Il giudice e il suo linguaggio
«When I use a word», Humpty Dumpty said, in rather a scornful tone,
«it means just what I choose it to mean - neither more nor less».
«The question is», said Alice, «whether you can make words mean so many different things».
«The question is», said Humpty Dumpty, «which is to be master - that’s all».
«Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante,
«questa significa esattamente quello che io scelgo che significhi - né più né meno».
«Bisogna vedere», disse Alice, «se puoi dare tanti significati diversi alle parole».
«Bisogna vedere», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda - è tutto qua».
L. Carroll, Alice in Wonderland
Abstract
L’autore analizza le espressioni linguistiche usate dal redattore di una recente sentenza penale della Corte di cassazione.
Il lavoro serve a comprendere cosa il giudice dice di sé attraverso le parole che ha scelto per la motivazione e quali siano la sua ideologia giuridica e la visione che ha della sua funzione giudiziaria.
L’autore riporta in modo integrale i passaggi salienti della motivazione e dopo ognuno di essi inserisce le sensazioni che ha ricavato dalla loro lettura.
The author analyzes the linguistic expressions used by the redactor of a recent verdict of the Supreme Court.
This work has been done in order to figure out what the judge says about himself through the words he chose for motivation and what his juridical ideology and judicial function’s view are.
The author reports in full the salient arguments of the motivation including the impressions obtained by reading them.
Indice
1. Premessa
2. Il campo di sperimentazione
3. La metodica di sperimentazione
4. Il dato quantitativo e la distribuzione degli spazi
5. Il testo e chi l’ha scritto
6. Conclusione
1. Premessa
Le sentenze penali vivono molte vite.
Sono precedute da un’asserzione iniziale, pubblica o privata, da un’ipotesi investigativa, da indagini e accertamenti, da un atto formale di accusa, da un dibattito pubblico in contraddittorio, eventualmente ripetuto quando le parti si avvalgono degli strumenti di contestazione che la legge gli consente.
Quando ognuno di questi passaggi si è esaurito, quando il giudice ha deciso e la sua decisione non è più contestabile, la sentenza inizia a vivere la sua prima vita, come atto formale e tipico della funzione giurisdizionale, capace di produrre tutti gli effetti che l’ordinamento ne fa derivare.
La sentenza è un atto che “dice” la verità perché questo è il valore che le assegna l’ordinamento.
Una verità giunta a conclusione di una duplice operazione interpretativa: le tesi proposte dalle parti diventano fatti processuali solo se il giudice gli attribuisce credibilità e quindi effettività, i fatti processuali diventano reati solo se il giudice ne afferma la coerenza con una fattispecie incriminatrice.
Ma questa è solo la prima vita.
Poi ci sono tutte le altre che la sentenza vive ogni volta che qualcuno la legge, ne fa occasione di riflessione, se ne serve come riferimento per elaborazioni concettuali.
Avviene così che l’atto interpretativo primario diventa a sua volta oggetto di interpretazione.
Viene scrutato e vivisezionato.
Si fa attenzione alla decisione che contiene, alla spiegazione che ne dà chi l’ha presa.
Si allarga lo sguardo a orizzonti più ampi, cercando similitudini e differenze in altre decisioni.
Si richiamano le norme che il decisore ha valorizzato o scartato e le altre che avrebbe potuto o dovuto prendere in considerazione e si sviluppano così ulteriori piani di riflessione.
La sentenza torna in vita, ma sempre e soltanto come oggetto da osservare “in vitro”, come un reperto da scansionare al microscopio per scoprire i segreti che cela.
Un fatto è però indiscutibile.
Le sentenze non sono atti dialogici, non ammettono dibattito.
Certo, è innegabile che il giudice formi la sua decisione sulla base di una miriade di impulsi, non solo quelli strettamente processuali ma anche gli altri propri della sua formazione e della sua cultura giuridica e generale, sicché non è improprio affermare che le voci altrui condizionino in qualche modo la sentenza.
È anche vero che le tante vite vissute dalle sentenze compongono un panorama tutt’altro che silente, creato apposta per dire qualcosa ed essere ascoltato.
Ma la sentenza, di per sé considerata, è nient’altro che un monologo e l’unica voce che conta è quella del giudice.
Una voce fatta di parole e segni che insieme esprimono visioni, ideologie, metodiche, in qualche caso anche sentimenti ed emozioni.
Questa natura della sentenza, che pure è sotto gli occhi di tutti, che ognuno può sperimentare semplicemente leggendola, è tuttavia decisamente trascurata.
Come se l’atto del decidere meritasse di essere considerato soltanto per il contenuto della decisione e per la motivazione che lo giustifica e dovesse invece essere relegato sullo sfondo l’in sé del giudice, inteso come singolo essere umano che manifesta sé stesso nella sentenza.
Come se la decisione, una volta uscita dalla sfera interiore del decisore, se ne distaccasse per sempre, si liberasse della sua paternità e contasse solo per il suo valore formale e oggettivo.
