altro, rispetto ai diritti della persona propriamente detti. Vero è che questi ultimi dànno conto di una regola e di un criterio per il suo operare autenticamente giuridico, sono regola e criterio della sua libertà e quindi condizione di legittimità per il suo esercizio; viceversa gli spazii – per restare al linguaggio di Castellano – sono compartimenti, materie, ambiti et coetera nei quali l’individuo può affermare, a prescindere da qualsiasi regola e da qualsiasi criterio e indipendentemente da questi, qualunque sua volontà, qualunque suo desiderio, e così dare luogo all’assoluta autodeterminazione del suo volere autentico[28].

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Il punto è di capitale importanza per il tema in disamina, infatti, lo stesso «modello» personalistico di «persona modulare» fatto proprio dalla Costituzione e dalla Dottrina costituzionalistica, rivendica e difende ambiti o recinti per l’anarchia individuale, non già e non mai diritti in senso proprio, i quali cementino il loro addentellato costitutivo nell’oggettivo ordine della giustizia: diritti naturali in senso classico.

La persona che la Costituzione difende, per esempio, non è il “diritto sussistente”[29], di Rosmini che ha, “nella sua natura stessa, tutti i costitutivi del diritto”[30]; piuttosto essa è – come dicevo prima, rifacendomi al magistero di Castellano – il «progetto modulare»[31] proprio del personalismo contemporaneo, secondo il quale – sono le tesi di Mounier – la persona si sostanzierebbe, appunto, in una “attività vissuta come autocreazione […] che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione”[32].

La libertà negativa dell’individuo sarebbe, pertanto, la cifra più propria del suo essere, così come il diritto all’assoluta autodeterminazione del volere darebbe conto del suo diritto più fondamentale; e ciò almeno nell’ambito di quanto venga a concernere quelli che Locke definirebbe diritti primarii, ovverosia la vita, la libertà e gli averi, ricondotti al «concetto» di property

La questione risulta di lapalissiana evidenza; tant’è vero che Stefano Rodotà, per esempio, trattando del diritto all’autodeterminazione dell’individuo su sé stesso e sul proprio corpo, è coerentemente arrivato a sostenere che essa “si identifica […] con il progetto di vita realizzato o perseguito dalla persona […], governato da un esercizio ininterrotto di sovranità che permette quella libera costruzione della personalità che troviamo iscritta in testa alla nostra e ad altre costituzioni”[33]. Il diritto della persona di autodeterminarsi negl’ambiti concernenti la di lei vita privata, pertanto, non ricadrebbe sotto la disciplina del diritto privato propriamente detto, dello ius privatorum che regola, secondo i principii della giustizia, la dimensione del privato e i rapporti fra privati, quanto piuttosto darebbe conto di un ambito, di uno spazio – come direbbe Castellano – sottratto al diritto e rimesso, ça va sans dire, all’anarchia individuale. Si tratta, infatti, si uno spazio o ambito di operatività solo esternamente limitato e circoscritto dalle condizioni kantiane “per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà”[34].

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Il problema concernente i trattamenti sanitari o qualunque altra provvidenza imposta per legge a tutela, vera o presunta, della vita e della salute, pertanto, sulla base di queste premesse dell’Ordinamento costituzionale italiano, più volte enucleate dalla Corte costituzionale, dovrebbe immediatamente risolversi nel senso di una radicale incompatibilità di ogni imposizione, rispetto al «diritto» fondamentale all’assoluta autodeterminazione dell’individuo e rispetto al conseguente modello di persona fatto proprio dalla Costituzione, e già emergente dagli Atti dell’Assemblea costituente.

Ogni imposizione, ogni regola, ogni divieto che concerna i temi de quibus, infatti, dovrebbe rappresentare ex se una forma di arbitraria ingerenza dello Stato in quella che l’art. 8 della C.E.D.U. chiama “vita privata e familiare” e che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in linea d’avanguardia, per così dire, con gli orientamenti della Corte costituzionale, pone alla base della sua amplia ed eloquente giurisprudenza in tema di libertà (negativa) dell’individuo rispetto a quanto concerna il suo «privato»[35].

Se poi si consideri, ad abundantiam, che già nel 1991 la Corte costituzionale affermò – il caso riguardava la renitenza alla leva – che “la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta […] un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione [stessa] come inderogabili”[36], la portata del diritto all’autodeterminazione assoluta della volontà parrebbe estendersi fino al superamento di posizioni normativo-soggettive definite inderogabili dal medesimo Testo costituzionale. Tant’è vero che Danilo Castellano, per esempio, proprio appellandosi alle argomentazioni di questa pronunzia, ha concluso che “chiunque, sulla base della Sentenza [… in parola] può (o potrebbe) opporre il rifiuto alla vaccinazione, anche se imposta per legge”[37], almeno invocando allo scopo una c.d. questione di coscienza.

