Il principio di diritto nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c.: rilevanza ed effetti

Bartolome nelle Isole Galapagos in Ecuador
Bartolome nelle Isole Galapagos in Ecuador

Il principio di diritto nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c.: rilevanza ed effetti

 

Abstract: ai sensi dell’art. 363 ultimo comma c.p.c., il principio di diritto nell’interesse della legge, enunciato dalla Cassazione su richiesta del Procuratore Generale, non incide sul provvedimento del giudice di merito, laddove questo non sia più impugnabile. Tuttavia, tale non incidenza dovrebbe essere riconsiderata nel caso in cui la Corte, mediante tale “principio”, vada sostanzialmente a modificare il contenuto della decisione da essa stessa adottata (e quindi passata in giudicato, in quanto resa dal Giudice di ultima istanza), laddove tale modifica comporti l’accoglimento del ricorso che con tale decisione era stato respinto. Ciò in quanto, ex art. 310 comma 1 c.p.c., “l’estinzione del processo non estingue l’azione”, e quindi chi, pur dopo aver proposto ricorso, rinuncia agli atti del giudizio, mantiene comunque la facoltà di riesercitare l’azione giudiziale per il medesimo fatto: pertanto, se una condotta processualmente inerte della parte (rinuncia agli atti) non impedisce, suo malgrado, alla stessa di intraprendere una nuova azione giudiziale, una condotta processualmente attiva della parte (ricorso esperito in tutti i gradi di giudizio, fino alla Cassazione) dovrebbe offrire a quest’ultima la possibilità di fruire dei vantaggi derivanti da un pronunciamento (“principio di diritto”) che nella sostanza adotta una soluzione diversa da quella applicata nella sentenza (definitiva) di reiezione del ricorso.

 

Pursuant to art. 363, last paragraph, of the Code of Civil Procedure, the principle of law in the interest of the law, stated by the Court of Cassation at the request of the Attorney General, does not affect the decision of the judge of merit, where this is no longer appealable. However, this non-incidence should be reconsidered in the event that the Court, by means of this “principle”, substantially modifies the content of the decision it itself adopted (and therefore has become final, as it was issued by the Judge of last instance), in the event that this modification entails the acceptance of the appeal that had been rejected with this decision. This is because, pursuant to art. 310, paragraph 1 of the Code of Civil Procedure, “the extinction of the proceedings does not extinguish the action”, and therefore whoever, even after having filed an appeal, renounces the proceedings of the trial, still retains the right to re-exercise the legal action for the same fact: therefore, if a procedurally inert conduct of the party (renouncement of the proceedings) does not prevent, in spite of itself, the same party from undertaking a new legal action, a procedurally active conduct of the party (appeal brought at all levels of judgment, up to the Supreme Court) should offer the latter the possibility of enjoying the advantages deriving from a ruling (“principle of law”) which in substance adopts a solution different from that applied in the (final) sentence rejecting the appeal.

 

La non incidenza del principio di diritto su una sentenza passata in giudicato, rende tale principio assimilabile, sotto il profilo degli effetti, alla pronuncia di incostituzionalità della norma in base alla quale la sentenza stessa era stata emessa. Infatti, anche in merito a tale pronuncia viene comunemente rivendicata l’inidoneità a retroagire su una sentenza divenuta definitiva. Tuttavia, mentre con il principio di diritto si riconosce che la norma applicata dalla sentenza, pur necessitando di un chiarimento, era (ed è) essenzialmente legittima, con la pronuncia di incostituzionalità si certifica che la norma non avrebbe mai dovuto essere emanata in quanto in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento. Quindi, in questo secondo caso, una retroazione, quanto meno parziale, della suddetta pronuncia sulla sentenza stessa, risulterebbe più coerente con l’oggettiva diversità delle due fattispecie.

 

The non-incidence of the principle of law on a final judgment makes this principle comparable, in terms of effects, to the pronouncement of unconstitutionality of the rule on the basis of which the judgment itself was issued. In fact, even with regard to this pronouncement, the inability to retroact on a judgment that has become final is commonly claimed. However, while with the principle of law it is recognized that the rule applied by the judgment, although requiring clarification, was (and is) essentially legitimate, with the pronouncement of unconstitutionality it is certified that the rule should never have been issued as it conflicts with the fundamental principles of the legal system. Therefore, in this second case, a retroaction, at least partial, of the aforementioned pronouncement on the judgment itself, would be more consistent with the objective diversity of the two cases.

