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“Bellezze in trappola”

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“Bellezze in trappola”

 

Appare indispensabile – ancora oggi – ricordare i tempi dell’Antica Grecia dove gli artisti riservavano specifica attenzione alla ricerca della bellezza e dell’armonia, nonchè alla perfetta congiunzione della prima con la morale, la politica e la religione. Alcune sculture di fama mondiale – dalla “Venere di Milo” alla “Nike di Samotracia” – costituiscono espressione di quella bellezza ideale pervenuta agli artisti greci a seguito di uno studio intenso e calibrato dell’anatomia. È interessante constatare come le sculture dell’epoca siano accomunate dagli stessi canoni e dagli stessi connotati fisici, confermando così la tendenza alla ricerca di una bellezza universale che prescinda dalle caratteristiche individuali, al fine di giungere ad un astratto e illusorio concetto di estetica. Una corrente di pensiero sostiene che la discriminazione tragga origine proprio nel mondo greco e sia riconducibile alla differenza sessuale, concepita nei miti non solo come differenza naturale, ma accostata a tratti sociali e culturali (“insieme alla democrazia, al teatro, all’arte e ai tanti lasciti originali per i quali, giustamente, continuiamo a celebrarli ai greci dobbiamo anche una codificazione della differenza sessuale le cui conseguenze sulla condizione femminile offrono spunti di riflessione che sarebbe un errore sottovalutare là dove e quando riemergono concezioni sociali, teorie filosofiche e pratiche giuridiche che ripropongono visioni ‘essenzialiste’ delle diverse identità”)[1].

Il ruolo della donna nella società moderna tende ad essere sminuito a causa del dilagante fenomeno dell’oggettivizzazione del corpo femminile nella sfera mediatica[2]. Sul versante istituzionale, l’allarme è scattato nel 2004, quando il Codice Media e Minori – ossia il codice di autoregolamentazione delle emittenti TV e del Comitato Media e Minori, approvato nel 2002 e recepito dal Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (d. lgs. n. 177/2005) all’art. 34 – ha approvato un documento critico circa la rappresentazione della donna in televisione (“quello che la televisione rappresenta e rafforza ogni giorno è ‘un modello’ più che semplicemente un’immagine femminile. Le donne, questo ci dice la televisione, per lo meno quelle giovani e belle, trovano normale usare il proprio corpo e l’ammiccamento erotico continuo come un mezzo per ‘arrivare’. Questo è il messaggio prevalente, inequivocabile quanto inaccettabile”), invitando le emittenti televisive firmatarie non solo a prestare particolare considerazione alle modalità di rappresentazione femminile negli spazi pubblicitari e nei programmi di intrattenimento, ma anche a promuovere l’accesso della donna nel contesto televisivo esaltando l’intelligenza e la creatività della stessa piuttosto che le sue doti fisiche. Oggi, il fenomeno dell’oggettivizzazione del corpo femminile ha raggiunto livelli di esasperazione sui social network, innescando la violenta reazione degli utenti. L’esperienza quotidiana rivela che la Rete – quale mezzo accessibile a tutti gli utenti – è impiegata come potente e amplificato strumento di offesa della “dignità della donna”: dalla divulgazione di foto intime a campagne di offesa gratuita e volgare nei confronti delle donne, specialmente per il loro aspetto fisico, con conseguente enfatizzazione della diffusione di messaggi diseducativi, e per l’effetto, della loro nocività. In tale ottica, vi è chi tiene a sottolineare che la locuzione “dignità della donna” non possa essere intesa come “una delle tante rivendicazioni frutto della stagione ipertrofica dei diritti, né come momento di emersione e rivendicazione sociale e politica di una minoranza”[3], ma deve essere definita e tutelata innanzitutto attraverso “gli occhi, le menti, le sensibilità del genere che l’ha vista costantemente negata”[4]. La “dignità della donna”, però, tende ad essere lesa specialmente nel momento in cui gli “spettatori” rilasciano commenti offensivi facendo leva sulla necessità della stessa di limitarsi ad assolvere il ruolo di moglie/madre; la predetta circostanza rivela la persistente presenza di stereotipi che complicano il percorso di integrazione della donna nella società. Come ben noto, quella della condizione femminile italiana è una storia secolare e travagliata: a partire dalla loro “naturale” esclusione sul piano dei diritti sino all’impegno contro la discriminazione, dalle solenni proclamazioni di una titolarità di diritti attribuita ad ambedue i sessi per giungere alle più recenti affermazioni dei diritti specifici delle donne[5]. In particolare, lo scenario delineato rischia di pregiudicare il nuovo ordine normativo della realtà sociale tracciato in Assemblea Costituente che, grazie alla formulazione dell’art. 37 in combinato disposto con gli artt. 3 e 51, getta le fondamenta per una elaborazione sociale delle differenze tra i sessi, volta a incentivare meccanismi di inclusione e non a originare discriminazioni[6]. Sebbene continui ad essere oggetto di accesi dibattiti, è maggiormente accreditata la tesi secondo cui l’art. 37 Cost. prende atto della duplice posizione della donna nella famiglia e nel campo professionale, con l’obiettivo di evitare che l’ineguale distribuzione dei ruoli sessuali nella sfera domestica si riproduca in una ineguale distribuzione dei ruoli sessuali, e dunque di opportunità, nella medesima comunità[7].

