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Modifica e cessazione della lex canonica

Marina di Ravenna
Ph. Ermes Galli / Marina di Ravenna

1. Abrogazione, deroga e dintorni

2. La legge dubbia

3. La legge non accettata dal popolo

4. Il ius remonstrandi

5. La cessazione del fine

 

In diritto italiano, salvi i casi di leggi temporanee, eccezionali o legate a specifici presupposti esterni come lo stato di guerra, la legge cessa di esistere soltanto per abrogazione o declaratoria di illegittimità costituzionale. Non così in diritto canonico, dove si suol distinguere tra le cause di cessazione ab extrinseco e ab intrinseco.

 

1. Abrogazione, deroga e dintorni

Mi sembra opportuno affrontare il tema partendo della terminologia.

Il Codice del 1983 parla di abrogatio per indicare l'abrogazione totale in tutte le sue forme (implicita, esplicita o “secca” cioè senza sostituzione con una nuova disciplina), mentre impiega derogatio per i vari casi di abrogazione parziale, compresa quella che anche noi chiameremmo “deroga”.

Si tratta di una dicotomia di ascendenza romanistica,[1] che tuttavia si è sempre trovata a concorrere - nella pratica e anche nel lessico normativo - con una quadripartizione almeno altrettanto antica, [2]secondo cui, poiché rogare legem significa “approvare un atto legislativo secondo la debita procedura” o rogatio, abrogatio è la sua eliminazione secca e totale, derogatio quella secca ma parziale, obrogatio la novella o comunque la modifica da parte della legge successiva.[3]

Infine viene la subrogatio, rispetto a cui il discorso si fa un tantino più complesso: a rigore, infatti, essa consiste nella semplice aggiunta di altre disposizioni, quindi non dovrebbe rientrare nella vera e propria successione di leggi nel tempo; e forse per questo motivo il termine non viene mai impiegato dal Digesto in relazione alle leggi.[4]

Tuttavia, perlomeno in ambito canonico, accanto all'uso originario[5] se n'è sviluppato uno traslato e più ampio: siccome il diritto delle Decretali è, in buona sostanza, un diritto sviluppatosi a suon di interventi su casi particolari, accadeva con una certa frequenza che il nuovo responso pontificio “aggiungesse” al corpus preesistente un'eccezione, o un chiarimento che in realtà andava a modificare l'ambito di applicazione di una regola, e così via; donde l'impiego di subrogatio anche per indicare le sostituzioni implicite di una legge (o più) da parte di una successiva, mentre obrogatio tende a specializzarsi e restringersi a quelle operate, quantomeno, in forza della clausola abrogativa inserita nel nuovo atto normativo.[6]

In effetti – e qui il senso originario di subrogatio va tenuto presente – si può affermare che, in diritto canonico, vale tuttora, almeno a livello teorico, la presunzione che le leggi nuove si limitino ad aggiungersi alle precedenti, senza per questo sostituirle e neppure modificarle: la si trova sottesa ai cann. 20 e 21, la cui formulazione non potrebbe spiegarsi altrimenti.

Can. 20 - Lex posterior abrogat priorem aut eidem derogat, si id expresse edicat aut illi sit directe contraria, aut totam de integro ordinet legis prioris materiam; sed lex universalis minime derogat iuri particulari aut speciali, nisi aliud in iure expresse caveatur.

Can. 21 - In dubio revocatio legis praeexistentis non praesumitur, sed leges posteriores ad priores trahendae sunt et his, quantum fieri potest, conciliandae.

A partire almeno della cost. Licet Romanus Pontifex di Bonifacio VIII (VI.1.2.1),[7] si è ammesso che la nuova legislazione pontificia possa modificare la precedente anche senza farne menzione nominativa, e ciò sul fondamento di una fictio di conoscenza di tutto lo scibile giuridico da parte del Papa stesso; mentre rispetto al diritto particolare (leggi proprie di una data Chiesa o comunità, consuetudini, privilegi) vige una presunzione generale di ignoranza e di non-volontà di intervenire.

Tuttavia, proprio in considerazione della summenzionata natura degli interventi normativi papali, ha temperato il principio bonifaziano mediante la presunzione che si tratto, comunque, di semplici aggiunte, a meno che non vi sia una manifestazione di volontà ulteriore: per questo, in concreto, tuttora le nuove leggi sono sempre munite di apposita clausola derogatoria, “Contrariis quibuscumque non obstantibus” o similare. Se poi dovessero intervenire anche sul diritto particolare, alla clausola si aggiungerà “...etiam speciali mentione vel derogatione dignis”; e già si è visto che, per abrogare le consuetudini ab immemorabili, occorre analoga formulazione specifica.

Si distingue, pertanto, tra abrogazione esplicita o nominativa ed espressa, che è quella compiuta mediante la clausola finale: in questo senso va inteso l'avverbio expresse del can. 20.[8]

Se poi la clausola mancasse, l'effetto abrogativo opera soltanto tra leggi direttamente contrarie, perché in tal caso la seconda sarebbe proprio inapplicabile se non abrogasse la prima:[9] è la seconda ipotesi contemplata dal canone. In entrambi i casi, si tratta di abrogazione che discende dalla manifestazione di volontà espressa dal legislatore nel nuovo atto, vuoi tramite la clausola vuoi per il solo fatto di aver conferito forza di legge al testo sopravveniente.

La terza ipotesi, non per caso, è distinta dalle prime due mediante una virgola: si tratta del riordino integrale di una materia, caso non considerato dagli autori di diritto comune ma inserito, per ovvi motivi, in sede di elaborazione del CIC17.

In questo caso, infatti, si prescinde dalle clausole e non ha senso tentar prima di conciliare la nuova disciplina con la vecchia: il riordino elimina in automatico sia le norme generali, sia gli eventuali privilegi, norme locali e consuetudini particolari che le presupponevano.[10]   

In generale, tuttavia, l'abrogazione non si presume (can. 21) ed è considerata res odiosa perché il mutamento delle leggi, di per sé, va sempre considerato un male; dunque, per quanto possibile, l'interprete deve evitarla o contenerla, rispettando però sempre il significato delle parole impiegate dal legislatore.[11]

Ogniqualvolta sia possibile, la nuova legge dev'essere armonizzata con l'antica (e non viceversa, si badi bene). Questo può comportare anche conseguenze in malam partem, ad es. se la prima legge prevede una determinata pena per il tal delitto, la seconda invece una diversa, e l'antinomia è risolta nel senso del cumulo di sanzioni (purché tra loro compatibili);[12] non si tratta, però, di una disciplina rivolta alla tutela dei singoli, bensì del valore della stabilità normativa.

