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Famiglia e genitorialità: seconda parte

famiglia e genitorialità
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Famiglia e genitorialità: seconda parte

 

Con il precedente contributo, apparso in questa Rubrica, è stata offerta una prima riflessione in ordine al tema della famiglia. 

Essa ha avuto per oggetto gli aspetti giuridici che involgono il vincolo matrimoniale, e ciò, sovrattutto considerando i problemi, le aporie e le contraddizioni attualmente posti dalle cc.dd. nuove forme di unione familiare: il c.d. matrimonio omosessuale o tra omosessuali; le cc.dd. unioni civili et similia

Si tratta – come il Lettore ricorderà – della positivizzazione, innanzitutto, e successivamente della concreta applicazione nell’ambito dei varii Ordinamenti giuridici positivi, dei cc.dd. nuovi diritti, cioè della nuova generazione di «diritti» civili, umani et coetera variamente proclamati e riconosciuti sotto l’egida delle Costituzioni nazionali – per esempio dell’art. 2 di quella italiana – e delle Carte internazionali. Essi rappresentano, al netto di ogni pur opportuno approfondimento, una forma di declinazione, più o meno compiuta, del c.d. diritto all’assoluta autodeterminazione dell’individuo (quantomeno) nell’ambito della sua “vita privata e familiare”, come recita l’art. 8 della C.E.D.U., che peraltro la stessa Corte di Strasburgo utilizza (coerentemente) nel «processo» di elaborazione giurisprudenziale di questi «nuovi diritti»[1]

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Il problema, in fondo, concerne le stesse categorie concettuali di riferimento: altro è considerare il diritto privato come diritto… e altro – mutuo qui un’efficace espressione di Danilo Castellano – è considerarlo (secondo l’ideologia liberale) come spazio, più precisamente come insieme di “spazi di libertà”[2]; vale a dire come insieme di recinti che il «diritto» (ovviamente inteso al modo positivistico) solo si incarica di tracciare, di definire, dall’esterno secondo la nota concezione kantiana dello stesso[3].

Il diritto privato inteso come «serraglio» per le libertà individuali, infatti, non intende essere regola della c.d. autonomia privata, regola dei rapporti tra privati finalizzata a ordinarli secondo l’ordine della giustizia, in una parola: regola «del» e «per» il privato, quanto piuttosto esso intende o intenderebbe operare una sorta di liberazione dell’individuo dalla regola stessa, proprio lasciando che ciascheduno sia… solo[4] nel suo privato, cioè sia libero di esercitare, all’interno del «suo» recinto, la c.d. libertà negativa, e in altri più schietti termini, sia libero di fare quello che egli vuole per sé. 

Anche tracciare recinti e confini, però, pur essendo attività sostanzialmente «amministrativa», è un’operazione non esente da problemi giuridici e giuridico-politici, i quali, spesso, – l’ho già fatto notare molte volte[5] – fanno emergere contraddizioni interne alla stessa messa in pratica delle tesi che si assumono per incontrovertibili, e che i fatti già si sono incaricati di smentire. 

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            Connesso a questo primo intervento, il tema della famiglia si orienta ora sul profilo della genitorialità, cui le pagine che seguono intendono dedicare alcune brevi (e certamente incomplete) riflessioni.

Si tratta – lo annoto subito – di una scelta espositiva non esente da criticità, o, quantomeno, che necessita di una chiarificazione previa.

            È vero ed è noto, infatti, che la genitorialità può aversi anche al di fuori da un contesto matrimoniale-familiare propriamente detto: essa, invero, se postula necessariamente l’unione del gamete maschile con quello femminile, non postula altrettanto necessariamente la naturale «regolarità» – potrei anche dire la fisiologia sotto il profilo dell’ordine giuridico e morale – del rapporto (giuridico) tra il padre e la madre. Quindi, sotto questo rispetto, altro sarebbe il tema proprio della famiglia e del matrimonio, e altro quello della genitorialità: il primo riferito o riferibile agli eventuali genitori tra loro, e comunque ai coniugi; il secondo ai genitori con i figlii, anzi, al singolo genitore con il figlio.  

            In questo c’è del vero.

Non solo, infatti, la pratica  del c.d. matrimonio riparatore attesta una possibile forma di genitorialità extra-coniugale, ma essa è altresì attestata dalla figliuolanza c.d. adulterina, da quella c.d. illegittima, addirittura da quella incestuosa[6], e – in epoca di dominio delle tecniche – dalla stessa pratica della c.d. procreazione medicalmente assistita, nell’ambito della quale può addirittura prescindersi dallo stesso incontro fisico fra l’uomo e la donna (a volte anche dalla reciproca conoscenza).

Ciò significherebbe che genitorialità e familiarità, genitorialità e matrimonio, dovrebbero meritare capitoli distinti, forse anche volumi distinti, essendo la prima relativa al fatto del concepimento, mentre il secondo inerente al rapporto naturale tra l’uomo e la donna secondo un ordine che, in un tempo, è o dovrebbe essere sia morale sia giuridico; per Modestino, esso sarebbe anche religioso: “nuptiae sunt coniunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio[7], ma qui entreremmo in un discorso che in questa sede non può essere disviluppato e nemmeno abbozzato.