Tornando alle sempre più frequenti diffamazioni subite dalle donne nello spazio social, se è vero che la libertà di manifestazione del pensiero si configura come diritto fondamentale della persona e libertà strumentale al pieno realizzarsi dell’ordinamento democratico (art. 21 Cost.), è altrettanto vero che la l’evoluzione dei mezzi tecnologici – in mancanza di puntuali e scrupolosi controlli – rischia di offrire alla società strumenti lesivi dei principi e delle libertà fondamentali degli individui, nel caso di specie delle donne, vittime inconsapevoli. Alla luce di ciò, si auspica che il legislatore italiano introduca tra le sue priorità la lotta per il contrasto e la prevenzione della violenza di genere, anche nel suo risvolto virtuale. A tale proposito, si richiama l’art. 3 della Convenzione di Istanbul che qualifica la violenza contro le donne come “qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato”; la suddetta definizione sembra diretta ad includere anche le nuove sfaccettature che misoginia e odio assumono nella dimensione digitale. È ancora in fase di “stallo” il disegno di legge n. 1707 presentato alla Presidenza il 6 febbraio 2020 (“Disposizioni in materia di contrasto al linguaggio sessista nei media”) che, nel rispetto della dignità umana e della realizzazione della parità dei diritti, mira a “contrastare le discriminazioni dell’immagine femminile raffigurata nelle pubblicità, nei mezzi di informazione e comunicazione e nella rete internet, mediante utilizzo di immagini, parole e locuzioni che trasmettono esplicitamente, o in maniera allusiva e simbolica, messaggi che suggeriscono il ricorso alla violenza esplicita o velata, nonché la discriminazione, la sottovalutazione, la ridicolizzazione e l’offesa nei confronti della donna” (art. 1), prevedendo altresì l’istituzione di un tavolo tecnico avente il compito di mettere a punto un codice di coregolamentazione contenente una serie di importanti misure, tra cui quella finalizzata a “contrastare la diffusione nella rete internet, con particolare riferimento ai social media, di contenuti che violino i princìpi sanciti a tutela della dignità umana” (art. 11, co. 2). L’intervento legislativo risulta urgente sulla base della consolidata tendenza alla minimizzazione delle aggressioni online, attivando e rendendo accessibili vari strumenti di prevenzione, tutela e protezione, in grado di sensibilizzare le nuove generazioni, ma anche di offrire assistenza psicologica[8]. Come osservato in dottrina, il diritto gioca – in tale quadro – un ruolo-chiave, in quanto “può sollecitare pratiche discorsive, intervenire e accelerare processi che sono già in atto e avviarne di nuovi”, pur non risultando esente da contaminazioni stereotipizzate”[9]. Al contempo, si prende atto dell’impossibilità di pervenire ad un radicale mutamento affidandosi al mero strumento normativo: l’azione di contrasto alla violenza di genere richiede che il cambiamento “formale” sia accompagnato da un processo “sostanziale”, così come previsto per il raggiungimento concreto della parità[10]. Quella della violenza di genere nel contesto virtuale è un’emergenza che deve essere fermata e prevenuta mediante interventi e risposte a livello educativo, facendo propria l’idea di una “comunità educante”, imperniata sul riconoscimento e la valorizzazione di rapporti nei quali prevalgano il reciproco ascolto, il rispetto, la responsabilità personale e la solidarietà[11]. In tale senso, i social media possono rappresentare una forza di opposizione a quei valori culturali tradizionali che consentono ancora il radicarsi e l’esistenza stessa delle diverse forme di violenza contro la donna[12], divenendo per la stessa un importante ambiente di opportunità socio-relazionali.

La sfida che attende la nostra società è dunque ardua.

 

Note:

[1] Così, E. Cantarella, Identità, genere e sessualità nel mondo antico, in A. Maffi e L. Gagliardi (a cura di), Diritto e

Società in Grecia e a Roma, Milano, 2011, p. 951. 

[2] In particolare, F. Rizzuto, Mass media e rappresentazione del femminile tra conformismo e cambiamenti, in I. Bartholini (a cura di), Milano, 2015, p. 171, osserva che la bellezza non è più vista come “dono” biologico, ma celebrata come “il risultato di un percorso consapevole di costruzione del proprio aspetto fisico”.

[3] E. Poddighe, COMUNICAZIONE E “DIGNITÀ DELLA DONNA”. Uno studio di genere, Roma, 2018, p. 12

[4] E. Poddighe, COMUNICAZIONE E “DIGNITÀ DELLA DONNA”. Uno studio di genere, op. cit., p. 13.

[5] L. Califano, Parità dei diritti e discriminazioni di genere, in Federalismi, n. 7, 2021, p. 40.

[6] E. Catelani, La donna lavoratrice nella “sua essenziale funzione familiare” a settant’anni dall’approvazione dell’art. 37 Cost., in Federalismi, n. 5, 2019, p. 71

[7] B. Pezzini, Donne e Costituzione: le radici ed il cammino, in Studi e ricerche di storia contemporanea, n. 68, p. 163 ss.

[8] S. Vantin, La lama della rete. Forme della violenza contro le donne sul web, in Rivista italiana di informatica e diritto, n. 2, 2021, p. 30.

[9] Così, M. Borrello, Non arrendersi all’ovvio. Considerazioni sugli stereotipi di genere in margine alla sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2022 sull’attribuzione del cognome, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 15, 2022, p. 22.

[10] L. Leo, Il marcato divario di genere nel contesto educativo (Nota a Corte cost. 4 gennaio 2022, n. 1), in Amministrazione in Cammino, 22 aprile 2022, p. 17.

[11] Sul punto, S. Capogna, Verso una comunità educante, in Q-Times, n. 3, 2014, p. 9, ammette che “la comunità educante richiama, accanto alla missione istituzionale di promuovere l’apprendimento, quello ben più importante di ‘insegnare ad essere”.

[12] L. D’Ambrosi, V. Polci, Educare e mobilitare i giovani in rete: violenza di genere e social media, in A. Mattucci (a cura di), Corpi, linguaggi, violenze. La violenza contro le donne come paradigma, Milano, 2017, p. 110.