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Il tema è di capitale importanza e meriterebbe appena di essere trattato.

Avviandomi, però alla necessaria conclusione dell’intervento, credo sia di un certo interesse domandarsi come mai e per quali ragioni la stessa Corte costituzionale che nel 1991 sentenziò quanto appena veduto, e che in altre occasioni affermò essere il diritto all’assoluta autodeterminazione della volontà come il più fondamentale fra i diritti fondamentali dell’uomo, essendo investita, per esempio nel 2023, della questione inerente la legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali entrati in vigore durante la c.d. emergenza sanitaria, non rilevò l’illegittimità degli obblighi stessi, che considerò coerenti e compatibili coll’impianto costituzionale. La Corte, infatti, in quella sede, (anche facendo assegnamento a filoni giurisprudenziali già percorsi) non ritenne che la limitazione del diritto della persona di autodeterminarsi in ordine alla propria vita, alla propria salute e al proprio corpo, la quale derivava patentemente dalle norme impositive in parola, fosse in contrasto con le rationes costituzionali già definite… fondamentali e inviolabili, pur dovendo allo scopo fare ricorso… al c.d. bilanciamento dei diritti.

Se però la risposta al problema che fa emergere un’incoerenza interna allo stesso Sistema, sia da trovarsi nel c.d. bilanciamento dei diritti – che meglio dovrebbe chiamarsi equilibrismo dei diritti –, ebbene non credo che vi siano amplii margini per un serio ragionamento, in quanto i diritti si riconoscono o non si riconoscono; si rispettano o si violano… non si bilanciano, giacché ogni bilanciamento, in definitiva e al netto di qualsivoglia rettorica, si sostanzia necessariamente in una o più violazioni dei diritti stessi, cioè in una loro conculcazione, ed essa è di per sé incompatibile e inconciliabile con l’affermata inviolabilità degli stessi.

La tesi, poi, secondo la quale più diritti potrebbero entrare in conflitto fra loro, da un lato è assurda perché il diritto non confligge mai con il diritto, quanto piuttosto esso confligge con l’iniuria, talché se due o più diritti stanno in conflitto fra loro, cioè sono logicamente incompatibili, ciò significa che uno, o l’altro o entrambi non sono tali… quindi il problema va risolto a monte. Dall’altro lato se più diritti, o meglio più posizioni soggettive pari-ordinate sul piano della legalità positiva, entrano in conflitto fra loro escludendosi in tutto o in parte a vicenda, ciò significa che il Sistema di riferimento è palesemente incoerete sotto il profilo strutturale, accogliendo e facendo proprio, esso stesso, rationes contraddittorie, dalle quali ovviamente nascono, per gemmazione, contraddittorie posizioni.

Parafrasando, allora, il paradosso di Böckenförde, secondo il quale “lo Stato liberale […] vive di presupposti che non può garantire”[38], faccio ritorno a quanto ho detto all’inizio del mio intervento e cioè al fatto che il punctum dolens dell’intiera questione consiste proprio nel modo, appunto positivistico, secondo il quale vanno intesi tutti i «diritti» rientranti sotto lo spettro concettuale del costituzionalismo. Essi sono sì affermati, infatti, come assoluti, inviolabili, fondamentali et coetera, e in questo senso essi inverano la promessa dell’Ordinamento relativa alla loro garanzia, ma la loro stessa «robustezza», come anche il momento applicativo del compendio di garanzie che li ammanta o li ammanterebbe in thesis resta strutturalmente dipendente dalle norme positive e dalla loro «positivistica» interpretazione giurisprudenziale.

Invero, i riferimenti dell’art. 32 co. II cost. alla disposizione di legge, quale condicio sine qua non per la legalità dell’imposizione di un trattamento sanitario, e il riferimento al necessario rispetto della persona umana, quale limite che neppure la legge potrebbe violare nell’imporre determinate provvidenze di carattere medico, resta un riferimento positivistico cui la legge dà, di volta in volta, il contenuto che essa vuole e che la Corte costituzionale – interprete della Costituzione – altrettanto modula secondo i proprii orientamenti e – direi – secondo le proprie esigenze di… bilanciamento.