Stante l'impossibilità di raffronti testuali, possono sorgere problemi più complessi quando si tratti dell'abrogazione di una legge da parte della consuetudine; ma, in definitiva, si tratterà di verificare la condotta concretamente tenuta, che prevarrà su qualunque disposizione contraria, sempreché soddisfi i requisiti legali; e dunque occorrerà impostare un giudizio sul fatto.

Infine, si parla talora di irritatio per indicare l'abrogazione della legge da parte di un'autorità superiore. Merita almeno un cenno, perché l'ultima riforma della Curia Romana (Cost. Ap. “Pastor Bonus”, art. 158) ha previsto che il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi compia, su richiesta degli interessati, un giudizio di accertamento sulla conformità o meno di leggi o decreti generali, posti da un legislatore inferiore al Papa, con la disciplina universale della Chiesa; il procedimento, tuttavia, non mette capo ad una vera e propria irritatio ossia annullamento (irritum è il contrario di ratum), giacché il Dicastero, “esaurendo i tentativi [di conciliazione] previsti dal can. 1733 §1”, che per la verità concerne i ricorsi contro atti amministrativi singolari, “ordinerà la modifica della legge previa approvazione pontificia”.[13]

Tuttavia, è chiaro che l'obbligatorietà della legge, nel frattempo, dovrà cessare almeno per chi si è rivolto al Pontificio Consiglio.

 

2. La legge dubbia

In diritto canonico, esistono numerose ipotesi in cui l'obbligo morale di obbedire alla legge cessa per un singolo pur restando fermo per gli altri: si va dalla dispensa o dal privilegio all'esimente del grave incomodo, e fors'anche all'esito favorevole del ricorso ex art. 158 PB, appena visto, se non gli si debba piuttosto riconoscere efficacia erga omnes. In questa sede, tuttavia, ci concentreremo sui casi in cui la cessazione è generale.

Nondimeno, il caso della legge dubbia sta, per così dire, sulla linea di confine tra morale e diritto e presuppone la massima tradizionale dei moralisti Lex incerta nequit certam inducere obligationem. Attualmente, è contemplato al can. 14:

Can. 14 - Leges, etiam irritantes et inhabilitantes, in dubio iuris non urgent; in dubio autem facti Ordinarii ab eis dispensare possunt, dummodo, si agatur de dispensatione reservata, concedi soleat ab auctoritate cui reservatur.

Il dubium iuris è sia quello sull'interpretazione testuale della legge, che risulti insolubile anche una volta impiegati i vari mezzi previsti dal Codice, sia quello sulla sua stessa esistenza: ipotesi oggi di scuola, la lex insufficienter promulgata era una realtà concreta in tempi in cui le copie autentiche potevano non arrivare, i banditori neppure, e sulla novità si avevano soltanto voci confuse.

Invece, il dubbio sulla cessazione della legge è risolto dal can. 21, nel senso della permanenza della legge antica; analogamente, per ogni altra res odiosa, il dubbio va risolto in favore del soggetto gravato (si tratti di norme penali, irritanti, inabilitanti o che limitano l'esercizio dei diritti: cfr. can. 18). 

Fuori di tali ipotesi, però, nei limiti in cui sono oggettivamente dubbie – meglio ancora se a ritenerle e dichiararle tali è il consenso della dottrina[14] - le leggi non obbligano e vanno, pertanto, considerate tamquam non essent. Si tratta, all'evidenza, di uno stato di cose eccezionale e precario, che dovrebbe essere risolto da un celere intervento legislativo, anche soltanto per dissipare la nube di incertezza; tuttavia, almeno quando si tratti di una legge nuova, in caso di inerzia soccorre anche un'altra causa di cessazione, la lex non acceptata a populo (v. oltre), mentre, se il dubbio è sopravvenuto per qualunque ragione e non è risolto dai cann. 18 o 21, la situazione giuridica finirà per stabilizzarsi almeno grazie ad una consuetudine, purché se ne diano i presupposti (e in particolare l'animus iuris inducendi).

In ogni caso, la forza obbligante della legge dubbia viene meno a tempo indeterminato, fino a quando un atto esterno non faccia venir meno il dubium iuris.

Invece, il dubium facti verte o sull'esistenza dei fatti contemplati dalla norma in un caso particolare, oppure – secondo alcuni[15] – sulla possibilità di farli o meno rientrare nell'ambito di applicazione della legge (avremmo quindi dubium iuris per la legge ambigua, dubium facti per la legge vaga).

È comunque certo che la soluzione prevista dal canone si applica in entrambe le ipotesi: supposto che l'obbligo vi sia, si può accordare una dispensa, anche quando si tratti di casi riservati ad un'autorità superiore (quindi regolarmente alla S. Sede), purché in tal caso la prassi sia orientata alla concessione della grazia. Non abbiamo, quindi, una cessazione della legge erga omnes, bensì un potere generale di farla cessare in casi particolari, valutando l'incertezza come giusta causa, possibile e sufficiente, ma che non obbliga a dispensare: sarebbe una contraddizione in termini, avremmo in realtà un'esenzione ope legis.

 

3. La legge non accettata dal popolo

La fondazione divina della Chiesa e il fatto che i due uffici capitali di diritto divino, Papa e Vescovo, richiedano necessariamente il Sacramento dell'Ordine[16] impediscono anche solo di pensare, in ambito ecclesiastico, ad una sovranità popolare propriamente detta.