Approccio legittimo e imprescindibile ma è difficile negare che il suo uso esclusivo o la sua larga prevalenza portino alla dispersione di un’essenziale chiave di lettura della sentenza, quella connessa alla specifica umanità di chi la emette, che invece è utile recuperare.
Questa constatazione richiede qualche chiarimento.
Non servono introspezioni intimistiche, non aggiungerebbero nulla di decisivo alla riflessione giuridica classica.
Interessa invece comprendere se le manifestazioni proprie della specifica umanità del decisore prendano o no posto tra i criteri interpretativi e valutativi dai quali in ultima analisi dipende l’epilogo del giudizio.
Interessa ancora prima capire quali sono, se ce ne sono, le parole e i segni capaci di svelare l’in sé del giudice.
È finanche superfluo avvertire che un tentativo del genere non può che essere sperimentale.
Non mancano, e non sono neanche così isolate, autorevoli voci, provenienti da più ambiti scientifici, che predicano la stessa necessità qui affermata [1].
Si può ugualmente contare su contributi altrettanto autorevoli originati da interrogativi affini a quello da cui nasce questo scritto [2] e su metodiche che offrono supporti specifici [3].
Nessuno di essi ha tuttavia dato luogo a linee – guida condivise sicché chi desideri procedere comunque deve farlo solitariamente, tracciando da se stesso la rotta e scegliendo a suo arbitrio gli strumenti di navigazione.
Condizione, questa, che espone lo sperimentatore ad un elevato rischio di errori sia metodologici che valutativi, entrambi in grado di inficiare il risultato della ricerca.
Nonostante questo temibile handicap di partenza, vale comunque la pena provare.
C’è una sentenza perché c’è un giudice e, fintanto che sarà così, sarà sempre interessante sapere chi è il giudice che ci aspetta a Berlino.
2. Il campo di sperimentazione
Si è scelto di compiere l’esperimento su una singola decisione del giudice di legittimità, precisamente la sentenza n. 55948/2018 emessa dalla seconda sezione penale della Corte di cassazione in esito all’udienza del 20 luglio 2018.
…perché la Cassazione
Perché ad essa spetta “non solo di ridefinire attraverso l’interpretazione l’enunciato normativo nel contesto dell’applicazione, ma […] di contribuire alla costruzione dell’ordine giuridico» e questo suo ruolo primario deriva da «una pluralità di fattori, tra cui il processo di costituzionalizzazione del diritto, dove il giudice penale si assume il compito di adeguare continuamente la legge ai principi costituzionali, il riconoscimento del ruolo che la Corte costituzionale assegna al “diritto vivente” della Corte di cassazione” [4].
La Corte di Cassazione rivendica di essere la massima artefice del diritto vivente e ciò le consente di influenzare in modo rilevante la vita dei cittadini, indicandogli ciò che è permesso e ciò che è vietato e definendo la dimensione delle loro libertà.
Questo basta a legittimare la scelta.
…perché una sola decisione e non tante
La spiegazione è ancora una volta la più semplice.
L’esame di un campione sufficientemente ampio di decisioni avrebbe ovviamente fatto emergere tendenze, indirizzi, vere e proprie scuole di pensiero. In altri termini, avrebbe agevolato una rassicurante oggettività. E tuttavia, qui non si cerca l’oggettività ma il suo contrario. Non si vuole parafrasare con parole diverse quello che la Cassazione dice con parole sue, né si pretende di estrarre l’ultima stilla di senso da questa o quella corrente interpretativa. Qui si cerca l’uomo, il singolo individuo, e si crede che il modo migliore per farlo sia ascoltare lui e lui solo, senza farsi distrarre da altre voci.
…perché quella decisione e non altre
Varie ragioni possono giustificare questa scelta.
La sentenza selezionata è assai recente sicché è per ciò stesso adeguata a rappresentare una sensibilità contemporanea.
L’estensore ha dovuto motivare su plurime questioni che hanno a vario titolo chiamato in causa sia il piano procedurale che quello sostanziale del giudizio. Si può quindi saggiarne su più fronti il modo di procedere, la tecnica espositiva, la logica utilizzata e si abbassa così il rischio di impressioni alimentate da momenti singoli e scarsamente significativi.
Le stesse questioni hanno sollecitato il giudice a “scrutare” il cuore del processo, invitandolo ad entrare nella materia viva del giudizio e anche questa caratteristica è preziosa perché obbliga chi decide ad una presa di posizione più significativa di quanto sarebbe se fossero agitati temi che non lambiscono l’in sé del decidere.
3. La metodica di sperimentazione
Non esistono – lo si è già detto – tecniche collaudate per il lavoro che si vuol compiere.
Si è pensato allora che il modo migliore è lavorare tra le righe, nel senso letterale del termine.
Seguirà dunque il testo della sentenza, esattamente come è stato redatto dal suo autore, evidenziato in corsivo.
Tra le sue righe si interpoleranno le riflessioni di chi scrive, comprese tra parentesi quadre.
Così che emerga nel modo più netto la connessione tra le parole dell’uomo giudice e le sensazioni che esse hanno suscitato nell’uomo che lo osserva.