Il principio di diritto ex art. 363 c.p.c. può essere enunciato anche quando la sentenza (definitiva) abbia recato una motivazione illegittima e tuttavia abbia poi, nella fase dispositiva, applicato una norma legittima (art. 384 c.p.c.). Anche in tal caso, per effetto dell’ultimo comma dello stesso art. 363 c.p.c., tale principio non incide sulla sentenza. Da ciò si ricava che la “sentenza” è equiparabile al “provvedimento amministrativo”, in quanto, anche per quest’ultimo, ai sensi dell’art. 21 octies comma 2 della Legge 241/90, vige la non annullabilità (e quindi la non modificabilità) laddove il dispositivo del medesimo sia comunque conforme alla legge.

 

The legal principle pursuant to art. 363 of the Code of Civil Procedure may also be stated when the (final) judgment has contained an illegitimate motivation and yet has then, in the dispositive phase, applied a legitimate rule (art. 384 of the Code of Civil Procedure). Even in this case, by effect of the last paragraph of the same art. 363 of the Code of Civil Procedure, this principle does not affect the judgment. From this it follows that the “judgment” is comparable to the “administrative provision”, since, also for the latter, pursuant to art. 21 octies paragraph 2 of Law 241/90, non-annulment (and therefore non-modifiability) applies where the dispositive part of the same is in any case compliant with the law.

 

Ai sensi dell’art. 363 comma 1 c.p.c.,quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”.

L’ultimo comma della stessa norma statuisce chela pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”.

 

• La norma distingue due casi di non impugnabilità: “quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato” e “quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione”. Tra i casi nei quali la sentenza non può essere impugnata per Cassazione (“non ricorribilità”) vi è quello in cui essa sia passata in giudicato (art. 324 c.p.c.). Ciò accade o quando le parti non abbiano proposto il ricorso entro il termine, oppure quando il ricorso sia stato proposto ma sia stato respinto (con sentenza appunto della stessa Cassazione, Giudice di ultima istanza). Pertanto, per dare un senso alla distinzione tra le due ipotesi previste dalla norma, si deve, necessariamente, ritenere che la “non ricorribilità” in Cassazione si riferisca solo al caso in cui il ricorso sia stato proposto ma sia stato respinto dalla stessa Corte, perché altrimenti questo caso si confonderebbe con quello della mancata proposizione entro il termine e cioè con l’ipotesi in cui il ricorso in Cassazione non sia stato neanche proposto. Quindi, anche quando avverso la sentenza della Cassazione non è esperibile nessun altro ricorso (passaggio in giudicato determinato dal fatto che la Corte è Giudice di ultima istanza), il Procuratore Generale può chiedere che la stessa enunci il principio di diritto. Ciò, evidentemente, perché egli ritiene che, pur se la Corte, nel definire il giudizio, abbia applicato una norma essenzialmente legittima, tale norma necessiti di un chiarimento che ne definisca la portata e gli effetti.

La domanda è la seguente: se, a seguito della richiesta del Procuratore Generale, la Corte enuncia un “principio” che in realtà, nella sostanza, va a modificare quello che aveva espresso nella sentenza di rigetto del ricorso, questa modifica può essere tale da incidere sulla sentenza stessa?

Se, da un lato, è vero che ormai la pronuncia non può più essere impugnata in quanto resa dalla Cassazione, Giudice di ultima istanza, è anche vero che la stessa Cassazione, in accoglimento della richiesta del Procuratore Generale, è intervenuta per modificare il principio contenuto nella pronuncia stessa, modifica che ad oggi comporterebbe l’accoglimento dell’istanza del ricorrente e che quindi cambierebbe radicalmente l’esito dell’azione giudiziale esperita. Però, non appare possibile ritenere che tale modifica possa andare ad incidere su una pronuncia già emessa, in quanto, se ciò accadesse, verrebbe ad essere violato il divieto del “bis in idem processuale”, ossia l’impossibilità di emettere una seconda sentenza per un medesimo fatto: si tratta di un divieto posto a tutela di chi dalla sentenza ha avuto ragione.