La scelta di porre in regime di continuità le due riflessioni, però, non è casuale; sovrattutto non ne confonde i termini di referenza. Forse essa non è nemmeno del tutto inopportuna nella più generale economia del discorso.

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Inizierei col rilevare, in primo luogo, che altra è la genitorialità propriamente detta e altra è la mera riproduzione o procreazione. Si tratta, però, di un’alterità secundum quid, che va tosto spiegata e contestualizzata concettualmente per evitare fraintendimenti.

Se è vero, infatti, che la genitorialità postula necessariamente la procreazione, in quanto non si ha e non si dà genitorialità (naturale) fuori dalla procreazione, onde non si è genitori (posterius) se non si abbia procreato (prius), e si è necessariamente (naturaliter) genitori ogniqualvolta si abbia procreato… è altrettanto vero che la prima non si esaurisce nella seconda: la genitorialità, infatti, dà conto di un concetto molto più amplio e molto più complesso. 

Direi, per ischiarire questo primo essenziale punto, che la genitorialità rappresenta, sotto il profilo morale e giuridico, la conseguenza del concepimento e della procreazione in termini di obbligazioni (naturali), di diritti, di status.

Il concetto della genitorialità così intesa, infatti, è un concetto giuridico, morale e per certi aspetti anche politico, il quale, in quanto tale, è naturalmente proprio solo dell’uomo; quello della procreazione, viceversa, è un concetto biologico, vale a dire legato all’incontro fecondativo dei gameti, e in quanto tale esso è comune anche agli animali, che appunto si riproducono in tutte le specie sotto la regola degli istinti, pur non assumendo (in termini proprii) la responsabilità, le obbligazioni, i diritti e lo status rispettivamente dei figlii e dei genitori. 

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Con riferimento all’essere umano, pertanto, genitorialità e procreazione rappresentano il fatto naturale e la sua conseguenza. Una conseguenza complessa – deve subito rilevarsi – in quanto essa non si esaurisce nel rapporto bilaterale fra il singolo genitore e il figlio, ma involge, nel medesimo tempo e in forma reciproca, entrambi i genitori e il figlio, proprio in virtù del necessario e paritario concorso di ambedue i genitori alla procreazione stessa.  

Sotto questo rispetto, dunque, e al netto di ulteriori osservazioni che aggiungerò brevemente in appresso, la genitorialità è «una» responsabilità, anzi, essa è «la» responsabilità del concepimento, non un artifizio o una finzione, slegati o indipendenti o indifferenti rispetto al fatto per così dire biologico della procreazione. 

Invero, il fatto biologico della procreazione, è un fatto, e in quanto fatto – quod factum est infectum fieri nequit, riportavano i vecchi Manuali –, è e resta tale anche se esso non sia voluto dai suoi «autori», anche se esso sia variamente nascosto od occultato, anche se ne sia pretermessa l’annotazione negl’atti deputati alla sua registrazione, anche se la legge (come per esempio nel caso dell’aborto) consenta di porlo nel nulla et coetera. Peraltro – il ragionamento è il medesimo, per quanto opposto – il fatto della procreazione non c’è, manca, non si dà, non sussiste, non è foriero di alcuna responsabilità, di alcuna obbligazione, di alcun diritto, di alcuno status, se e quando esso non si verifichi per la deficienza dell’incontro fecondativo tra il gamete maschile e quello femminile, e il fatto in parola non c’è – aggiungo pleonasticamente – ancorché esso sia voluto, ancorché esso sia falsamente attestato da un Registro, ancorché i desiderata soggettivi di taluno lo rivendichino come avvenuto su basi puramente emotivo-emozionali o ideologiche.

Come per il tema della causa nell’atto e nel negozio matrimoniale, anche qui il diritto non considera – non può e non deve considerare – fantasie, sentimenti, desiderii e quant’altro esuli dal dato oggettivo.

 

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Dire che la genitorialità è «la» responsabilità del concepimento, pertanto, non significa disgiungere i due termini del discorso: viceversa significa intenderli sotto due profili, pur distinti, ma necessariamente coessenti e coessenziali per ragioni di ordine oggettivo e naturale; più elegantemente (e più propriamente) direi per ragioni di ordine metafisico (nel metodo d’analisi) e ontologico (nell’oggetto della ricerca). 

L’essere genitore, infatti, eppertanto la responsabilità della genitorialità, non deriva dalle norme positive che variamente la prevedono (se [!] e quando [!] la prevedano); nemmeno deriva da scelte od opzioni che il genitore stesso faccia o non faccia a seconda dei movimenti della sua volontà arbitraria, tantomeno deriva o può derivare da scelte future dei figlii o da altro[8]. Al contrario: l’essere genitore, eppertanto la responsabilità e il vincolo della genitorialità, derivano ex se dal fatto stesso del concepimento in quanto tale, dalla generazione in quanto tale, vale a dire dalla generazione in quanto concorso «paritetico» del padre e della madre al concepimento di una nuova vita umana, di una nuova persona, di un nuovo soggetto di diritto. 

