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Fonti suppletive ed interpretazione della legge canonica

Nuvole in viaggio
Ph. Luca Martini / Nuvole in viaggio

Indice:

1. Premessa: particolarità dell'interpretazione canonica

2. Le singole fonti suppletive

2.1 I princìpi generali

2.2 Si può ancora dire “stylus Curiae”?

2.2.1 Un po' di storia

2.2.2 La praxis come erede dello stylus

2.3 La giurisprudenza. In particolare, il ruolo della Rota

2.4 L'opinione comune e costante dei dottori

 

1. Premessa: particolarità dell'interpretazione canonica

Nell'uso contemporaneo, il termine “interpretazione” può indicare tanto la semplice attribuzione di significato ad un quid purchessia quanto la risoluzione dei relativi dubbi, ma in diritto canonico quest'ultimo significato prevale: ogni discussione in proposito ha sempre sullo sfondo l'idea di un caso concreto che va deciso.

Ce lo conferma, ove mai occorresse, il fatto che la disciplina legale del CIC (cann. 16-19) è posta subito dopo i cann. 14 e 15, che riguardano il dubbio, l'ignoranza e l'errore sulla legge: chiarito cosa avvenga mentre si versa in stato di dubbio e quando si approdi a conclusioni sbagliate, il Codice espone i mezzi mediante cui i problemi giuridici vengono avviati ad una soluzione corretta.

Altra particolarità rilevante: in diritto italiano, siamo abituati a pensare all'interpretazione soprattutto, o quasi soltanto, come attività dell'interprete privato, del giurista tecnico, e quindi la relativa disciplina (art. 12 prel.) verte essenzialmente circa l'attribuzione di significato ad un testo; ma in ambito canonico, al di là del ruolo molto più ampio che gioca la consuetudine, interpretatio è tuttora la soluzione di un dubbio giuridico (come, a contrario, nel brocardo In claris non fit interpretatio) e può essere compiuta tanto dall'autorità quanto dalla dottrina.

Qui ci imbattiamo nella ragione per cui ho scelto addirittura di far precedere, non solo nel titolo, le fonti suppletive ai criteri legali di interpretazione: in un ordinamento che non conosce il monopolio del diritto scritto, le fonti extralegali non sono soltanto un'extrema ratio per l'interprete, ma al contrario possiedono un'autorevolezza propria, che conferisce loro grande peso anche quando si tratti solo di interpretare un testo, non già di colmare le lacune.

Del resto, se una fonte è così autorevole che, in mancanza di una previsione legale applicabile, le viene riconosciuta la stessa forza che avrebbe la legge, a fortiori avrà valore la posizione da essa assunta intorno alla “semplice” interpretazione di una legge che invece esiste.

Più radicalmente: le fonti dell'interpretazione sono le stesse dell'integrazione.

Infatti, l'interpretazione si distingue in authentica, ossia proveniente dall'autorità (can. 16), o dottrinale (can. 17); ma la prima si suddivide in autentica legislativa o per modum legis exhibita, che spetta al legislatore (can. 16 §§1-2), ed autentica amministrativa o giudiziale (can. 16 §3). In altre parole, i soggetti coinvolti sono: il legislatore stesso o un suo delegato; il giudice o l'autorità amministrativa chiamati a decidere nel caso particolare; la dottrina. Ma se esaminiamo il can. 19, dedicato all'integrazione delle lacune normative, troviamo in sostanza gli stessi soggetti.

Can. 19 - Si certa de re desit expressum legis sive universalis sive particularis praescriptum aut consuetudo, causa, nisi sit poenalis, dirimenda est attentis legibus latis in similibus, generalibus iuris principiis cum aequitate canonica servatis, iurisprudentia et praxi Curiae Romanae, communi constantique doctorum sententia.”.

Il canone non menziona il legislatore, ma è sempre scontato che questi possa intervenire con nuove leggi anche retroattive; si colloca nella prospettiva del caso concreto da decidere (”Si certa de re...”) e formula un'alternativa: se la causa è penale, soccorre il can. 18 che consacra a criterio risolutivo legale il favor rei; negli altri casi si ha riguardo a:

  1. leggi che regolano casi analoghi;
  2. principi generali del diritto applicati secondo l'aequitas canonica;
  3. la giurisprudenza della Curia Romana;
  4. la prassi della Curia Romana;
  5. l'opinione comune e costante dei dottori. 

L'ultima voce indica chiaramente la dottrina, o perlomeno la communis opinio che dovrebbe, in definitiva, essere il frutto del suo lavoro. Allo stesso modo, giurisprudenza da una parte, prassi dall'altra sono il precipitato di una serie di decisioni. In tutti e tre i casi, dunque, abbiamo una diversa sottospecie di auctoritas rerum perpetuo similiter iudicatarum.

I princìpi generali, però, sono un altro ambito di elezione della dottrina e, per il solo fatto di essere indicati in questa sede, si presumono non scritti né consuetudinari. E a loro volta, le leges latae in similibus, se provengono evidentemente dal legislatore, sono però giudicate similes sempre dalla dottrina. Quindi le fonti di integrazione, in definitiva, si riducono a giurisprudenza, prassi e dottrina, oltre naturalmente al legislatore: come si diceva, gli stessi soggetti cui è affidato il compito interpretativo.

In effetti, un illuminante insegnamento di Norberto Bobbio ci ricorda che le lacune si trasformano sempre in antinomie, perché, dinanzi alla mancanza di una legge applicabile prima facie, il giurista si troverà sempre dinanzi all'alternativa tra applicare per analogia una qualunque altra norma da lui individuata, oppure escludere l'analogia e risolvere il dubbio ricorrendo all'interpretazione a contrario, adottando cioè la soluzione opposta a quella stessa legge.[1]

A mio avviso, questa è la ragione ultima per la convergenza che qui riscontriamo: dinanzi all'alternativa delineata da Bobbio, il singolo interprete non può che ragionare in termini di “La dottrina e/o la giurisprudenza e/o la prassi della Curia Romana mi dicono che in questo caso l'analogia sussiste e si applica la regola X; perfino se avessero torto e X non si dovessero applicare, la loro conclusione avrebbe essa stessa forza di legge... una legge identica ad X, ma per quest'altro caso. Quindi il problema è comunque risolto”. Analogamente nel senso inverso: “Premesso che prima facie questo caso non è disciplinato da nessuna parte, mi è venuto in mente che si potrebbe estendere per analogia la legge Y; ma dottrina e/o giurisprudenza e/o prassi dicono che in realtà l'analogia non sussiste e bisogna fare l'esatto contrario di Y; anche se si sbagliassero sull'intenzione del legislatore, in mancanza di una disposizione espressa fanno comunque legge, quindi...”. Ma a questo punto anche rispetto alla semplice interpretazione: “Se le fonti integrative mi dicono che il significato letterale della legge Z arriva da qui fin lì, in sostanza hanno sempre ragione. Supponiamo infatti che debba essere più ristretto: possono estenderlo per analogia, o comunque creare una regola identica che disciplina il caso concreto. Si può immaginare anche il caso opposto, di una legge il cui ambito di applicazione ' naturale' dovrebbe essere più ampio; ma se in concreto non lo è, ciò significa che queste fonti fanno leva su un'altra norma che stanno allargando, dunque si ricade nel caso precedente”.