 

Però, ferma restando la rilevanza del principio del “ne bis in idem processuale”, la cui centralità all’interno dell’ordinamento non si intende qui certamente mettere in discussione, appare opportuno richiamare l’attenzione su un principio che forse è altrettanto importante, ossia quello in base al quale “l’estinzione del processo non estingue l’azione” (art. 310 comma 1 c.p.c.). Il ricorrente, nonostante che abbia rinunciato agli atti del giudizio e quindi all’esercizio del proprio diritto costituzionale alla difesa (art. 24 Cost.), determinando pertanto l’estinzione del giudizio stesso, mantiene sempre la possibilità di riesercitare l’azione giudiziale per il medesimo fatto (salvo, naturalmente, il termine di prescrizione previsto per l’azione che si intende esercitare). Ciò rappresenta un potenziale pericolo per la controparte, la quale, dopo essere stata citata in giudizio dal ricorrente, si è vista liberata, proprio in virtù della rinuncia operata da quest’ultimo, da ogni tipo di responsabilità, che, invece, avrebbe potuto essergli contestata – con conseguente sentenza di condanna – se il ricorrente, invece di rinunciare, avesse proseguito l’azione giudiziale fino ad arrivare appunto a sentenza. La controparte, in virtù dell’estinzione del giudizio, si è vista liberata da qualsivoglia rischio di condanna, e però, malgrado ciò, resta teoricamente sempre esposta ad una successiva azione giudiziale da parte del medesimo ricorrente e per lo stesso fatto. Ai sensi dell’art. 100 c.p.c., “per agire in giudizio è necessario avervi interesse”.

Ma – ed è questo il punto – tale interesse, e quindi il diritto di adire il Giudice e di ottenere da quest’ultimo un pronunciamento, sussiste nella misura in cui venga dimostrata non soltanto la fondatezza della pretesa azionata ma anche la ferma “volontà” di ottenere tale pronunciamento, volontà che si dimostra attraverso una condotta processuale volta alla tutela dei propri interessi, e non all’abbandono (vedi rinuncia agli atti) di questi ultimi. Del resto, a quale finalità risponde tutto il sistema di preclusioni e decadenze previste dal c.p.c.? Proprio a quella di punire il mancato esercizio delle facoltà difensive che l’ordinamento mette a disposizione, e tale punizione ha una duplice finalità: la prima, di ordine pratico, di evitare che un giudizio vada avanti all’infinito, ledendo quindi il principio di economicità del procedimento; la seconda, di ordine “simbolico”, di sanzionare il disinteresse dimostrato dalla parte processuale nel tutelare i propri interessi, perché, come la parte viene sanzionata con la condanna alle spese per lite temeraria quando abbia agito (o resistito) in giudizio con colpa grave e cioè senza rendersi conto della infondatezza della pretesa azionata (art. 96 c.p.c.), così, allo stesso modo, essa viene sanzionata con la decadenza dall’esercizio delle facoltà processuali quando abbia dimostrato, con il proprio comportamento inerte, di non aver alcun interesse a difendersi.

Quindi la rinuncia agli atti del giudizio – che è la dimostrazione per eccellenza della “inerzia processuale” – dovrebbe estinguere non soltanto quest’ultimo ma anche lo stesso “diritto di agire”, che, invece, viene salvaguardato dall’art. 306 c.p.c. .