Ci si asterrà, per contro, da ogni considerazione sulla vicenda sottostante al processo e si farà cenno all’esito del ricorso solo per le impressioni evocate dalla sua formulazione.
La riflessione riguarderà quindi soltanto la parte in diritto della decisione e si eviterà ogni riferimento che identifichi i protagonisti e i fatti di reato che gli sono stati addebitati.
4. Il dato quantitativo e la distribuzione degli spazi
Si crede utile, prima di iniziare l’esame della sentenza, sottolineare un dato di insieme, di natura essenzialmente quantitativa.
Nel suo formato ufficiale (quello liberamente acquisibile attraverso il sito web istituzionale della Corte), la decisione è un documento di dodici pagine in formato PDF.
La prima pagina serve per l’intestazione. La seconda e l’inizio della terza sono destinate all’esposizione del fatto e dei motivi di ricorso. Il resto del documento segue al “Considerato in diritto”.
All’interno di quest’ultima sezione vi sono ulteriori partizioni.
I paragrafi 1.1, 2, 2.1, 2.2, 2.3, 2.4, 2.5, 2.6 e 2.7 (pagg. 3/8) sono interamente destinati all’esposizione di indirizzi interpretativi, ovviamente funzionali a render conto preventivamente dei criteri che hanno guidato il collegio nella risposta alle questioni poste dai ricorrenti.
Segue un paragrafo 3, composto da sei righe, in cui si legge che i motivi di ricorso sono infondati o manifestamente infondati.
Inizia a questo punto (pagina 9) la parte conclusiva della sentenza, composta dai paragrafi che vanno dal 3.1 al 4.1 (pagina 11), la quale è formata in parte largamente preponderante da riassunzioni di passaggi motivazionali delle due decisioni di merito. L’esiguo spazio residuo serve all’estensore per confrontarsi con le singole deduzioni dei ricorrenti ed esprimere la sua valutazione al riguardo.
È dunque legittimo affermare che in un testo già sintetico – dato in sé neutro, la qualità di uno scritto non dipendendo affatto dalla sua lunghezza – il confronto tra il giudice e i ricorrenti è stato confinato in uno spazio addirittura esiguo: senza che, ancora una volta, quest’aggettivazione implichi necessariamente una valutazione negativa ma senza neanche escludere, ed anzi constatando, che una simile distribuzione degli spazi ha costretto l’estensore ad affermazioni sincopate e valutazioni lapidarie.
Al tempo stesso, più della metà della motivazione è stata spesa in richiami a precedenti giurisprudenziali.
È una tecnica assai diffusa nella motivazione delle decisioni di legittimità e non è difficile intravederne la spiegazione nella natura del giudizio affidato alla Corte di cassazione e nella necessità di evidenziare in modo chiaro e agevole che ogni sua sentenza è parte di un divenire articolato e sedimentato.
È comunque evidente che in questo caso il collegio decidente e l’estensore si sono più che significativamente riconosciuti negli indirizzi citati e non hanno mai avvertito la necessità di metterli in discussione e di esplorare possibilità alternative. Sono stati citati e assunti come scontati, talmente scontati e talmente decisivi da rendere preferibile destinargli più spazio che ad ogni altra considerazione.
Un altro dato emerge infine dall’analisi quantitativa: la sentenza impugnata e quella che l’ha preceduta hanno avuto, di nuovo, più spazio dei motivi di ricorso. Anche questa è una tecnica espositiva piuttosto frequente. Ciò non elimina tuttavia una precisa impressione. Nel complesso, chi ha scritto la motivazione ha configurato una struttura gerarchica estremamente precisa e riconoscibile: sulla cima della piramide valoriale sta ciò che dice la stessa Corte di cassazione, più sotto stanno le convinzioni del giudice di merito, all’ultimo gradino si collocano le richieste e gli argomenti di chi ricorre [5].
Nulla di sensazionale, è così che accade, ma è difficile rimuovere l’idea che ci sia qualcosa di sbagliato in quest’ordine:
il già detto conta di più di quello che si potrebbe ancora dire;
l’impugnazione è sì presa in considerazione ma, appunto, solo dopo che il giudice ha enunciato il suo credo e solo per verificarne la coerenza a quel credo.
Questo è ciò che suggerisce il dato qui preso in considerazione.
5. Il testo e chi l’ha scritto
Considerato in diritto
I ricorsi sono, nel complesso, infondati.
[L’estensore mette subito le carte in tavola. Ai ricorrenti e ai loro difensori basta leggere la prima riga della parte in diritto per sapere che le loro ragioni non sono state giudicate idonee a ribaltare il verdetto precedente. Si tenderebbe a dire che sia bene così, che ciò che più conta è l’esito dei ricorsi e allora tanto vale darne subito notizia. Ma poiché questo scritto si occupa di parole e segni e delle impressioni che le une e gli altri sono capaci di generare, si potrebbe ugualmente dire che la collocazione della notizia nell’incipit della motivazione richiama qualcosa di ineluttabile. Come se quello e solo quello fosse il risultato possibile, presentatosi fin da subito alla percezione dei giudici con tale nettezza da non ammettere alcun dubbio, giustificando così la sua immediata proclamazione e la posposizione delle ragioni che l’hanno determinato].