A questo rispetto, è da osservarsi che la responsabilità del concepimento, come anche la coorte di diritti, di obbligazioni, di doveri, di status che ne sono connessi, essenzialmente dipende dalla natura giuridica dell’oggetto (recte, del soggetto) del concepimento, vale a dire dal fatto che in forza del concepimento viene a esistenza un essere umano, un soggetto di diritto; onde egli diviene termine e causa, in un tempo, delle varie situazioni giuridiche che lo coinvolgono in quanto… soggetto.

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Se è vero, come è vero, che la generazione dà luogo al legame genitoriale (c.d. di sangue) tra genitore e figlio, allora, è altrettanto vero e conseguente che esso è un legame il quale non è né opinabile, né disponibile, proprio in virtù dell’addentellato biologico sul quale esso si fonda, a pena di considerare disponibile e opinabile la natura dello stesso concepimento... 

Non è tutto: la figliazione, infatti, dà conto di un vincolo obiettivo non solo tra il figlio e il singolo genitore, ma anche fra i genitori, il quale, se pur non ordinato secondo diritto (e morale) e se pur non legato a una «comunanza genetica» tra loro, esso resta comunque indissolubile e indisponibile in relazione al figlio che porta in sé l’eredità genetica di entrambi. 

I genitori, cioè, al di là della loro condizione soggettiva e al di là del rapporto che li leghi o che non li leghi, restano sempre, ambedue, genitori del figlio che essi assieme hanno concepito. Dunque la generazione  o procreazione non istituisce e fonda solo il legame genitoriale del genitore verso il figlio, ma istituisce anche il coessente e consentaneo legale o vincolo della genitorialità fra i genitori stessi, i quali appunto sono entrambi genitori del loro figlio, padre e madre di lui, giammai terzi rispetto a un ipotetico (e assurdo) rapporto esclusivo (ed escludente) del singolo genitore col figlio.

Salvo dimostrarsi la riproduzione umana per partenogenesi, o comunque la possibilità di prescindere dall’incontro fecondativo del gamete maschile col gamete femminile, la natura stessa della procreazione dà conto di quanto osservato.

Ex ipso facto oritur ius

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Connesso a questo aspetto vi è un altro non meno significativo: esso riguarda proprio la natura della responsabilità genitoriale e l’adempimento delle connesse obbligazioni. 

Il fatto che entrambi i genitori siano genitori del loro figlio e che il concepimento del loro figlio li abbia in qualche modo legati come genitori, così impedendo una forma di declinazione unilaterale della genitorialità stessa, importa non solo la natura comune della responsabilità che i genitori medesimi hanno assunto concorrendo biologicamente al concepimento, quindi il diritto e il dovere di portarla entrambi, ma anche la necessità di adempiere assieme le rispettive, pur distinte, obbligazioni. Prima fra tutte quella educativo-formativa. 

Ecco dunque che assume un certo significato il fatto di trattare della genitorialità all’interno del capitolo dedicato alla famiglia e al matrimonio: solo nell’ambito di questo contesto giuridicamente e moralmente ordinato, infatti, possono pienamente ed esattamente adempiersi le obbligazioni genitoriali e può portarsi in senso pieno e proprio la responsabilità genitoriale da parte dei genitori-coniugi. 

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Se poi si voglia introdurre un ulteriore elemento di analisi e si voglia rilevare che ai fini dell’adempimento delle obbligazioni de quibus, più che l’ordine proprio del vincolo di coniugio, rilevi la stabilità e la regolarità «sostanziale» della convivenza dei genitori, siano essi sposati o meno, sul presupposto che altro è il tema inerente il loro rapporto e altro quello che concerne la responsabilità genitoriale, questo potrebbe pure in parte e cautamente concedersi, ma potrebbe concedersi alla sola condizione che la convivenza in parola sia, come un tempo si diceva, more uxorio, vale a dire in tutto analoga (innanzitutto per identità di presupposti soggettivi) a quella dei coniugi, pur in difetto dell’atto e del negozio istitutivo (e regolativo) della loro famiglia. 

Ciò potrebbe pure concedersi – come dicevo – in ossequio a un’esigenza logica di distinzione dei varii piani d’analisi, tuttavia – è bene precisarlo – il difetto in questione non è difetto di poco momento: la disciplina giuridica di un rapporto, infatti, non è formalismo applicato allo stesso, ma regola dello stesso e dunque suo ordine, e ciò, anche sotto il profilo – in questo caso lato sensu politico – degli strumenti utilizzabili per imporre l’adempimento delle connesse obbligazioni qualora abbiano a verificarsi patologie funzionali del negozio stesso, come si dice con terminologia civilistica. 