Ed allora, se un comportamento processualmente inerte della parte (rinuncia agli atti del giudizio) non pregiudica, suo malgrado, il diritto della medesima di tornare ad agire giudizialmente per lo stesso fatto, dovrebbe essere previsto che il principio di diritto enunciato dalla Cassazione su richiesta del Procuratore Generale nell’interesse della legge, quando va a modificare in senso sostanziale il contenuto della decisione già emessa, e lo va a modificare in senso favorevole a chi aveva dato prova di voler tutelare fino in fondo i propri interessi proprio mediante il ricorso in Cassazione, possa comportare una sorta di riapertura del procedimento e quindi un rovesciamento del precedente verdetto di reiezione del ricorso. Altrimenti, si finisce col “premiare” (vedi riproponibilità dell’azione ex art. 306 c.p.c.) la parte che ha dimostrato disinteresse nel difendersi (rinuncia agli atti del giudizio), e col “punire” (vedi impossibilità, del principio di diritto ex art. 363 c.p.c., di incidere sulla sentenza impugnata dinanzi alla stessa Corte) chi invece ha dimostrato un concreto interesse alla difesa, avendo esperito tutti i gradi di ricorso (fino alla Cassazione).

 

L’impossibilità, prevista dall’ultimo comma dell’art. 363 c.p.c., del “principio di diritto” enunciato dalla Cassazione, di incidere retroattivamente sulla sentenza passata in giudicato (sentenza che può essere o quella di primo/secondo grado, nel caso in cui sia inutilmente decorso il termine per ricorrere in Cassazione, oppure che può essere quella della stessa Cassazione, Giudice di ultima istanza e la cui pronuncia, pertanto, è “naturalmente” definitiva), dovrebbe condurre, a parere di chi scrive, alla seguente riflessione.

Questa irretroattività richiama quella che solitamente caratterizza (almeno così si ritiene) le pronunce di incostituzionalità della norma in base alla quale è stata emessa una sentenza già passata in giudicato. Quindi ciò vuol dire cheprincipio di diritto nell’interesse della legge” e “sentenza di incostituzionalità della norma” sono sullo stesso piano, ossia entrambe hanno un’efficacia non retroattiva: non possono incidere su una sentenza divenuta definitiva.

Tuttavia, resta comunque ferma la differenza tra le due fattispecie: il principio di diritto viene enunciato perché la norma, che la sentenza definitiva ha applicato al caso di specie, è essenzialmente legittima, e tuttavia si presenta come lacunosa nella formulazione, oppure deve essere contemperata con principi aventi una rilevanza generale, ragion per cui il suddetto principio interviene a fornire la corretta chiave di lettura della medesima; la sentenza di incostituzionalità viene emessa perché la norma, essendo illegittima, non può essere in alcun modo applicata e quindi se ne sancisce l’eliminazione dall’ordinamento. Nel primo caso, la norma, nonostante le sue criticità applicative, conteneva (e contiene) in sé un principio conforme al diritto e quindi non poteva non essere applicata, ragion per cui il principio generale successivamente enunciato ha contribuito soltanto a chiarirne il significato e quindi a precisarne l’ambito di operatività. Nel secondo caso, la norma non viene “chiarita” o comunque “interpretata” mediante un “principio”: essa viene dichiarata illegittima, e quindi se ne dispone la rimozione.

Questa differenza dovrebbe indurre a farsi questa domanda: è veramente un “dogma” il principio in base al quale la pronuncia di incostituzionalità non può avere effetto sulla sentenza passata in giudicato? Se, da un lato, appare giustificato che, ex art. 363 ultimo comma c.p.c., il principio di diritto non incida su tale sentenza in quanto quest’ultima ha applicato una norma fondamentalmente legittima, anche se, per chiarire la effettiva portata di quest’ultima, è stato necessario un chiarimento successivo, rappresentato appunto dall’enunciazione del principio stesso, dall’altro lato la pronuncia di incostituzionalità ha certificato che la sentenza definitiva ha applicato una norma la quale non avrebbe dovuto avere diritto di cittadinanza all’interno dell’ordinamento, essendo essa del tutto contraria ai principi fondamentali di quest’ultimo. E quindi, in questo secondo caso, apparirebbe giustificato che la pronuncia stessa potesse, quanto meno in parte, retroagire sulla sentenza definitiva, riconoscendo, a chi dall’applicazione della norma illegittima (e quindi dalla sentenza) aveva subìto dei danni, una qualche forma di parziale ristoro, da attribuire mediante una diversa regolamentazione, ex post, delle posizioni delle parti quali accertate dalla pronuncia stessa.