Tuttavia, in un contesto come quello medioevale, caratterizzato da strutture amministrative assai fragili, da un diritto scritto (civile, ma anche canonico) spesso lontanissimo da ciò che concretamente si praticava, nonché da un senso vivissimo e per così dire imperativo di adeguamento alla realtà concreta, non fa meraviglia che siano sorte teorie che facevano dell'accettazione delle leggi da parte del popolo un elemento costitutivo delle stesse, o almeno una fase necessaria all'integrazione dell'efficacia (come oggi diremmo), o comunque un quid estrinseco che conferiva alla lex particolare stabilità.

E perlomeno quest'ultima tesi poteva contare sul sicuro sostegno di Graziano in persona.[17]

L'esigenza dell'acceptatio o receptio legis come condizione necessaria della sua efficacia è stata sostenuta soprattutto dai conciliaristi, nell'ambito di una più generale concezione “corporativa” della Chiesa, e in questo senso la sua sconfitta definitiva si è consumata al Concilio Vaticano I, che, definendo come dogma il carattere supremo dell'autorità del Papa, ha escluso tanto un potere di veto in capo a chicchessia, popolo incluso, quanto un'ipotetica superiorità dell'insieme “Papa + popolo” (o “Papa + Vescovi”, ossia Concilio, dove i Vescovi potrebbero anche essere visti come rappresentanti dei loro rispettivi popoli).

Tuttavia, già molto prima della definizione conciliare, si era trovato il modo di salvare l'auctoritas di Graziano elaborando una teoria di segno inverso: non, quindi, l'accettazione come elemento necessario perché la legge obblighi, bensì la mancata accettazione come causa che può (eventualmente e con il tempo) privarla di forza obbligante.

Va premesso che la teoria politico-costituzionale della Seconda Scolastica, e di Suárez in particolare, ritiene che il titolare originario del potere politico sia la comunità, ossia ogni insieme determinato di uomini organizzati in corpo politico, che poi storicamente l'ha attribuito al princeps o tenuto per sé; tuttavia, questo potere deriva dal consenso generale soltanto nel senso che non si può, contemporaneamente, voler formare un corpo politico e non volere il mezzo necessario ad assicurargli, se non altro, l'unità di direzione.

Né i singoli né una moltitudine radunata ma non organizzata posseggono il potere di costituire pene o di obbligare in coscienza; quindi occorre concludere che siffatti poteri provengono da Dio, non mediante una concessione speciale, ma come parte integrante della creazione dell'uomo quale animal politicum: lo dimostra la loro stessa necessità per l'esistenza del corpo politico, a sua volta – aristotelicamente – necessario, se non alla sopravvivenza stessa, certo alla piena esplicazione delle potenzialità umane.

La volontà dei singoli determina, quindi, l'assetto del corpo politico e lo chiama ad esistenza; a quel punto il potere deriva da Dio in automatico, senza che i singoli possano in alcun modo evitarlo.[18] Rispetto a tale quadro, però, la Chiesa si distingue perché è nata per uno speciale intervento di Dio: gli uomini non hanno deciso sponrtaneamente di associarsi, ma sono stati convocati (ek-kaléo, ekklesía) e, semmai, spontanea e solo la loro risposta; Dio li ha dunque chiamati ad aderire, in sostanza, ad un progetto di societas già pronto, inalterabile, che prevedeva ab origine l'attribuzione diretta del potere direttamente da Cristo al Pontefice,[19] lasciando invece alla determinazione umana i modi in cui la persona del Papa pro tempore dev'essere scelta e come egli possa comunicare il proprio potere ad altri.[20]   

Nonostante queste importanti differenze, il nostro tema è trattato allo stesso modo per entrambe le società perfette.

La lex sufficienter promulgata incomincia ad obbligare dal momento in cui cessa la vacatio legis e, perciò, chi non la osserva commette peccato; tuttavia, si danno tre eccezioni, rispettivamente per la legge ingiusta, quella giusta ma troppo gravosa e quella che (giusta o meno) di fatto non viene osservata dalla maggior parte della comunità locale.[21]

Nel caso della legge troppo gravosa, ben si comprende che venga giudicata tale dalla maggior parte dei sudditi interessati e non accettata per questo motivo, dove l'esigenza di evitare un danno scusa dal peccato (benché Suárez sottolinei che la cosa migliore sarebbe ricorrere al princeps e, nel frattempo, rispettare la legge, dato che per com'è formulata l'ipotesi non si sta parlando di una sua ingiustizia, a meno che non si possa presumere che la speciale gravosità fosse ignota al legislatore); se però non si dà né questa ragione né alcun'altra per non accettarla, e tuttavia di fatto la maggior parte del popolo non osserva la nuova legge, senza dubbio i primi che l'hanno rigettata e i loro imitatori immediati hanno commesso peccato,[22] ma una volta che il fenomeno si è radicato subentra la presunzione che il princeps non voglia obbligare proprio le persone di Tizio o di Caio, anche quando la maggioranza non segue la legge, visto che la legge è ordinata al bene comune e non privato; quindi il peccato cessa.

Si badi che non cessa immediatamente l'obbligo, ma si è scusati dalla sua inosservanza; resta però, in capo al princeps, il diritto di punire i trasgressori e imporre il rispetto della propria volontà.

Se tuttavia, ad onta degli sforzi così profusi, la maggioranza perseveri nella non accettazione per un lasso di tempo notevole, allora cessa anche l'obbligo, perché subentra la presunzione che il princeps non intenda obbligare a prezzo di un rigore eccezionale.

Per la precisione: se egli è consapevole dell'inosservanza protratta e la tollera, basta che gli atti di inosservanza siano tanti frequenti e numerosi da dare la certezza morale che il legislatore vi consente; se invece egli la ignora, come in genere è probabile, la sentenza comune richiede, affinché cessi l'obbligo, che la non accettazione si protragga per dieci anni almeno, con l'avvertenza che, se nel frattempo la comunità mutasse avviso e cominciasse invece ad osservare la legge, questa riacquisterebbe tutta la propria forza senza bisogno di nuovi atti di volontà del legislatore.

Infine, se egli reagisce contro l'inosservanza, è chiaro che nessuna presunzione può prevalere circa la verità dei fatti... e tuttavia non si presume che egli voglia insistere anche oltre il decennio, perché ciò implica un rigore eccezionale e di scarsa utilità.