Da ciò segue, evidentemente, che il singolo interprete non è mai solo con i propri dubbi, non si trova affatto nella condizione di un esegeta protestante alle prese con la lettera del testo sacro: il suo primo compito è inserirsi nella comunità dei prudentes per verificare se esista, e fino a che punto, una posizione comune. Il vero e proprio lavoro interpretativo individuale comincia nel momento in cui egli riconosce l'assenza di una communis opinio, o di una giurisprudenza univoca e stabile, o di una prassi consolidata; oppure quando tali fonti sono in contrasto tra loro; o, infine, se ritiene di potersi in veste di critica alla communis opinio, non tanto in termini generali quanto rispetto al caso concreto, poiché allora si tratta di un'interpretazione correttiva della regola legale.

Rispetto all'analogia legis, non mi sembra possibile svolgere una trattazione generale che metta in luce peculiarità dell'ambito canonico; ma ciascuna delle altre fonti suppletive merita un discorso a sé.

 

2. Le singole fonti suppletive

2.1 I princìpi generali

In diritto canonico, forse anche più che nell'ambito secolare, la dottrina si è dedicata ad estrarre ed astrarre princìpi da un complesso molto eterogeneo di leggi in cui mettere ordine: basti dire che la stessa definizione di “ufficio ecclesiastico”, nel CIC 1917, non risaliva ad alcun precedente legislativo, era frutto appunto di una riflessione generalizzatrice che, muovendo da innumerevoli interventi su casi particolari, aveva costruito un intero istituto, o piuttosto, un insieme di princìpi sottesi ad una serie di istituti positivamente disciplinati (ufficio di Parroco, di Vescovo...). L'esempio rende senz'altro l'idea dell'importanza assunta da tale attività almeno ante Codicem.

Inoltre, i canonisti hanno recepito dal diritto romano l'abitudine di impiegare le regulae iuris e, anche se si può discutere se ciò sia conforme all'uso dei giuristi classici,[2] di molte di esse hanno fatto veri e propri princìpi generali nel senso moderno,[3] anzi non poche di quelle incluse da Bonifacio VIII nel Liber Extra sembrano già concepite come tali: cfr. ad es. “Peccati venia non datur nisi correcto” (n. 5), il cui ambito si estende tanto quanto la ratio peccati, come dire la giurisdizione stessa della Chiesa; “Nemo potest ad impossibile obligari” (n. 6); “Scienti et consentienti non fit iniuria neque dolus” (n. 27); etc.

Il Codice del 1917 e quello del 1983, rompendo in ciò con le compilazioni precedenti, non prevedono né un titolo dedicato alle regulae iuris, né un corpus di precisazioni terminologiche a sé stante (“De verborum significatione”); tuttavia, in entrambi i casi la pregressa elaborazione dottrinale è preservata, vuoi sotto forma di significato tecnico delle parole impiegate, vuoi appunto come principio generale.

Ciò non esclude, peraltro, né l'elaborazione di princìpi nuovi, né la recezione di quelli formatisi in ambito secolare, come al tempo della prima codificazione è avvenuto, in larga misura, rispetto alle costruzioni della Pandettistica. Qui però si fa valere il limite contestualmente enunciato dal can. 19: l'aequitas canonica. Rispetto ai princìpi elaborati dagli stessi canonisti, essa equivale ad un richiamo al caso concreto, le cui particolarità potrebbero rendere nocivo per le anime anche ciò che in genere è buono; riguardo invece a quelli di importazione, occorre innanzitutto che siano compatibili con il diritto divino, come d'altronde è richiesto ogniqualvolta operino i rimandi alla legge statale (p.es. in materia di contratti).

Rispetto al passato, l'importanza dei princìpi generali può dirsi diminuita, non foss'altro per l'avvenuta codificazione di molti di essi; tuttavia, come tecnica di integrazione delle lacune sono forse la più efficace e, a ben vedere, spesso fondano anche la analogia legis, che dopotutto può basarsi solo ad un certo punto sulla somiglianza dei fatti (altrimenti basterebbe l'interpretazione estensiva). Tuttavia, questo è anche l'ambito in cui si fa maggiormente sentire la crisi del sapere teologico: termini come “comunione”, ricchissimi di significato, nonché di accezioni e sfumature, sono spesso impiegati, oggi, in modi tra loro contrapposti, senza che riesca la reductio ad unum. Ovviamente, più alto il livello cui si pone il discorso, maggiore l'influenza del diritto divino e quindi della teologia; alle crisi di quest'ultima, il canonista può opporre poco, se non il pur relativo valore della legge positiva e della scienza canonica nell'ambito dei loci theologici.

 

2.2 Si può ancora dire “stylus Curiae”?

2.2.1 Un po' di storia

Premesso che, nell'ambito del can. 19, iurisprudentia è senz'altro usato nel senso moderno e quindi identifica i provvedimenti giurisdizionali dei Dicasteri di Curia che ne adottano,[4] mentre della dottrina si parla dopo e praxis riguarda l'attività amministrativa, il sintagma “iurisprudentia et praxis Curiae Romanae” attira l'attenzione anzitutto per la dicitura tradizionale che viene a mancare: stylus Curiae.