1. Va preliminarmente rilevato che i motivi nuovi depositati nell’interesse dell’imputata presso la Cancelleria della Corte di cassazione il 9 luglio 2018 non possono essere esaminati, perché depositati oltre il termine del quindicesimo giorno antecedente l’odierna udienza, fissato dall’art. 611 c.p.p.
1.1. Un orientamento tradizionale ed univoco di questa Corte ritiene, infatti, che il termine di quindici giorni per il deposito di motivi nuovi e memorie difensive, previsto dall’art. 611 c.p.p. relativamente al procedimento in camera di consiglio, è applicabile anche ai procedimenti in udienza pubblica e la sua inosservanza esime la Corte di Cassazione dall’obbligo di prendere in esame le stesse (cfr. Sez. V, n. 2628 del 01/12/1992, dep. 1993, Boero, Rv. 194321; Sez. I, n. 853 del 27/11/1995, dep. 1996, Coppolaro; Sez. I, n. 23809 del 06/05/2009, Vattiata, Rv. 243799; Sez. VI, n. 18453 del 28/02/2012, Cataldo, Rv. 252711; Sez. I, n. 19925 del 04/04/2014, Cutrì, Rv. 259618; Sez. II, n. 50200 del 28/04/2015, Ciotti, Rv. 265935), in particolare osservando che la disposizione dell’art. 611 c.p.p. <<si applica anche per (il procedimento) in udienza pubblica, ove si considerino la regola della pienezza e dell’effettività del contraddittorio cui si ispira il vigente codice di rito e la necessità per il giudice di conoscere tempestivamente le varie questioni prospettate».
Si è, condivisibilmente, precisato anche che, ai sensi dell’art. 585, comma 4, c.p.p., la presentazione dei motivi nuovi, ma anche delle memorie, deve avvenire nel numero di copie necessarie per tutte le parti (oltre che, ovviamente, per i componenti del collegio giudicante), e che le predette «copie sono in cancelleria, a disposizione delle controparti che, conoscendo i termini, sono in grado di ritirarle tempestivamente, senza che il rispetto del principio del contraddittorio richieda che venga data ad esse specifica comunicazione o notificazione»: a detta disposizione va riconosciuto valore generale in tema di impugnazioni, anche in considerazione della piena salvaguardia del contraddittorio, doverosa sia nell’uno, sia nell’altro tipo di procedimento dinanzi alla Corte di cassazione.
[I due paragrafi che precedono sanciscono un’inammissibilità cui segue uno sbarramento cui seguirebbe normalmente una perdita di sapere. Non in questo caso, tuttavia, per le ragioni che saranno chiarite di seguito.
Il difensore di una ricorrente ha depositato motivi nuovi di ricorso quando mancavano undici giorni alla data fissata per l’udienza di trattazione.
Il collegio, e per esso l’estensore, ne ha decretato l’inammissibilità. Lo ha fatto tuttavia applicando una disposizione contenuta nell’articolo 611 del codice di procedura penale (di seguito CPP) che il legislatore ha esplicitamente dettato per i procedimenti in camera di consiglio, mentre l’udienza per il caso in esame è stata tenuta in forma pubblica.
L’estensore non tralascia questo dato ma lo supera richiamando “un orientamento tradizionale ed univoco di questa Corte” secondo il quale il termine fissato dall’articolo 611 “è applicabile anche ai procedimenti in udienza pubblica e la sua inosservanza esime la Corte di Cassazione dall’obbligo di prendere in esame [i motivi nuovi e le memorie difensive, NdA]”.
Continua poi il discorso giustificativo richiamando “la regola della pienezza e dell’effettività del contraddittorio cui si ispira il vigente codice di rito e la necessità per il giudice di conoscere tempestivamente le varie questioni prospettate”.
L’estensore dice dunque alla ricorrente interessata e a tutti noi – e dicendolo contribuisce a definire il diritto vivente – che il collegio ha scelto di non prendere in considerazione i motivi nuovi di ricorso, che così ha fatto perché li ha ritenuti inammissibili, che ha individuato esso stesso tale inammissibilità assieme agli altri giudici che l’hanno preceduto, che tutto questo è servito per tutelare al meglio la pienezza e l’effettività del contraddittorio, cioè la ragione ispiratrice del codice processuale penale.
Tante parole, tanti richiami alla saggezza giurisprudenziale. Eppure, a dispetto di una sequenza argomentativa apparentemente ferrea e logica, il risultato è l’affermazione di uno strano principio:
per difendere il contraddittorio è necessario fare a meno di una parte di contraddittorio.
Segue poi il richiamo all’articolo 585 comma 4 CPP.
L’estensore se ne serve per evidenziare la prescrizione del numero di copie che chi formula motivi nuovi di impugnazione è tenuto a depositare e le sue connessioni col principio del contraddittorio.
Non cita invece, curiosamente, il successivo comma 5 che pure avrebbe una sua importanza dal momento che è la norma che sancisce la decadenza per ogni impugnazione (compreso il ricorso per cassazione) che non rispetti i termini previsti dall’articolo 585 e dunque anche quelli fissati per i motivi nuovi.
