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Gli atti amministrativi generali

Già ci siamo occupati del problema di distinguere gli atti amministrativi generali dalle leggi; mette ora conto esaminare più in dettaglio la disciplina che ad essi dedica il Codice, la quale, sebbene scarna, è attenta ad individuare e risolvere i problemi principali
atti amministrativi
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Gli atti amministrativi generali


Can. 31 §1. Possono dare i decreti generali esecutivi, con cui sono appunto determinati più precisamente i modi da osservarsi nell’applicare la legge o con cui si urge l’osservanza delle leggi, coloro che godono della potestà esecutiva, entro i limiti della loro competenza. §2. Per ciò che attiene alla promulgazione e alla vacanza dei decreti di cui al §1, si osservino le disposizioni del can. 8.

Can. 32I decreti generali esecutivi obbligano coloro che sono tenuti alle leggi delle quali i decreti stessi determinano i modi di applicazione o urgono l’osservanza.

Can. 33§1. I decreti generali esecutivi, anche se sono pubblicati nei direttori o in documenti di altro nome, non derogano alle leggi, e le loro disposizioni che siano contrarie alle leggi sono prive di ogni vigore. §2. I medesimi decreti cessano d’avere vigore per revoca esplicita o implicita fatta dall’autorità competente, e altresì cessando la legge per la cui esecuzione furono dati; non cessano però venuto meno il diritto di colui che li stabilisce, eccetto che non sia disposto espressamente il contrario.

Can. 34§1. Le istruzioni, che propriamente rendono chiare le disposizioni delle leggi e sviluppano e determinano i procedimenti nell’eseguirle, sono date a uso di quelli il cui compito è curare che le leggi siano mandate ad esecuzione e li obbligano nell’esecuzione stessa delle leggi; le pubblicano legittimamente, entro i limiti della loro competenza, coloro che godono della potestà esecutiva. §2. I dispositivi delle istruzioni non derogano alle leggi, e se qualcuno non può accordarsi con le disposizioni delle leggi, è privo di ogni vigore. §3. Le istruzioni cessano di avere vigore non soltanto con la revoca esplicita o implicita dell’autorità competente, che le pubblicò, o del suo superiore, ma anche cessando la legge per chiarire o per mandare ad esercizio la quale furono emanate.

Già ci siamo occupati del problema di distinguere gli atti amministrativi generali dalle leggi; [1] mette ora conto esaminare più in dettaglio la disciplina che ad essi dedica il Codice, la quale, sebbene scarna, è attenta ad individuare e risolvere i problemi principali.

Innanzitutto, si è scelto con chiarezza di suddividerli tutti in due categorie distinte: decreti esecutivi e istruzioni. [2] Comune ad entrambi i tipi è la strumentalità all'applicazione di una legge, con esclusione della possibilità di derogarvi – che si potrebbe altrimenti considerare insita nella potestà esecutiva – a pena di nullità del disposto difforme, ma legittimità della previsione praeter legem: [3] in questo va dunque individuata la natura dell'atto amministrativo generale (né si vede altro modo per distinguerlo dal legislativo). Inoltre, sia i decreti sia le istruzioni debbono provenire dalla potestà esecutiva esercitata intra fines suae competentiae, il che significa che tra le facoltà del loro autore dev’essere ricompresa anche l’applicazione di quella specifica legge, almeno sotto certi aspetti. La differenza tra i due tipi, invece, sta semmai nell’ambito soggettivo di efficacia, perché i decreti obbligano tutti coloro che sono tenuti alla legge di cui trattano, le istruzioni soltanto le autorità subalterne: per un parallelo, si pensi rispettivamente a regolamenti di esecuzione e circolari. Infatti, solo i decreti si promulgano, perché rivolti alla comunità intera; le istruzioni vengono solo comunicate alle autorità che le debbono applicare, come si farebbe con un ordine di servizio per il caso concreto.[4]