Se è la legge, pertanto, a stabilire i confini degli «spazii privati» cui prima facevo cenno, eppertanto gli ambiti e i limiti all’interno dei quali l’individuo può esercitare quello che Rodotà, per esempio, chiama impropriamente “trasferimento di sovranità”[39], e se è a tenore dell’Ordinamento che vanno definiti ed enucleati di diritti inviolabili dell’uomo tutelati dall’art. 2 cost., è chiaro che anche il diritto all’autodeterminazione su sé stessi divenga un «diritto elastico», il quale la legge dilata o comprime a seconda dei casi, consentendo, vietando o imponendo alcuni modi del suo esercizio in luogo di altri. Tant’è vero che già in sede di Assemblea costituente – il problema dunque è precedete rispetto alla vigenza della Costituzione e alberga nella sua genesi, per così dire – si è affermato, con riferimento alla discussione sull’inciso del progetto di Costituzione “nessun trattamento può essere obbligatorio se non per legge”, che esso avrebbe meritato di essere votato e approvato, in quanto – sono le parole di Maffi, che propongo a titolo di esempio – “non si possono dimenticare provvedimenti sanitari come la vaccinazione. L’individuo può essere sottoposto ad una vaccinazione che, per quanto egli possa essere contrario a subirla, gli viene imposta per legge”[40].

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Si tratta di problemi e aporie interni al Sistema, i quali mettono in discussione, proprio revocandolo in dubbio, il dogma dell’assoluta autodeterminazione del volere della persona nell’ambito privato della vita e della salute. I problemi in parola, però, da un lato non sono solo questi e concernono tutta la narrazione dei cc.dd. nuovi diritti, e dall’altro essi risultano più apparenti che reali, almeno sul piano dell’analisi positivistica. È infatti alla luce dell’Ordinamento – come dice Paladin – che deve definirsi lo spettro operativo e concettuale dei diritti individuali della persona, così come alla luce dell’Ordinamento deve individuarsi lo spettro delle sue facoltà di porre in essere quel “movimento di personalizzazione” il quale sta alla base dell’ideologia personalista e quindi del «modello» di persona costituzionalizzato.

 

 

[1] Portalis riteneva, infatti, che “la loi établit, conserve, change, modifie, perfectionne. Elle détruit ce qui est; elle crée ce qui n’est pas encore” (J.S.M. Portalis, Discours préliminaire du premier project de Code civil (1801), Séance du 4 Ventôse an XI).

[2] Il riferimento è al titolo dei tre volumi che Castellano dedica agli studii politici: cfr. D. Castellano, La razionalità della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993; D. Castellano, L’ordine della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997; D. Castellano, La verità della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002.

[3] G. Zaccaria, Una definizione d’interpretazione, in F. Viola – G. Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma – Bari, Laterza, 2004, p. 159.

[4] Per esempio Gustavo Zagrebelsky sostiene che “il diritto costituzionale è un insieme di materiali di costruzione, ma la costruzione in concreto non è l’opera della costituzione in quanto tale, ma di una politica costituzionale che si applica alle possibili combinazioni di quei materiali” (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, pp. 8 e s.).

[5] L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 17. Similiter si richiamano le parole di Pizzorusso secondo il quale “lo scopo delle fonti del diritto consiste […] nel produrre un complesso di statuizioni mediante le quali sia possibile prevedere come dovrà comportarsi un soggetto dell’ordinamento cui una certa fonte appartiene qualora si trovi in presenza di una situazione corrispondente in una previsione contenuta in una statuizione compresa nel sistema di cui tale fonte fa parte. Il complesso di tali statuizioni costituisce cioè il diritto vigente” (A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto, in F. Galgano (a cura di), Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, Bologna, Zanichelli, 20112, p. 56), nonché, più semplicemente, la definizione manualistica della fonte del diritto quale “atto o fatto idoneo a produrre norme giuridiche in un sistema dato” (G. Iudica – P. Zatti, Linguaggio e regole del diritto privato, Padova, C.E.D.A.M., 20045, p. 7).

[6] G. Iudica – P. Zatti, Linguaggio e regole del diritto privato, Padova, C.E.D.A.M., 20045, p. 7.

[7] F. Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 200312, p. 11.

[8] J. P. Galvão de Sousa, La rappresentanza politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 187.

[9] M. Ayuso Torres, L’Àgora e la piramide. Una “lettura” problematica della Costituzione spagnola, Torino, Giappichelli, 2004, p. 63.

[10] G. Del Vecchio, Lezioni di filosofia del diritto, Milano, Giuffrè, 196513, p. 194.

