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Appassionati alla tristezza: appunti sul dolore cristiano

IMAGO PIETATIS
Ph. Elena Franco / IMAGO PIETATIS

Il dolore, passione per eccellenza

Per passione (lat. passio, pati) s’intende un movimento dell’appetito sensibile, ossia un’inclinazione diversa dalla volontà, presente nell’uomo e tendente a raggiungere qualche bene oppure evitare qualche male. Più intensamente l’oggetto è desiderato o disprezzato, più dirompente è la passione. Ora, nella miriade di movimenti interiori che ci scuote quotidianamente, verrebbe da chiedersi se il dolore non sia la passione per antonomasia.

Di tutte le passioni, il dolore (dolor) o la tristezza (tristitia) è quella che più propriamente può essere detta “passione”, forse proprio perché l’anima, quando soffre, è agitata più violentemente che in altre circostanze. Non per niente san Tommaso nella Summa dedica al dolore più spazio che a qualunque altra passione.

 

Ma che cos’è il dolore?

Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore[1].

Così Clive Staples Lewis, autore, fra le altre cose, de Le Cronache di Narnia, testimonia il suo lacerante dolore per la perdita della moglie. Ciò che affiora immediatamente di ogni sofferenza è la sua prepotenza; il dolore è spesso totalizzante: un brutto mal di testa mi inchioda a letto, un lancinante mal di pancia mi inchioda a casa, la perdita della persona amata mi inchioda a me stesso: «Ho detto che dietro al Dolore è sempre il Dolore. Sarebbe più saggio dire che dietro al dolore c’è sempre un’anima»[2].

Può sembrare legittimo parlarne come di una malattia, tuttavia quando anche proviamo un dolore solamente fisico qualcosa accade nella nostra anima, perché se la ragione è che sia il dolore fisico che il dolore morale o spirituale, cioè la tristezza interiore, presuppongono la percezione di qualche male, allora

come per il piacere si richiedono due cose, cioè l’unione con un bene e la conoscenza di questa unione, così anche per il dolore si richiedono due cose: l’unione con un male (male appunto perché privazione di un bene) e la conoscenza di questa unione[3].

Ciò che ci interessa affrontare più da vicino è quella forma di dolore interiore che si chiama tristezza. Mentre possiamo infatti provare dolori o disturbi fisici senza esserne significativamente e totalmente coinvolti, le apprensioni interiori agiscono sull’anima più profondamente, colpendo lo spirito alla radice. Curioso: ciò che è interno è, molto più spesso di quanto si pensi, più esteso di ciò che è esterno, a maggior ragione se «ogni uomo ha dimenticato chi è. Uno arriva a capire il cosmo, ma non se stesso; l’io è più lontano di qualunque stella»[4].

 

Il pendolo diabolico tra masochismo e anestesia

Se è vero che il dolore esercita una pretesa di totalità nei nostri confronti, è pur vero che siamo chiamati a confrontarci con esso con ragionevolezza e virtù. Anzi, proprio dalla battaglia o alleanza con il nostro dolore può aprirsi uno spiraglio definitivo verso la verità di noi stessi, di Dio e del mondo. Tuttavia, come sempre, ad ogni cristiano è richiesta una buona dose di ragionevolezza nell’approccio con la realtà, tanto più se si parla della realtà di noi stessi.

«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati»[5]. Spero di non banalizzare, ma giusto per fare chiarezza analizziamo bene la prima delle Beatitudini che nostro Signore ha donato alla sua Chiesa e al mondo.

Punto primo: Gesù non dice «beato il pianto». Il dolore è un mezzo, tutt’al più, mai un fine: assistiamo spesso esterrefatti alla continua sopravvalutazione del dolore, altrui e cosmico, a scapito di una realtà sempre più ampia e variopinta. Difatti c’è un dolore reale, che a volte è più grande di come lo immaginiamo, e uno irreale che, grande o piccolo che sia, fa più danni del necessario. Non solo: quando questo pensiero depravato diventa dogma sociale, nascono catastrofi sociali:

Là dove la sofferenza non esiste, bisogna crearla; il dolorismo impone ovunque la petizione di principio dell’infelicità universale. Senza dubbio la pancia vuota di milioni di bambini, le epidemie, le guerre sono intollerabili, perché l’altro è il mio prossimo, ma questo dolore è anche necessario perché un universo senza infelicità avrebbe usurpato il posto del paradiso[6].