L’estensore si serve dunque di un argomentare non facile da decifrare.
Non cita la norma che sembrerebbe decisiva e preferisce invece affidarsi all’ “orientamento tradizionale e univoco”.
Non si affida direttamente al legislatore e trova invece maggiore conforto nell’opera interpretativa.
Questo sul piano dei principi, eppure lo stesso estensore non esita a tradirli a pagina 9.
Ci si riferisce al paragrafo 3.3.1 laddove è testualmente affermato che “Questi rilievi (l’estensore si riferisce alle considerazioni svolte immediatamente prima - NDR) evidenziano – a prescindere dalla già evidenziata tardività – anche la manifesta infondatezza dei motivi nuovi presentati nell’interesse dell’imputata”.
L’incoerenza di questo passaggio è palese. A pagina 3 il lettore apprende che i motivi nuovi sono stati considerati inammissibili perché depositati tardivamente. Ma a pagina 9 l’estensore li prende ugualmente in considerazione, li confuta e li qualifica in termini di manifesta infondatezza.
È un non senso, non dovrebbe avvenire eppure avviene.
Una spiegazione giuridica non c’è sicché è legittimo rifugiarsi nelle impressioni le quali suggeriscono due possibili alternative.
La prima: l’estensore ha impiegato un volume di fuoco ben superiore al necessario all’unico scopo di annientare le trincee difensive, a dimostrazione di una ragione schiacciante.
La seconda: l’eccesso di risposta ai rilievi difensivi ha avuto una finalità meramente consolatoria. La difesa è avvertita che la sanzione dell’inammissibilità non ha prodotto un danno reale perché non era sfuggita l’inconsistenza dei motivi nuovi.
Solo impressioni, solo ipotesi, ché altro non è possibile. Fatte per l’irriducibile necessità umana di spiegare anche l’inspiegabile].
2. Ciò premesso, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento.
2.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. «travisamento della prova» (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.
Permane, al contrario, la non deducibilità, nel giudizio di legittimità, del travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).
2.2. La mancanza, l’illogicità manifesta e la contraddittorietà della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte, Sez. un., sentenza n. 24 del 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un., sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un., sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).
[Comincia con questi tre paragrafi l’azione di regolamento dei confini che l’estensore ritiene necessaria.
Una trafila di “no” o di “sì ma”, a ben vedere.
Non si può fare “un’indagine sul discorso giustificativo della decisione”, essendo soltanto consentito “verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento”.
Si può dedurre il vizio di travisamento della prova ma solo se il ricorrente indichi “in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte” e sempre che, beninteso, “non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato”.
Non si può dedurre in assoluto il travisamento del fatto.
Si può rilevare “La mancanza, l’illogicità manifesta e la contraddittorietà della motivazione” ma solo ad una tassativa condizione, che risultino “di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi” e che si tratti di “rilievi di macroscopica evidenza”.
Non contano nulla “le minime incongruenze”.
È concessa infine un’ampia apertura di credito alla decisione impugnata. Si considerano infatti “disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici”.
L’estensore parla chiaro: il giudice di legittimità si ritiene obbligato a porre un robusto diaframma tra sé e il fatto; non è compito suo “cercarlo” e non gli spetta neanche cercare gli altri fatti che potrebbero smentirlo; non gli interessano le sbavature di poco conto; dà per buoni i convincimenti di merito espressi esplicitamente; considera alla stessa stregua quelli non espressi purché non si ravvisino vizi giuridici imponenti la cui esistenza e la cui imponenza devono essere comunque dimostrate, va da sé, a cura di chi ricorre.
In altri termini, l’estensore, in nome e per conto del collegio di cui fa parte e di tutti gli altri giudici le cui decisioni richiama, si ritrae dal fatto, accettando il confronto solo nell’eventualità di fratture fattuali e logiche di dimensioni eclatanti.
Non stupisce questa posizione. È perfettamente in linea con la funzione istituzionale della Corte suprema.
L’estensore la dettaglia tuttavia con una congerie di sostantivi e aggettivi: adeguatezza delle considerazioni, maniera specifica e inequivoca, percettibilità ictu oculi, evidenza macroscopica, incongruenze minime, incompatibilità logica.
Alcune di queste espressioni contengono a prima vista indicatori di quantità e si spazia così dal minimo al macroscopico.
Resta però inspiegato cosa sia l’uno e cosa sia l’altro.
L’estensore non aggiunge alcun vademecum, alcuna linea – guida e non potrebbe farlo anche se volesse perché non c’è modo di misurare concetti non misurabili.
Lo stesso vale per l’adeguatezza, per la logica, per l’evidenza, per l’incompatibilità.
Al pari di quelle precedenti, queste parole esprimono astrazioni, aspirazioni tendenziali e suggeriscono metodiche interpretative e valutative.