Oltre a questo, vi sono aspetti ulteriori da considerarsi – non ultimi quelli economici e di diritto successorio – i quali assottigliano sempre di più la base sulla quale poggia la tesi – concessiva – della non indispensabilità del matrimonio fra il padre e la madre ai fini dell’adempimento pieno e compiuto delle obbligazioni genitoriali. Ma qui entreremmo in un discorso troppo articolato che la sede non consente di trattare.

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Ciò che non può assolutamente concedersi, viceversa, è la possibilità di disgiungere le obbligazioni e la responsabilità di uno dei genitori da quelle dell’altro sul presupposto che ciascheduno di loro possa esattamente e pienamente adempiere in «autonomia» le proprie obbligazioni e assumersi, altrettanto «autonomamente», le proprie responsabilità senza pregiudizio per il figlio. 

Questa è un’illusione che solo serve a sopire i convulsi d’una coscienza assai troppo lassa…

Così opinando si confonderebbero infatti i piani del ragionamento: un conto è il concorso lato sensu economico alle spese e alle esigenze «operative» del figlio, il quale, indubbiamente, può essere, in alcuni casi deve essere, soddisfatto con autonomi e disgiunti contributi dei coniugi, anche se l’autonomia genetica rispetto alle risorse impiegate non consente poi un’autonomia funzionale in ordine al loro uso, giacché la decisione relativa alle spese, al tenore di vita et coetera, riversandosi sul fronte educativo-formativo, impone unità dei coniugi e mutuo concorso... Un altro conto è dato dall’educazione e dalla formazione del figlio, primario e insostituibile compito dei genitori. Esso non ammette autonomie, neppure genetiche, vero è che l’educazione e la formazione del figlio richiedono un ordine di carattere morale, un’unità nella direzione, e una costanza nell’insegnamento e nell’esempio, senza i quali non possono sostanzialmente darsi. 

Non si tratta di trasmettere o di apprendere nozioni, non si tratta di somministrare pasti o di fornire servizii lato sensualberghieri, non si tratta di assumere in forma estemporanea talune decisioni et similia, tutte cose che potrebbero pure, entro certi limiti, essere appaltate a terzi (bambinaie, orfanotrofii, parenti, precettori, et coetera); si tratta – ed è cosa molto più grave e seria – di formare la persona del figlio, crescendolo ed educandolo nell’ordine della umanità che gli è propria e nel rispetto delle sue naturali inclinazioni affinché egli cresca e maturi bene, cosa che solo può essere fatta dai genitori, i quali lo hanno concepito, e cosa che i genitori solo possono fare assieme. 

In questo senso, per esempio, al di là del contesto di riferimento, che risulta assolutamente discutibile, e al netto di ogni possibile (e necessaria) censura, la c.d. disciplina dell’affido condiviso, offre alcuni spunti normativi dai quali può evincersi una certa considerazione di quanto appena osservato. La disciplina del c.d. affido condiviso, infatti, originariamente introdotta dall’omonima legge (L. 54/2006) che aveva novellato l’art. 155 c.c., e oggi rinvenibile negl’artt. 337 bis e s.s. c.c. , a seguito delle modifiche introdotte dal D. Lgs. 154/2013, prevede che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” (art. 337 ter), anche nell’ipotesi (indicata sub art. 337 bis) di “separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio” e anche nel caso (ibidem) di “figli nati fuori del matrimonio”.

Le rationes assunte dal Legislatore possono essere molte, più o meno commendevoli. Non è questa la sede per sindacarle, dopotutto… lex imperat non docet. È innegabile, però, che la previsione  normativa in parola risponda a un ordine oggettivo naturale, secondo il quale la responsabilità del genitore è una responsabilità che egli porta necessariamente in comune e assieme con l’altro nell’ordine stesso della procreazione cui entrambi hanno concorso. 

Che poi nella legislazione citata si celi un’illusione e un’ingenuità – forse un artifizio – ciò è pur vero, in quanto all’atto pratico credo risulti assai difficile adempiere assieme obbligazioni comuni e portare  assieme responsabilità, pur vivendo separati ed eventualmente costituendo nuove relazioni lato sensu familiari con terze persone...

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Quando l’Ordinamento positivo italiano, allora, a mente dell’art. 30 del D.P.R. 396/2000, consente – per fare un esempio – il c.d. parto in regime di anonimato, così liberando la madre che lo chieda da ogni obbligazione nascente dal suo stesso essere madre (genitore) e da ogni connessa responsabilità[9], esso non crea «nuovi diritti», se mai dà luogo nuove (forme di) iniquità, in quanto sovverte o consente di sovvertire l’ordine naturale delle cose. Più precisamente consente di negare la normatività intrinseca di un fatto e la responsabilità allo stesso connessa, oltre, ovviamente, a sacrificare «veri» diritti, in primisquelli del figlio; a determinare uno squilibrio patente fra i genitori, giacché il padre è qui costretto a subire la decisione unilaterale della madre; a introdurre elementi di oggettivo disordine, quantomeno potenziale, nell’individuazione dei rapporti di parentela; a negare i più consolidati principii del diritto successorio et coetera.

