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La santità degli angeli

Annunciazione, Beato Angelico
Annunciazione, Beato Angelico

Perché parlare di angeli

Il 29 settembre la Chiesa Cattolica festeggia la festa dei santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Dietro a questi tre nomi, i soli esplicitamente citati nella Scrittura, possiamo scorgere le miriadi di angeli la cui corte è costante rendimento di gloria a Dio. Il dato davvero straordinario è che questi nostri fratelli, sotto certi aspetti così alieni da trascendere ogni nostra fantasia, condividono con noi la comunione con il Signore al punto da esserci compagni nella preghiera e nella lode.

La ricchezza che si cela dietro l’apparente paradosso di una fratellanza che non nega la profonda alterità reciproca non è sfuggita ad un finissimo teologo e pensatore come san Tommaso d’Aquino. Egli, non a caso noto anche come Dottore Angelico, dedicò non poco tempo allo studio di queste straordinarie creature, componendo sull’argomento, nella Summa Theologiae, un corposo trattato[1]. Qui l’Aquinate analizza ed espone, con la consueta chiarezza e precisione, natura, atti e stato delle creature spirituali, prendendo in considerazione sia la condizione di coloro che rimasero fedeli a Dio sia di quelli che il Dragone trascinò giù dal Cielo[2].

Diciamolo francamente: a noi cristiani di oggi simili elucubrazioni, per quanto razionalmente ben fondate, appaiono un tantino frivole. Anche senza negare la veridicità delle conclusioni, il nostro animo profondamente pratico ci porta a domandarci quale utilità possa avere comprendere delle creature di cui a malapena c’interessa conoscere il grado d’influenza che possono esercitare su di noi. Implicitamente pensiamo il nostro rapporto con gli angeli analogo a quello che ci lega all’impiegato di un ufficio: non c’interessa la sua storia personale, né la sua vita in quanto tale, ma solo quegli elementi che, utili o dannosi che siano, c’impediscono d’ignorarlo.

San Tommaso, nei suoi scritti, replica indirettamente in due modi a questa visione delle cose: da un lato comprendere gli angeli ci aiuta a capire meglio la creazione che, in quanto opera di Dio, cela parte della sua bellezza anche nella profonda unità che la caratterizza; dall’altro conoscere queste creature, a noi superiori e quindi capaci non solo di influenzarci ma anche di esemplificare alcune nostre caratteristiche, è un importante modo per comprendere anche noi stessi.

 

Il peccato più antico

Sfogliando distrattamente il Compendio alla Somma Teologica realizzato da fra Giuseppe Barzaghi, testo utilissimo per chi volesse approcciare l’opera dell’Aquinate senza perdersi nella sua mole, mi sono imbattuto in un passo che costituisce un buon esempio dell’utilità di cui parlo.

Riassumendo il terzo articolo della questione 63 della I Pars, il mio esimio confratello scrive: «Il demonio ha desiderato di essere Dio non secondo uguaglianza: perché la sua intelligenza ne capiva l’evidente assurdità; ma secondo somiglianza: cioè secondo un aspetto che comunque è riservato a Dio, perché ha desiderato come fine ultimo la beatitudine a lui connaturale, distogliendosi da quella soprannaturale, che si ottiene solo con la grazia di Dio»[3].

Come ogni riassunto, anche questo risulta ben fatto in quanto, con criterio, sacrifica la completezza espositiva a favore di una chiarezza evidente solo a chi è già inserito nella materia. Detto in altre parole, è normale che chi non conosce, perlomeno un minimo, il pensiero dell’Aquinate abbia difficoltà a capire questo testo. Proviamo quindi, con l’aiuto di san Tommaso stesso, a comprenderne il contenuto.

Il Dottore Angelico si chiede se il diavolo abbia, peccando, desiderato o meno essere come Dio[4]. Il santo domenicano risponde affermativamente e fonda tale affermazione su di un ragionamento che qui provo ad esplicitare. Si può desiderare di essere come qualcun altro in due modi: sostanzialmente o accidentalmente. Nel primo caso l’individuo aspira ad essere non simile all’altro, ma esattamente come lui, condividendone la natura; sarebbe come, per esempio, se io aspirassi non ad assomigliare ad un famoso attore ma ad essere lui in tutto e per tutto. Una tale propensione appare a san Tommaso impossibile, nell’angelo, per due ragioni: prima di tutto perché la sua intelligenza, non essendo offuscata, nelle sue conclusioni, dalle passioni proprie delle creature corporee, non può errare nel comprendere quanto impraticabile sia una simile tensione; secondariamente perché, a detta dell’Aquinate, è del tutto innaturale desiderare essere altro da sé.

Proviamo un attimo a spiegare quest’ultima affermazione calandola nella realtà umana: se Mario, uomo basso di statura, desiderasse essere in tutto e per tutto come Andrea, uomo di alta statura, egli, realizzando il suo desiderio, smetterebbe di essere se stesso ed inizierebbe ad essere Andrea. San Tommaso afferma che «C’è infatti in ogni cosa la tendenza naturale a conservare il proprio essere: […]»[5]; ciò implica che, nel nostro esempio, Mario in realtà non desidera essere Andrea, ma rimanere Mario con un’altezza similare a quella di Andrea.

Questo istinto alla conservazione del proprio essere, questa passione, potremmo dire, per la propria natura, è un elemento che, per l’Aquinate, condividiamo con gli angeli; da ciò egli conclude che il diavolo, anche se avesse potuto ingannare se stesso al punto da desiderare di essere sostanzialmente come Dio, non avrebbe perseguito questo desiderio semplicemente per amore di se stesso.