Ma, ancora una volta, nessuno potrebbe offrirne una definizione condivisa e misurabile, se non rifugiandosi dietro concetti - si pensi, ad esempio, all’id plerumque accidit – nei quali non è difficile scorgere manifestazioni del Sistema 1 kahnemaniano, euristiche soggette come tali al rischio di plurimi bias cognitivi.
Si può quindi azzardare un’impressione:
che l’estensore, parlando di adeguato, logico, evidente, incompatibile, minimo e macroscopico, stia raccontando soltanto sè stesso, ci stia dicendo ciò che è per tale per lui
e ciò che pensa sia tale per quelli che l’hanno preceduto o che lo accompagnano nella medesima funzione.
Niente di più e niente di meno].
2.3. Secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte (per tutte, Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio - 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno - 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con l’aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che «La funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta».
Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una “duplice specificità”: «Deve essere sì anch’esso conforme all’art. 581 c.p.p., lett. C (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando “attacca” le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresì, contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente» (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio - 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
Risulta, pertanto, evidente che, «se il motivo di ricorso si limita a riprodurre il motivo d’appello, per ciò solo si destina all’inammissibilità, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente ‘attaccato’, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato. Né tale forma di redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello) potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli nell’atto di impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice d’appello abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilità. E ciò per almeno due ragioni. È censura di merito. Ma soprattutto (il che vale anche per l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello) non è mediata dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa motivazione (e tanto più nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza “grafica”, pretende la dimostrazione della sua mera “apparenza” rispetto ai temi tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto, è pure onerata dell’obbligo di argomentare la decisività del vizio, tale da imporre diversa conclusione del caso.
Può, pertanto, concludersi che “la riproduzione, totale o parziale, del motivo d’appello ben può essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo quando ciò serva a “documentare” il vizio enunciato e dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei principi consolidati in materia di “motivazione per relazione” nei provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione” (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio - 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
2.4. Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 1307 del 26 settembre 2002 - 14 gennaio 2003, CED Cass. n. 223061).
[Questi due paragrafi servono all’estensore per puntualizzare un altro caposaldo: il requisito della specificità, i corollari che lo accompagnano e gli effetti che ne seguono.
Ci spiega che è specifica solo la critica argomentata della decisione impugnata, cioè l’enunciazione di motivi che indichino puntualmente le ragioni di fatto e di diritto su cui sono fondati.
Una specificità che, nel caso del ricorso per cassazione, deve essere doppia perché finalizzata a dimostrare l’esistenza di uno dei vizi la cui denuncia è consentita dalla legge e la sua decisività, da intendersi come idoneità a sovvertire il percorso logico adottato dal giudice sì da imporre una decisione differente.
L’estensore avverte che il requisito non è affatto soddisfatto quando chi ricorre si limiti a riprodurre i motivi usati per appellare la sentenza di primo grado: ciò equivarrebbe a ignorare la decisione del secondo giudice, quindi ad evitare il confronto con essa, perfino quando manchi la motivazione su uno o più motivi di impugnazione.
Il giudice di ultima istanza ci fa dunque sapere che il non detto, se è non detto del giudice precedente, non è veramente tale perché in realtà ciò che bisognava dire è stato detto silenziosamente, si tratta solo di comprenderlo e prenderne atto. Se il giudice ha scelto il silenzio, vuol dire che non era necessario parlare, men che meno gridare, tanto era ovvia la verità implicita.
Non basta. L’estensore ci dice che c’è una seconda forma di non detto (o non ben detto), quella di chi ricorre. Solo che il suo peso e i suoi effetti sono assai diversi. In questo caso, il silenzio non si tramuta in qualcos’altro, rimane privo di valore e significato e impone un pesante tributo, interamente a carico di chi avrebbe dovuto parlare e avrebbe dovuto farlo nel giusto modo ma non l’ha fatto.
Una palese asimmetria.
Si potrebbe dire che è perfettamente giustificata da altre fisiologiche asimmetrie: da un lato una semplice parte e dall’altro un giudice terzo; da un lato un’ipotesi, una possibile prospettiva, dall’altro un’affermazione di verità.
Con in più, sullo sfondo, un inossidabile attributo del giudizio: la sua completezza.
È compito del giudice risolvere ogni punto della controversia che gli è posta, il non liquet non fa parte delle opzioni disponibili, la decisione non può che essere lo specchio di queste condizioni di sistema, la motivazione non può che riflettere coerentemente il percorso compiuto dal decisore per adempiere a quelle condizioni sicché contiene tutto e solo quello che serve per raggiungere il suo scopo funzionale.
La realtà è talvolta ben diversa, finanche inutile ricordarlo, ma ciò che conta è il piano astratto.
E tuttavia, anche a non abbandonare l’astrattezza, qualcosa continua a non funzionare.
Le parole dell’estensore ci spingono a credere che la fisiologica tensione alla completezza, ineludibilmente associata al giudizio e al suo atto conclusivo, contenga in sé, altrettanto fisiologicamente, il quantum di razionalità e di logica che preserva la decisione dall’arbitrio.
Non ci dice tuttavia quello che pure sarebbe giusto dire: la completezza è niente più che una presunzione e la razionalità come frutto della completezza è una seconda presunzione che si innesta sulla prima.