Lo stesso vale, a fortiori, per la c.d. fecondazione eterologa nell’ambito delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Essa, originariamente vietata dall’art. 4 co. III della L. 40/2004, oggi è stata «legalizzata» dalla declaratoria di illegittimità della norma in parola, pronunziata dalla Corte costituzionale italiana nel 2014, sia pure con riferimento alla sola “coppia di cui all’art. 5, comma 1, della medesima legge”[10] e sia pure alla condizione che per una o per entrambe le sue componenti “sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili”. 

In questo caso, oltre a darsi, mutatis mutandis, le stesse problematiche della fattispecie precedentemente considerata in termini di violazioni di diritti e di disordine sul piano degli stessi rapporti familiari, vi è altresì la pretesa (assurda) di costituire per norma un vincolo biologico – quello appunto genitoriale – di fatto inesistente. Se la genitorialità, infatti, dipende dalla generazione e se la generazione è data dall’incontro fecondativo del gamete maschile o paterno con quello femminile o materno, è ovvio che qualora uno dei due gameti provenisse da un soggetto terzo rispetto agli aspiranti genitori, il c.d. genitore surrogato non sarebbe affatto genitore, genitore essendo invece il c.d. donatore del gamete. 

Dunque la genitorialità conseguente alla c.d. fecondazione eterologa è una genitorialità del tutto fittizia, legale, certamente, in quanto preveduta dal sistema dell’Ordinamento positivo, ma del tutto illegittima e priva di fondamento. Essa dà luogo a un vero e proprio abominio giuridico: un genitore – il c.d. donante – privato della sua stessa genitorialità, cioè impedito nell’adempimento delle obbligazioni alla stessa connesse e nell’esercizio dei diritti correlati; un figlio privato della paternità o della maternità naturali – a seconda di chi sia il c.d. donante – sotto tutti i possibili profili d’analisi: sotto il profilo del nome, sotto il profilo dei diritti successorii, sotto il profilo del diritto agli alimenti, al mantenimento et coetera, per non parlare dell’aspetto inerente il rapporto con gli ascendenti e con i possibili fratelli (unilaterali) et similia; un finto genitore, il surrogato, caricato di responsabilità e obbligazioni del tutto prive di fondamento, giacché gli viene imposto di mantenere ed educare nel senso più amplio del termine un figlio non suo. 

Se poi si consideri, addirittura, il caso ancora più grave della c.d. gestazione per altri, spesso chiamata, non impropriamente, utero in affitto, dove il numero di soggetti coinvolti può addirittura crescere, il livello di violazione del diritto e di inciviltà raggiunge soglie ancora più preoccupanti. Solo si pensi che, col ricorso a tali tecniche (la genesi delle quali è da rinvenirsi nella medicina veterinaria), rispetto alla procreazione umana, vi può essere la coppia di aspiranti genitori, i futuri padre e madre legali, il donante del gamete femminile, il donante del gamete maschile e la donna che mette a disposizione il proprio utero ai fini della gestazione e che poi partorisce… 

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Quella della genitorialità propriamente intesa, quindi, riprendendo il discorso, è una prerogativa dell’essere umano legata alla sua stessa natura razionale (con Boezio, ricordo che persona est naturae rationalis individua substantia[11]), dunque, al suo essere, in virtù di ciò, “diritto sussistente”[12], come avrebbe detto Rosmini. Tant’è vero che la stessa Corte costituzionale ebbe ad affermare, in questo caso condivisibilmente, che “la verità biologica della procreazione costituisce ‹una componente essenziale› dell’identità personale del minore, la quale concorre, insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto”[13].

Anche gli animali, infatti, si riproducono e figliano, ma solo l’essere umano è rispettivamente figlio e genitore in senso stretto, vale a dire nel senso che solo l’essere umano instaura, per effetto della nascita (rectius, del concepimento), il rapporto genitoriale sub specie di vincolo che lega sotto il profilo giuridico e morale il genitore al figlio, e viceversa, in termini, come prima detto, di responsabilità, di diritti, di obbligazioni, di status.

È vero che anche fra gli animali vi è un «legame» della madre, più raramente anche del padre, con i figli, ma è altrettanto vero che esso, come prima ancora il concepimento, è regolato dall’istinto, cioè è avulso da ogni aspetto che involga libertà e coscienza. La naturalità dell’istinto, infatti, è «regola» cui l’animale presta necessario ossequio, non potendovi evadere: l’animale è sempre come dev’essere.

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Il tema andrebbe approfondito, ma anche in questo caso la sede non lo consente. 

Un tanto, comunque, rimanendo aderenti alla questione in disamina, impone di schiarire un aspetto il quale, anche se apparentemente parrebbe deporre contro la tesi qui sostenuta, in realtà ne convalida la fondatezza. 

Si tratta del tema inerente l’adozione.