Appare a questo punto chiaro che il demonio desiderò essere come Dio non secondo la sostanza ma secondo un accidente. Detto in parole povere, egli volle rimanere se stesso con un carattere proprio di Dio. Secondo l’Aquinate si può desiderare tale forma di somiglianza in due modi: «Primo, rispetto a quelle perfezioni nelle quali si è chiamati ad assomigliare a Dio. […]. Secondo, uno può desiderare di essere simile a Dio rispetto a una perfezione in cui non è ammessa tale somiglianza:[…]»[6].

Facciamo qualche esempio: il nostro Mario, oltre che basso, è anche un cristiano devoto; secondo la prima forma di somiglianza, egli desidera partecipare alla Sapienza di Dio ed essere, a Sua immagine, sapiente egli stesso. Tale desiderio è lecito e giusto, poiché la Sapienza è una caratteristica di Dio cui l’uomo è chiamato. Se tuttavia Mario, insuperbito, desiderasse quella totale autonomia della volontà che è propria solo del Signore, egli aspirerebbe ad una perfezione non consona al suo stato creaturale e quindi vorrebbe, in questo senso, essere come Dio.

San Tommaso fa rientrare il peccato degli angeli in questa forma di superbia: secondo l’Aquinate essi desiderarono riporre la propria speranza di vita beata non nella Grazia di Dio, ma nelle loro sole forze; così facendo abbassarono, per così dire, il loro orizzonte all’interno dei limiti delle loro doti naturali che, per quanto grandi, erano certo infinite come quelle dell’Onnipotente.

 

Paura di Dio

Questa brevissima analisi non vuole certo esaurire la questione e chi scrive si riterrà soddisfatto anche solo di non aver commesso errori o leggerezze. Credo comunque che consenta, a noi comuni discepoli, di comprendere una cosa: il primo peccato che una creatura mai commise, l’originale atto di superbia, è legato al desiderio di possedere una caratteristica del Signore che mai sarà propria della creatura: l’autonomia. Nel momento in cui degli esseri razionali creati, come noi o gli angeli, desiderano possedere un bene autonomamente da Colui che è Sommo Bene, cadono nella sottile trappola della superbia.

Suppongo che il lettore attento si sia ben reso conto di quanto questo discorso, apparentemente così distante dalla nostra quotidianità, sia invece pregnante per ognuno. Se proviamo a pensare ad un qualsiasi peccato, piccolo o grande che sia, ci renderemo subito conto di come il bene cui l’azione peccaminosa mira non deve la sua malvagità alla sua intrinseca natura, bensì al fatto di essere concepito e ricercato indipendentemente dalla Volontà di Dio. Per esempio, l’atto sessuale è, in se stesso, buono e santo, ma diviene fonte di colpa quando desiderato indipendentemente da quell’ordine d’amore e responsabilità nel quale il Signore l’inserì.

In un certo senso il peccato è quindi una sorta di truffa: il peccatore desidera utilizzare un bene elargitogli da Dio senza considerare le ragioni e le condizioni per le quali Egli l’ha concesso. La domanda che allora ci viene spontanea è la seguente: perché l’autonomia totale, questa perfezione che è propria solo di Dio e mai della creatura, ci appare invece tanto importante da ottundere ogni capacità di giudizio?

Posso solo tentare, in questa sede, di proporre una risposta, rimettendomi a chi ne sa più di me per verificarne la veridicità. Se è vero che l’autonomia è una caratteristica positiva, tanto che nei limiti della condizione umana è giusto ricercarla e preservarla, allora è possibile che chi pecca si convinca di non poter essere davvero felice senza di essa. Negli angeli, non soggetti alle passioni, questa conclusione potrebbe assumere tratti razionali; negli uomini invece credo che si tramuti rapidamente in “paura di Dio”.

L’uomo, come ogni animale, teme ciò che considera un pericolo e reagisce naturalmente o con l’attacco o con la fuga. Nel momento in cui ci convinciamo che l’autentica felicità, ciò cui tutti, in qualche modo, miriamo, non potrà mai essere raggiunta senza l’autonomia completa, allora il Signore, che ci chiama ad una relazione d’amore asimmetrica, diviene il nemico, Colui a causa del quale saremo sempre infelici.

Personalmente credo che l’attuale società occidentale abbia esplicitato questa perversa concezione molto più di quanto fecero i nostri antenati. Per molte persone l’invito di Gesù Cristo a compiere la Volontà del Padre[7] appare un’evidente promessa di tristezza, una privazione di gioia che, al limite, solo la vaga speranza di una vita futura può parzialmente compensare. Per questo forse molti declinano l’invito dei cristiani con lo stesso imbarazzo con cui si allontana un venditore petulante, ossia opponendo il rifiuto non tanto all’oggetto proposto quanto alla convenienza della sua acquisizione.

La realtà tuttavia è ben diversa e presenta la vera felicità come il prodotto di un’umiltà capace di accogliere la nostra creaturalità fino in fondo. Solo chi, come san Michele e gli altri santi angeli, riesce a concepire e amare i propri limiti potrà, in Dio, elevarsi alla massima beatitudine attraverso il filiale affidamento a Colui che, unico, è illimitato.

 

[1] Cf san Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica I Parte (a cura dei Frati Domenicani), ESD, Bologna 2014, qq. 50-64.

[2] Cf Ap 12, 3-4.

[3] Giuseppe Barzaghi, La Somma Teologica di san Tommaso d’Aquino in compendio, ESD, Bologna 2009.

[4] Cf Summa Theologiae I Pars, q. 63, a. 3.

[5] Ivi, resp.

[6] Ibidem.

[7] Cf Mt 7, 21 e 12, 50.