Il limite temporale, dunque, in questo caso serve ad interpretare i casi di reazione iniziale seguita da successiva graduale desistenza, ma anche a segnalare al legislatore stesso una soglia oltre la quale l'insistenza diventerebbe irragionevole.[23]

In situazioni del genere, per lo più si trova una soluzione di compromesso, che può consistere nella modifica della disciplina oppure in una lex tolerans, che, tenendo ferma la nuova legge con il relativo giudizio di utilità per il bene comune, esoneri questo o quel gruppo di renitenti dall'obbligo, a certe condizioni, vuoi in vista di un loro maggior bene particolare, vuoi più spesso semplicemente ad maiora mala vitanda.

Un esempio moderno di lex tolerans è stata, a mio parere, la Lettera circolare Quattuor abhinc annos (3 ottobre 1984), emanata dalla Congregazione per il Culto Divino ma nella sostanza voluta dal Papa, con cui, dinanzi al persistente fenomeno di rifiuto della riforma liturgica da parte di alcuni gruppi, si è accordata ai Vescovi la facoltà di conceder loro, a determinate condizioni piuttosto restrittive, la celebrazione della S. Messa secondo il Messale anteriore, ivi detto anche “rito tridentino”.[24] In assenza di nuovi provvedimenti, si potrà anche avere una vera e propria abrogazione della lex non acceptata da parte di una consuetudine contra legem, che però, per esser tale, non dovrà consistere semplicemente nella continuata osservanza di una legge anteriore, ma contenere almeno un qualche elemento differenziale, praeter o secundum (priorem) legem.

Infine, ma non da ultimo, va notato che né il Codice del 1917 né quello del 1983 contemplano il caso della lex non acceptata, probabilmente perché attiene soprattutto all'ambito morale, è di applicazione piuttosto rara e costituisce uno di quei rimedi la cui esistenza non va pubblicizzata troppo.

Tuttavia, che continui ad avere diritto di cittadinanza – nonché ad applicarsi, se necessario – appare pacifico in dottrina.[25]

 

4. Il ius remonstrandi

Va forse premesso che questa denominazione, sebbene entrata nell'uso corrente, è impropria, perché descrive in termini di diritto soggettivo quella che costituisce, semmai, una prerogativa annessa ad un ufficio ecclesiastico, precisamente l'ufficio vescovile.

Simile per molti versi alla non accettazione, anche per il fatto di non essere prevista dal diritto codificato ma ritenuta tuttora in vigore,[26] la remonstratio o supplicatio muove dal presupposto che le leggi universali, soprattutto in ambito ecclesiastico, possano esser giuste nella maggior parte dei casi e, tuttavia, inopportune in un particolare territorio, per particolarità di fatto, consuetudini locali molto diverse o altre ragioni che, per il loro carattere locale, si presumono ignorate dalla Sede Apostolica.[27]

Per questo motivo, la dottrina – estendendo previsioni del Corpus Iuris Canonici in materia di rescritti papali e difficoltà nella loro esecuzione[28] – ha attribuito ai Vescovi,[29] come responsabili del buon governo nelle loro rispettive Diocesi, il potere di ricorrere al Papa, sottoponendogli le ragioni per cui nel loro territorio la tal legge è inopportuna, e intanto sospenderne l'osservanza. In assenza di una risposta da Roma, la remonstratio si intende accolta e l'obbligatorietà della legge cessa a tutti gli effetti, beninteso solo per i luoghi i cui Vescovi abbiano formulato la supplica o rimostranza che sia.[30]

Mentre è stata respinta la tesi secondo cui tutte le leggi emanate dalla Sede Apostolica dovrebbero essere accettate dal Sinodo diocesano, quasi che esso possedesse un potere di exequatur,[31] questa facoltà (che si può anche considerare un dovere)[32] è stata ritenuta utile al buon governo della Chiesa nel suo insieme e, anzi, ha attirato una certa attenzione da parte della dottrina, a partire dal saggio cui deve il nome contemporaneo di ius remonstrandi.[33]

Va peraltro precisato che l'ambito di applicazione consentito è circoscritto al solo diritto umano, mentre i tentativi più recenti di rivitalizzazione dell'istituto hanno riguardato il diritto divino, o quantomeno verità insegnate dal Magistero come irreformabili: è il caso della proposta, avanzata in Belgio nel 1994, all'indomani del documento che ha ribadito che la Chiesa non ha il potere di conferire alle donne l'ordinazione sacerdotale o vescovile, di impiegare la remonstratio per sospendere l'efficacia di tale Lettera Apostolica... e procedere con tali ordinazioni.

Facile obiettare che la remonstratio può, semmai, preservare uno status quo ante, non certo accordare il diritto di fare qualcosa che non si faceva neppure prima.

La proposta, comunque, non ha avuto seguito.[34]

Più in generale, non è possibile impiegare quest'istituto per sospendere l'efficacia e l'obbligatorietà di atti magisteriali, anche quando non si tratti di Magistero infallibile, poiché rispetto alla dottrina non può darsi questione di particolarità locali legittime, oltre al fatto che iniziative del genere da parte dei Vescovi darebbero facilmente scandalo.[35]

Sono inoltre escluse le materie dov'è più forte la preoccupazione per l'unità e minore lo spazio lasciato alle consuetudini particolari: dunque l'ambito liturgico e la vita dei chierici.[36] In esse, d'altronde, sarebbe comunque più difficile immaginare una iusta et rationabilis causa.

E, sebbene la supplica sia sempre lecita, l'effetto sospensivo riposa su un'interpretazione benevola della mens pontificia; quindi non opera laddove sia certa una volontà contraria, o risulti che egli conoscesse quelle particolari circostanze.[37]

Infine, occorre ricordare che l'effetto sospensivo è provvisorio e, per la liceità almeno morale della remonstratio, occorre la disponibilità ad obbedire alla risposta del Papa, quale che ne sia il tenore; tuttavia, la sua non-risposta è, in effetti, un modo di rispondere, dato il significato di silenzio-assenso attribuitole dalla dottrina.