Una doppia presunzione, nient’altro che questo, per di più eretta su argomentazioni di disarmante vaghezza.
Al giudice di secondo grado – sostiene l’estensore – non spetta rispondere a tutte le domande dell’appellante né confrontarsi con tutte le sue argomentazioni.
Se non lo fa, come è sua prerogativa, non c’è da preoccuparsi perché è come se avesse implicitamente disatteso le questioni omesse e questo può avvenire in due modi: quando il giudice segue un percorso motivazionale differente; quando accredita una ricostruzione incompatibile con l’argomentazione prospettata dall’appellante.
Parole vaghe, addirittura indecifrabili.
Che vuol dire scegliere un percorso differente? Differente rispetto a che? L’estensore non lo dice e questo suo silenzio conta eccome. Perché autorizza a pensare che sia legittima una differenza nutrita soltanto dalla pura e semplice indifferenza riservata all’argomento di parte e che questa opzione, in assenza di qualsiasi criterio selettivo, sia possibile anche quando il motivo di appello sia specifico o doppiamente specifico o macroscopicamente specifico.
Come dire che va tutto bene, che la differenza del percorso basta a se stessa.
C’è poi l’altra possibilità, quella della ricostruzione incompatibile. Tale e quale vaghezza.
Affermare un fatto – è indiscutibile – equivale a escludere l’esistenza dei fatti che lo negherebbero.
Negare un fatto – è altrettanto vero – equivale a escludere l’esistenza dei fatti che lo affermerebbero.
Eppure, riconoscere la correttezza logica di queste due proposizioni non significa affatto che basti enunciarle, come l’estensore sembra dire.
Perché, se così fosse, la verità del processo coinciderebbe con la parola del giudice e non con il suo giudizio.
Eppure questo sembra dire l’estensore: raccontare una storia significa negare esistenza a tutto ciò che non ne fa parte, anche se qualcuno ha alzato la mano, ha chiesto la parola e ha detto che sa qualcosa che la contraddice.
È sufficiente che il cantastorie non sia interessato o sia indispettito dall’interruzione o sia convinto in buona fede di essere il miglior cantastorie sulla piazza.
Ognuna di queste eventualità – ci dice l’estensore – equivale ad escludere la rilevanza che avrebbe potuto avere l’interruzione.
Non basta.
Perché poi, quando si arriva in Cassazione, chi ha detto qualcosa in precedenza ed è stato ignorato deve dimostrare nuovamente di avere detto qualcosa in precedenza e di essere stato ignorato. Chi lamenta una motivazione apparente deve dimostrare l’apparenza e la decisività dell’omissione mascherata dall’apparenza. Deve farlo superando la prima presunzione, quella della completezza, e la seconda, quella della razionalità. Deve farlo senza disporre di parametri definiti e certi, muovendosi al contrario tra concetti vaghi e indeterminati e confrontandosi con standard flessibili e variabili. Deve operare in una condizione di totale solitudine (ché la Cassazione non è tenuta a cercare alcunché). Deve infine convivere con una preoccupante consapevolezza: che anche la Cassazione potrebbe non dire, omettere, decidere implicitamente.
Non il migliore dei mondi possibili].
2.5. In presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilità della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 1309 del 22 novembre 1993 – 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. III, sentenza n. 13926 del 10 dicembre 2011 – 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615).
2.6. Inoltre questa Corte, con orientamento (Sez. IV, n. 19710 del 3.2.2009, rv. 243636; Sez. II, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, rv. 269217) che il collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza di una c.d. “doppia conforme”, ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (<<Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice»).
[La doppia conforme: un altro caposaldo di rilievo stellare.
L’estensore lo presenta come qualcosa di venerabile verso cui provare rispetto e timore.
Nelle sue parole, la doppia conforme si trasfigura in un severo monolite che si staglia imponente allo sguardo di chiunque, una presenza impossibile da ignorare, al pari di quello che Stanley Kubrick riprese quattro volte in “2001: Odissea nello spazio” per simboleggiare la conoscenza.
Ne descrive la nascita: se il giudice d’appello condivide l’essenza della decisione di primo grado, gli è sufficiente motivare per relationem, senza essere tenuto “a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate”; quando si manifesta questa condivisione, quando il secondo giudice abbia “ esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione”, allora “le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità”.
Ciò che più conta, quando avviene questa mirabile fusione, il vizio di travisamento della prova subisce una severa limitazione, potendosi ricorrere per cassazione solo se la parte legittimata si riferisca a un argomento probatorio introdotto per la prima volta nella motivazione della sentenza d’appello.
Una linea interpretativa chiara e sicuramente espressiva di indirizzi interpretativi collaudati.
Ci si limita ad un’unica osservazione.
Se si prova ad andare un po’ oltre le formule descrittive e le massime ufficiali, ciò che rimane (e soprattutto ciò che è richiesto per la legittima formazione di una doppia conforme) è che il secondo giudice abbia abbondato in riferimenti alle determinazioni e ai percorsi logici di chi l’ha preceduto e abbia adoperato criteri omogenei a quelli del primo grado.