Punto secondo: Gesù non dice «Beati quelli che non sono nel pianto». D’altro canto questo è il rischio forse più pericoloso del precedente, l’altro lato di questo diabolico pendolo: la negazione del dolore. Una vita felice equivale ad una vita senza dolore, senza sofferenza. Umanamente, certo, è molto allettante l’idea, e del resto se per istinto sfuggiamo il male che ci attanaglia, atteggiamento certamente più sano psicologicamente del contrario, perché per un cristiano anche questo comportamento non dovrebbe bastare? Perché andando a fondo del proprio dolore, l’uomo scorge che ciò che sembrava essere un vicolo cieco di follia in realtà è un sentiero di Verità e di Bene:

Nulla è più umano del dolore. Uccidere nell’uomo la possibilità di soffrire, significherebbe uccidere l’esistenza umana. Il dolore appare quando la grandezza s’unisce sostanzialmente alla bassezza. Esso nasce dalla tensione tra una perfezione e i suoi limiti. L’Angelo non soffre, perché non è che spirito. La pietra non soffre perché non è che materia. L’uomo soffre perché la sua natura abbraccia e salda allo spirito tutti i gradi della creazione corruttibile[7].

 

Un sentiero verso l’Altissimo: chiarezza - accettazione - Dono

Qual è quindi l’atteggiamento veramente cristiano di fronte al dolore?

Non oso certamente inserirmi nell’elenco sterminato di Santi e Dottori che, dalla Scrittura a noi, hanno parlato, meditato, pregato e vissuto nel dolore e per Cristo. Eh già, perché il punto decisivo di questa riflessione è fare chiarezza su un fatto: siamo nel dolore. Dolore anzitutto spirituale e morale, un riverbero cosmico di quella tragica ferita che è il peccato, che lascia i suoi feroci segni su ogni aspetto della realtà. Accettare questo è un sano compito di realismo, che ogni cristiano deve, prima o poi, affrontare.

Ma per unire i contorni sfumati di questo strano e meraviglioso affresco che è la nostra esistenza occorre fare un passo indietro:

È impossibile vedere bene quando gli occhi sono offuscati dalle lacrime. È impossibile, il più delle volte, ottenere ciò che si vuole se lo si vuole troppo intensamente; o almeno, è impossibile trarne il meglio. «Facciamo una bella chiacchierata» è una frase che garantisce il silenzio generale. «Questa notte devo assolutamente dormire» è il preludio a ore di veglia. Le bevande più buone sono sprecate quando la sete è furibonda. Che sia quindi l’intensità stessa del rimpianto a far scendere la cortina di ferro, a darci l’impressione di fissare il vuoto quando pensiamo ai nostri morti? Chi chiede (o perlomeno, chi chiede con troppa insistenza) non ottiene. Forse se lo preclude. […] Però è stato detto: «Bussate e vi sarà aperto». Ma bussare significa dare pugni e calci alla porta come un invasato? E anche: «A chi ha sarà dato». Dopotutto, a chi non ha la capacità di ricevere, neanche l’onnipotenza può dare. Forse il tuo stesso smaniare distrugge temporaneamente questa capacità[8].

La tenerezza e la misericordiosa ironia con cui sono sempre stato guardato e sostenuto dall’Alto mi commuovono ogni giorno di più. Ma la cosa ancor più sorprendente è che se chiedo questo stesso Sguardo, quasi per incanto ma sempre in maniera terribilmente reale, divento felice; o meglio, vedo la Felicità, La incontro, L’abbraccio. Solo così viene squarciato il velo di tragedia che ricopre la nostra vita e si intravede un Orizzonte infinito:

Si parla spesso di tragiche situazioni e di tragici dolori, ma la tragedia non è mai negli avvenimenti; essa risiede nella nostra attitudine riguardo gli avvenimenti. «La tragedia – è stato detto – è il nimbo dell’idolo». La tragedia nasce dal rifiuto di perdersi. Dovunque ci sia un idolo; e sempre dove l’uomo voglia stare attaccato al suo «io», si producono le tragedie. Per il cristiano non esistono tali tragedie. L’anima data a Dio può trovarsi in momenti difficili, ma basta un semplice «fiat» d’adorazione per dissipare la tragedia. Offrire a Dio la propria asfissia, significa già respirare aria libera. Il dolore vissuto in Dio è semplice, sano, sincero: è il giogo leggero di Gesù[9].

 

[1] Lewis C.S., Diario di un dolore, Adelphi, Milano 1990, 16.

[2] Wilde O., De profundis, Feltrinelli, Milano 2014, 123.

[3] Tommaso d’Aquino (s.), Summa Theologiae, I–IIae, q. 35, a. 1, c.

[4] Chesterton G. K., Ortodossia, Brescia 1995, p. 75.

[5]Mt 5,4.

[6] Bruckner P., Il singhiozzo dell’uomo bianco, Guanda, Parma 2008, 116.

[7] Thibon G., «Il dolore», in Il frontespizio, Vallecchi, Firenze 1937, 658.

[8] Lewis C.S., Diario di un dolore, 53-55.

[9] Thibon G., «Il dolore», in Il frontespizio, Vallecchi, Firenze 1937, 660.

Letture consigliate:

  • Novello Pederzini, Per soffrire meglio per soffrire meno, ESD, Bologna 2008.
  • Giuseppe Barzaghi, Lo sguardo della sofferenza, ESD, Bologna 2011.