Secondo l'opinione maggioritaria, dal Navarrus in poi, però, l'effetto proprio della risposta positiva tacita non è l'abrogazione della legge, né la dispensa o il privilegio o altro secondo i casi, bensì la semplice sospensione dell'obbligatorietà finché perdurino quelle date circostanze di fatto: ne consegue che, laddove esse vengano meno, la legge riprende senz'altro la pristina forza obbligante, salvo che nel frattempo si sia compiuta la sua abrogazione per consuetudine particolare contraria.[38]

Può forse tornare opportuno aggiungere, a mo' di conclusione, che oggi la necessità della remonstratio dovrebbe essere molto meno frequente di un tempo, sia perché i Vescovi hanno il potere di dispensare dalle leggi universali ex can. 87, sia perché i collegamenti tra loro e la Santa Sede si sono fatti assai più stretti, grazie anche all'abbondanza di mezzi di comunicazione o trasporto; né si può trascurare l'importanza, non solo ideale, del fatto che ai Dicasteri della Curia Romana siano stati aggiunti, come membri a pieno titolo, Vescovi provenienti dalle diverse parti del mondo.

Tuttavia, va da sé che non vi è alcuna garanzia assoluta che questi mezzi possano prevenire i rischi cui l'istituto intende ovviare; e pertanto, sebbene si possa prevederne un'applicazione rara, esso conserva la propria utilità.

 

5. La cessazione del fine

L'ultimo caso di cessazione della legge, quello ab intrinseco per eccellenza, forse è anche il più interessante, sebbene in genere i manuali lo liquidino in poche righe,[39] dove riassumono per lo più la dottrina di Suárez:[40] ogni singola legge è rivolta al bene comune in un modo specifico, cioè persegue uno scopo obiettivo, la ratio legis, che è distinta sia dalla semplice occasione sia da intenti meramente soggettivi del legislatore;[41] donde il quesito se cessi in automatico nel momento in cui venga meno quello scopo, o la possibilità di conseguirlo, o la sua utilità generale.

Le cessazioni parziali, ossia per un singolo caso o aspetto, rientrano nell'ambito dell'equità; deve trattarsi dunque di una cessazione totale.

Ora, la ratio legis può venir meno in due modi: Suárez parla di mutatio contraria quando, per mutamenti di materia, cose o circostanze, osservare la legge diventa ingiusto o immorale, o moralmente impossibile, o del tutto inutile; di mutatio negativa, invece, quando della ratio legis non vi è più traccia, però non sussiste nemmeno uno dei predetti inconvenienti.[42]

Nella prima ipotesi, la situazione deve essere evidente, poiché nel dubbio la legge perdura, ma se si verifica allora essa diventa ingiusta, oppure non più utile al bene comune, e cessa immediatamente di aver vigore, senza che occorrano un atto dichiarativo del princeps e tantomeno la formazione di una consuetudine contra legem; rispetto alla seconda, si prospetta una difficoltà, perché l'osservanza della legge appare tuttalpiù superflua e si potrebbe osservarla finché non venga abrogata, ma la sentenza comune afferma che anche in questo caso la cessazione della ratio legis è di per sé sufficiente a far venir meno in automatico la stessa natura di legge. “Da essa dipendono tanto la volontà del principe quanto l'utilità della legge.

Perciò, se tale ratio non fosse esistita fin dal principio, non si sarebbe potuta introdurre giustamente la legge; e allora, senza di essa, non si può neppure conservarla giustamente.[43]

Domingo de Soto oppone in contrario, per la mutatio negativa, soprattutto lo scandalo e il mutamento dell'ordine che deriverebbero da tanta libertà; ma, risponde il Dottore Esimio, un conto è la legge che determina la giusta misura della virtù in un ambito onesto, come l'obbligo del digiuno rispetto alla materia e alla virtù della temperanza, perché in queste ipotesi l'utilità morale non viene meno mai, almeno non nei termini generali qui in discussione;[44] tutt'altra questione, invece, se si tratti di un atto in sé indifferente che non viene comandato o proibito come oggetto e giusto grado di alcuna virtù, ma semplicemente per ragioni estrinseche di congruenza ad un altro fine, perché allora l'atto in discorso diventa, da indifferente, honestum soltanto in relazione a questo stesso fine, cessato il quale esso ritorna moralmente indifferente e, per ciò solo, incapace di costituire materia atta all'obbligo legale.

La cessazione, peraltro, dev'essere pubblica, evidente e notoria per la comunità quanto lo sarebbe, rispetto ad un tributo imposto per la costruzione di un ponte, il fatto che quel ponte è ormai terminato; per contro, una legge dettata per prevenire un pericolo generale (p.es. contro i matrimoni clandestini) in sostanza non può cessare in generale, ma solo in casi particolari in cui si sia certi che il pericolo non si dia; infine, se il mutamento di circostanze, per grave che sia, appaia temporaneo, non si ha tanto cessazione quanto piuttosto sospensione della legge.

E con queste precisazioni si ovvia anche al rischio di inconvenienti: va da sé che, se manca l'evidenza richiesta, si verserà semmai in un'ipotesi in cui occorre rivolgere al princeps una supplica di qualche tipo.

 

[1]   Cfr., infatti, Modestino, D.50.16.102, “Derogatur legi aut abrogatur: derogatur legi cui pars detrahitur; abrogatur legi cum prorsus tollitur.”.

[2]   Tituli ex corpore Ulpiani, 1.3 (= Ps.-Ulpiano, Liber singularis 1.3): “Lex aut rogatur, id est fertur, aut abrogatur id est prior lex tollitur, aut derogatur, id est pars primae legis tollitur, aut subrogatur, id est adicitur aliquid primae legi, aut obrogatur, id est mutatur aliquid ex prima lege.”. Cfr. anche Cicerone, De re publica, III 22 33: “Huic legi nec obrogari fas est neque derogari aliquid ex hac licet neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per populum solvi hac lege possumus”. Tuttavia Ulpiano, D.9.2.1 pr., usa derogare per dire, in realtà, che la lex Aquilia ha sostituito tutte le norme preesistenti.