In diritto canonico, è perfettamente normale che vi siano almeno due autorità munite di potestà esecutiva e chiamate in qualche modo ad applicare la stessa legge: il Vescovo e il competente Dicastero della Curia Romana. [5] Eppure, dato singolare, non è previsto in modo espresso un criterio gerarchico analogo a quello esistente in Italia per i regolamenti delle varie autorità (cfr. artt. 3 e 4 prel.). [6] Tuttavia, a mio parere, lo si ricava dal fatto che i decreti obbligano tutti coloro che sono soggetti alla legge – incluse quindi le autorità chiamate ad applicarla – mentre le istruzioni si rivolgono proprio alle autorità subordinate, per orientarle nell’esercizio delle loro attribuzioni in materia, e le vincolano. In altre parole, se un Vescovo, non appena entrata in vigore una legge, emanasse un atto generale per la sua applicazione in Diocesi ma poi se sopravvenisse uno del competente Dicastero della Curia Romana (o della Conferenza Episcopale se competente a sua volta), il Vescovo sarebbe tenuto a modificare il proprio nella misura in cui è contrario a quello dell’autorità superiore. Si può tuttavia dubitare delle conseguenze qualora non lo facesse: per regola generale posta dal can. 10, la nullità o l’annullabilità degli atti contra legem non si presumono, ma debbono essere previste in modo espresso. Il decreto generale esecutivo, che deve essere promulgato nelle stesse forme previste per la legge, [7] ben potrebbe contenere una clausola abrogativa espressa, [8] però a mio avviso essa è superflua e la sua efficacia diretta, prevista dal can. 32 verso tutti coloro che sono soggetti alla legge in questione, lo fa prevalere in automatico su qualunque misura anteriore o posteriore, senza che possa entrare in gioco il principio di specialità. Riguardo alle istruzioni, invece, ritengo di dover giungere alla conclusione opposta: giusta il can. 34, esse obbligano le autorità inferiori, ma non direttamente i sudditi, e dunque in linea di principio essi dovrebbero rispettare il decreto generale del Vescovo, [9] quand’anche – in ipotesi – difforme dall'istruzione romana anteriore o posteriore; potrebbero però sia segnalare il fatto, sia far valere la difformità come motivo di ricorso gerarchico, se in concreto si traducesse in provvedimenti singolari lesivi, perché comunque l’istruzione obbliga tutte le autorità preposte ad applicare la legge e, per quelle sottoposte al Vescovo, il conflitto tra obblighi è risolto dal principio di gerarchia. [10]

Infine ma non da ultimo, resta sempre ferma la regola della nullità dell’atto generale contrario alla legge, che di fatto dovrebbe risolvere il problema nella maggior parte dei casi, perché simili contrasti nascono da modi incompatibili di intendere la norma da applicarsi. Va tuttavia notato che il can. 16, a contrario, esclude il carattere vincolante delle interpretazioni rese mediante atti amministrativi generali, quindi in definitiva il problema spetta al giudice amministrativo, nel momento in cui si trovasse chiamato a decidere della sorte di un atto amministrativo singolare conforme all’una o all’altra lettura della legge; ma nella giurisprudenza di Segnatura ad oggi nota non figura alcun caso del genere.

A questo punto, ci si può legittimamente chiedere se decreti ed istruzioni si distinguano anche sul piano dei contenuti. Tutto sommato, credo che la risposta debba essere negativa: non mi sembra possibile ricavare differenze significative dalla giustapposizione di “pressius determinantur modi in lege applicanda servandi” (can. 31) e “legum praescripta declarant atque rationes in iisdem exsequendis servandas evolunt et determinant” (can. 34), a parte una maggior attenzione per l'aspetto procedurale nel secondo caso. Ovviamente, resta fermo che le istruzioni non possono contenere precetti direttamente rivolte ai singoli; [11] urgere l’osservanza della legge è estraneo alla loro funzione tipica, trattandosi dello scopo di un sottotipo di decreti, i precetti (cfr. can. 49; qui il can. 31 ci sta dunque dicendo che esistono precetti amministrativi generali), [12] tuttavia non è affatto raro che le istruzioni vengano emanate anche per porre rimedio a situazioni di diffusa indisciplina e quindi esortino le autorità ad applicare la legge o anche le sanzioni penali a sua tutela. [13] Il precetto, però, sarebbe direttamente efficace nei confronti dei sudditi e potrebbe anche inasprire il trattamento sanzionatorio previsto dalle leggi in vigore; invece, all’istruzione compete solamente additare, spiegare e chiarire le leggi così come stanno, aspetti penali inclusi.