Se questa prescrizione è rispettata, il giudice di appello è addirittura esonerato dal riesame dei motivi di gravame sui temi che il giudice di primo grado ha affrontato e risolto.
Bastano requisiti così poco stringenti ed ecco la doppia conforme, il monolite e tutto ciò che ne consegue.
Col rischio tutt’altro che trascurabile che l’aggettivo conforme indichi non l’omogeneità dell’epilogo in quanto frutto della convergenza razionale di due giudizi autonomi ma un atteggiamento di ripiego acritico del controllore sull’operato del controllato].
2.7. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione «oltre ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato dell’art. 533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p., sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema – per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 –, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. II, sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, CED Cass. n. 239795). In argomento, si è più successivamente, e conclusivamente, affermato (Sez. II, sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 - 13 febbraio 2013, CED Cass. n. 254025) che «La previsione normativa della regola di giudizio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato».
[Viene adesso in rilievo la formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Se fosse possibile associarla a un riferimento letterario, bisognerebbe pensare ai pirandelliani personaggi in cerca d’autore.
L’estensore liquida l’argomento in poche battute.
È disposto ad ammetterne l’icasticità ma non va oltre.
Sostiene che non ce ne era bisogno, che il principio costituzionale della presunzione d’innocenza (meglio, di non colpevolezza) conteneva già tutto quello che c’era da dire, che nessun giudice vorrebbe e potrebbe affermare la responsabilità di chicchessia se non in possesso di solide certezze processuali.
L’epilogo è segnato: la formula ha una funzione meramente descrittiva e quindi se ne può fare a meno, non derivandone a carico del giudice alcun obbligo aggiuntivo rispetto a quelli di cui deve già farsi carico.
Non si nasconde un certo smarrimento.
Impressiona la facilità con cui il giudice liquida un precetto normativo che il legislatore del 2006 considerò così importante da avvertire la necessità di dargli l’autorevolezza della regola scritta.
Era palese la valenza garantistica della novella normativa ma il giudice la riduce a un’inutile tautologia.
Il giudice, quel giudice, sta rivendicando alla giurisdizione non solo la proclamazione della verità processuale ma anche la definizione della portata dello statuto garantistico che spetta a chi subisce il giudizio.
Sta dicendo che l’intervento del legislatore è stato improprio e ridondante, che la formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio è stata fin dall’inizio lettera morta, al punto che è inutile perfino verificare se in ipotesi possa avere un contenuto prescrittivo effettivo, se indichi la necessità di percorsi più rigorosi e di un eventuale riequilibrio tra le ragioni della difesa sociale e quelle della libertà individuale.
Quel giudice ci dice che in questo caso può fare a meno del legislatore].
6. Conclusione
Dovrebbero adesso seguire i paragrafi conclusivi della sentenza presa in esame.
Quelli in cui l’estensore entra finalmente in contatto con i motivi di ricorso e, attenendosi ai criteri esposti in precedenza, spiega le ragioni per cui li si è valutati in un certo modo e si è determinato un certo esito.
Ma questa parte, come chiarito in premessa, viene omessa poiché irrilevante per i fini propri dello scritto.
Il lavoro è adesso concluso.
Si è letto un testo.
Si avevano a disposizione parole combinate tra loro secondo certe sequenze. C’era poi uno stile, inteso come segno della personalità di chi ha scritto, e quindi un certo specifico modo di argomentare, fatto spesso di richiami all’auctoritas di chi ha già parlato. C’era una certa distribuzione degli spazi.
Si è tenuto conto di tutti questi aspetti e lo si è fatto provando a mettere a fuoco e descrivere le sensazioni che ognuno di essi ha provocato nel lettore, tenendo quindi a bada e relegando sullo sfondo riflessioni più razionali.
Le sensazioni non devono essere giustificate, sono quel che sono, e nessuno, neanche il loro produttore, può spiegare perché quelle e non altre.
Tuttavia, una volta che si sono manifestate, è possibile raccordarle e unificarle.
Ciò che prevale è la difficoltà di attribuire un senso a parole che sembrano averlo smarrito.
Parole che pretendono di essere chiare ed univoche mentre, al contrario, risultano indeterminate e confuse.
Continui richiami a un senso comune che in più di un caso pare tutt’altro che comune e forse neanche significativo.
Una sensazione, questa, cui seguono – si crede come conseguenze obbligate – l’incredulità e la diffidenza, cioè la scarsa propensione a considerare condivisibili e affidabili parole non chiare e non certe.
L’esperimento si conclude qui e ha una portata decisamente soggettiva: personale il metodo, personali l’ascolto e l’attenzione, personalissime le sensazioni conclusive.
Non è riproducibile e neanche esportabile.
Eppure, per dirla con le parole di Patrizia Bellucci, ogni giudice, tutte le volte che redige un testo proprio della sua funzione, assume una responsabilità linguistica elevata e dovrebbe quindi interessargli sapere quale effetto le sue parole hanno prodotto.
Un singolo lettore, parlando per sé e per sé solo, glielo ha appena detto.