Impiegata in origine per designare le formalità protocollari, lato sensu “stilistiche”, nella redazione dei documenti,[5] l'espressione stylus Curiae si è però ben presto intrecciata con l'elaborazione delle regole della Cancelleria,[6] in cui la presenza di dati elementi era richiesta per la validità dell'atto, e con l'istituto del rescritto, che, in quanto risposta favorevole ad una richiesta che non si basa su un'istruttoria, ma sul semplice testo della richiesta stessa (mentre la verifica dei fatti si suppone già compiuta o da svolgersi in futuro), evidentemente esige che vengano specificate tutte le circostanze che potrebbero in teoria rilevare, pena la nullità della concessione. Quindi i formulari venivano a combinare esigenze letterarie e cerimoniali, sempre presenti rispetto ad una Corte ed anche giuridicamente rilevanti come segno di un appropriato atteggiamento di sottomissione,[7] con requisiti di contenuto anche molto articolati, diversi da situazione a situazione: le “clausole di stile”, in questo senso, sono l'antitesi delle previsioni inutili, si mettono sempre perché servono sempre.[8] In pari tempo, sia il rispetto del protocollo sia altri requisiti esteriori del documento, come la presenza del sigillo pontificio, fungono da prove (non esclusive ma molto importanti)[9] della sua autenticità, nient'affatto scontata in epoche in cui abbondavano i falsi.

Questo complesso di funzioni e circostanze ha fatto assurgere lo stylus Curiae al rango di vera e propria fonte di diritto, nonché canone interpretativo dei documenti pontifici, sebbene destinata a cedere dinanzi ad un atto posto ex plenitudine potestatis. Vincolava tuttavia i Vescovi, almeno quando giudicavano per delega del Papa, e comunque si poneva come modello esemplare: già Giovanni d'Andrea lo considerava ius non scriptum al pari della consuetudine, con la differenza che non si trattava di un usus communis, ma unius iudicis. Tuttavia, accanto a questa posizione “massimalista”, vi era quella espressa ad es. da Zabarella, e ripresa ancora sotto il CIC 1917 da Maroto e Michiels, che assimilava in sostanza lo stylus all'opinione dottrinale, non riconoscendogli un valore superiore se non in presenza della conferma papale o della delega di una potestà almeno lato sensu legislativa.[10] Un contrasto teorico di tale grandezza ha potuto durare così a lungo perché, in sostanza, privo o quasi di conseguenze pratiche: in concreto, i provvedimenti pontifici più importanti venivano approvati dal Papa in udienza (epistolae legendae), mentre per le lettere di routine, che erano semplicemente dandae senza bisogno di udienza, faceva testo lo stylus codificato nelle Regole della Cancelleria, equiparate in questo caso alla legge già da Gregorio XI. Il fatto che si trattasse di una serie di comandi personali del Papa regnante ai propri subalterni, tanto che il loro valore cessava alla sua morte, e il successore non di rado modificava le Regole a proprio gusto (un po' come dev'essere successo nella fase iniziale della storia dell'editto perpetuo), poteva far disquisire i giuristi sulla loro esatta natura, ma la conclusione pratica non cambiava. Certo, le Regole non esaurivano l'intera materia dello stylus Curiae, espressione che riguardava tanto gli atti che oggi definiremmo amministrativi quanto quelli giudiziari, bensì soprattutto quella dei benefici; però i giudici della Rota pronunziavano sempre sentenza per delega del Papa, quindi, almeno quanto ai requisiti di validità degli atti o ad altri aspetti dello stylus passibili di rivestire efficacia decisiva, anche le loro conclusioni potevano essere equiparate alla legge.

In effetti, il problema dell'autorità dello stylus oscilla tra l'aspetto razionale insisto nella stessa lex, che di per sé spinge verso un'equiparazione alla dottrina, alla communis opinio, e il momento della volontà, che richiede un qualche genere di approvazione papale almeno presunta. In questo senso, si può dire che il Codice del 1917, mediante il can. 20, antesignano dell'odierno, ha risolto definitivamente il problema, facendo tanto della dottrina quanto dello stylus fonti la cui autorità era prevista espressamente dalla legge stessa.  

2.2.2 La praxis come erede dello stylus

Tornando al problema interpretativo, o piuttosto di successione tra i due Codici, che ci vien posto dalla mutata dizione del CIC in vigore, occorre notare che la vecchia espressione stylus et praxis Curiae Romanae compariva in due canoni soltanto, il 20 e il 42, dedicato ai requisiti di validità dei rescritti, le cui richieste devono esporre tutto ciò che dette fonti ritengono necessario, pena la nullità del provvedimento così ottenuto.

Ebbene, nel luogo corrispondente del Codice attuale (can. 63 §1), il termine stylus riappare, anche se senza la -y-: “Validitati rescripti obstat subreptio seu reticentia veri, si in precibus expressa non fuerint quae secundum legem, stilum et praxim canonicam ad validitatem sunt experimenda, nisi agatur de rescripto gratiae, quod 'Motu proprio' darum sit.”.

Se teniamo presente la regola generale del can. 10, a mente della quale la validità degli atti è la regola e l'invalidità un'eccezione che deve derivare da una previsione espressa, è chiaro che qui si riconosce a stilus et praxis valore normativo, almeno nel senso della possibilità di prevedere cause di invalidità dei rescritti ulteriori rispetto a quelle contemplate dalla legge.

Ne segue, per quanto di nostro attuale interesse, che al can. 19 dobbiamo intendere che il termine praxis comprenda anche lo stylus, perlomeno quando si tratta di rescritti;[11] tanto più che al can. 63 §1 i due termini, senza essere un'endiadi in senso stretto, formano però una coppia in cui l'importanza maggiore va assegnata proprio a praxis. Infatti, la prassi sostanziale di accordare le tali grazie in presenza dei tali requisiti, come pure di negarle in presenza delle tali cause ostative, dà luogo alla prassi procedurale o stylus di confezionare le richieste in modo tale che dicano tutto ciò che devono, dire; ed esse “devono” appunto in forza di codesta decisività.[12] In concreto, tutto ciò potrà esprimersi anche semplicemente come predisposizione di moduli o formulari, con l'indubbio vantaggio di eliminare i problemi di conoscibilità per il semplice fedele; ma ciò che in definitiva renderà cogente l'integrale compilazione del modulo resterà comunque la prassi sostanziale e, a monte, il principio generale per cui la concessione delle grazie presuppone una giusta causa.

In conclusione, e in risposta alla domanda formulata in esordio, mi sembra che si possa tuttora parlare di stylus anche al di fuori dello specifico ambito dei rescritti; credo però che, almeno in via tendenziale, si debba escludere che la prassi dei singoli Tribunali possa, oggi, assurgere a fonte di diritto suppletorio, sia perché il can. 19 riconosce tale efficacia solo agli organi della Curia Romana, sia perché il diritto processuale forma in sostanza oggetto di una riserva alla legislazione universale, sia non da ultimo per il carattere deteriore di tante prassi contra legem invalse negli ultimi decenni.[13] Oggi, quindi, parlerei di stylus solo nell'ambito del diritto amministrativo canonico: qui, il termine offre il vantaggio di evitare l'altro problema posto dal can. 19, ossia l'esatto rapporto tra praxis e iurisprudentia.