 

Tra i casi nei quali una sentenza “non è ricorribile per Cassazione” (art. 363 c.p.c.), vi è anche quello in cui essa, pur essendo stata motivata erroneamente in diritto, abbia statuito un principio che comunque deve considerarsi conforme al diritto stesso (art. 384 ultimo comma c.p.c.).

La fattispecie è questa: il Giudice, nella motivazione, ha sostenuto un principio che non è pertinente al caso di specie, mentre, nel dispositivo, ha enunciato un principio che ben si adatta al caso di specie e che quindi è conforme al diritto, e pertanto, sulla base di tale principio, ha respinto il ricorso della parte. Ebbene, quest’ultima non potrà impugnare la sentenza sostenendo che il contrasto tra motivazione e dispositivo rende illegittima la sentenza, in quanto ciò che conta è che il Giudice, nel dispositivo, abbia applicato un principio conforme alla legge. In tal caso, a norma dell’art. 384 c.p.c., l’unica cosa che la Corte di Cassazione possa fare è correggere la motivazione, rendendola coerente con il dispositivo: l’intervento della Corte, quindi, ha come unico scopo quello di ripristinare la consequenzialità tra dispositivo e motivazione.

Essa, pertanto, non potrà annullare la sentenza per effetto del suddetto contrasto: con l’enunciazione del principio di cui all’art. 363 comma 1, si ribadisce la piena conformità del dispositivo alla legge, e quindi si certifica l’impossibilità giuridica di annullare la sentenza: l’unica operazione che si potrà fare sarà quella, appunto, di correggere la motivazione.

La domanda che ci si pone è la seguente: questo principio per il quale l’errore di diritto nella motivazione non inficia la validità della sentenza e quindi della decisione, vale anche per i provvedimenti amministrativi?

Se un provvedimento reca una motivazione antigiuridica, ossia illegittima, e però il contenuto della decisione è legittimo, quindi pienamente conforme al diritto, tale provvedimento è ugualmente valido? Ai sensi dell’art. 3 della Legge 241/90 (di seguito “Legge”), “la motivazione deve indicare … le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. Quindi tra motivazione e decisione sembrerebbe dover sussistere una stretta corrispondenza: se la motivazione non indica le ragioni giuridiche oppure le indica in modo errato, anche la decisione è errata e pertanto “tutto” il provvedimento dovrebbe essere annullato per violazione di legge ex art. 21 octies della Legge. L’estrema rilevanza della motivazione risulta anche dall’art. 10 bis della Legge, il quale, nel disciplinare il preavviso di rigetto dell’istanza, prevede che, ove a fronte di tale preavviso il privato abbia prodotto osservazioni, la PA debba, appunto, motivare, nel provvedimento finale, le ragioni per le quali tali osservazioni non possono essere accolte: altrimenti, il provvedimento stesso non potrà essere qualificato come legittimo.

Pertanto, cosa emerge da tutto ciò? Che le sentenze non sono equiparabili ai provvedimenti amministrativi. Però questa conclusione rischia di essere un po' “affrettata”, in quanto, ai sensi dell’art. 21 octies comma 2 della Legge 241/90,non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Per “violazione delle norme sul procedimento” si potrebbe intendere anche l’inosservanza dell’obbligo di una congrua motivazione del provvedimento finale: tale obbligo, infatti, assume un rilievo di prim’ordine in merito alla correttezza dell’azione amministrativa e quindi del relativo procedimento.

Di conseguenza, anche se la motivazione giuridica è errata in quanto si basa su norme non applicabili al caso di specie e quindi non pertinenti, se però la PA dimostra, dinanzi al Giudice, che la decisione contenuta nell’atto finale del procedimento non avrebbe potuto essere differente da quella adottata, il vizio di motivazione diviene irrilevante e quindi non è tale da comportare l’illegittimità dell’atto stesso.

Quindi, in realtà, anche per le sentenze, così come per i provvedimenti amministrativi, vige il principio per cui gli effetti dell’atto non possono essere intaccati dalla violazione dell’obbligo motivazionale (inteso, in tal caso, nel senso di erronea motivazione) quando il contenuto dell’atto sarebbe stato il medesimo anche nell’ipotesi in cui il suddetto obbligo fosse stato adempiuto.