[11] Infatti: “l’idea del subietto di diritto è un’idea puramente giuridica; e, quindi, essa non designa alcuna qualità reale inerente all’uomo […]. L’uomo è un subietto di diritto: cioè a dire ch’egli sta di fronte all’ordinamento giuridico in determinate relazioni regolate […] dal diritto. subietto, adunque, nel senso giuridico, è non un’entità, non una sostanza, ma una capacità concessa e creata mediante la volontà dell’ordinamento giuridico” (C. F. von Gerber, Diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 1971, p. 354, n. 3). Secondo Gerber, pertanto, i “diritti civili generali” (Ivi, p. 132), vale a dire il “diritto spettante ad ogni singolo cittadino di partecipare dei vantaggi che derivano anche al popolo dall’attività del potere statale” (Ibidem) in altro non si sostanziano, se non nel “riflesso del potere statale stesso” (Ibidem).

[12] Per esempio è stato sostenuto che “il riconoscimento dei diritti inviolabili si riallaccia alla dottrina dei diritti naturali […] dell’uomo cioè inerenti alla natura umana nella sua universalità; diritti quindi che preesistono al diritto positivo e lo trascendono sì che questo deve limitarsi a riconoscerli senza poterli negare. A questi diritti deve essere tutto subordinato, la comunità politica e lo stesso Stato che in definitiva è costituito soprattutto per la tutela di essi […] il principio del riconoscimento dei diritti naturali dell’uomo preesistenti al diritto positivo è in ogni modo stato accolto dalla nostra Costituzione: perché quando il testo parla di diritti inviolabili dell’uomo esso si riferisce appunto a quei diritti naturali, essenziali o inalienabili […] diritti che tutte le Costituzioni democratiche riconoscono” (G. Baschieri – L. Bianchi d’Espinosa – C. Gianattasio, La Costituzione italiana. Commento analitico, Firenze, Noccioli, 1949, pp. 11 e s.). L’impossibilità di accogliere una simile lettura del «fenomeno costituzionale», è ulteriormente ribadita dalla stessa Corte, la quale afferma che “nella costante interpretazione della Corte, l’invocato art. 2 della Costituzione, nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, che costituiscono patrimonio irretrattabile della sua personalità, deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali […], quanto meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti” (12 Luglio 1979, Corte Costituzionale, Sentenza № 98, Presidente: Amadei, Relatore: Reale).

[13] Rinvio alla definizione correntemente data della sovranità quale “supremazia nei confronti di ogni altro soggetto […] operante nel territorio statale [… e quale] indipendenza […] rispetto agli altri Stati” (G. Falcon, Lineamenti di diritto pubblico, Padova, C.E.D.A.M., 20039, p. 115).

[14] Cfr. Atti dell’Assemblea costituente, LVIII, Seduta pomeridiana di martedì 11 marzo 1947, Presidente: Terracini, passim, in particolare pp. 1987 e s., dove La Pira osserva – il riferimento è all’art. 6, nel quale è confluito l’art. 1 del progetto della prima sottocommissione – che “per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e di dignità della persona e di umanità e di giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali degli individui e delle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità”, come a porre un’anteriorità assiologica, logica e funzionale dei diritti umani propriamente detti ai diritti positivi e al diritto positivo considerato nel suo complesso, proprio a principiare da quello lato sensu costituzionale.

[15] Contra le tesi, per esempio, di Ombretta Fumagalli Carulli, secondo le quali “la formulazione letterale del testo costituzionale lascia intravedere […] l’opera dei cattolici impegnati nell’Assemblea costituente (Dossetti, La Pira, Lazzati, Gonella) [grazie ai quali] la libertà torna nella sua matrice cristiana [e] il primato della persona sostituisce il primato dello Stato” (O. Fumagalli Carulli, A Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio. Laicità dello Stato e libertà delle chiese, Milano, Vita&Pensiero, 2006, p. 65).

[16] 6 Febbraio 2006, Corte Costituzionale, Sentenza № 61, Presidente: Marini, Redattore: Finocchiaro. La pronunzia de qua afferma, coerentemente con un’interpretazione risalente al 1987 (cfr. 10 Dicembre 1987, Corte Costituzionale, Sentenza № 561, Presidente: Saja, Redattore: Spagnoli.), che l’art. 2 cost. debba considerarsi una “norma a fattispecie aperta [vale a dire] diretta a recepire e garantire le nuove esigenze di tutela della persona” (Ibidem) in conformità con l’articolato della Costituzione.

[17] L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova, C.E.D.A.M., 19983, pp. 76 e ss..

[18] D. Castellano, L’ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, p. 26, alla nota 10.

[19] S. Boezio, Liber de persona et duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, in G. P. Migne (a cura di), Patrologiae cursus completus, cit., c. 1373.

[20] Cfr. P. G. Grasso, Un’altra conferma dei principi dell’89, in P. G. Grasso, Costituzione e secolarizzazione, Padova, C.E.D.A.M., 2002, p. 181.