2.3 La giurisprudenza. In particolare, il ruolo della Rota

Se è incontrovertibile dal punto di vista dell'esegesi che, al can. 19, iurisprudentia e praxis indichino due ambiti ben distinti, sarebbe tuttavia precipitoso concludere che il loro rapporto sia sempre e solo di mutua esclusione: a tacer d'altro, ormai da qualche decennio è in funzione un giudice amministrativo, il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Sicché, proprio commentando questo canone, Pedro Lombardía scriveva: “Bisogna tener presente che, man mano che si vanno producendo decisioni, quale esito del controllo giudiziale esercitato sugli atti amministrativi, dovrà prevalere la giurisprudenza in senso stretto – ossia quella giudiziale – sulla prassi degli organismi titolari della potestà esecutiva. Sono, in definitiva, i tribunali della Segnatura apostolica e quelli della Rota romana  ad essere chiamati a porre e basi della giurisprudenza canonica.”.[14]

L'opinione del Maestro defunto è senz'altro corretta in linea di principio; deve però osservarsi che una prassi contra legem, in ipotesi non ancora dichiarata nulla dal Supremo Tribunale, non potrebbe comunque fungere da fonte suppletiva, per l'ottima ragione che, in ipotesi, la legge esiste, quindi si dovrebbe semmai ragionare sulla sua estensione o conservazione in un ambito dove non è contra legem. Inoltre, poiché esiste un ambito di “merito amministrativo” che la Segnatura Apostolica esclude dal proprio sindacato[15] (il limite ha fonte legislativa, ma in definitiva non può che operare come un autolimite), resterà per forza di cose un ambito in cui solo la prassi potrà svolgere un ruolo esemplare.

Non vi è dubbio che l'unico giudice amministrativo esistente nell'intera Chiesa abbia, e debba avere, l'ultima parola sui vizi di legittimità dei provvedimenti amministrativi; e si può anche ammettere che, impiegando praxis al can. 19, il legislatore abbia inteso riferirsi solo a quella conforme al diritto, escludendo almeno le illegittimità già dichiarate dal Supremo Tribunale. Ma, con tutto questo, il termine iurisprudentia si riferisce assai più alla Rota che alla Segnatura, quindi anche ad un ambito giudiziario distinto dall'amministrativo.

Questo può destare sorpresa, giacché il Tribunale della Rota Romana, pur essendo giudice di  - e a volte anche di primo grado - per tutta la Chiesa, non è l'organo di vertice: tale posizione spetta proprio alla Segnatura, che infatti è competente a ricevere i ricorsi contro le sentenze rotali e potrebbe, almeno in una certa misura, sindacarne anche gli errori giuridici. Ciononostante, l'art. 126 della Cost. Ap. “Pastor Bonus” sulla Curia Romana, parlando della Rota, decreta:

Hoc tribunal instantiae superioris partes apud apostolicam sedem pro more in gradu appellationis agit ad iura in ecclesia tutanda, unitati iurisprudentiae consulit et, per proprias sententias, tribunalibus inferioribus auxilio est.”.

Quindi, la Rota ha il compito di tutelare i diritti nella Chiesa[16] come giudice di appello, ma provvede anche all'unità della giurisprudenza: formula che nel lettore italiano evoca immediatamente l'art. 65 ord. giud. e l'immagine della Corte di Cassazione. L'ausilio ai Tribunali inferiori, aggiungo per completezza, è prestato sia tramite le sentenze che ne correggono gli errori, sia grazie alla pubblicazione sistematica della giurisprudenza rotale, raccolta in volume anno dopo anno,[17] ma anche mediante il potere di avocazione, esercitato soprattutto per ovviare a problemi di funzionamento dell'ufficio giudiziario locale (o a violazioni processuali macroscopiche).

Perché la Rota e non la Segnatura?

Forse per ragioni istituzionali: le diverse competenze giudiziarie di quest'ultima sono accomunate dall'idea che si debba intervenire contro un errore nel caso concreto (tanto che essa giudica, tra l'altro, le ricusazioni proposte contro gli uditori di Rota); accanto ad un organo cassatorio ne serviva, dunque, uno nomofilattico.

Certo per ragioni storiche: l'influenza delle decisiones è ben nota a chiunque abbia anche soltanto scorso un manuale di storia del diritto, mentre la Segnatura, anche quando operava come Segnatura di giustizia, non ha mai acquisito un ruolo neanche lontanamente paragonabile.

Inoltre per ragioni contingenti: mentre la pubblicazione sistematica e ufficiale delle sentenze contraddistingue la Rota fin da quando S. Pio X l'ha richiamata in esercizio, solo nel 2008 è stata abrogata la norma che consentiva alla Segnatura di non motivare la decisione e, contestualmente, si è previsto che, ogni anno, si selezionino alcune pronunce da pubblicarsi. Tuttavia, questa previsione non è stata attuata, almeno non sotto forma di raccolta in volume; semmai, i provvedimenti del Supremo Tribunale hanno cominciato ad apparire più spesso sulle riviste di settore. Si tratta, però, sempre di una divulgazione rapsodica, in forma non ufficiale e, spesso, di difficile reperibilità; le due risorse che più di tutte consentono una visione di insieme (i Conspectus o elenchi di decisioni edite predisposti da Mons. G.P. Montini, già Segretario del Supremo Tribunale, e il repertorio informatizzato della giurisprudenza amministrativa a cura della Pontificia Università Gregoriana) sono pur sempre iniziative di privati. Insomma, la Segnatura ha, si può dire da sempre, difficoltà a “fare giurisprudenza”, sebbene singole sue decisioni siano ben conosciute ed abbiano avuto un impatto a volte anche dirompente, p.es. in materia matrimoniale.