[3]   Nella fonte pseudoulpianea, obrogatio parrebbe indicare solo la sostituzione parziale (una possibile conferma indiretta in Cicerone, De inventione II 45 134: “…deinde indignum esse de lege aliquid derogari aut legem abrogari aut aliqua ex parte commutari, cum populo cognoscendi et probandi aut improbandi potestas nulla fiat”); cfr. tuttavia Festo, De verborum significatione, ss.vv.  Derogare (Lindsay 60) - “Derogare proprie est, cum quid ex lege vetere, quo minus fiat, sancitur lege nova. Derogare ergo detrahere est.” - ed Obrogare (Lindsay 203), “Obrogare est legis prioris infirmandae causa legem aliam ferre”.

[4]   Cfr. F. Bonin, Tra ius antiquum, lex Iulia e lex Papia: il complesso destino dei caduca in età augustea, in Teoria e Storia del Diritto Privato XII (2019), rivista internazionale on-line, nt. 50. L'interpretazione della fonte romanistica ha dato luogo a svariate ipotesi, ivi puntualmente indicate.

[5]   Ribadito p.es. in E. Baura, Parte generale del diritto canonico. Diritto e sistema normativo, Roma 2013, pag. 393.  

[6]   Sotto il vigore del CIC 1917, cfr. E. Graziani, Legge (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto, vol.  XXIII, Milano 1973, pagg. 1102-11, qui 1109: “Opera ab extrinseco la revoca con la quale viene eliminata o l'intera legge (abrogatio) o una parte di essa (derogatio) oppure vengono apportate modifiche (obrogatio, subrogatio) alla legge vigente. Il codex usa per tutte le ipotesi il termine di obrogatio”.  Invece, il CIC vigente ha mantenuto l'impiego di subrogatio e obrogatio rispetto ai provvedimenti amministrativi e all'esito dei relativi ricorsi gerarchici (cfr. can. 1739): secondo alcuni autori, obrogatio sarebbe la sostituzione mediante un provvedimento contrario (arg. ex can. 53), mentre subrogatio designerebbe quella da parte di un provvedimento soltanto diverso (J. Miras – J. Canosa – J. Baura, Compendio di diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pagg. 349-50; nello stesso senso E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Roma 1994, pag. 473; non si esprime P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 275). Cfr., tuttavia, per un esempio autorevole dell'uso di subrogatio proprio rispetto ad un provvedimento contrario, Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, sentenza definitiva 30 aprile 2005, c. Cacciavillan (causa prot. n. 34723/03 CA, Rev. X / Congregatio pro Clericis), in J. Fürnkranz, Effizienz der Verwaltung und Rechtsschutz im Verfahren. Can. 1739 in der Dynamik der hierarchischen Beschwerde, Paderborn 2014, pagg. 351-66 (con trad. tedesca), massimata e scaricabile qui: nella specie, si trattava di un decreto della Congregazione per il clero che accoglieva il ricorso del Sacerdote rimosso dalla Parrocchia, esito però poi ribaltato dalla stessa Congregazione su richiesta dell'Arcivescovo a quo, che aveva fornito altri documenti comprovando una legittima causa di rimozione differente da quella addotta in origine. Ulteriore prova, se mai occorresse, della fluidità terminologica che continua a contraddistinguere il diritto canonico.

[7]   “Licet Romanus Pontifex, qui iura omnia in scrinio pectoris sui censetur habere, constitutionem condendo posteriorem, priorem, quamvis de ipsa mentionem non faciat, revocare noscatur; quia tamen locorum specialium et personarum singularium consuetudines et statuta, quum sint facti et in facto consistant, potest probabiliter ignorare: ipsis, dum tamen sint rationabilia, per constitutionem a se noviter editam, nisi expresse caveatur in ipsa, non intelligitur in aliquo derogare.”.

[8]   Cfr. F. Suárez, Tractatus de legibus ac de Deo Legislatore, 6.27.5 e relativi riferimenti agli autori di diritto comune, Bartolo in testa; F.X. Wernz – P. Vidal, Ius canonicum ad normam Codicis exactum, Roma 1928, pag. 251 (“Expresse id praestat cum id aperte vel saltem aequivalenter statuit per clausulas derogatorias”); V. de Paolis, Le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 303.

[9]   F. Suárez, Tractatus..., cit., 6.27.5: “Dico tertio: Lex posterior non habens clausulam derogantem, vel abrogantem priorem, non revocat illam, nisi quando illi directe opponitur, ita ut nisi priori deroget, fiat inutilis. Ita docent communiter auctores citati.”.

[10] Si può semmai discutere se, ad es., un privilegio di esenzione dalla legge X sopravviva all'eliminazione del relativo obbligo in sede di riassetto, come titolo ulteriore di libertà per il soggetto interessato, in modo tale che, sopravvenendo altra legge che ripristini l'obbligo di prima, in assenza di speciale menzione nella clausola derogatoria il privilegio valga senz'altro anche nei confronti della disciplina nuova.

[11] Cfr. F. Suárez, Tractatus..., cit., 6.27.5; F.X. Wernz – P. Vidal, Ius canonicum..., cit., pag. 251.

[12] L'es. è in F. Suárez, Tractatus..., cit., 6.27.5.

[13] J.I. Arrieta, Commento all'art. 158 PB, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e leggi complementari, Roma 2020.

[14] Un caso paradossale è segnalato in M. Ganarin, L'interpretazione autentica delle leggi universali della Chiesa. La competenza del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Università degli Studi di Milano, tesi di dottprato inDiritto Canonico ed Ecclesiastico, XXVI ciclo, A.A. 2013/14, rel. Chiar.mo Prof. S. Ferrari, pagg. 200-4 e relativi riferimenti: si tratta dell'interpretazione autentica del can. 1737, che ha fatto nascere seri dubbi applicativi circa l'interesse a ricorrere e il compito del Superiore gerarchico, tanto che il suo presumibile intento restrittivo non può mandarsi ad effetto.

[15] F.X. Wernz – P. Vidal, Ius canonicum..., cit., pag. 253; contra, però, V. de Paolis, Le norme generali, cit., pag. 289, e P. Lombardía, Commento al can. 14, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice…, cit.

[16] Prescindo qui dalla vexata quaestio dei precisi rapporti tra potere di ordine e potere di giurisdizione.