Gli atti amministrativi generali cessano sia per revoca esplicita o implicita da parte dell’autore (dove l’implicita, a mio avviso, altro non è che l'emanazione di un provvedimento generale incompatibile con il precedente), sia per cessazione della legge per la cui esecuzione sono stati emanati; ritengo che qui non si debba badare al cambiamento formale delle disposizioni, ma alla diversità delle norme, sicché se la nuova normativa è una semplice rifusione della vecchia i provvedimenti generali precedenti restano in vigore. [14] Inoltre, i decreti vengono meno quando cessa la potestà del loro autore, se così è stato espressamente previsto, mentre le istruzioni, data la loro efficacia interna al rapporto gerarchico, possano essere oggetto di revoca esplicita o implicita anche da parte dell’autorità superiore, il che a mio giudizio si verifica ogniqualvolta essa emani un atto amministrativo generale con esse incompatibile.

Un’ultima questione, assai dibattuta in dottrina, riguarda l’ammissibilità delle cc.dd. norme amministrative indipendenti, dunque non funzionali all’esecuzione di una legge. Labandeira, in particolare, è un acceso fautore di questa tesi, a pro della quale adduce svariate attribuzioni di competenza a Dicasteri della Curia Romana (“regolare la sacra Liturgia”, “dettare norme per l’insegnamento della catechesi”...), nonché il carattere senz’altro indipendente di statuti e regolamenti. [15] A mio avviso, però, la questione è mal posta: intanto, l’ampiezza del diritto divino – e anche di quello umano, soprattutto se si considerano anche le fonti suppletive – esclude che possano esistere atti davvero “indipendenti”; si può concedere senza difficoltà che ne esistano di non strumentali all’esecuzione di una legge specifica, ma questo non ha alcun rilievo pratico [16] né fa venir meno la loro soggezione al complesso delle leggi vigenti. [17] L’ampiezza indubbia di talune attribuzioni di competenza curiale, se pur non implichi talvolta un eccezionale conferimento di potestà normativa, [18] si estrinseca poi nella produzione di documenti altrettanto ampi, come i cc.dd. “direttori”, che riassumono e completano la normativa in un’intera macroarea (ministero e compiti dei Vescovi, dei preti...); ma proprio il Codice, al can. 33, ci ricorda che i direttorii vanno considerati decreti generali esecutivi, come a dire che la strumentalità alla legge non deve riguardare necessariamente l’attuazione di una lex specifica; di fatto, tali documenti combinano le funzioni di regolamenti di esecuzione per intere parti del Codice e di “testi unici misti”, prontuario volto a coordinare ed agevolare l’applicazione di tutto il ius in una data materia. Questo, però, non li rende certo “indipendenti”, almeno non nel senso che l’espressione “regolamento indipendente” ha in diritto italiano.

Il secondo argomento di Labandeira richiederebbe un esame completo della natura di statuti e regolamenti; basti qui dire che, senza dubbio, la loro funzione non consiste nel dare attuazione ad una legge specifica, o anche ad un intero plesso normativo ... ma proprio per questo è dubbio perfino se si debbano annoverare tra gli atti amministrativi.[19] Invero, almeno per gli statuti, che possono emanare tanto dalla potestà legislativa quanto dall’esecutiva o dall’autonomia privata (cfr. can. 94), a mio parere la risposta dovrebbe essere negativa, nel senso che l’eventuale provvedimento amministrativo che li approva o conferma è un atto singolare, non generale. A sua volta il regolamento, cui spetta disciplinare riunioni di persone e celebrazioni (cfr. can. 95), può secondo i casi consistere tanto in una legge quanto in un provvedimento che applica al concreto organismo o incontro di cui si tratta la norma del can. 127, o la disciplina delle elezioni, o gli altri canoni comunque pertinenti: il fatto che il regolamento possa applicarsi ad una serie indeterminata di casi futuri, o meglio di future riunioni, non ne fa un provvedimento generale, proprio come non lo è la dispensa dal digiuno anche se destinata ad applicarsi ad un numero indeterminato di pasti futuri (soprattutto se accordata ad una comunità).