Infine, ma non da ultimo, se la Rota tratta oggigiorno quasi soltanto cause matrimoniali, ma in materia ha potuto rendere tante sentenze da formare una solida auctoritas rerum perpetuo similiter iudicatarum, la Segnatura interviene assai di rado in quell'ambito (sebbene quelle poche volte portino a decisioni di notevole interesse); la sua attività principale, a parte la vigilanza sulla retta amministrazione della giustizia, si esplica nel vastissimo ambito del contenzioso amministrativo, ma ad una maggior varietà di materie trattate corrisponde un numero assai minore di casi e di decisioni rese, per non parlare poi di quelle pubblicate.[18] Ambiti piuttosto specifici come la dimissione dei religiosi dalla comunità di appartenenza, la rimozione dei Parroci e il loro trasferimento, la soppressione di Parrocchie e la riduzione di chiese ad uso profano sono, per così dire, presidiati da un discreto numero di sentenze edite e possono quindi contare su una giurisprudenza di alto livello qualitativo; al di fuori di essi, però, nonostante gli indubbi progressi degli ultimi anni, di molte decisioni si conosce la sola esistenza, grazie ai volumi annuali “L'Attività della Santa Sede”, oppure si sa qualcosa del loro contenuto unicamente perché qualche addetto ai lavori ne dà notizia quando assume le vesti dell'autore di dottrina, un po' come avveniva nei secoli passati per la generalità dei provvedimenti di Curia. Insomma, nessun dubbio che il termine iurisprudentia, di per sé, includa anche il Supremo Tribunale; in concreto, però, nell'ambito amministrativo appare difficile ipotizzare la lacuna legis, quindi le sentenze avranno soprattutto valore interpretativo, mentre il compito specifico di elaborare una giurisprudenza unitaria resta, perlomeno in ogni altro campo, demandato alla Rota. 

L'art. 126 cit., nel suo combinato disposto con il can. 19, ha fatto sorgere l'annosa questione se la giurisprudenza rotale sia fonte di diritto.[19] A mio avviso, il pur appassionante problema è in realtà mal posto: l'auctoritas delle decisioni della Rota deve senz'altro dirsi almeno pari a quella delle Corti Supreme degli ordinamenti secolari, ma se per “unità della giurisprudenza” si intende la concreta eliminazione degli orientamenti dissonanti, allora quest'antichissimo Tribunale soffre di una grave crisi di effettività. Di norma, infatti, esso interviene solo in terza istanza, mentre i primi due gradi si svolgono in sede locale: siccome vige la regola per cui due sentenze conformi non possono essere impugnate (sebbene nelle cause matrimoniali sia possibile esperire il rimedio straordinario della nova causae propositio), se in una data nazione si consolida un indirizzo difforme da quello rotale sarà molto difficile che il caso giunga a Roma. E vi sono, infatti, nazioni intere da cui non pervengono appelli; anzi, il problema si è aggravato con la duplice tendenza a concedere facoltà di giudicare in sede locale anche per la terza istanza e a limitare la nova causae propositio presso la Rota stessa.

2.4 L'opinione comune e costante dei dottori

Qui il can. 19 recepisce un principio epistemologico di ascendenza aristotelica, espresso non di rado con la massima Sua cuisque standum est in arte perito, secondo cui se gli esperti in un dato campo – che qui possono essere canonisti o anche teologi, soprattutto per gli aspetti che mettono in gioco il diritto divino – comunemente, anche senza raggiungere l'unanimità morale, convergono su una data posizione e questa si mantiene a lungo, questo consenso offre, in termini di regola pratica per l'azione, una vera certezza morale; trattandosi di questioni giuridiche, un'auctoritas non inferiore a quella della legge nel suo aspetto di atto della ragione.

Diversamente dal can. 6 del CIC 1917, non viene impiegata un'espressione di uso comune negli ultimi secoli: probati auctores, quelli addotti più di frequente nelle cause dinanzi alla Curia Romana, spesso anche citati a supporto delle decisioni.[20] Senza dubbio, in un certo senso ogni autore deve guadagnarsi l'approvazione altrui: il fatto che le citazioni siano oggi quasi un'unità di misura dell'impatto di una ricerca scientifica, e dunque indirettamente del suo valore o almeno della sua capacità di far pensare, ne è indizio eloquente. Tuttavia, oggi l'approvazione della Curia Romana appare forse una garanzia minore di un tempo;[21] e soprattutto, si deve piuttosto considerarla eco ed effetto di quella della comunità scientifica che non causa della medesima. Almeno fin quando non sia in questione l'ortodossia: di questa, l'autorità ecclesiastica è custode che si può affiancare, ma mai sostituire. Soprattutto in quest'ambito, e per materie delicate come la teologia morale, ha senso conservare sia l'espressione sia l'abitudine a rifarsi ad un corpus di autori di solida affidabilità;[22] per il diritto canonico, data anche l'intensa stagione di riforme che si è aperta con il Concilio Vaticano II, deve dirsi che i grandi maestri del passato conservano un ruolo importante all'interno della traditio canonica, ma quest'ultima ha ripreso ad avere un carattere dinamico, e che la capacità di concorrere ad una communis opinio va oggi riconosciuta a tutti, senza particolari distinzioni di qualifiche personali o approvazioni esterne, a parte l'effettivo influsso sul lavoro di altri esperti.

L'opinione comune e costante, a rigore, obbliga anche quando ve ne fosse un'altra minoritaria ma probabile: questo caso, infatti, non equivale ad un dubbio sulla legge ai sensi del can. 14, ma ad un problema caratteristico della teologia morale, cioè la possibilità di agire senza commettere peccato qualora si segua un'opinione che, pur fondata su ragioni capaci di cattivarsi l'assenso di un uomo prudente, è contraria alla legge. La soluzione affermativa, almeno da S. Alfono in poi, è di gran lunga la più seguita, ma in proposito vi è libertà di discussione e tra gli stessi “probabilisti” non mancano i disaccordi: un'ipotetica communis opinio, anche se di moralisti e non di canonisti, potrebbe in astratto integrare il testo del Codice con un'ipotesi nuova di cessazione dell'obbligatorietà della legge per tutti o per il singolo, come del resto il consenso degli autori tiene in vita la remonstratio o la lex non acceptata a populo; tuttavia, la sua affermazione non sembra in vista. 

Il limite principale della dottrina come fonte suppletiva, infine, è la sua scarsa o nulla conoscibilità da parte del profano in materia. Di fatto, se un tempo essa agiva soprattutto tramite i consilia, oggi diremmo la pareristica, adesso le sue possibilità concrete di orientare i comportamenti riposano o su qualche divulgatore fortunato, o sul recepimento della communis opinio da parte di un legislatore, un giudice o almeno un titolare di potestà esecutiva.

 

3. I criteri legali per l'interpretazione dottrinale

Can. 17 - Leges ecclesiasticae intellegendae sunt secundum propriam verborum significationem in textu et contextu consideratam; quae si dubia et obscura manserit, ad locos parallelos, si qui sint, ad legis finem ac circumstantias et ad mentem legislatoris est recurrendum.

