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San Domenico: i nove modi di pregare

San Domenico
San Domenico

Composti da un anonimo autore, probabilmente a Bologna, nella seconda metà del XIII secolo, i Nove modi (o nove maniere) di pregare di san Domenico sono un’antica e preziosa testimonianza che racconta i gesti con cui il santo padre Domenico pregava.

In piedi, prostrato, in ginocchio: san Domenico, come ogni santo, sapeva bene che i gesti del corpo possono disporre con forza l’anima alla preghiera, alla contemplazione. In questa esperienza di preghiera di tutto l’uomo, l’anima viene elevata a Dio in un atto di lode, ringraziamento o supplica. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, questi nove modi possono essere concepiti come lo specchio della vita interiore di san Domenico e della sua profonda unione con Dio.

 

1. Un umile inchino alla Grandezza

«Inclinava umilmente il capo e il dorso al Cristo suo capo e comparando l’eccellenza di lui con la propria schiavitù, si dava tutto a riverirlo»[1].

L’abitudine a camminare a testa alta ci ha spesso fatto dimenticare cosa ci tiene in piedi, cosa fa girare il mondo, cosa ci mantiene sempre nell’essere. L’atto di inchinarsi si fa, o si faceva, dinanzi alle personalità importanti, ed è sempre stato segno, in qualche modo, di sudditanza, di inferiorità: termini poco graditi oggi. Eppure è anche il gesto del direttore d’orchestra, che, di fronte agli apprezzamenti del pubblico, s’inchina più e più volte per rendere grazie a chi lo acclama. L’inchino, la riverenza, non è mai un gesto servile, se non nelle bieche intenzioni di chi lo compie. Esso è segno di ammirazione, di ringraziamento, ed è frutto di un’umiltà che accetta di piegarsi a ciò che è più grande, più maestoso.

L’anti-Sherlock Holmes cattolico, il saggio prete-detective padre Brown, figlio di penna del grande Chesterton, commentava di fronte a un vile atto di superbia: «“Le altezze sono fatte perché le si guardi dal basso, non dall’alto”. “Perché si può cadere?”, chiese Wilfred. “L’anima può cadere, anche se il corpo non cade”, disse l’altro prete. […] “L’umiltà è madre di giganti. Si vedono cose grandi dalla valle, e solo cose piccole dalle cime”»[2].

 

2. Il più bel chiedo venia del mondo

«Pregava anche stendendosi completamente per terra con la faccia riversa, suscitando nel suo cuore sentimenti di compunzione e di pentimento»[3].

Prostrarci a terra ci ricorda che siamo terra, siamo polvere del suolo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!»[4]. Il giorno della mia prima professione mi prostrai a terra, a forma di croce, chiedendo la misericordia di Dio e dei confratelli. È travolgente il pensiero che si faccia così da 800 anni, e non solo nell’Ordine dei Predicatori, ma dovunque nella Chiesa si voglia offrire la propria vita o chiedere perdono, che poi in fondo è la stessa cosa.

Già, per donare la vita occorre riconoscere quanto poco essa valga senza Cristo, quanto poco essa conti senza quello Spirito che solo le può dar vita. Siamo poco più di un chicco di grano, e la più straordinaria Storia del mondo ci indica la Via, ci chiede di cadere a terra, il solo luogo dove un seme può germogliare, e lì morire con l’Autore della terra, per dare frutto di vita eterna.[5]

Perché, o per chi dobbiamo cadere a terra? «Se non potete piangere i vostri peccati, perché non ne avete, pensate al grande numero di peccatori che possono essere condotti alla misericordia e alla carità: è per loro che soffrirono i profeti e gli apostoli, è pensando ad essi che Gesù pianse amaramente»[6].

 

3. Il sicuro argine della penitenza

«Si rialzava da terra e con una catena di ferro si dava la disciplina»[7].

Ciò che nella Chiesa ha nobilitato la penitenza e la disciplina, allontanandole da masochismo e pazzia, è il fine per cui esse sono da sempre state praticate e raccomandate.