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[1]    Mette però conto registrare la voce critica di L. Spinelli, Atto amministrativo. II) Diritto canonico, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. IV, Roma 1987, secondo cui gli atti dotati di generalità ed astrattezza possono dirsi amministrativi solo in senso lato e sono “da definirsi normativi” (secondo un’ottica che privilegia una nozione di legge in senso materiale piuttosto che formale, all'evidenza).

[2]    La prassi vede una gran varietà di denominazioni formali, ma l’interprete e il giudice sono tenuti a ricondurre tutti gli atti entro l’una o l’altra categoria.

[3]    Quest’ultima possibilità, che d’altronde emerge con chiarezza dallo stesso tenore letterale dei canoni, è stata ammessa espressamente nel corso dei lavori preparatori: cfr. il verbale della Sessio VI in Communicationes 20 (1988), pagg. 100-9. Contra, però, J. Miras – J. Canosa – J. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2020, pag. 106, che tuttavia finiscono per interrogarsi sulla sussistenza in concreto del nesso di strumentalità, che anche a parer mio è il vero nodo della questione.

[4]    Il rispettivo nomen iuris, quindi, ha cambiato significato rispetto alla disciplina anteriore, giacché secondo il m.p. Cum iuris canonici di Benedetto XV decreta generalia erano le nuove norme universali contrarie al Codice, mentre le istruzioni “non modo sint, sed appareant etiam quasi explanationem et complementa canonum”, però senza indicazioni sulla loro esatta portata od obbligatorietà.

[5]    Cfr., a proposito del can. 31 §1, P. Lombardía, Commento al can. 31, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pagg. 94-5: “il c. 31 § 1 stabilisce che questi decreti possono essere prodotti da chi sia titolare di potestà esecutiva ‘entro i limiti della propria competenza’, e non sembra potersi dubitare della competenza – e dell’obbligo – degli organismi diocesani di urgere all’osservanza [sic] delle leggi universali nella Chiesa particolare (cfr. cc. 391 e 392), nonché di precisare modalità di attuazione adeguate alle particolari circostanze della diocesi”. Contra, tuttavia, J. Miras – J. Canosa – J. Baura, Compendio..., cit., pag. 108, secondo cui tali decreti, in quanto provenienti da un soggetto che è legislatore, a norma del can. 29 sarebbero vere leggi particolari, non già atti amministrativi generali.

[6]    Il can. 139 si limita a prevedere il caso in cui qualcuno solleciti l’esercizio del potere da parte di una autorità tra quelle competenti, rispetto ad una causa e dunque ad un caso concreto; ma è interessante notare che la competenza dell'inferiore non viene meno per il solo fatto del deferimento al superiore.

[7]    Che non significa, a mio avviso, le stesse forme previste per la legge da applicarsi (altrimenti le delibere delle Conferenze Episcopali dovrebbero apparire in AAS), bensì le forme di pubblicazione previste per le leggi estese a tutto l’ambito territoriale su cui l’autorità esecutiva de qua ha il potere di provvedere, quindi gli atti generali della Curia Romana si pubblicano in AAS, quelli delle Conferenze Episcopali o dei singoli Vescovi sugli stessi organi di informazione ove appaiono le loro leggi.

[8]    È discusso in dottrina fino a che punto i canoni relativi alla legge possano applicarsi per analogia agli atti amministrativi generali; a mio avviso tale necessità si presenta piuttosto di rado, ma l’ipotesi di revoca implicita andrebbe effettivamente valutata ai sensi dei cann. 20 e 21.

[9]    Parlo di decreto generale e non di istruzione del Vescovo, sia perché solo il primo obbliga direttamente i sudditi, sia perché l’istruzione, ai sensi del can. 34§3, cessa di aver valore anche per revoca implicita da parte dell’autorità superiore (e tale ben potrebbe considerarsi un’istruzione contraria), ma per i decreti generali il can. 33 non contiene la stessa previsione.