Can. 18 - Leges quae poenam statuunt aut liberum iurium exercitum coarctant aut exceptionem a lege continent, strictae subsunt interpretationi.

Il can. 17, per prima cosa, recepisce il principio In claris non fit interpretatio: il testo di legge si prende nel suo significato proprio, per tale dovendosi intendere in primo luogo quello usuale, ma con prevalenza del senso tecnico-giuridico se il contesto o lo stile complessivo non richiedono il contrario. Si deve, quindi, intendere respinta la tesi secondo cui, identificata la ratio legis, sarebbe possibile farla prevalere anche forzando il significato letterale (“impropriando verba legis”): a tacer d'altro, solo le parole della lex vengono promulgate.

Il contesto che consente di identificare il significato chiaro è certamente quello dato dalla singola lex: lo si desume, a contrario, dal fatto che le altre accezioni possibili si collocano a valle, nel momento in cui emerge un dubbio e si apre il procedimento interpretativo.

I tre criteri enunciati dal can. 17 non vanno applicati secondo un qualunque ordine di priorità, ma appaiono disposti per grado di affidabilità decrescente. I loci paralleli, che poi altro non sono che le leggi analoghe contemplate anche al can. 19, sono un dato obiettivo, ufficiale e promulgato tanto quanto la legge che si deve interpretare, sicché il solo margine di dubbio può investir l'analogia; per contro, il fine obiettivo della legge e ancor più le circostanze (specialmente la occasio legis) sono materia assai più opinabile, mentre la mens legislatoris qui è l'intenzione soggettiva del legislatore storico, che può dirimere il dubbio se ricostruita con un grado di certezza sufficiente (perché la singola legge resta sempre atto storicamente posto da soggetti determinati), però, salvi i casi di enunciazione esplicita nel testo del provvedimento o in altri atti scritti, si può solo ricostruire per congetture.

A rigore, la ratio legis dovrebbe essere qualcosa di diverso sia dalla mens legislatoris e dalla occasio legis, sia dalla logica del sistema, ma anche dal finis legis: perlomeno concettualmente, lo scopo impone di considerare la legge come mezzo, mentre ratio dovrebbe qui valere “ragion sufficiente”, misura e delimitazione della sua rationabilitas anche rispetto all'estensione dell'ambito applicativo. In concreto, tuttavia, la ratio si desume proprio dai tre criteri indicati; quindi, evitando di menzionarla, il legislatore ha parimenti evitato l'ambiguità che l'espressione porta con sé e, scomponendola per così dire nelle fonti grazie a cui può essere ricostruita, ha implicitamente esortato ad applicare il trittico dei criteri in senso convergente.

Sebbene non siano richiamate, entrano in gioco anche tutte le fonti suppletive. In particolare, tra i princìpi generali, quelli che nel dubbio privilegiano la validità di un atto giuridico, o l'effetto utile di una disposizione, o l'esigenza di evitare una singolarità o un'antinomia nell'ordinamento. E opera sempre, come fine generale dell'ordinamento canonico tutto intero, la salus animarum.

Tuttavia, il procedimento interpretativo non è sempre lasciato al libero gioco delle opinioni: in alcuni casi, la legge stabilisce in via generale quale opinione vada privilegiata: li troviamo al can. 18.

Se in linea di massima nulla si oppone alle interpretazioni late o estensive, tanto più che l'analogia vera e propria è ammessa senza difficoltà come fonte suppletiva, la regula iuris Odia restringi et favores convenit ampliari” è stata circoscritta a tre ipotesi tipiche di res odiosa:

  1. anzitutto, la materia penale, dove non occorre far luogo ad interpretazioni estensive anche perché, se una condotta non prevista da un canone specifico merita comunque sanzione, si può farlo rientrare nell'apposita norma generale di chiusura, il can. 1399;
  2. le leggi che formulano un'eccezione rispetto ad altre più generali, dove a mio avviso non si tratta tanto di specialità quanto dissonanza; e dunque si include tutto il diritto particolare nella misura in cui deroga all'universale, come nella secolare dialettica ius commune / ius proprium, ma nell'ambito delle leggi universali solo quelle che permettono ciò che sarebbe altrimenti vietato, o viceversa, giusta il brocardo Exceptio firmat regulam in casibus non exceptis;
  3. le leggi che restringono il libero esercizio dei diritti, ossia in primo luogo quelle che rendono un atto invalido (c.d. irritanti) o un soggetto legalmente incapace di porlo (c.d. inabilitanti),[23]    ma anche quelle che limitano una libertà positiva, rendendo cioè obbligatorio o vietato un comportamento che in genere è facoltativo; non si può invece trattare della libertà negativa, data cioè dell'assenza di regole, perché in questo senso ogni legge restringe per definizione il libero esercizio dei diritti.[24] Il Codice attuale contiene un elenco assai ampio di diritti, intesi proprio come facoltà di agire, per tutti i fedeli, più altri specifici per laici e chierici: si tratta del principale banco di prova per questa previsione del can. 18. Tuttavia, siccome il can. 221 §3 riconosce a tutti il diritto di non essere puniti “nisi ad normam legis”, l'obbligo di interpretazione stretta in materia penale viene a giustificarsi anche sotto questo profilo.

 

4. L'interpretazione autentica per modum legis

Can. 16 - § 1. Leges authentice interpretatur legislator et is cui potestas authentice interpretandi fuerit ab eodem commissa.

§ 2. Interpretatio authentica per modum legis exhibita eandem vim habet ac lex ipsa et promulgari debet; si verba legis in se certa declaret tantum, valet retrorsum; si legem coarctet vel extendataut dubiam explicet, non retrotrahitur. 

§ 3. Interpretatio autem per modum sententiae iudicialis aut actus administrativi in re peculiari, vim legis non habet et ligat tantum personas atque afficit res pro quibus data est.”.

A parte la possibile attitudine a divenire giurisprudenza o stylus, l'interpretazione autoritativa mediante provvedimento particolare (can. 16 §3) non presenta particolarità di rilievo, anzi si suppone che segua, in tutto e per tutto, il metodo di quella dottrinale, anche perché sia le sentenze sia gli atti amministrativi singolari sono impugnabili e incorrono in nullità se contrari alla legge.

Discorso ben diverso deve farsi per l'interpretazione autentica proveniente dal legislatore o da un organismo da lui delegato.