Potrebbe infatti opinarsi che proprio la disciplina dell’adozione neghi la coessenzialità della procreazione alla genitorialità, cioè potrebbe opinarsi che proprio l’istituto – antichissimo – dell’adozione attesti l’assenza di una metafisica e di una ontologia della genitorialità (e della parentela) legate al fatto stesso del concepimento, onde si potrebbe essere genitori, assumendosene le connesse obbligazioni e la connessa responsabilità, oltre al connesso compendio di diritti, di potestà, di status, di doveri et coetera, anche senza avere generato o a prescindere dalla generazione allo stesso modo nel quale lo si è in virtù di questa.

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È vero che il c.d. genitore putativo, cioè l’adottante, è genitore e non ha generato; cioè egli è padre (o madre) dell’adottato, pur essendogli (o essendole) estraneo sotto il profilo biologico, onde ne porta la responsabilità senza avere dato luogo all’atto sulla quale essa si fonda. 

È vero anche, però, che egli non è padre (o madre) sic et simplicter, ma è, appunto, padre putativo. Si tratta pertanto, con riguardo alla genitorialità adottiva, di una genitorialità… secundum quid, come direbbero gli scolastici, vale a dire di una genitorialità la fonte della quale è formale e non naturale: la fonte della responsabilità genitoriale dell’adottante, infatti, alberga nel provvedimento giurisdizionale che dispone l’adozione a seguito dell’istanza presentata dall’aspirante genitore adottivo e a seguito dell’esperimento, con esito favorevole, dell’iter previsto. È altrettanto vero, poi, che l’adozione, esulando da un addentellato naturale relativo all’ordine biologico-genetico della parentela, non istituisce gli stessi vincoli familiari che istituisce la figliazione, per esempio in termini di diritto successorio, e a questo proposito basterà ricordarsi l’art. 567 co. II c.c. a mente del quale “i figli adottivi sono estranei alla successione dei parenti dell’adottante”.

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La genitorialità c.d. putativa, dunque, non è naturale ed è possibile per effetto di una c.d. fictio iuris, vale a dire per effetto di un istituto giuridico il quale tiene luogo a rapporti naturali e di diritto naturale che presentano (se e quando presentano), in casi specifici, profili di criticità. 

Ciò non significa che l’istituto in parola non sia giuridico in senso pieno e proprio, e non solo legale: esso è giuridico, cioè retto dal diritto e informato al diritto, infatti, in quanto risponde a concrete e obiettive esigenze della giustizia e in quanto si fa mezzo per realizzarla… sussidiariamente. Il concetto di fictio che ho adoperato per rendere ragione delle differenze rispetto alla figliazione naturale, allora, non allude a qualche cosa di artificioso o illegittimo, quanto piuttosto allude a questa natura sussidiaria dell’istituto in parola, vale a dire al fatto che esso interviene o può intervenire qualora la fisiologia dei rapporti tra genitori e figli, nel loro ordine naturale, sia per avventura impedita. Non si tratta, pertanto, di trasformare desideri in diritti soggettivi, né di assecondare volontà capricciose, né di costituire o istituire surrogati della famiglia o della figliolanza su basi arbitrarie, se così fosse le «adozioni» darebbero luogo a sostanziali iniuriae  e a un patente sovvertimento dell’ordine naturale delle cose, in primis dell’ordine dei rapporti di parentela. 

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Per quanto concerne l’istituto dell’adozione – dico istituto a ragion veduta, allora, ché non si tratta di una mera procedura – l’Ordinamento italiano appresta la nota disciplina sub L. 184/1983 ss. mm. ii.. 

Essa, dopo avere giustamente affermato all’art. 1 co. I che “il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”, aspetto che dà conto del riconoscimento di un ordine fisiologico nella figliazione, consente e prevede l’adottabilità dei “minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori” (art. 8 co. I) o “quando i minori si trovino presso istituti di assistenza pubblici o privati o comunità di tipo familiare ovvero siano in affidamento familiare” (art. 8 co. II). 

Ciò significa che la genitorialità putativa cui dà luogo l’istituto dell’adozione non è alternativa, ma appunto sussidiaria rispetto alla genitorialità naturale, ed essa interviene o può intervenire (per così dire adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam) sol quando quest’ultima difetti per l’impossibilità (o il rifiuto) dei titolari naturali di adempierne le obbligazioni connesse. Si tratta, quindi, con riguardo all’adozione, di un rimedio che l’Ordinamento appresta, per il bene del minore, il quale è concepito e strutturato a imitazione del rapporto genitoriale propriamente detto e il quale soccorre qualora il rapporto genitoriale propriamente detto (naturale) presenti nei suoi aspetti funzionali (naturali) profili di criticità tali da compromettere il bene stesso del figlio (minore). 