[10]  Dal canto suo, nondimeno, il Vescovo, come può difendere in contenzioso la legittimità dei propri provvedimenti singolari, potrebbe anche chiedere una deroga motivata alla legge universale, opporsi alla sua applicazione mediante una remonstratio o, se assume che un certo caso non sia da essa contemplato (contrariamente a quanto supposto dal Dicastero romano), provvedere con legge particolare, in modo tale che il Dicastero non possa far semplicemente prevalere il proprio punto di vista, ma debba investire del caso il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 250, premesso che molti rimandi del Codice al diritto particolare potrebbero essere soddisfatti sia mediante leggi particolari sia con atti esecutivi della legge universale, elenca alcuni casi in cui sembra che sia il Codice stesso a preferire questa seconda possibilità. Egli, inoltre, considera illegittimo, ai sensi del can. 135 §2, che il Vescovo promulghi una legge propria contraria all'istruzione di un Dicastero (ibid., pag. 257); ma, sebbene sia senz’altro corretto dire che la soggezione al “diritto superiore” sia più ampia della legge, il concetto sostanziale di ius lascia aperta la questione, almeno ogniqualvolta si metta in dubbio fino a che punto l’istruzione stessa sia legittima o meno.

[11]  Ma siccome la qualificazione di un atto segue la sostanza e non il nome impostogli, come indica qui anche il can. 33, un’istruzione che contenesse tali prescritti e fosse stata di fatto promulgata nel rispetto del can. 8 andrebbe, forse, riqualificata come decreto, in mancanza di indicazioni contrarie.

[12]  Cfr. in proposito, anche per puntuali riferimenti ai lavori preparatori, I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione aministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pagg. 505-6.

[13]  Un esempio di particolare insistenza sul punto è dato, in ambito liturgico, dall'Istruzione Redemptionis Sacramentum (25 marzo 2004), nn. 169-84.

[14]  Il problema si è posto, in particolare, per l’Istruzione Dignitas Connubii, sui processi matrimoniali, dopo che l’intera disciplina codicistica è stata riformata dal m.p. Mitis Iudex Dominus Iesus: le novità sono molte e innegabili, ma ancor più numerosi gli elementi di continuità anche testuale, cosicché, ferma l’esigenza di una valutazione caso per caso (e di riferire semmai l’Istruzione ai canoni corrispondenti nel testo novellato del Codice), la maggior parte della Dignitas connubii deve considerarsi ancora in vigore: cfr. anche le considerazioni, più ampie ma convergenti, di C.M. Morán-Bustos, La vigencia de la Instrucción “Dignitas Connubii” a la luz del M. P. “Mitis Iudex”, in Ius Canonicum 57 (2017), pagg. 605-35. Nello stesso senso si è orientata anche la redazione della rivista “Quaderni di Diritto Ecclesiale”, la IV ed. del cui Codice commentato, pur aggiornata al 2021, affianca tuttora ai canoni gli articoli dell'Istruzione.

[15]  Cfr. E. Labandeira, Trattato..., cit., pagg. 252-4.

[16]  A parte, se si vuole, l’inapplicabilità della causa di cessazione data dal venir meno della legge eseguenda.

[17]  Si può senz’altro concordare con J. Miras – J. Canosa – J. Baura, Compendio..., cit., pag. 106, quando parla di norme “indipendenti, poiché non sviluppano qualcosa contenuto in una disposizione normativa anteriore, ma regolano degli spazi non disciplinati, all'interno dei limiti fissati dalla legge (statuti e regolamenti, con le eccezioni che più avanti si indicheranno”. Ma, a parte l'opportunità di evitar la dicitura nel contesto italiano, dove il regolamento indipendente è quello che interviene in assenza di norme legislative purchessia, queste “norme” divengono tali mediante atti singolari (v. infra nel testo).

[18]  Il dubbio si pone soprattutto per la Congregazione per il Culto Divino, che tra l’altro pubblica le nuove edizioni dei libri liturgici, i quali sono senza dubbio leggi che con ciò vengono surrogate; tuttavia, essa lo fa sempre previa loro approvazione da parte del Sommo Pontefice, sicché in concreto non agisce con potestà solo propria.

[19]  Per P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pagg. 226, essi “sono piuttosto espressioni del diritto particolare e perciò sono dati, in genere, da organi legislativi”; ivi, in nota, un’utile ricognizione delle occorrenze dei due termini nel Codice.