Dal castigo fisico, che oggi può avere il tenore del digiuno e dell’astinenza, fino alla penitenza spirituale, il bel Giardino di Cristo ha innumerevoli fiori, le cui spine, a volte, servono per preservarne la bellezza, per salvaguardarne la vita, quella preziosa perla, l’anima: «Attieniti alla disciplina, non lasciarla, custodiscila, perché essa è la tua vita»[8].

 

4. Un vero cavaliere si inginocchia davanti al Re

«Con lo sguardo al Crocifisso che contemplava con una incomparabile penetrazione, si genufletteva ripetutamente»[9].

Mi ha sempre affascinato la maestosità cavalleresca della genuflessione: quando mi sento intimorito da una potenza del mondo, o dalla sensazione di impotenza di fronte agli eventi, mi risuona sempre nella memoria il dirompente grido paolino: «Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra»[10].

Tutta la Creazione si inginocchia dinanzi al Suo autore: abbandonarsi ragionevolmente e con fiducia al Cuore pulsante di tutto l’universo significa riconoscere, con Benedetto XVI, che «chi impara a credere impara ad inginocchiarsi»[11].

 

5. In piedi si è più vicini al Cielo

«Si poneva dinanzi all’altare, in posizione ben eretta, sui piedi, senza appoggiarsi né sostenersi ad alcunché, con le mani allargate sul petto come un libro aperto»[12].

L’uomo, immagine di Dio, è il più bel libro visibile in cui il Volto del Creatore possa risplendere. Nonostante le sue brutture e opacità, l’uomo è molto più che diamante, è figlio. Alzarci in piedi significa riconoscere l’altezza della nostra natura, farlo da figli significa tendere all’altezza della Grazia, alla casa del Padre: «Gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio»[13].

 

6. «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me»[14]

«Fu visto pregare anche con le mani e le braccia completamente aperte e stese a forma di croce, mentre col corpo stava il più possibile eretto»[15].

La croce di Cristo condensa in sé tutta l’estensione dell’universo, rannoda la terra al Cielo, condensa il tempo e lo spazio in Dio. Ma l’uniformazione perfetta al Crocifisso in questa vita è un dono dall’Alto, che richiede virtù perfette e una dirompente azione della Grazia: persino san Domenico ricorreva a questo modo di pregare «solo quando sapeva per divina ispirazione che in virtù della sua preghiera sarebbe avvenuto qualcosa di grande e di meraviglioso»[16].

In effetti ci è difficile riconoscere e seguire quello straordinario Paradosso cristiano, per cui ottengo la Vita se rinuncio alla vita, quella meraviglia che è l’Incarnazione, se non volgiamo lo sguardo alla Croce che ci svela il segreto di Dio: «Non essere costretti da ciò che è più grande, ma essere contenuti da ciò che è più piccolo, questo è divino»[17].

 

7. Papà, mi prendi in braccio?

«Spesso invece, veniva trovato in preghiera, eretto, tutto proteso verso il cielo come una freccia scagliata diritta verso l’alto, da un arco ben teso»[18].

Questo è un modo di pregare che tutti abbiamo adottato nella vita, anche chi oggi grida con un ghigno disperato di essere diventato il cielo di se stesso.

Tutti da bambini abbiamo mosso i primi passi, e tutti siamo caduti; ignari del senso del mondo, sapevamo che per trovare il nostro senso, il nostro rifugio sicuro, ci bastava tendere le mani verso l’alto, magari versando qualche lacrima, e le due salde e forti braccia di mamma o papà sarebbero corse in nostro aiuto.

La Grazia non funziona diversamente, è che ce lo dimentichiamo troppo spesso, convinti che l’aver imparato a camminare (ne siamo certi?) ci esima da rendere grazie per quella terra che sostiene continuamente i nostri passi.

 

8. Un sano realismo porta al Mistero

«Si sedeva allora tranquillamente e, dopo essersi fatto un segno di croce, apriva davanti a sé un libro e cominciava a leggere»[19].