A rigore, non vi sarebbe neppure bisogno di chiamarla “interpretazione”, perché il legislatore è sempre libero di intervenire sul diritto positivo nel modo che reputa migliore, senza essere in alcun modo tenuto a scoprire il vero significato delle disposizioni già esistenti. Anzi, in un certo senso, si può ben dire che ogni atto di pretesa interpretazione autentica costituisce, in realtà, una modifica della legge, almeno nella forma della subrogatio legis, la riproduzione con aggiunte: pur quando l'interprete si limiti davvero a chiarire un dubbio testuale, il necessario quid pluris di certezza giuridica, il venir meno degli effetti del can. 14[25] e, non da ultimo, la norma come significato univoco del testo e contenuto del precetto legale dipendono tutti dalla dichiarazione interpretativa.

Tuttavia, il can. 16 §2, attribuendo o negando all'interpretazione autentica il carattere della retroattività secondo che si limiti a declarare una legge per se certa, oppure la estenda, la restringa o dirima un dubbio propriamente detto, pur non imponendo all'interprete autentico di seguire alcun metodo, dà in un certo modo per scontato che egli si comporti alla stregua della dottrina... ed esige in ogni caso, sia da quest'ultima sia dai giudici, un sindacato sul rapporto tra l'atto interpretante e l'interpretato. Quindi, salvo che il Papa in persona non stabilisca a chiare lettere che la tale declaratio è (o non è) retroattiva “a prescindere”, almeno rispetto a questo problema l'interpretazione autentica viene ad essere controllata secondo i criteri della dottrinale.

La possibilità di delegare ad altri l'interpretazione autentica è stata sfruttata ampiamente dai Sommi Pontefici negli ultimi tempi: la S. Congregazione del Concilio, deputata appunto a questa funzione rispetto ai decreti di riforma tridentini, ha finito per diventare una delle principali, gestire un po' tutta la vita dei chierici ma specialmente la materia degli uffici e benefici, fagocitare quasi la Rota per l'ampiezza del contenzioso trattato. Dopo la codificazione, si sono poste in modo assai più sobrio sia la Commissione interprete del Codice pio-benedettino (che, pur avendone il mandato, non ha mai novellato il testo codiciale per inserirvi le leggi nuove), quella dei decreti del Vaticano II e, da ultimo, l'attuale Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Tuttavia, non sono mancate polemiche rispetto ad alcune decisioni assunte.[26]

In concreto, il Pontificio Consiglio gradua i propri interventi articolandoli in risposte a dubbi (formulate a domanda e risposta “secca”, secondo la tradizione della Curia Romana), che sono promulgate solo dopo l'approvazione del Papa, dichiarazioni e note, che hanno invece soprattutto carattere esplicativo, contraddistinto peraltro la tendenza ad accordare un rilievo notevole ai lavori preparatori del Codice. Inoltre, risponde spesso in forma non pubblica a quesiti più semplici, che denotano mera non conoscenza della materia.

Di tutte queste attività, solo le risposte a dubbi posseggono i crismi dell'interpretazione autentica ai sensi del can. 16 §§1 e 2; quanto al valore da riconoscersi a dichiarazioni e note, che non vengono promulgate,[27] mi sembra di poter dire che non rientrano in nessuna delle categorie fin qui esaminate. Non sono giurisprudenza, giacché non decidono su casi concreti ma su fattispecie generali; restano provvedimenti singoli, quindi non possono dar luogo ad uno stylus; mirano spesso a ricostruire la mens legislatoris, ma in ciò non possono pretendere un'auctoritas superiore al singolo studioso; e tuttavia, hanno senz'altro la forma di atti ufficiali della Curia Romana. Insomma, fermo che in termini pratici l'impatto di tali provvedimenti dovrebbe rivelarsi notevole, a livello normativo non si può che riscontrare una lacuna legis e attendere che una fonte suppletiva lo colmi.

 

[1]    L'interpretazione a contrario può conoscere due impieghi ben diversi, entrambi però compatibili con il brocardo Ubi lex voluit dixit, ubi tacuit noluit: l'uso c.d. “ricognitivo” evidenzia i limiti dell'interpretazione testuale e segnala che nel tale caso la legge noluit ossia nihil voluit; a questo punto si pone l'alternativa di Bobbio, se estendere per analogia quella stessa legge o magari un'altra, oppure concludere che lex noluit, nel senso di voluit quod non, ha voluto il contrario di quanto disposto per i casi espressi (uso “integrativo delle lacune” o”produttivo” dell'argomento a contrario). Ovviamente i passaggi si possono moltiplicare, l'interprete può passare in rassegna un numero di leggi indefinito; ma alla fine dovrà pur sempre concludere o per l'applicazione analogica di una di esse, o che il legislatore, nel “non dire”, in realtà ha comunque “voluto” una soluzione, precisamente quella opposta.

[2]    Cfr. D.50.17.1, Paolo libro sexto decimo ad Plautium: “Regula est, quae rem quae est breviter enarrat. Non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. Per regulam igitur brevis rerum narratio traditur, et, ut ait Sabinus, quasi cause coniectio est, quae simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum.”.

[3]    Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal, Ius canonicum ad normam Codicis exactum, vol. I – Normae generales, Roma 1928, pagg. 244-7.

[4]    Ovverossia la Rota, la Segnatura e la Congregazione per la Dottrina della Fede quando agisce come Tribunale; la Penitenzieria, pur essendo Tribunale a sua volta, non è in condizione di fare giurisprudenza in quanto le sue decisioni non diventano mai di pubblico dominio.

[5]    V. Vladár, Stylus Romanae curiae v kódexovom práve Katolíckej cirkvi, in Studia Theologica 22 (2020), pagg. 99-135, qui 101, indica in particolare la strutturazione delle bolle secondo un protocollo composto di invocatio, invocatio, inscriptio, salutatio e formula perpetuitatis; un testo suddiviso in arengo, narratio, petitio, dispositio, derogatio, sanctio, corroboratio; un escatocollo composto di formule di saluto, inscriptio e data.