I genitori cc.dd. putativi, pertanto, assumono la responsabilità, le obbligazioni, i diritti e lo status proprii dei genitori naturali, o, meglio, come se fossero i genitori naturali, non in via alternativa, ma in loro difetto, quindi, come detto, in via sussidiaria. È ovvio che ciò risponda a una loro scelta libera, giacché la responsabilità della genitorialità non può essere imposta a nessuno, ma è altrettanto ovvio che la loro libera scelta, più precisamente la loro istanza di accedere all’istituto dell’adozione, non è causa dell’adozione stessa, ma presupposto lato sensu procedurale e soggettivo per la sua realizzazione: causa è lo stato di abbandono del minore e fine è il suo bene oggettivo, non la soddisfazione di un capriccioso e puerile desiderio di genitorialità degli adottanti. In termini morali si direbbe che non è il desiderio edonistico che dovrebbe spingerli all’adozione, quanto piuttosto lo spirito di carità.

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Il diritto privato romano, per esempio, conosceva due forme distinte di adozione, in virtù delle quali, come scrive Burdese, si verificava la “assunzione di un estraneo nell’ambito della familia”; esse erano l’adrogatio e l’adoptio propriamente detta e si differenziavano a seconda dello status dell’adottando: se egli fosse stato sui iuris, ricorreva la prima, se alieni iuris, la seconda. Non mi soffermo sul punto, anche perché sarebbe necessaria una digressione sopra la disciplina della patria potestas e sopra lo status del filius familias, rilevo, però, un aspetto di significativo interesse, che già il diritto romano faceva agio sul principio in virtù del quale “adoptio […] naturam imitatur [14]; vale a dire sulla sostanziale sussidiarietà dell’adozione rispetto alla genitorialità c.d. naturale e sulla sua disciplina plasmata a imitazione di questa.

In virtù di un tanto, allora, già il diritto romano correttamente statuiva, per esempio, che “minorem natu non posse maiorem adoptare placet” e nondimeno che “debet […] is qui sibi per adrogationem vel adoptionem filuim facit, plena pubertate, id est decem octo annis praecedere[15], proprio perché è nella natura del rapporto fra genitori e figli la maggiore età dei primi rispetto ai secondi e la loro piena pubertà, cioè la loro capacità fisica di generare.

La genitorialità adottiva, pertanto, proprio per rispondere alla sua intrinseca finalità – il bene dell’adottato – e proprio per rendere ragione della sua causa – l’abbandono del minore – non può che disciplinarsi secondo la regola propria di quella naturale e, come già ho detto, a imitazione di questa, così da offrire all’adottato un contesto il più vicino possibile a quello nel quale naturalmente egli avrebbe dovuto crescere e formarsi.

Non a caso già la citata L. 184/1983 prevede – fatti salvi i cc.dd. casi particolari sub art. 44 – che “l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni” (art. 6 co. I), per i quali non abbia avuto luogo “separazione personale neppure di fatto”, che “i coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare” (art. 6 co. II) e che “l’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando” (art. 6 co. III), tutti aspetti che ricalcano un ordine pressoché ideale intrinseco dalla figliazione naturale. Che poi quest’ultima, come già avvertito, possa avere luogo anche al di fuori da quest’ordine, ciò è pur vero, ma è altrettanto vero che si tratterebbe di eccezioni o di patologie.

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Considero questo punto di massimo rilievo non per la citazione variamente erudita, quanto piuttosto perché qui si condensa il senso stesso dell’adozione e, infondo, la conferma della tesi secondo la quale essa non nega, ma rafforza, la naturale, imprescindibile e insurrogabile fondazione della responsabilità genitoriale nel concepimento.

Concludo allora rilevando la totale irrazionalità, immoralità e antigiuridicità, sotto tutti i possibili profili di analisi, delle rivendicazioni – per esempio di quelle relative alla c.c. stepchild adoption all’interno cc.dd. coppie omosessuali – in forza delle quali si vorrebbe utilizzare lo strumento dell’adozione, in particolare la fattispecie prevista dall’art. 44 lett. b) co. I della L. 184/1983, per destituire di fondamento la naturalità del vincolo genitoriale e per istituire, in alternativa, se non proprio in opposizione, vincoli di fittizia genitorialità, al solo scopo di soddisfare discutibili desiderii di coloro i quali, per una ragione o per l’altra, non possono o non vogliono procreare secondo l’ordine naturale della procreazione stessa, condividendo con l’altro genitore la responsabilità di questa e adempiendone assieme le obbligazioni connesse. Tutto ciò, con buona pace di perbenisti e benpensanti, rappresenta di fatto una mercificazione dei figli e una patente, grave, violazione dei diritti spettanti ai «veri genitori», oltreché un elemento di disordine sul piano sociale e familiare lato sensu inteso. Qualora, poi, la cosa accadesse colla complicità di questi ultimi, essa darebbe conto di un livello di gravità ancora maggiore.

 

 

[1] Rinvio al mio studio sul tema: cfr. R. Di MarcoAutodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, passim, in particolare cap. IV.

[2] D. CastellanoIntroduzione alla filosofia della politica. Breve manuale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020, p. 151.

[3] Ricordo che secondo Kant il diritto rappresenta lo “insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà” (I. KantMetafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1970, pp. 34 e s). 