[17]Leges instituuntur, cum promulgantur, firmantur, cum moribus utentium approbantur. Sicut enim moribus
utentium in contrarium nonnullae leges hodie abrogatae sunt, ita moribus utentium ipsae leges confirmantur. Unde illud Thelesphori Papae (quo decreuit, ut clerici generaliter a quinquagesima a carnibus et deliciis ieiunent) quia moribus utentium approbatum non est, aliter agentes transgressionis reos non arguit.
”. D. IV, dictum ad c. 3.

[18] Cfr. F. Suárez, Tractatus..., cit., 2.2 e 2.3.

[19] Questa tesi presuppone che nella Chiesa esistano due poteri distinti, di ordine legato all'omonimo Sacramento, di giurisdizione che deriva sempre dal Papa, per via più o meno mediata, e al Papa da Cristo indipendentemente dalla consacrazione episcopale. Condotta al suo pieno sviluppo da S. Tommaso d'Aquino e largamente maggioritaria per secoli, non è però mai divenuta dottrina di Fede, incontrando sempre sulla propria strada sostenitori della tesi di un'origine divina e/o sacramentale della giurisdizione dei Vescovi; la questione è rimasta aperta sia al Concilio di Trento sia al Vaticano I (che peraltro ha negato che i Vescovi siano semplici vicari o delegati del Papa, insegnando invece che possiedono una potestà propria, senza con ciò chiarirne tuttavia l'origine), mentre il Vaticano II, avendo insegnato per consenso generale che l'Episcopato è a tutti gli effetti un grado del Sacramento dell'Ordine (tesi negata da S. Tommaso e di una certa importanza nella distinzione tra i due poteri), ha adottato la tesi dell'unica sacra potestas, ricevuta con la consacrazione, che tuttavia non si può considerare giurisdizione in senso classico finché un atto del Papa non assegni al consacrato sudditi su cui esercitarla (cfr. LG 21-2 e Nota explicativa praevia); è rimasta, tuttavia, la libertà di seguire la tesi dei due poteri, il cui principale difensore nei decenni del post-Concilio è stato un canonista eminente come il Card. Alfons Maria Stickler. Attualmente, quindi, molte proposizioni che prima apparivano certe sono disputate, p.es. che il Papa goda del potere di governo a tutti gli effetti fin dal momento in cui accetta l'elezione legittima, anche se ancora non sia Vescovo (qualificata iuris divini dal CIC17, ma assente nelle norme odierne).

[20] Cfr. amplius F. Suárez, Tractatus..., cit., 4.1–4.3

[21] A conferma dell'irrilevanza della giustizia della lex in questo caso, nonché della sua cessazione, cfr. un autore davvero non sospettabile di avversione alla potestà pontificia, Benedetto XIV, De synodo dioecesana XIII 5, 3: “Quamquam leges potissimum ecclesiasticae a populi acceptatione minime pendeant, attamen cum eaedem numquam a populo recipiuntur, peccant quidem eas non recipientes, sed tamen desinunt obligare quoniam praesumitur nolle legislatorem, cum maximo animarum dispendio, suae legis vinculo diu irretitam tenere communitatem quae numquam passa est se eo constringi.”.

[22] La tesi opposta è stata condannata in Suprema Sacra Congregazione del S. Uffizio, decreto 24 settembre 1665, prop. 28: “Populus non peccat etiamsi absque ulla causa noj recipiat legem a principe promulgatam” (Denz. 2048).

[23] Cfr. F. Suárez, Tractatus..., cit., 3.19 per la legge civile, 4.16 per l'ecclesiastica.

[24] Prescindo qui, ovviamente, dalle molte altre questioni relative sia alla riforma liturgica sia ai provvedimenti pontifici posteriori; aggiungo solamente che erano trascorsi proprio dieci anni (quasi compiuti) dall'ultima dichiarazione ufficiale con cui, il 28 ottobre 1974, la Congregazione per il Culto Divino aveva ribadito l'obbligatorietà del nuovo Messale per tutte le celebrazioni cum populo.

[25] Cfr., a mero titolo di esempio tra gli autori successivi alla codificazione, M. Zalba, Theologiae Moralis Compendium, vol. I, Madrid 1958, pagg. 245-6. Anche E. Graziani, Legge..., cit., pag. 1110, riporta senz'altro come tuttora valido l'insegnamento di Benedetto XIV sopra citato.

[26] Cfr. M. Zalba, Compendium..., cit., pag. 245 nt. 101: “Ius remonstrandi, seu recursus Episcoporum factus ad S. Sedem a lege cuius observantia nimis difficile videatur, si forte velit Sanctissimus eam revocare melius cognitis adiunctis, ante Codicem admittebatur ad effectum suspendendi obligationem durante recursu ex praesumpta legislatoris concessione (cfr. [] Bened. XIV, De synodo dioecesana l.9 c.8 n.3), dummodo appellanti parati essent ad obtemperndum responso pontificio. […] Post Codicem idem ius perseverare censent Vermeersch […]; Coronata […]; Merkelbach […]; Rodrigo […]; Noldin-Schmitt […] etc., dum Episcopus recurrit ad S. Sedem.”. Per l'autore si tratta di un caso assimilabile all'epikeia, che però non costituisce causa di cessazione generale dell'obbligo di legge, bensì opera soltanto in favore dei singoli che si trovino in una certa situazione di particolare difficoltà; qui invece l'effetto sospensivo è automatico e ne beneficiano tutti i sudditi del remonstrans, in qualunque condizione si trovino.

[27] Si suppone che la legge sia munita di clausola derogatoria atta ad incidere anche sul diritto particolare; diversamente, essa non produrrebbe effetti in pregiudizio del medesimo per regola generale (can. 20) e la remonstratio avrebbe, semmai, un valore informativo e cautelativo.

[28] Cfr. soprattutto Alessandro III, Si quando (X.1.3.5): “aut mandatum nostrum reverenter adimpleas, aut per litteras tuas, quare adimplere non possis, sufficientem et rationabilem causam praetendas; quia patienter sustinebimus, si non feceris, quod prava nobis fuerit insinuatione suggestum.

[29] Cfr. oggi il can. 19: nel silentium legis, l'opinione comune e costante dei dottori ha essa stessa forza di legge.