[6]    Fondamentali, rispetto alle Regole in sé considerate, gli studi di Andreas Meyer (da ultimo A. Meyer, L'amministrazione del patrimonio ecclesiastico. Un aspetto del diritto canonico poco studiato, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 96 – 2016, pagg. 224-44, con ampi riferimenti); ma, per uno studio che ne coglie proprio il ruolo nella progressiva oggettivizzazione del diritto amministrativo, nonché nel sistema delle fonti, cfr. S. Di Paolo, Da regulae particolari a norme generali: verso un diritto amministrativo della Chiesa (XV-XVI sec.), in Historia et ius n. 11/2017, in particolare pag. 14: “Il contributo degli uditori rotali alla definizione dell’identità normativa di queste fonti sembra allora essenziale. Essi appaiono precursori di una lettura moderna delle fonti della Chiesa, delineando una sorta di gerarchia che contemplava la eterogenea normazione papale, la regolamentazione ‘amministrativa’ della cancelleria, le opiniones dei dottori, e infine la giurisprudenza rotale nella forma delle decisiones equiparabili per autorità ai responsa prudentium

[7]    Tuttora, in diritto amministrativo canonico, è comune l'asserto secondo cui, per aver diritto ad una risposta ai sensi del can. 57, una richiesta dev'essere stata formulata in modo rispettoso.

[8]    Lo slittamento semantico, secondo ogni probabilità, si deve alla prassi di inserirle ad cautelam anche dove servivano poco o nulla; ma pure questo, a suo modo, è un indice di (ritenuta) utilità.

[9]    La dottrina, soprattutto sulla scorta della decretale Pastoralis di Innocenzo III (X.2.22.8, a. 1204), che, messo dinanzi al caso di una lettera papale priva di sigillo, stabiliva che il giudice avrebbe bensì potuto applicarla, ma solo se il suo contenuto fosse stato conforme al diritto universale, ha elaborato un'ampia casistica volta a riconoscere una qualche efficacia anche agli atti privi di signa authenticitatis; questo, tuttavia, poteva semmai contenere l'entità del problema, non certo eliminarlo.

[10]  Cfr. amplius sul punto V. Vladár, Stylus Romanae curiae…, cit., pagg. 110-4, che cita anche Cino e Baldo.

[11]  Sarebbe possibile, in astratto, ipotizzare che il can. 63 §1 contenga una fonte aggiuntiva di diritto suppletorio per i soli rescritti, appunto lo stilus; ma appare più semplice, nonché più conforme alla tradizione canonica, supporre che praxis sia qui impiegato in un senso più ristretto che nel can. 19.

[12]  Altrimenti detto: a mio avviso, nel can. 63 §1 il sintagma “secundum legem, stilum et praxis” non va letto come se istituisse un ordine gerarchico a tre livelli, dove lo stylus precede sulla praxis, ma piuttosto – ferma la subordinazione di entrambi questi elementi al primo – un ordine di procedimento mentale, che porta a controllare prima la legge, poi lo stylus e solo per ultima la prassi, casomai nel caso concreto fosse necessario esprimere (anche) qualche circostanza la cui esigenza non è stata formalizzata in termini procedurali.

[13]  Tuttavia, il problema può porsi per i non molti aspetti demandati alla legge particolare, tra cui l'importante materia delle spese (cfr. can. 1649). A mio avviso, occorrerebbe piuttosto verificare se la prassi risalga ad un ordine espresso, magari piuttosto remoto nel tempo, oppure se conservi in vita normative ante Codicem, o ancora se si possa considerare una consuetudine.

[14]  P. Lombardía, Commento ai cann. 1-95, qui 19, testo rivisto da J. Otaduy, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e leggi complementari, Roma 2020.

[15]  Salvi i casi di specifico incarico, alias “Commissione Pontificia”, che però, assai frequenti negli anni Settanta, oggi sono molto più rari.

[16]  Per la verità, iura potrebbero essere anche le norme, sulla scorta dell'uso medioevale che chiamava così i frammenti del Digesto; ma il linguaggio contemporaneo, anche canonico, impiega ius al plurale soprattutto in senso soggettivo, d'altra parte anche più coerente con la funzione dell'appello.

[17]  Sebbene con un ritardo che era arrivato a toccare i dieci anni, fortunatamente ora riassorbito in gran parte ma al prezzo di una maggior selettività nella pubblicazione.

[18]  Si può anzi aggiungere che solo una frazione piuttosto bassa dei ricorsi presentati arriva ad una decisione da parte del Collegio dei giudici: sono molto più numerosi i rigetti in limine per inammissibilità o infondatezza manifesta. Il che può senz'altro dar luogo a giurisprudenza, anche corposa, sui requisiti procedurali della stessa Segnatura, ma non giova molto all'approfondimento delle questioni di diritto sostanziale.

[19]  Cfr., per tutti, L. Lastei, La giurisprudenza rotale come fonte di diritto, in Diritto.it, 13 aprile 2006.

[20]  Circa l'origine e la storia dell'espressione, cfr. Ch.H.F. Meyer, Probati auctores. Ursprünge und Funktionen einer wenig beachteten Quelle kanonistischer Tradition und Argumentation, in Zeitschrift des Max-Planck-Instituts für europäische Rechtsgeschichte 20 (2012), pagg. 138-54.

[21]  Ancora nel 1959, vedeva la luce la monografia di U. Mosiek, Die Probati Auctores in den Ehenichtigkeitsprozessen der S.R. Rota, Friburgo 1959, che tentava anche una recensione quantitativa della frequenza delle citazioni, dove primeggiano in verità due autori recenti, Gasparri e Wernz.

[22]  Cfr. in tal senso, appunto per la teologia morale, Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Penitenzieria Apostolica, 27 marzo 1993, n. 3.

[23]  Cfr. a conferma il can. 10: “Irritantes aut inhabilitantes eae tantum leges habendae sunt, quibus actum esse  nullum aut inhabilem esse personam expresse statuitur.

[24]  In tal senso F.X. Wernz – P. Vidal, op. vol. cit., pagg. 239-41.

[25]  Ma direi anche la loro cristallizzazione per il periodo anteriore: se l'interprete autentico interviene, certifica anche che il dubbio di diritto esisteva ed era abbastanza serio, o almeno abbastanza diffuso e disorientante, da richiedere l'Augustum remedium.

[26]  Una rassegna di tutte le interpretazioni autentiche, con analisi della loro portata e delle reazioni registrate, in M. Ganarin, L'interpretazione autentica delle leggi universali della Chiesa. La competenza del Pontificio oCnsiglio per i Testi Legislativi, Tesi di dottorato sostenuta presso l'Università degli Studi di Milano, A.A. 2013/14, rel. Prof. S. Ferrari.

[27]  Almeno non in Acta Apostolicae Sedis: appaiono sulla rivista ufficiale del Dicastero, Communicationes, ma non mi è nota alcuna norma speciale che ne faccia sede di promulgazione in senso tecnico.