C’è nella Chiesa una certa idea per cui, per stare dinanzi a Dio, occorre togliere qualcosa. Verissimo. Anzitutto occorre togliere il peccato, che paradossalmente è in sé una privazione, una perdita. Poi occorre togliere le distrazioni, che sono semplicemente dei beni al posto o al momento sbagliato: anche leggersi la vita di un santo può essere un male se è fatto durante la santa Messa. Il problema non sta nella realtà, ma nell’intenzione. Varietà di carismi, unica Meta.

La straordinaria vicenda di san Domenico testimonia la logica dell’Incarnazione: è sempre quello stesso Mistero che mi chiama attraverso le pieghe della realtà, e passa ora attraverso un sorriso, ora attraverso un libro, come testimoniò anche santa Teresa d’Avila: «Per chi segue questa strada (quella cioè dell’orazione mentale, ndr), risulta utile un libro per raccogliersi rapidamente. A me tornava utile perfino vedere un prato, o l’acqua o i fiori. In queste cose trovavo traccia del Creatore, mi risvegliavano e insieme mi raccoglievano, servendomi da libro»[20].

 

9. La meta più lontana

«Conservava inoltre il suo modo di pregare anche quando viaggiava da un paese a un altro, soprattutto poi quando si trovava in qualche luogo solitario»[21].

Viaggiare è forse il segno più palese, più visibile, di quella profonda ricerca che è la stessa vita umana. Perché l’uomo, in questa continua tensione tra il già e il non ancora, è e rimane un animale contemplativo, che vuole essere al sicuro eppure sa che ogni sicurezza visibile ha sapore di eternità, ma non è in se stessa eterna.

La sola vera alternativa è la pacifica resa di chi si sa guidato, di chi non se la prende con le stelle soltanto perché ci indicano la via nella notte, di chi in tutti i luoghi si sente sanamente inquieto perché intravede la Casa; il Cristianesimo in fondo ha un che di romantico e avventuroso, perché «che cosa potrebbe essere più delizioso che provare nel giro di pochi minuti gli affascinanti terrori di un lontano viaggio e l’intima tranquillità di chi torna a casa sua[22].

Con san Domenico chiediamo questo dono di Grazia; possiamo con lui e con tutti i santi del Cielo desiderare, vedere e raggiungere questa divina Meta, oggi e per l’eternità…

 

[1]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, in Id. (ed.), S. Domenico visto dai suoi contemporanei. I più antichi documenti relativi al santo e alle origini dell’Ordine domenicano, ESD, Bologna 1998, 336.

[2]G.K. Chesterton, I racconti di padre Brown, Paoline, Roma 1978, 178.

[3]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 337.

[4]Gen 3,19.

[5]Cf. Gv 12,24-25.

[6]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 338.

[7]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 339.

[8]Pr 4,13.

[9]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 340.

[10]Fil 2,10.

[11]J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 190.

[12]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 342.

[13]Ireneo di Lione(s.), Contro le eresie e altri scritti, c. 4, p. 20.7, Jaca Book, Milano 19972, 349.

[14]Gv 12,32.

[15]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 342.

[16]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 345.

[17] «Non coerceri a maximo sed contineri a minimo divinum est», dall’Elogium sepulcrale S. Ignatii, testo nell’Imago Primi Saeculi Societatis Iesu, Anversa 1640.

[18]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 347.

[19]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 347.

[20]Teresa d’Avila (s.), La vita, c. 9, p. 5, in Id., Tutte le opere. Nuova edizione riveduta e corretta, Bompiani, Milano 2018, 119.

[21]P. Lippini (ed.), Le “Nove maniere di pregare di S. Domenico”, 352.

[22]G.K. Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia 199510, 14.

Testi consigliati:

  • Pietro Lippini, S. Domenico visto dai suoi contemporanei. I più antichi documenti relativi al santo e alle origini dell’Ordine domenicano, ESD, Bologna 1998.
  • Jean-Pierre Ravotti, San Domenico maestro di preghiera, ESD, Bologna 2004.