[30] Ovviamente, anche i semplici fedeli possono avanzare una supplica in tal senso, però senza che ne consegua l'effetto sospensivo, quindi neppure la presunzione di accoglimento. Contra Ballerini-Palmieri, cit. in M. Zalba, loc. ult. cit., il quale ultimo, però, riporta gli autori contrari e giustamente vi aderisce, eccettuando solo il caso in cui si sconfini, per così dire, nella legge troppo gravosa.

[31] Cfr. Pio VI, bolla Auctorem Fidei, 28 agosto 1794, prop. 11 (Denz. 2611).

[32] Cfr. Benedetto XIV, De Synodo dioecesana, IX 8,3: il Vescovo “non modo suas Romani Pontificirationes repraesentare non prohibetur, quin potius ad id omnino tenetur”.

[33] J. Haring, Das bìscböflicbe Vorstellungsrecht gegenüber detn apostolischen Stuhle, in Archiv für katholisches Kirchenrecht 1911, pagg. 111-4 (cfr. poi Id., De iure remonstrationis episcoporum contra leges et mandata sedis apostolicae, in Miscellanea Vermeerscb, Analecta Gregoriana 9-10, I, Roma 1935, pagg. 321-6, dove il fenomeno è ricondotto all'epikeia); P. Maroto, Commentarium Iuris Canonici, I, Rome 1921, 193-4; tuttora fondamentale L. De Luca, Lo ius remonstrandi contro gli atti legislativi del Pontefice, in Scritti in onore di V. Del Giudice, I, Milano 1953, pagg. 245-73; P.G. Caron, «lus remonstrandi» ed appello per abuso nella dottrina dei canonisti, in Studi in onore di Pietro Agostino d’Avack, Milano 1976, pagg. 539-80; E. Labandeira, La “remonstratio” y la aplicación de las leyes universales en la iglesia particular, in lus Canonicum 1984, pagg. 711-40; P. de Pooter – L. Waelkens, Le ius remonstrandi. Droit fundamental ou aberration de la doctrine canoniste?, in Ius Ecclesiae 7 (1995), pagg. 713-9 (segnala l'improprietà della denominazione, in una con l'origine contemporanea, e reagisce contro il tentativo di applicare l'istituto alla Lett. Ap. Ordinatio Sacerdotalis, sull'impossibilità dell'ordinazione sacerdotale femminile); H.-J. Guth, Ius remonstrandi: das Remonstrationsrecht des Diozesanbischofs im kanonischen Recht, Friburgo 1999; Id., ‘Ius remonstrandi’: l’institution juridique du droit de remontrance épiscopale, in Révue de Droit Canonique 52 (2002), pagg. 153-65; P. de Pooter,  s.v. “Remonstratio”, in Diccionario General de Derecho Canónico (= DGDC), vol. VI, Pamplona 2012, pagg. 908-10.

[34] Cfr. amplius in argomento P. de Pooter – L. Waelkens, Le ius remonstrandi..., cit.

[35] Quale che sia il loro valore, pertanto, non si possono annoverare nel genere della remonstratio in senso canonico le molte dichiarazioni con cui diverse Conferenze Episcopali hanno inteso liberare i fedeli dei rispettivi territori dal divieto della contraccezione ribadito dall'Enciclica Humanae Vitae.

[36] Cfr. E. Labandeira, La “remonstratio”..., cit., pag. 724, che in nota rinvia a Benedetto XIV, De Synodo dioecesana IX 8,3, e a P.A. D'Avack, s.v. Atti legislativi pontifici, in Enciclopedia del diritto, vol. IV, s.l. ma Milano, s.d., pag. 47. Quindi, non pare qualificabile come remonstratio (salvo miglior giudizio, tanto più che non ho avuto modo di esaminare l'atto) la decisione di Mons. Antonio de Castro Mayer, Vescovo di Campos in Brasile, di non far applicare nella propria Diocesi il nuovo Messale Romano, approvato da Paolo VI; però non mi risulta che la S. Sede sia intervenuta, o quantomeno la situazione è rimasta immutata fino al 1981 (!), quando il Vescovo ha rinunciato per raggiunti limiti di età. In compenso, il suo successore è stato così rigoroso nel voler imporre l'obbligatorietà della riforma liturgica che si è determinata una profonda spaccatura tra clero e fedeli: vien da chiedersi, dunque, se il caso non potesse rientrare nella non accettazione della legge.

[37] Cfr. E. Labandeira, La “remonstratio”..., cit., pag. 728.

[38] E. Labandeira, La “remonstratio”..., cit., pag. 739-40, si chiede se la consuetudine contra legem che non abbia ancora maturato il trentennio, se fatta valere come motivo di remonstratio cui segua il silenzio, possa considerarsi approvata dal legislatore per consenso speciale. Sembra incline a rispondere positivamente; mi sento più incline alla cautela, poiché non vi è alcuna ragione a priori per ritenere che all'effetto normale del silenzio sulla remonstratio se ne debba aggiungere uno diverso e di portata ben maggiore, salvo forse il caso in cui l'usanza in questione riguardi una materia così importante che il silenzio comporti la certezza morale di un consenso positivo, non semplicemente di un “per ora soprassediamo e restiamo a vedere”.

[39] Cfr. per tutti, data anche la mole, F.X. Wernz – P. Vidal, Ius Canonicum..., cit., pag. 250.

[40] F. Suárez, Tractatus..., cit., 6.9.

[41] Sulla ratio, cfr. F. Suárez, Tractatus..., cit., 3.20.

[42] Le considerazioni che seguono valgono sia che si tratti di tutte le norme contenute in una stessa legge, sia di una norma sola mentre restano ferme le altre.

[43][A]b illa pendet tam voluntas principis, quam utilitas legis. Unde si talis ratio a principio non fuisset, non posset lex iuste ferri; ergo nec potest sine illa iuste conservari.”. F. Suárez, Tractatus..., cit., 6.9.4.

[44] Salve ovviamente le situazioni straordinarie: in un caso di estrema necessità di mangiare, il digiuno cesserebbe di essere atto di virtù, quindi cesserebbe anche la legge. Vuoi per il singolo, vuoi anche in generale, putacaso si desse una carestia.