[21] 2 Aprile 1993, Corte Costituzionale, Sentenza № 163, Presidente: Casavola, Redattore: Baldassarre.

[22] 9 Aprile 2014, Corte Costituzionale, Sentenza № 162, Presidente: Silvestri, Redattore: Tesauro.

[23] 12 Luglio 2000, Corte Costituzionale, Sentenza № 332, Presidente: Mirabelli, Redattore: Contri.

[24] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 19675, vol. IV, pp. 197-198.

[25] H. Arendt, Che cos’è la politica?, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, p. 23.

[26] Secondo Kant, infatti, il diritto rappresenta lo “insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà” (I. Kant, Metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1970, pp. 34 e s.).

[27] D. Castellano, Introduzione alla filosofia della politica. Breve manuale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020, p. 149.

[28] Il tema già si trova, per esempio, nell’Opera di Pico della Mirandola, anche se le derive propriamente nihiliste sono frutto degli sviluppi del personalismo moderno e post-moderno. Cfr. G. Pico Della Mirandola, De hominis dignitate, Pisa, Edizioni della Normale, 2012.

[29] A. Rosmini Serbati, Filosofia del diritto, Padova, C.E.D.A.M., 1967, I, p. 192.

[30] Ivi, p. 193.

[31] Faccio rinvio al magistero di Danilo Castellano il quale fa emergere le aporie e i problemi insiti nel personalismo moderno, richiamandone il titolo (cfr. D. Castellano, L’ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, cit.). L’Autore sostiene che “l’ordine politico-giuridico ‹modulare› del personalismo contemporaneo si rivela un surrogato del vecchio ordine, indispensabile a ogni persona e a ogni società: l’anarchia [… infatti] è un male radicale che alla fine si ritorce anche contro chi, potendo, pretende di esercitarla […]. L’‹uomo modulare› (Gellner) pretende di ‹costruirsi› sulla base di pulsioni […]. Così facendo il soggetto si dissolve nella pulsione stessa […]; il soggetto si dissolve ancora più rapidamente se l’ordinamento giuridico lo rafforza nell’illusione di essere qualcosa di simile a un mobile componibile” (D. Castellano, L’ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, pp. 15 e ss.).

[32] E. Mounier, Il personalismo, Milano, Garzanti, 1952, p. 8.

[33] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma – Bari, Laterza, 2012, p. 272.

[34] I. Kant, Metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1970, pp. 34 e s..

[35] È noto, invero, come la Corte europea dei Diritti dell’Uomo abbia esplicitamente affermato che “la notion d’autonomie personnelle [intesa come auto-determinazione della volontà (nda)] reflète un principe important qui sous-tend l’interprétation des garanties de l’article 8” (Pretty versus Regno Unito, Ricorso № 2346/2002), come a dire che la tutela della “vita privata e familiare” – quale “notion large, non susceptible d’une définition exhaustive” (Ibidem) – presuppone e implica, comunque e necessariamente, il primario rispetto e la essenziale garanzia della libertà di autodeterminarsi in rebus privatis, vale a dire entro il recinto di quello che rientra entro lo spettro concettuale del «privato». Si tratta di tesi già variamente affermate dalla stessa Corte con riguardo all’identità fisica e sociale di un individuo (e.g. Mikulic versus Croazia, Ricorso № 53176/1999); con riguardo all’identificazione di genere, al nome, alle tendenze sessuali (e.g. Burghartz versus Svizzera, Ricorso № 16213/1990; Dudgeon versus Regno Unito, Ricorso № 7525/1976; Laskey, Jaggard, Brown versus Regno Unito, Ricorsi № 21627/1993; 21628/1993; 21974/1993 decisi con unica Sentenza del 19 Febbraio 1997); con riguardo al c.d. diritto all’immagine e alla reputazione (e.g. Friedl versus Austria, Ricorso № 15225/1989; Sciacca versus Italia, Ricorso № 50774/1999) et coetera.

[36] 16 Dicembre 1991, Corte costituzionale, Sentenza № 467, Presidente: Corasaniti, Redattore: Baldassarre.

[37] D. Castellano, Costituzione, Ordinamento giuridico, vaccinazioni, in D. Castellano, Cronache biogiuridiche. Questioni etiche e giuridiche dell’emergenza pandemica e problemi giuspubblicistici della dottrina liberal-radicale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2022, p. 149.

[38] E. W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Brescia, Morcelliana, 2006, p. 68.

[39] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 297.

[40] F. Maffi, Atti dell’Assemblea costituente, CIII, Seduta di giovedì 24 aprile 1947, Presidente: Terracini, p. 3310.