[4] Il riferimento è al noto “right to be let alone” della letteratura nordamericana. Cfr., per esempio,  S. Warren – L. Brandeis, The Right to Privacy, in Harvard Law Review, Harvard, The Harvard Law Review Association, 1890, Vol. IV, № 5, pp. 193 – 220.

[5] In particolare faccio rinvio a lavoro pubblicato sul tema dei cc.dd. nuovi diritti: cfr. R. Di MarcoDiritto e “nuovi” dirittiL’ordine del diritto e il problema del suo fondamento attraverso la lettura di alcune questioni biogiuridiche, Torino, Giappichelli, 2021.

[6] La terminologia usata irrigidirà qualche «perbenista» del linguaggio. Ne sono consapevole. Essa è – come si suole dire – una terminologia datata: essa appartiene, infatti, a un modo molto più schietto di definire le cose, a cominciare da quelle che hanno un rilievo giuridico e legale, rispetto a quanto l’attuale sensibilità considera opportuno, anzi… politicamente corretto. Così, per esempio, i «vecchi» figlii illegittimi diventano “naturali”, come se quelli legittimi fossero viceversa artificiali… E la potestà genitoriale, vecchia anch’essa, oggi, in esito alle novellazioni subite dal Codice civile (mi riferisco alla rubrica dell’art. 316) ,  diventa “responsabilità genitoriale”, come se l’assunzione della responsabilità potesse prescindere dall’esercizio della potestà, o, peggio, come se la «vecchia» potestà non implicasse, essa medesima, una responsabilità connessa al suo esercizio… Esigenze della comunicazione, dirà qualcheduno! Nella schiettezza, però, e non nel politically correct, vi è realismo e aderenza alla realtà: cioè la schiettezza del termine dà immediato conto di ciò che il termine stesso definisce, per quello che esso è in sé. Pane al pane e ladro al ladro, insomma, come recita il noto adagio. L’uso della dizione figlio illegittimo, per esempio, dà immediato conto della natura irregolare del suo concepimento, vale a dire del fatto che egli è stato concepito fuori dal matrimonio, quindi fuori da una condizione soggettiva del padre e della madre di lui regolata dal diritto e secondo il diritto… privato. Non si tratta di un giudizio sul figlio, il quale ovviamente non porta colpe; né, a rigore, si tratta di un giudizio sui genitori in quanto tali, piuttosto si tratta di una qualificazione obiettiva del fatto. Se si vuole, aristotelicamente, si tratta di un giudizio sul fatto, dato che la parola – come appunto insegna Aristotele – è giudizio, perché essa definisce ciò che è per quello che esso è. Fuori da questi binarii del linguaggio si fa un uso meramente ideologico (non etimologico), dunque strumentale.    

[7] D.23.2.1.

[8] In senso difforme sembrerebbe andare l’Ordinamento tedesco nel quale si è profilata la possibilità di istituire per norma la c.d. comunità responsabile quale surrogato elettivo della «famiglia». Essa comporterebbe, infatti, “il riconoscimento della parentela elettiva, superando, se desiderato, quella di sangue e andando oltre la stessa istituzione matrimoniale” (15 Febbraio 2022, La nuova famiglia tedesca. La comunità responsabile, in Abba news. Notizie senza confine, url: https://www.abbanews.eu/mondi-e-orizzonti/comunita-responsabile/ ) così evaporandosi ogni addentellato oggettivo nell’ambito di un diritto di famiglia il quale nulla ha più del diritto e nulla ha più della famiglia. Il primo sostituito dal libero incontro delle volontà arbitrarie, la seconda dalla condivisione emotiva di un progetto purchessia.

[9] La possibilità di partorire «in incognito», prima del 2000, era già entrata a fare parte dello ius positum, giacché l’art. 2 della L. 127/1997 dispose la modifica dell’art. 70 del R.D. 1238/1939 prevedendo che “la dichiarazione di  nascita è resa indistintamente da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” e ciò – evidentemente – in piena coerenza con le indicazioni della Corte costituzionale la quale, qualche anno prima, aveva affermato che “deve […] rilevarsi che qualunque donna partoriente, ancorché da elementi informali risulti trattarsi di coniugata, può dichiarare di non volere essere nominata nell’atto di nascita” (27 Aprile 1994, Corte costituzionale, Sentenza № 171, Presidente Pescatore, Relatore Santosuosso) relativo al di lei figlio.

[10] 10 Giugno 2014, Corte costituzionale, Sentenza № 162, Presidente: Silvestri, Redattore: Tesauro.

[11] M. S. BoezioLiber de persona et duabus naturis. Contra Eutychen et Nestorium, in J.-P. Migne (a cura di), Patrologiæ. Cursus completus [Patrologiae latinae tomus 64], Turnhout, Brepols, 1969, LXIV, 1343.

[12] A. Rosmini SerbatiFilosofia del diritto, Padova, C.E.D.A.M., 1967, I, p. 192.

[13] 22 Novembre 2017, Corte costituzionale, Sentenza № 272, Presidente: Grossi, Redattore: Amato.

[14] I., 1, 11, 4.

[15] Ibidem.